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«Le leve dell'impresa futura: dall'Outsourcing alla Contract Logistics», stato dell'arte, tendenze e aspetti contrattuali della logistica italiana al convegno organizzato da Target Sinergie a Riccione

«Uno dei principali falsi miti che circola nel mondo della logistica è che l'outsourcing venga fatto perché un'attività non è importante o centrale nella strategia di un'azienda. Nulla di più falso: la strategia aziendale è fatta di attività di core competence e di attività che sono coessenziali ma che possono essere svolte da partner di business, come può essere il caso della logistica fatta da operatori logistici». Damiano Frosi, project manager dell'Osservatorio logistico del Politecnico di Milano, esordisce così al convegno organizzato a Riccione dall'azienda riminese Target Sinergie, in collaborazione con Unindustria Rimini e Adaci, dal titolo «Le leve dell'impresa futura: dall'Outsourcing alla Contract Logistics» e moderata da Davide Zamagni, presidente di Target Sinergie.

Al ricercatore milanese fa eco il secondo relatore della giornata di studio, l'avvocato Gianvincenzo Lucchini, dello studio Lucchini Gattamorta e associati di Bologna: «Quando un'impresa decide di terzializzare un'area del proprio business è una cosa molto delicata, quando l'area da esternalizzare è la logistica, la delicatezza diventa quasi una criticità. Una logistica non adeguata è senz'altro in grado di porre nel nulla anche la produzione e il settore commerciale più smart e sofisticato. La società di successo ha la necessità assoluta di inserire nella propria catena del valore una capacità logistica di grande spicco. Non tutti ci riescono ed è il motivo per cui si cerca un partner che possa portare nella catena del valore una capacità logistica sofisticata almeno quanto è sofisticata la capacità industriale o commerciale dell'azienda stessa».

Alla platea balneare – il convegno è stato organizzato nell'inconsueta cornice della spiaggia di Riccione – fatta di imprenditori, manager e consulenti d'impresa, Frosi ha ricordato il valore del mercato dell'outsourcing logistico: «La logistica sta crescendo nel mercato italiano, parliamo del 2 – 3% negli ultimi sei anni, è un mercato che vale 80 miliardi, quindi non poco, di cui circa la metà in appalto. Il vero mercato, quello che le aziende danno all'esterno, l'outsourcing logistico, vale 43 miliardi di euro». Cifre importanti, dopo le quali Frosi ha puntato l'attenzione sull'evoluzione del settore. «Il trend di questo periodo è di affidare al fornitore di servizi logistici non solo le attività tradizionali come la movimentazione di magazzino, l'ultimo miglio e il trasporto, - ha detto il ricercatore del Politecnico di Milano - ma anche altre attività che tradizionalmente l'azienda normalmente gestiva in proprio. Esempi sono la gestione del fine linea produttivo, che viene dato a un partner logistico, l'approvvigionamento delle materie prime o dei semilavorati all'interno degli stabilimenti, il premontaggio e l'assemblaggio, così come la gestione delle scorte, affidata a terzi».

Frosi ha offerto uno sguardo alle tendenze più rilevanti, come l'ecommerce, «l'unico che cresce a doppia cifra», nel quale tutti i fornitori di servizi logistici stanno cercando di sviluppare un'offerta e al quale tutti i committenti stanno guardando. «Nel 2012, abbiamo mappato nel mondo Consumer circa il 6% delle grandi aziende italiane, nel 2016 siamo arrivati al 43%. Anche qui l'operatore logistico ha una grande importanza nella gestione di questa iniziativa che può essere molto strategica. Un altro esempio di outsourcing è il copacking, nel quale al fornitore logistico viene data la responsabilità di reimpacchettare la merce in caso di ricorrenze o promozioni: viene sempre più spostato a valle nella filiera e lo svolge sempre più spesso il fornitore di servizi logistici».

Gianvincenzo Lucchini si è poi addentrato nella parte legale del rapporto tra committenza e fornitore dei servizi di outsourcing in generale e di logistica in particolare, con le criticità che essa potrebbe comportare. Una disciplina «abbastanza semplice ma estremamente complicata. Semplice nel senso che esiste un contratto, tipico nel nostro ordinamento, complicata perché la legge non ci da un contenuto adeguato allo scopo: il contratto di appalto è stato pensato 70 anni fa per fare case, non certo quello di cui stiamo parlando. Se si vuole istituire e regolamentare un rapporto di questo tipo, nella trattativa per individuare la strategia comune tra committente e fornitore, si dovrà creare una piena coerenza tra il contenuto nelle trattative e ciò che viene trasposto nel contratto. Il contratto riporterà la descrizione analitica di ciò che accadrà nello svolgimento delle attività. Diventa da un lato la legge tra le parti, e dall'altro il manuale che disciplina in maniera puntuale ma pragmatica il rapporto tra committente e fornitore di servizi logistici».

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Scomparso Vittorio Tadei, fondatore del gruppo Teddy: il messaggio di cordoglio di Target Sinergie

Carissimi,

è un giorno di dolore ma anche di letizia. Tutta la vita di Vittorio ci ha indicato una strada e noi con voi siamo grati di questo dono. Abbiamo sempre guardato a Vittorio come uomo, cristiano, imprenditore e abbiamo cercato di imparare da lui questa capacità di essere sempre uno davanti alla realtà anche la più complessa. Lui ha raggiunto la sua meta. A noi rimarrà il dolore di un'assenza e la speranza di un nuovo incontro.

Mimmo e gli amici della Target

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Le leve dell'impresa futura: dall'Outsourcing alla Contract Logistics.

In principio era “esternalizzare per ridurre i costi”. Oggi, l'orizzonte è la Contract Logistics: la logica dei tagli è stata superata e flessibilità, variabilizzazione dei costi, snellimento della struttura aziendale, riduzione dei rischi d'impresa, sono diventati i fattori strategici. E' un’evoluzione in atto e, come per ogni evoluzione, ci sono molti ‘‘come’’, molti ‘‘perché’’, varie regole e buone prassi. E' il tema dlelal tavola rotonda in riva al mare "Le leve dell'impresa futura: dall'Outsourcing alla Contract Logistics".

Target Sinergie insieme a Confindustria Rimini e ADACI hanno organizzato un seminario “balneare” sulla Contract Logistics: L’evento si svolgerà il 12 luglio a partire dalle ore 18.30 presso LE PALME Beach Club, in via Lungomare Libertà, stabilimento balneare n° 88-89 a Riccione (RN). In uno scenario stimolante, Damiano Frosi (Project Manager dell’Osservatorio Contract Logistics del Politecnico di Milano) e Gianvincenzo Lucchini (avvocato dello studio legale Lucchini Gattamorta e Associati di Bologna e collaboratore della LUISS, Eni University e Bologna Business School), dialogheranno con imprenditori, manager e dirigenti d'impresa, portando le proprie esperienze e case histories, moderati da Davide Zamagni (presidente Target Sinergie, Contract Logistics & Facility Management).

Per adesioni fare riferimento a Barbara Pifferi, bpifferi@targetsinergie.com, tel. 0541 796462 - Fax 0541 796450 Target Sinergie Rimini

Seguirà aperitivo in spiaggia servito da Hotel Lungomare accompagnato da lounge music.

L’evento si svolgerà il 12 luglio a partire dalle ore 18.30 presso LE PALME Beach Club, in via Lungomare Libertà, stabilimento balneare n° 88-89 a Riccione (RN)

Vista la disponibilità limitata, le adesioni termineranno entro il 8 luglio

Allegati:  Scarica modulo_adesioni_tavola_rotonda_mare.pdf (112.51 KB) leve_impresa_futura_contract_logistics.jpg Eventi Notizie Logistica
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Concezione della soggettività in Enrique Pichon-Rivière

Scuola di prevenzione José Bleger Rimini - Gio, 23/06/2016 - 13:33

di Gladys Adamson

(Gladys Adamson è direttrice della ‘Escuela de Psicologia Social’ di Buenos Aires e discepola diretta di Enrique Pichon-Rivère. Il titolo originale dell’articolo è “Concepcion de la subjectividad en Enrique Pichon-Rivière” e la traduzione dallo spagnolo è ad opera di Lorenzo Sartini.

 

Il tema che ci convoca è “Soggettività e Interazione verso il Nuovo Millennio”. La mia riflessione parte dall’ECRO di Enrique Pichon-Rivière e vorrei prima proporre la concezione della soggettività di E. Pichon-Rivière.

1) In primo luogo, la soggettività, per E. Pichon Rivière è di natura sociale. Lo è in riferimento a ciò che già Freud propose in “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”, nel senso che “Nella vita psichica del singolo l’altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come soccorritore, come nemico”[1]. L’altro sociale è sempre presente nell’orizzonte di ogni esperienza umana. E. Pichon Rivière parte da una controversia radicale: “Il soggetto non è solo un soggetto in relazione, è un soggetto prodotto. Non c’è niente in lui che non sia il risultato della interazione tra individui, gruppi e classi”[2]. Questo significa che non c’è niente nel soggetto che non implichi la presenza dell’altro sociale, acculturato. Pertanto colloca la costituzione della soggettività in una dimensione interazionale simbolica.
L’essere umano manca di qualsiasi facoltà o meccanismo istintivamente acquisito che gli faciliti l’adattamento all’ambiente, al territorio, o stabilisca risposte fisse agli stimoli del suo habitat. In questo senso l’uomo è l’unico mammifero superiore che crea la natura alla quale si adatterà. Questa produzione sociale culturale è presa come natura perché precedente alla nascita del soggetto.

2) La soggettività è, allo stesso tempo, singolare e emergente delle trame vincolari che la trascendono e con le quali mantiene una relazione di produttore e prodotto. Dice E. Pichon Rivière: “il contrasto che più sorprende lo psicoanalista nell’esercizio del suo compito consiste nello scoprire, con ciascun paziente, che noi non siamo di fronte ad un uomo isolato, bensì di fronte ad un emissario, e capire che l’individuo come tale non è solo l’attore principale di un dramma che cerca chiarificazione attraverso l’analisi, ma anche il portavoce di una situazione” [3].

Per E. Pichon Riviere la soggettività si costituisce nelle strutture vincolari che la trascendono e che concettualizza in termini di ambiti gruppali, istituzionali e comunitari. Queste strutture sono autonome e interdipendenti allo steso tempo. Quando nel 1946 scrive sull’Opera del Conte di Lautremont intende la sua soggettività formata non solo dall’emergere nelle vicissitudini della sua struttura familiare-edipica, ma anche dal fatto di trovarsi a Montevideo (dal 1843 al 1851). “Durante i primi 5 anni aveva sentito storie di sgozzamenti, smembramenti, le cui vittime erano spesso amici di suo padre”[4].

3) La soggettività è concepita come un sistema aperto al mondo e, pertanto, sempre in via di strutturazione. È una Gestalt-Gestaltung (corrisponde a uno strutturalismo genetico). Non costituisce una strutura chiusa nello stile di Humpty Dumpty di “Alice nel paese delle meraviglie”, tuttavia la sua unica possibilità è strutturarsi con il mondo. E. Pichon-Rivière intende il soggetto in una doppia dialettica: intrasistemica e intersistemica. La soggettività non è un’interiorità. Neppure, questo soggetto, vale solo per la sua esteriorità. Il soggetto dell’ECRO pichoniano è un soggetto inteso nella sua verticalità però decentrato nel vincolo, che parla al di là di se stesso e produce socialmente, sempre, con un altro imprescindibile.

4) La soggettività per Pichon-Rivière si gioca nel dentro-fuori e nell’interno-esterno. Questo posizionamento soggettivo ha semplicemente a che vedere con la sua concezione di salute che implica un soggetto conoscente. Il processo di socializzazione è concepito da Pichon-Rivière come un lungo processo di apprendimento che dà luogo alla formazione, in ciascuna soggettività, di uno schema di riferimento che denomina anche “apparato per pensare la realtà”. Questo concetto dà conto di una struttura soggettiva che, prodotto della socializzazione, determina la riproduzione inconscia che il soggetto esegue delle relazioni sociali che lo hanno plasmato. Lo ‘schema di riferimento’ è ciò che dà conto della riproduzione delle condizioni di esistenza che il soggetto compie, riproduzione, anche, delle situazioni di sfruttamento e di assoggettamento.
Questo ‘apparato per pensare’ ci permette di percepire, distinguere, sentire, organizzare e operare nella realtà. Partendo da un lungo processo di identificazioni con le caratteristiche delle strutture vincolari nelle quali siamo immersi, costruiamo questo schema di riferimento che stabilizza una determinata concezione di concepire il mondo che, altrimenti, emergerebbe nella sua condizione di eccesso, incomprensibilità e caos. Questa conformazione dello schema di riferimento lo effettua una soggettività attiva, anche produttrice delle sue condizioni di esistenza. Questa soggettività implica che il soggetto pensi, senta e modifichi il contesto. Questa condizione attiva trasformatrice permette che la riproduzione che compie l’essere umano della struttura sociale che lo produsse non possa essere mai testuale. Si riproduce sempre, sebbene con minime trasformazioni. Questo porta E. Pichon-Rivière a pensare la metafora della spirale per rendere conto di questa caratteristica in cui la ripetizione o riproduzione “sembra uguale, ma non è uguale”.
La struttura sociale esterna in tutti gli ambiti intermediari diviene una struttura soggettiva mediante lo schema di riferimento. Qui, il grande mediatore è il concetto di vincolo. L’origine etimologica della parola vincolo è “legame” e credo che sia stato eletto da E. Pichon-Rivière come la condizione materiale della nostra costituzione soggettiva. I vincoli umani sono le strutture che permettono e effettuano il “legame” dell’essere, che nasce aperto al mondo, con impulsi aspecifici, in un campo simbolico, ovverosia la cultura, nel tempo storico sociale che ha vissuto. Vincolo è una struttura sensibile, affettiva, ideativa e di azione che ci unisce, ci “lega” all’altro essere con il quale il soggetto si identifica. L’identificazione non è posta come identificazione ad un’immagine, bensì a una caratterstica della struttura vincolare che include modelli di significazione sensibili, affettivi, ideativi e di azione che il soggetto successivamente riproduce.
Il vincolo è ciò che media e permette l’inserimento del soggetto nel campo simbolico della società. Il vincolo è una struttura bifronte, ha una faccia interna ed una esterna. La soggettività è intesa da E. Pichon-Rivière come una “vera e propria selva di vincoli”.
Dice E. Pichon-Rivière: “Lo schema di riferimento è l’insieme di conoscenza, di attitudini che ciascuno di noi ha nella sua mente e con le quali lavora in relazione con il mondo e con se stesso” (“Applicazioni della Psicoterapia di gruppo”, 1957, e in “Tecnica dei gruppi operativi”, 1960). Partiamo dalla base della “preesistenza in ciascuno di noi di uno schema di riferimento (insieme di esperienze, conoscenze e affetti con i quali l’individuo pensa e agisce)”[5]. Questo schema di riferimento è ciò che permette al soggetto di possedere modelli di sensibilità, modi di pensare, sentire e fare nel mondo e che segnano il suo corpo in una certa maniera. È la sua tendenza alla ripetizione che offrirà resistenza al nuovo, agli stimoli (idee o esperienze) che tendono a destrutturarlo. Queste vicissitudini sono essenziali per pensare una soggettività inserita in una società moderna.

5) La concezione di soggettività in E. Pichon-Rivière è quella della soggettività moderna. È qui, dove appare E. Pichon-Rivière nella sua condizione di genio che, nella decade degli anni ’60, anticipa problematiche che, solamente a partire dagli anni ’70 e ’80, sarebbero apparse come problematiche egemoniche nel campo intellettuale delle Scienze Sociali. Negli anni ’60 E. Pichon-Rivière suggeriva che dobbiamo pensare alla soggettività nella sua condizione moderna e alla società come struttura in continuo cambiamento e che tende alla frammentazione dei significati sociali[6]. Per questo sosteneva che così come abbiamo necessità di uno schema di riferimento, un sistema di idee che guidi la nostra azione nel mondo, abbiamo necessità che questo sistema di idee, questo apparato per pensare, operi anche come un sistema aperto che permetta la sua modificazione. È l’interrelazione dialettica mutuamente trasformatrice con l’ambiente ciò che guiderà la ratificazione o la rettificazione del quadro di riferimento soggettivo. Ma E. Pichon-Rivière non concepisce le modificazioni dello schema di riferimento come una rinuncia, bensì come le modificazioni necessarie per un adattamento attivo alla realtà affinché, davanti ai cambiamenti del contesto, i desideri ed i progetti continuino ad essere possibili. La strategia soggettiva non sorgerebbe inconsciamente come prodotto di uno schema di riferimento che riproduce le condizioni della sua formazione, ma, al contrario, la concepisce come una strategia che possiede la direzione di un progetto,  e che ha una autonomia che si prospetta in una relazione  trasformabile in maniera reciproca con il suo contesto. In sintesi: ogni schema di riferimento è inevitabilmente proprio di una cultura in un momento storico-sociale determinato. Siamo sempre emissari ed emergenti della società che ci vede nascere. Ogni schema di riferimento è, contemporaneamente, produzione sociale e individuale.
È costruito attraverso vincoli umani e riesce a trasformarci, noi che costituiamo soggettività che producono e riproducono la società in cui viviamo. Enrique Pichon-Rivière ci mette di fronte la sfida di pensarci come soggetti, contrassegnati dal cambiamento, inseriti in una società che, lo stesso, si modifica continuamente e che, attualmente, è stata definita come “contesto di turbolenza” (Mario Robirosa). Questo ci obbliga a pensare il soggetto e la società in condizioni di creazione e mutabilità. E. Pichon-Rivière riscatta così la nostra condizione di creatori. Perché non concepisce alcun sistema come chiuso e prodotto ‘per sempre’, perché tutti i sistemi, il soggetto, i gruppi, le istituzioni, i quadri teorici, l’ECRO sono aperti ai cambiamenti, i quali, inesorabilmente, ci presentano la società nella sua condizione di modernità.

6) La soggettività, così come la concepisce Pichon-Rivière, è quella che si fa presente nel Gruppo Operativo. Quella soggettività concepita nella sua verticalità, la sua storia unica e singolare, ma che è immersa in una struttura contrassegnata dal faccia a faccia e dalla presenza corporale multipla, con una logica interattiva e di produzione sociale. È il soggetto produttore e prodotto delle strutture cognitive, affettive e di azione o di presa di decisione che emergeranno nelle condizioni di produzione congiunta.

Società:
Cos’è la società per Pichon-Rivière? In “Psicologia de la vida cotidiana” fa riferimento, in numerose occasioni, alla moderna organizzazione industriale.
Starebbe riferendosi, qui, alla società, fondamentalmente, come modo di produzione.
Ma una società non potrebbe formare una struttura soggettiva come lo schema di riferimento in ciascun soggetto se non fosse concepita come una struttura simbolica.
Se la società è, fondamentalmente, una cultura determinata, può essere intesa come un ordito di significati che ciascuna società produce mediante la creazione congiunta, e che stabilisce cos’è un uomo, cos’è una donna, cos’è lo Stato, cos’è Dio, cos’è il lavoro, cos’è il peccato, la virtù, ecc. ecc. Così come segnala Castoriadis[7].
Ogni società ha strutture oggettive esterne come: a) il proprio modo di produzione e i suoi rapporti di produzione (che corrispondono a come si stabilisce la distribuzione dei mezzi materiali e dei modi di appropriazione di questi beni e valori sociali); b) la sua cultura, le sue ideologie, la sua religione, ecc.
Ogni società ha una determinata organizzazione economica che corrisponde al suo modo di produzione e ai suoi rapporti di produzione, e ha una determinata struttura sociale e ideologica che, sostiene Castoriadis, costituiscono un ordito di significazioni immaginarie sociali.
Ma la società non è solo un insieme di significazioni, poiché queste significazioni sono articolate attraverso certe modalità di relazione e corrispondono a strutture vincolari interrelate, precisamente, all’ambito di cui si tratta.
La società non è costituita, per Pichon, da strutture progettate linguisticamente, bensì, essenzialmente, da relazioni vincolari[8] che includono il linguaggio. Sono relazioni simboliche che includono rapporti di potere, rapporti economici, rapporti tecnologici. Questa concezione della società è presente nel suo libro “Psicologia de la vida cotidiana”.
La società non è un blocco omogeneo, né agisce come un tutto. Sempre la società, come tutta la realtà, ci si presenta frammentata. Al fine di oggettivarla E. Pichon-Rivière la concepisce spazialmente, per cui, parlando di soggettività, dobbiamo pensarla come emergente da un determinato gruppo, in rapporto a determinate istituzioni che si trovano in un certo contesto comunitario, che ha una certa cultura particolare. È una nozione molto vicina alla concezione topologica della società in Pierre Bordieu e alla concezione, di questo stesso autore, di campo sociale. La società è distinta in campi, per P. Bordieu[9], quali il campo economico, quello politico, quello del potere, quello culturale, ecc.
Nel nostro paese è essenziale distinguere le culture particolari presenti nella società, sebbene le integriamo in una cultura globale.
Il concetto di schema di riferimento è quello che dà conto della soggettivazione della società. È ciò che spiega il fatto che ogni società ha necessità di costruire una soggettività che a sua volta la riproduca. Ogni società, quindi, si assicura una minima universalizzazione di modelli per percepire la realtà, modi di organizzarla, di valutarla, modelli di reagire affettivamente e modelli di fare, di operare davanti alle problematiche che ci presenta il mondo.

La logica formale classica:
La logica formale classica si divide in due rami: la sintassi e la semantica.
La sintassi contiene i simboli con i quali si costruisce la logica delle proposizioni. Per esempio, “4 è divisibile per 2” si rappresenterà con lettere. Un’intera proposizione può essere rappresentata da una lettera. Per esempio, “Socrate è mortale” si rappresenta con “p”. Ci sono formalizzazioni per rappresentare le operazioni proposizionali. Per esempio, la negazione: “-” ; la congiunzione “&”, l’equivalenza “=”.
Il ramo della semantica si avvicina al senso, al fatto che i simboli abbiano un valore di verità o falsità e non ci sia un termine medio: “8 è divisibile per quattro” è vero; “8 è divisibile per cinque” è falso. In una sola proposizione ci sono solo due opzioni: o la proposizione è falsa o la proposizione è vera. La ‘Legge del terzo escluso’ implica che ci sono solamente due opzioni “p o non p”. La ‘Legge di non contraddizione’ “non si dà il caso di p e non p”.

Logiche inconsistenti
Le logiche inconsistenti sono respinte dalla logica formale classica e la ragione è semplicemente perché, partendo da una contraddizione, non si può dimostrare se qualcosa sia vero o falso. Nelle logiche inconsistenti si ammettono le proposizioni che sono vere o false ma accettano anche la presenza di antinomie: stabilire che una proposizione può essere allo stesso tempo vera o falsa. Si ammette che ci siano proposizioni complesse che hanno due valori.
Già, gli antichi greci avevano sollevato antinomie, come quella famosa di Epimenide che disse: “La proposizione che sto enunciando ora è falsa”. Se questa proposizione è vera deve essere falsa. Al contrario, se dico che è falsa, allora è vera.
F. Nietzsche: “Il fatto che un giudizio sia falso non costituisce, nella nostra opinione, una obiezione contro quel giudizio”“per principio, noi siamo inclini ad affermare che i giudizi più falsi sono, per noi, quelli più indispensabili…”, “… il non vero è la condizione della vita…” e la verità è “il tipo di errore senza il quale l’uomo non può vivere”.
Ci sono proposizioni che possono avere due valori di verità. Per esempio, dire “non è vero che la proposzione che sto enunciando ora è falsa”.
La logica della vaghezza (fuzzy) include le antinomie. Ha a che vedere con il fatto che le parole sono vaghe. La logica della vaghezza la definì il matematico Menger, ma chi la sviluppò fu un logico statunitense chiamato Zadeh. Per esempio: “Maria è cattiva”; però, Maria è cattiva tutto il tempo? E non ha mai avuto tratti di gentilezza e mai ne avrà?
La logica della vaghezza è una prova che la logica concreta è inconsistente, contraddittoria.

Soggettività e logica inconsistente:
Ho trovato interessante prendere il concetto di soggettività di E. Pichon-Rivière e pensarla dal punto di vista della moderna logica inconsistente.
È una concezione di soggettività pensata in accordo a una logica inconsistente. Perché? Perché include il paradossale, l’antinomico. La soggettività è concepita come un sistema aperto, incompiuto, che non è un Tutto. Allo stesso tempo, è un Tutto che non è un Uno, è una unità del molteplice, è un campo complesso, antinomico, con multiple contraddizioni che non si risolvono né si sintetizzano, prodotta in condizioni né di esterno, né di interno, ma di estimità (questa felice condensazione proposta da Lacan). È una struttura, però non lo è: è un facendosi, uno strutturandosi. Una Gestalt-Gestaltung, come segnala lo stesso E. Pichon-Rivière. È una struttura che cambia ma allo stesso tempo è la stessa.
Le soggettività non sono parte di un tutto che sarebbe la società e dove è possibile ricostruire il tutto per somma delle sue parti. Ciasun soggetto è una parte totale della società (C. Castoriadis). È un universale che solamente nel singolare esiste.
È una soggettività che è determinata, però è impredicibile. Si esprime e si occulta allo stesso tempo. Si trova nel presente, nel qui ed ora, però allo stesso tempo è tutta la convergenza del suo passato ed è anche l’anticipazione del suo futuro.

Soggettività e interazione verso il nuovo millennio:
Consideriamo che la Società è il contesto quadro dove troviamo la chiave della costituzione della soggettività. Questa stessa Società crea forme e modelli di interazione tra i soggetti che la integrano.
La Nostra Società si è formata partendo da due immaginari sociali eterogenei, così come segnala C. Castoriadis: 1) l’immaginario sociale democratico, caratterizzato dagli ideali e dai modelli di uguaglianza di fronte alla legge, solidarietà, autonomia, partecipazione, trasparenza, possibilità di autocritica, il modello di etica e di soddisfazione personale come partecipazione sociale e 2) l’immaginario sociale capitalista, caratterizzato dalla competenza, l’individualismo, il trionfo del più forte, la guerra simbolica dei mercati, la volontà di spostamento dei concorrenti, il modello di felicità come realizzazione materiale individualista.
La nostra società attuale si caratterizza per l’avanzamento dell’immaginario capitalista sopra a quello democratico. Questo ha prodotto l’avanzamento dell’interese individuale e privato su quello pubblico, insieme ad un ideale di edonismo come proposta di esistenza. La ricerca di una felicità riservata all’ambito privato delle persone, a detrimento di un modello di felicità legata a forme organizzative di partecipazione sociale. Si deve solo ricordare ciò che significava la partecipazione dei cittadini nell’organizzazione della polis, per gli antichi greci, per vedere la differenza di questi due ideali sociali. Il nostro mondo attuale si caratterizza per la ricerca di profitto e per l’impero di una logica predatoria che invade le relazioni sociali che, fino a poco tempo fa, non erano soggette a ‘prezzi’. Per esempio, l’azione della Giustizia non aveva prezzo, o le strategie dei partiti politici che oggi sono soggetti alle condizioni di ‘negoziazione’ (sarebbe questo: “cosa mi dai se io voto affermativamente nel Parlamento”). Questo dimostra un processo di ‘mercantilizzazione’ che colpisce profondamente i rapporti ed i cittadini. Come segnala Eduardo S. Bustelo Graffigna: “la società si svuota di società”.
Marshall Berman sostiene che lasciare la logica del mercato che guida le questioni sociali è come “mettere un motore cieco alla storia”. Ma è anche peggio un motore cieco che non sappia dove sta andando. La Legge del mercato, si sa dove va. Fallisce sempre a favore dei più forti. I risultati delle ultime decadi sono una prova di questo. La ricchezza è andata distribuendosi con iniquità progressiva. Il modello della nostra società capitalista è l’uomo economico, pragmatico, utilitaristico, infallibile e vincente, ricco, bello, sportivo, arrogante, dominatore e sicuro. Questo è l’eroe capitalista.
La disuguaglianza sociale ha un carattere centrale, pubblico e essenzialmente politico. La politica è stata svuotata di preoccupazioni comuni e hanno ridotto gli spazi democratici di partecipazione e di legittimità della lotta per invertire questo processo.
Il principale problema sociale è il livello di iniqua distribuzione del reddito e della ricchezza. Il processo di comncentrazione di ricchezza continua aumentando il divario. La politica sociale tradizionalmente è sempre stata legata alla possibilità di raggiungere livelli più elevati di uguaglianza sociale, la costruzione di una cittadinanza partecipativa e di una giustizia distributiva.
La responsabilità consiste nel fare avanzare il processo di espansione dei diritti di cittadinanza e di responsabilità. Questa responsabilità interessa le Organizzazioni della Comunità poiché il loro lavoro consiste nel cercare forme organizzative che facciano crescere la cittadinanza con progetti che aprano nuove possiblità per la lotta per l’uguaglianza. L’espansione della democrazia è l’obiettivo delle nuove lotte per la costruzione della cittadinanza. La democrazia non è solamente una forma di governo, bensì è essenzialmente una sorta di società nella quale esiste un insieme di rapporti di reciprocità e di solidarietà tra i membri che la compongono. La Democrazia è ancora in evoluzione.
Che cosa ci attendiamo dalla Democrazia nel nuovo secolo (non oso dire il nuovo millennio). Una Democrazia partecipativa, attiva e non formale. Questo significa che le nostre istituzioni trovino la propria strada nell’attenzione al cittadino (attualmente il povero cittadino sembra un mercato vincolato e la sua unica opzione è quella di essere sfruttato da uno Stato vorace), il funzionamento indipendente dei poteri, specialmente la autonomia della magistratura, una maggior partecipazione dei cittadini negli organi legislativi, trovare nuove forme nelle quali i cittadini deliberino sulla società, la creazione di nuovi meccanismi di controllo delle decisioni dei poteri, ecc., il controllo della correttezza, l’etica dei funzionari pubblici.
Non solo democratizzare l’educazione e l’accesso a eguali opportunità per competere, bensì democratizzare l’economia, questa è la sfida storicamente maggiore. Per questo è indiscutibile che la politica debba rendere i mercati governabili.
Lo Stato si è trasformato nella nuova Nobiltà per il godimento dei privilegi “legittimi”, istituiti dallo Stato medesimo. La funzione pubblica si è trasformata nel negozio privato di ciascun funzionario. Questo, porta i giovani a identificare la politica con pratiche delittuose e corrotte.
Gli obiettivi, allora, per il prossimo secolo, sono il raggiungimento di un’uguaglianza nella distribuzione dei beni sociali, non solamente beni materiali economici, ma beni in termini di educazione, salute, cultura, espansione, libertà, autonomia. Che i diritti sociali siano equamente distribuiti.
L’espansione della democrazia significa l’espansione della cittadinanza partecipativa. La democrazia è la sola che può contrapporsi al sistema di disuguaglianze che impone il sistema capitalista. Costruire una società più egualitaria per l’approfondimento della democrazia, dei suoi meccanismi e delle sue istituzioni.
Il Lavoro Comunitario deve preservare l’obiettivo di legittimare, rafforzare i vincoli, i meccanismi e le forme organizzative democratiche tra la popolazione senza distinzioni di età, sesso, razze, religioni, cultura, ecc. L’obiettivo è di legittimare le forme organizzative democratiche non solamente come forme rappresentative o simboliche bensi nell’azione. Che la popolazione con meno beni sociali (e che vive ancora in una società disciplinare esercitata per mezzo di una violenza simbolica e fisica) possa autodisciplinarsi, pensarsi e organizzarsi in funzione dei suoi diritti, delle sue necessità e delle sue proprie risorse sociali.
È un modo di esercitare un contro-potere, una resistenza al potere che ha instaurato il privilegio dei potenti stabilendo una scandalosa e progressiva iniquità sociale.
Nelle parole di Pierre Bordieu, si tratta di lavorare in funzione di un “utopismo razionale applicando la conoscenza del probabile per promuovere l’avvenire possibile”.

Note:

[1] S. Freud: “Psicología de las Masas y Análisis del Yo” Obras Completas. Ed. Amorrortu

[2] V. Zito Lema: Cap. VI de “Conversaciones con Enrique Pichón Riviere” Ed. Nueva Visión.

[3] E. Pichón Riviere: “La Psicología Social” de “Psicología de la vida cotidiana” Ed. Nueva Visión

[4] E. Pichón Riviere: “El Proceso Grupal” Ed. Nueva Visión

[5] E. Pichón Riviere: “El Proceso Grupal” Ed. Nueva Visión

[6] “Engranaje y Envoltura” de “Psicología de la vida cotidiana” Ed. Nueva Visión, 1966: “Una società stabile permette all’individuo di riconoscersi attraverso una serie di funzioni fisse che agiscono come specchi che gli danno un volto. Ma oggi quegli specchi, come un sinistro parco di divertimento, restituisce un’immagine distorta e irriconoscibile. La confusione dei ruoli sociali, che preoccupa tanto l’uomo come la donna, il fallimento di stereotipi di pensiero e di condotta, l’incertezza su un destino imprevedibile, portano ad una situazione critica e angosciante che esige di essere chiarita.”

[7] C. Castoriadis: “Lo imaginario: la creación en el dominio históricosocial” de “Los dominios del hombre: las encrucijadas del laberinto” Gedisa editorial 1988. Castoriadis stabilisce una diferenza importante tra l’immaginario sociale efficace che è quello che tende a riprodurre gli istituiti sociali e l’immaginario sociale radicale che tende alla sua trasformazione per creare l’istituente.

[8] Karl Marx nei “Grundrusse” scrive: “La società non si ciompone di individui; esprime la somma dei vincoli e dei rapporti in cui sono inseriti gli individui”.

[9] Il Campo di Pierre Bordieu è composto da un insieme di relazioni storiche oggettive tra le posizioni ancorate in certe forme di potere o del capitale, che siano queste economiche, simboliche o sociali. Il Campo è simultaneamente uno spazio di conflitto e di competizione.

Bibliografia:

E. Pichón Riviere: “El Proceso Grupal” Ed. Nueva Visión. 1985
E. Pichón Riviere: “Psicología de la vida cotidiana” Ed. Nueva Visión. 1985
V. Zito Lema: “Conversaciones con Enrique Pichón Riviere” Timerman Editores. 1976
S.Freud: “Psicología de las Masas y Análisis del Yo” Amorrortu editores. Tomo XVIII. 1979
J. Corominas: “Diccionario Crítico etimológico de la lengua castellana” Editorial Gredos. Madrid. 1974
C.Castoriadis: “Los dominios del hombre: las encrucijadas del laberinto” Gedisa editorial 1988.
Pierre Bourdieu: “Razones practicas” Editorial Anagrama. 1977
Pierre Bourdieu y Loic J.D. Wacquant: “Respuestas.”Por una antropología reflexiva”Ed. Grijallbo. 1995
Florencio González Asenjo: “Lógicas Inconsistentes” Edita EOL. 1998
Graciela Cardarelli y Mónica Rosenfeld: “Las participaciones de la pobreza” Paidos. 1998
Marshall Berman: “Todo lo sólido se desvanece en el aire” Ed. Siglo XXI

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Il segreto del mondo: Paradisi fiscali e riciclaggio

Lo Studio GRASSI BENAGLIA MORETTI vuole segnalare un evento giornalistico che si terrà venerdì 24 giugno 2016 a Riccione, in Piazzale Ceccarini, nell’ambito del DIG AWARDS. Si tratta di una conferenza che esaminerà il tema dei paradisi fiscali, più volte indagato da grandi inchieste giornalistiche  condotte da reporter di tutto il mondo. I grandi evasori usano società offshore e conti segreti in Paesi compiacenti per nascondere fondi neri e riciclare denaro sporco. Al DIG Festival un gruppo di esperti di crimini finanziari discute di questo fenomeno sempre più attuale insieme a Hervé Falciani, l’informatico che ha contribuito alla condanna di centinaia di evasori internazionali diffondendo i dati di oltre 130.000 conti segreti della HSBC Private Bank di Ginevra. Da quelle rivelazioni è nata Swiss Leaks, la maxi-inchiesta del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (ICIJ) che ha svelato un giro di evasione superiore ai 180 miliardi di euro. All’incontro prende parte anche Marcos García Rey, uno dei reporter dell’ICIJ impegnati nella colossale inchiesta Panama Papers: uno scandalo senza confini che coinvolto più di quaranta capi di governo, dall’Islanda all’Arabia Saudita, dalla Russia all’Argentina. 
L’evento ha ottenuto anche il riconoscimento dell’Ordine dei Dottori Commercialisti di Rimini che l’ha inserito nell’ambito della formazione professionale obbligatoria dei propri iscritti.

 

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Lo Studio GRASSI BENAGLIA MORETTI vuole segnalare un evento giornalistico che si terrà venerdì 24 giugno 2016 a Riccione, in Piazzale Ceccarini, nell’ambito del DIG AWARDS. Si tratta di una conferenza che esaminerà il tema dei paradisi fiscali, più volte indagato da grandi inchieste giornalistiche  condotte da reporter di tutto il mondo. I grandi evasori usano società offshore e conti segreti in Paesi compiacenti per nascondere fondi neri e riciclare denaro sporco. Al DIG Festival un gruppo di esperti di crimini finanziari discute di questo fenomeno sempre più attuale insieme a Hervé Falciani, l’informatico che ha contribuito alla condanna di centinaia di evasori internazionali diffondendo i dati di oltre 130.000 conti segreti della HSBC Private Bank di Ginevra. Da quelle rivelazioni è nata Swiss Leaks, la maxi-inchiesta del Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi (ICIJ) che ha svelato un giro di evasione superiore ai 180 miliardi di euro. All’incontro prende parte anche Marcos García Rey, uno dei reporter dell’ICIJ impegnati nella colossale inchiesta Panama Papers: uno scandalo senza confini che coinvolto più di quaranta capi di governo, dall’Islanda all’Arabia Saudita, dalla Russia all’Argentina. 
L’evento ha ottenuto anche il riconoscimento dell’Ordine dei Dottori Commercialisti di Rimini che l’ha inserito nell’ambito della formazione professionale obbligatoria dei propri iscritti.

 

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Processo Vulcano: in appello riconosciuto il danno a favore della parte civile

 

 

Si è concluso lunedì 13 giugno, davanti alla Corte d'Appello di Bologna, il processo d'appello scaturito dall'indagine "Vulcano" della DDA felsinea. I giudici hanno sostanzialmente riconfermato le condanne inflitte in primo grado ai nove imputati per estorsione aggravata dal metodo mafioso (L. 203/91), relativamente ad episodi di vessazione nei confronti di due imprenditori attivi tra la riviera romagnola e la Repubblica di San Marino. Gli imputati avevano evocato a vario titolo la vicinanza e l'appartenza a clan camorristici e dei casalesi. La sentenza emessa dal Tribunale di Rimini è stata riformata solo parzialmente per uno degli imputati, al quale è stata disapplicata la recidiva contestata, e nella parte relativa al danno lamentato dalla parte civile. Nel processo di primo grado, tramite lo Studio Grassi Benaglia Moretti, si era infatti costituita l'associazione SOS IMPRESA a tutela degli imprenditori oppressi dalla criminalità organizzata. In quella sede, tuttavia, il risarcimento del danno non era stato riconosciuto. Assieme agli imputati, anche la parte civile ha dunque proposto appello per sostenere le proprie ragioni, le quali sono state infine condivise anche dai giudici della Corte d'Appello (le motivazioni si conosceranno solo al deposito della sentenza). 

 

 

 

 

Dell'esito del processo d'appello ha scritto l'Informazione di San Marino, con un articolo a firma di Antonio Fabbri, che scrive: "[...] La Corte ha anche riconosciuto il risarcimento del danno, da liquidare in separata sede, a favore di Sos Impresa, in giudizio rappresentata dagli avvocati Patrick Wild e Rachele Grassi dello Studio Grassi Benaglia Moretti di Rimini. Riconoscimento, anche questo, non secondario che attesta come l'attività collettiva e la forte valenza sociale delle associazioni portatrici di principi alti e comuni, sia presidio importante e fondamentale da fare valere anche nelle sedi giudiziarie nella lotta al metodo mafioso".

 

 

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Si è concluso lunedì 13 giugno, davanti alla Corte d'Appello di Bologna, il processo d'appello scaturito dall'indagine "Vulcano" della DDA felsinea. I giudici hanno sostanzialmente riconfermato le condanne inflitte in primo grado ai nove imputati per estorsione aggravata dal metodo mafioso (L. 203/91), relativamente ad episodi di vessazione nei confronti di due imprenditori attivi tra la riviera romagnola e la Repubblica di San Marino. Gli imputati avevano evocato a vario titolo la vicinanza e l'appartenza a clan camorristici e dei casalesi. La sentenza emessa dal Tribunale di Rimini è stata riformata solo parzialmente per uno degli imputati, al quale è stata disapplicata la recidiva contestata, e nella parte relativa al danno lamentato dalla parte civile. Nel processo di primo grado, tramite lo Studio Grassi Benaglia Moretti, si era infatti costituita l'associazione SOS IMPRESA a tutela degli imprenditori oppressi dalla criminalità organizzata. In quella sede, tuttavia, il risarcimento del danno non era stato riconosciuto. Assieme agli imputati, anche la parte civile ha dunque proposto appello per sostenere le proprie ragioni, le quali sono state infine condivise anche dai giudici della Corte d'Appello (le motivazioni si conosceranno solo al deposito della sentenza). 

 

 

 

 

Dell'esito del processo d'appello ha scritto l'Informazione di San Marino, con un articolo a firma di Antonio Fabbri, che scrive: "[...] La Corte ha anche riconosciuto il risarcimento del danno, da liquidare in separata sede, a favore di Sos Impresa, in giudizio rappresentata dagli avvocati Patrick Wild e Rachele Grassi dello Studio Grassi Benaglia Moretti di Rimini. Riconoscimento, anche questo, non secondario che attesta come l'attività collettiva e la forte valenza sociale delle associazioni portatrici di principi alti e comuni, sia presidio importante e fondamentale da fare valere anche nelle sedi giudiziarie nella lotta al metodo mafioso".

 

 

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Camionista in versione Steve McQueen salvo grazie ad un 'cavillo'

Grazie all'intervento dei colleghi di Studio, Gaia Galeazzi e Filippo Capanni, un camionista si è visto annullare una sanzione di 2833,33 euro.

La notizia è stata ripresa anche dagli organi di stampa locali.

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L'importanza della gestione del detenuto transgender

Martedì 31 maggio, a Rimini, l’avvocato Davide Grassi, socio e co-fondatore dello Studio Legale e Tributario "Grassi Benaglia Moretti" ha presentato il libro "La gestione del denuto Transgender" dell’ispettore Gabriele Celli.

L’evento è stato organizzato dall’associazione “Papillon Rebibbia” di Rimini, realtà che da anni si occupa di diritti delle persone ristrette e della sensibilizzazione sul tema.

Gabriele Celli (laureato in sociologia all’Università di Urbino ed esperto di criminologia e psichiatria forense) è in servizio da 25 anni nella polizia penitenziaria della Casa Circondariale di Rimini ed è autore del volume dal titolo “La gestione del detenuto transgender”. Si tratta del primo saggio per gli addetti ai lavori. All’interno, oltre ad una dettagliata descrizione della struttura penitenziaria in cui l’ispettore Celli presta servizio, vi è anche un contributo importante con le testimonianze di tutti gli operatori della Casa Circondariale “Casetti”.

“L’istituto di Rimini è uno dei pochi in Italia ad avere una sezione specializzata per i detenuti transessuali”, ha raccontato l’ispettore Celli, durante il dibattito e alla presenza di numerosi partecipanti interessati all’argomento e “non esiste una formazione specifica per la gestione di questo tipo di detenuto”.

Nella prefazione scritta dal Dott. Luigi Pagano, Vice Capo Vicario del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, appare evidente la consapevolezza che la gestione del detenuto transgender possa avere successo solo grazie alla professionalità e alla sensibilità degli agenti, che sono tuttavia privi di strumenti adeguati: “Il mio intento, scalfendo solo un minimo di superficie, è solo quello di rendere, appena, idea di quanto spigoloso, nell’accezione etimologicamente più vasta del termine, sia l’argomento e quanto auto-controllo, tatto, sensibilità, capacità, professionalità deve dimostrare, e dimostra, di avere il nostro personale e, per inciso, mai celebrato come merita.”

Il libro di Gabriele Celli è stato tradotto in lingua inglese e verrà utilizzato anche all’estero nelle scuole di formazione della polizia penitenziaria.

Si può acquistare al seguente indirizzo web:

http://www.youcanprint.it/youcanprint-libreria/didattica-e-formazione/la-gestione-del-detenuto-transgender.html

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Martedì 31 maggio, a Rimini, l’avvocato Davide Grassi, socio e co-fondatore dello Studio Legale e Tributario "Grassi Benaglia Moretti" ha presentato il libro "La gestione del denuto Transgender" dell’ispettore Gabriele Celli.

L’evento è stato organizzato dall’associazione “Papillon Rebibbia” di Rimini, realtà che da anni si occupa di diritti delle persone ristrette e della sensibilizzazione sul tema.

Gabriele Celli (laureato in sociologia all’Università di Urbino ed esperto di criminologia e psichiatria forense) è in servizio da 25 anni nella polizia penitenziaria della Casa Circondariale di Rimini ed è autore del volume dal titolo “La gestione del detenuto transgender”. Si tratta del primo saggio per gli addetti ai lavori. All’interno, oltre ad una dettagliata descrizione della struttura penitenziaria in cui l’ispettore Celli presta servizio, vi è anche un contributo importante con le testimonianze di tutti gli operatori della Casa Circondariale “Casetti”.

“L’istituto di Rimini è uno dei pochi in Italia ad avere una sezione specializzata per i detenuti transessuali”, ha raccontato l’ispettore Celli, durante il dibattito e alla presenza di numerosi partecipanti interessati all’argomento e “non esiste una formazione specifica per la gestione di questo tipo di detenuto”.

Nella prefazione scritta dal Dott. Luigi Pagano, Vice Capo Vicario del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, appare evidente la consapevolezza che la gestione del detenuto transgender possa avere successo solo grazie alla professionalità e alla sensibilità degli agenti, che sono tuttavia privi di strumenti adeguati: “Il mio intento, scalfendo solo un minimo di superficie, è solo quello di rendere, appena, idea di quanto spigoloso, nell’accezione etimologicamente più vasta del termine, sia l’argomento e quanto auto-controllo, tatto, sensibilità, capacità, professionalità deve dimostrare, e dimostra, di avere il nostro personale e, per inciso, mai celebrato come merita.”

Il libro di Gabriele Celli è stato tradotto in lingua inglese e verrà utilizzato anche all’estero nelle scuole di formazione della polizia penitenziaria.

Si può acquistare al seguente indirizzo web:

http://www.youcanprint.it/youcanprint-libreria/didattica-e-formazione/la-gestione-del-detenuto-transgender.html

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Target Sinergie e le cooperative consorziate presentano il Bilancio 2015 a soci e dipendenti

Target Sinergie e le cooperative consorziate presentano il Bilancio 2015 al tradizionale appuntamento con soci e dipendenti. Sabato 21 maggio 2016 soci delle coperative consorziate e dipendenti sono attesi presso il Campo don Pippo  (via Santa Cristina 22 a Rimini, località Casetti).
Il programma prevede:

  • ore 15.00: torneo di calciotto e beach-volley
  • ore 18.00: approvazione del bilancio 2015,
  • presentazione delle nuove attività, sviluppi commerciali

Al termine dell’assemblea sarà offerto un aperitivo a buffet. Vi chiediamo di confermare la presenza e la partecipazione ai tornei al Responsabile Operativo di riferimento entro venerdì 13 maggio.

 

target_sinergie_rimini_cena_dipendenti_bilancio_2014.jpg Notizie CSR Facility Management Igiene e pulizie Logistica
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Target Sinergie e le oooperative consorziate presentano il Bilancio 2015 al tradizionale appuntamento con soci e dipendenti. Sabato 21 maggio 2016 soci delle coperative consorziate e dipendenti sono attesi presso il Campo don Pippo  (via Santa Cristina 22 a Rimini, località Casetti).
Il programma prevede :
ore 15.00: torneo di calciotto e beach-volley
ore 18.00: approvazione del bilancio 2015, presentazione delle nuove attività, sviluppi commerciali

Al termine dell’assemblea sarà offerto un aperitivo a buffet. Vi chiediamo di confermare la presenza e la partecipazione ai tornei al Responsabile Operativo di riferimento entro venerdì 13 maggio.

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Alcune suggestioni su Bleger e l’istituzione della psicoanalisi

Scuola di prevenzione José Bleger Rimini - Mar, 10/05/2016 - 12:25
di Lorenzo Sartini

Nel 1969 Josè Bleger scrive un articolo, “Teoria e pratica in psicoanalisi: la prassi psicoanalitica”, nel quale cerca di evidenziare alcuni problemi relativi al rapporto tra teoria e pratica nella psicoanalisi. L’analisi di Bleger inizia affrontando la questione da un punto di vista epistemologico, sottolineando l’ingenuità di un pensiero (che definirà naturalista) che sancisca la netta separazione tra soggetto ed oggetto, per il quale “i fatti sono lì” e semplicemente osservandoli, in modo decisamente s-vincolato, si ha la possibilità di formulare ipotesi o teorie sull’oggetto di studio. Una questione, sottolinea lo psicoanalista argentino, che riguarda tutte le scienze umane e che la disciplina psicoanalitica ripercorre. Nello specifico della psicoanalisi questo si evidenzia anche con la differenza esistente tra la teoria sviluppata ed esplicitata, la teoria ufficialmente accettata dall’istituzione psicoanalitica (riferendosi all’IPA, International Psychoanalytic Association), e la teoria implicita, quella che effettivamente si utilizza nella pratica clinica. Bleger evidenzia tre punti che sostengono questo divario:
1) la teoria esplicita è fondamentalmente storico-genetica, ossia si fonda sulla ricostruzione della biografia del paziente, mentre la teoria implicita è situazionale, ovvero si fonda su ciò che accade nel “qui ed ora” della seduta attraverso l’analisi degli elementi transferali e controtransferali. Il lavoro archeologico, di ricerca dei fattori disposizionali, viene sviluppato, e superato, dal lavoro che si fonda sulla relazione attuale, partendo dall’analisi della dinamica transfert-controtransfert. Il soggetto, in analisi, smette di essere considerato un sistema chiuso e il transfert non viene più considerato come un fenomeno ‘unipersonale’ bensì come un fenomeno che si innesta sul vincolo che si costituisce tra soggetti (soggetto-oggetto) in relazione.


2) la teoria esplicita è dinamica, facendo derivare i processi psichici da un intergioco di forze, mentre la teoria implicita è fondamentalmente drammatica, intendendo con questo termine “una comprensione dell’essere umano e del suo comportamento in termini di avvenimenti che si riferiscono alla vita medesima degli esseri umani considerata come tale”. “La dinamica - scrive Bleger nel suo articolo – è una rappresentazione o modello della drammatica ma non la sua causa”. Bleger si ispira, qui, a Politzer, per cui “il dramma implica l’uomo preso nella sua totalità e considerato come il centro di un certo insieme di accadimenti che, precisamente perché sono in una relazione con una prima persona [protagonista], hanno un senso” (cfr. Liberman, 2013). Lo scopo è di dare concretezza ai fondamenti della psicoanalisi, aggiungendo che “per concreto non si intende solamente l’essere umano come è in se stesso nella sua vita quotidiana ma anche nelle condizioni nelle quali la sua vita si sviluppa” (1958).
3) la teoria esplicita si organizza attorno alla logica formale mentre quella implicita vede l’utilizzo di una logica di tipo dialettico. Bleger sostiene che certe teorie dinamiche rispondono ad una logica di tipo formale postulando una serie di forze che operano nello psichismo e la cui espressione sarebbero, attraverso una sorta di reificazione, i processi psichici. Considerare l’accadere umano costringerebbe a fare i conti con una logica di tipo dialettico forse rendendo superfluo l’utilizzo di concetti esplicativi astratti. Quei “personaggi sconosciuti e che non ci assomigliano: rappresentazioni, immagini, istinti”, come scrive Politzer (1934).

Questi tre punti si imperniano sul concetto di alienazione, concetto che Bleger usa per intendere che “il soggetto si estranea o si espropria, si svuota di qualità umane che disperde e attribuisce (proiezione) a oggetti (oggetti in generale: animati o inanimati); l’oggetto si fa altro per il soggetto, diviene investito di qualità e poteri particolari” (1958). L’alienazione conduce ad una frammentazione di ciò che dovrebbe essere integrato, fa presente Ariel Liberman (2013), così la relazione tra soggetti si reifica e diventa una rapporto cristallizzato tra cose. Nell’alienazione della relazione, o nella de-dialettizzazione della drammatica, seguendo sempre Bleger, si ha a che fare con elementi dissociati, con la perdita di contatto tra i termini in gioco, dunque con la paralisi del processo dialettico. Una dissociazione che è propria di un approccio di tipo naturalistico, che considera il ricercatore (o l’osservatore) come assolutamente estraneo, distaccato, s-vincolato appunto, dall’oggetto di studio, che nel caso della psicoanalisi è un altro soggetto. Diversamente da un approccio di tipo fenomenologico che considera, invece, il fenomeno, ovverosia il modo di percepire ed esperire ciò che accade da parte del soggetto. Freud, ci fa notare Bleger, dichiarò esplicitamente che il suo progetto per la costruzione di una psicologia scientifica era basato su un modello naturalistico”, ma nello stesso tempo creò un approccio che guardava anche alla fenomenologia.

Fachinelli, ne “Sul tempodenaro anale” (1965), pare proporre simili interrogativi sulla psicoanalisi. Biasima Freud che, per uno dei suoi lavori, si avvalse in maniera eccessivamente entusiastica delle osservazioni dei bambini, dunque necessariamente esterne, da parte di Lou Andreas Salomè, affermando che quel procedimento si poneva fuori dal metodo analitico. Freud stesso, dunque, si lasciò certamente tentare dalla possibilità di confermare naturalisticamente, ovvero “in modo esatto”, ipotesi desunte dal contesto analitico. Fachinelli fa notare, però, che si tratta di due tipi di dati non direttamente confrontabili e che si corre il rischio di semplificare eccessivamente una serie di comportamenti complessi, riducendoli a livelli di “regolarità e univocità istintivo-biologica” fuori luogo per lo stesso metodo freudiano. Aggiunge che Freud sapeva “come soltanto i dati interni di una vicenda, quali emergono nella situazione di neutralità dell’analisi, siano in grado di assumere un significato, di costruire una storia. Il resto è sovrappiù, rientra legittimamente nei canoni del misurabile e del confrontabile, che sono quelli dell’osservazione naturalistica”.

Sembrerebbe che questa contrapposizione tra un naturalismo alienante ed una fenomenologia vincolante abbia percorso tutta la storia della psicoanalisi e in effetti Freud, già nel 1895, in “Progetto di una psicologia” affermava l’intenzione di fare della psicologia una scienza: “L’intenzione di questo progetto è di dare una psicologia che sia una scienza naturale, ossia di rappresentare i processi psichici come stati quantitativamente determinati di particelle materiali identificabili”.  L’obiettivo fondamentale di Freud era di dare una spiegazione della meccanica della mente, ciò che doveva avvenire mediante un linguaggio costituito da dinamiche di forze e strutture: ovverosia, per mezzo di un paradigma quantitativo. Allo stesso tempo, però, Freud ritenne che avrebbe potuto spiegare il funzionamento della mente solo attraverso lo studio, e la cura, dei casi clinici e subito iniziarono le difficoltà poiché si rese conto che le informazioni che emergevano dai casi di cui si occupava non corrispondevano alle ipotesi precedentemente formulate: “Sento ancora io stesso un’impressione curiosa per il fatto che le storie cliniche che scrivo si leggono come novelle e che esse sono, per così dire, prive dell’impronta rigorosa della scientificità. Devo consolarmi pensando che di questo risultato si deve evidentemente rendere responsabile più la natura dell’oggetto che le mie preferenze” (“Studi sull’isteria”, 1892-1895). Sottolinea Bauleo, a questo proposito, che quelle storie cliniche sono “una narrazione romanzata della psicopatologia”, le cui fantasie vanno scoperte nella relazione analitica per poter dar loro un senso: perché, in definitiva, ci si confronta con storie di pazienti e non di malattie (1999).

Ne “Il Mosè di Michelangelo” Freud parla di Ivan Lermolieff, un esperto d’arte russo, che scoprì un modo per distinguere con sicurezza le imitazioni dei quadri dagli originali. In realtà si venne a sapere che sotto lo pseudonimo russo si nascondeva un medico italiano, Giovanni Morelli. Morelli invece che concentrarsi sui tratti fondamentali dei dipinti e sull’impressione generale, così come si faceva allora, sottolineò l’importanza dei dettagli secondari, di come venivano dipinte le unghie, i lobi auricolari, di come venivano rese le mani, elementi cui, in genere, si poneva poca attenzione, passando così inosservati. Freud ritenne che questo metodo fosse “strettamente apparentato con la tecnica della psicoanalisi medica” (1914), laddove particolari considerati di scarsa importanza, marginali, che proprio per tale motivo venivano sottratti al controllo della coscienza, permettevano di avere informazioni estremamente significative sul soggetto. La psicoanalisi, sullo stesso filone della medicina ippocratica, è una disciplina semeiotica o indiziaria, rileva lo storico Carlo Ginzburg che scrive: “Solo osservando attentamente e registrando con estrema minuzia tutti i sintomi – affermavano gli ippocratici – è possibile elaborare ‘storie’ precise delle singole malattie: la malattia è, di per sé, inattingibile” (2004).

Questa sembra essere la croce e la delizia della psicoanalisi che, in quanto disciplina indiziaria, non può rientrare nei criteri di scientificità proposti dal metodo sperimentale galileiano. La psicoanalisi è una disciplina qualitativa, che si occupa di casi o situazioni individuali[1], e che, proprio a ragione di ciò, può arrivare a risultati che hanno un elemento ineliminabile di aleatorietà. Il metodo scientifico galileiano, mirando a cogliere solamente l’aspetto quantitativo dei fatti, si proponeva lo studio di quei fenomeni che potevano essere misurati e tradotti in formule matematiche, permettendo di arrivare alla conoscenza per tramite di un ragionamento certo che Galilei comparava alla “sapienza divina”. Riteneva, di conseguenza, che di ciò che fosse caratterizzato dal particolare, dall’individuale, non si poteva parlare.
In sostanza, si ha a che fare sin dall’inizio con una cesura tra teoria e pratica in psicoanalisi e l’obiettivo di Freud, fare della psicologia una scienza, si scontra, come egli stesso rileva nel passo tratto da “Studi sull’isteria” sopra citato, con la particolarità dell’oggetto di studio che non consente di rispondere totalmente ai criteri richiesti (esperimento e dimostrazione) dal metodo scientifico proposto dal fisico e matematico italiano.

Una tensione, quella tra approccio naturalistico e fenomenologico, che mi pare resa evidente dalle vicissitudini che hanno accompagnato diversi concetti cui il movimento psicoanalitico ha fatto ricorso nella sua storia. Tra questi concetti una nota particolare merita certamente quello di controtransfert poiché, oltre ad avere una forte valenza simbolica (con la scoperta della dinamica del controtransfert che coinvolge anche l’analista, si inizia a ritenere che non sia solamente il paziente, con i suoi portati psichici e comportamentali, a incidere sul colloquio, ma, appunto, che il campo del colloquio possa essere ‘sporcato’ anche dal terapeuta), sembra essere stato anche una causa determinante della costituzione dell’istituzione psicoanalitica per eccellenza, l’Associazione Psicoanalitica Internazionale (IPA).
La prima volta in cui Freud parla di controtransfert è nel 1910. In quello stesso anno si tiene il secondo Congresso Internazionale di Psicoanalisi a Norimberga e Freud lesse una relazione sullo stato della disciplina psicoanalitica (“Le prospettive future della terapia psicoanalitica”, 1910) nel quale parla del controtransfert, allora controtraslazione, “che insorge nel medico per l’influsso del paziente sui suoi sentimenti inconsci, e non siamo lungi dal pretendere che il medico debba riconoscere in sé questa controtraslazione e padroneggiarla”. Si esprime anche sulla necessità dell’autoanalisi affinché il medico possa approfondire le sue resistenze interne. È in quello stesso anno che viene fondata l’Associazione Psicoanalitica Internazionale che, scriverà Freud in “Psicoanalisi selvaggia”, sempre del 1910, considerate le difficoltà che comporta l’applicazione della terapia psicoanalitica, avrebbe il compito di differenziare tra chi aderisce all’associazione, seguendo le norme di formazione dispensate, e chi invece non lo fa, e potendo così “respingere le responsabilità dell’operato di coloro che, pur non essendo dei nostri, chiamano i loro procedimenti medici ‘psicoanalisi’”. È nel 1912 che Freud, seguendo le impostazioni della scuola psicoanalitica di Zurigo, consiglierà ai medici che si vogliono occupare di psicoanalisi la necessità di sottoporsi ad analisi presso un esperto.
Questa è la concezione cosiddetta ‘classica’ del controtransfert, che viene inteso come ostacolo nello sviluppo di un processo analitico nel quale il paziente viene visto come oggetto da conoscere da un’analista neutrale. Ciò che sembra accadere è che, ritenuto il controtransfert un ostacolo alla comprensione del paziente da parte del terapeuta, si decide di stabilire delle norme che fissino il percorso formativo che il futuro psicoanalista dovrà seguire per poterlo superare: si fonda così l’istituzione psicoanalitica.

Dagli anni ’20, e per circa 30 anni, il controtransfert sembra passare in secondo piano, ed è intorno agli anni 50, con Heinrich Racker e Paula Heimann, che il controtransfert inizia ad essere maggiormente valorizzato, allorché si comincia a ritenere la relazione tra paziente ed analista un vincolo tra due persone e non più semplicemente una situazione nella quale una persona osserva l’altra, ossia un soggetto osserva un oggetto. All’analista, ai cui sentimenti ed emozioni ora si dà molta importanza, viene richiesto di imparare a dissociarsi: da un lato deve riuscire a fare attenzione alle sue reazioni, a ciò che sente, e dall’altra deve riuscire a mantenere una parte osservante, così da poter sostenere ed elaborare le fantasie ed i sentimenti che prova nella relazione con il paziente invece di scaricarli. Una concezione che richiama una mentalità di gruppo poiché si ritiene che transfert e controtransfert si generino all’interno di una relazione, non potendo più ben determinare dove inizia il materiale di una persona e dove finisce quello dell’altra.
Questa seconda concezione pare ancora occupare una posizione marginale all’interno dell’istituzione psicoanalitica che sembra riconoscersi maggiormente attorno alla prima, quella classica.

Una terza concezione, che si spinge ancora più in là, è quella proposta da autori quali Searles, Winnicott, Little e Tower che enfatizzano l’interazione nella situazione analitica, che viene ad essere definita da una continua e reciproca comunicazione inconscia tra i due soggetti della relazione. Se precedentemente l’enfasi era posta sulle potenzialità che permettevano di conoscere parti del mondo interno del paziente, ora viene suggerita una visione più simmetrica della relazione analitica, nella quale vengono incluse tutte le fantasie e i sentimenti che l’analista può provare nei confronti del paziente, tanto che si giunge a parlare di interazione tra transfert del paziente e transfert dell’analista.
Anche questa concezione, sebbene registrata, non viene propriamente appoggiata dall’istituzione psicoanalitica che, a tutt’oggi, parrebbe continuamente ragionare sul controtransfert, anche problematizzandolo, assumendo come posizione privilegiata quella della concezione classica.

Per quanto riguarda Bleger, il suo bagaglio teorico si fondava su una concezione gruppale della soggettività, sulla scorta di quanto proponeva il suo maestro, Enrique Pichon-Rivière. L’idea di base postula che la soggettività si organizza partendo dai vincoli che coinvolgono l’essere umano che, in continua relazione dialettica con il mondo circostante, non può che costruirsi costantemente. Una soggettività che si fonda ed evolve partendo dalle necessità che vive l’essere umano, ed il cui soddisfacimento può avvenire solamente all’interno delle relazioni che lo definiscono. Allo stesso tempo, però, si tratta anche di un soggetto prodotto, emergente dell’interazione con i gruppi cui partecipa (primariamente quello familiare) e le istituzioni sociali che lo attraversano.  Centrale, in questa concezione, è il concetto di vincolo, inteso come una struttura relazionale che include il soggetto, l’oggetto e le reciproche interrelazioni, consce e inconsce. Pichon-Rivière, sostituendo al concetto di istinto quello di esperienza, giunge a sostenere che “tutta la vita mentale inconscia, cioè il dominio della fantasia inconscia, deve essere considerato come l’interazione tra oggetti interni (gruppo interno) in permanente interrelazione dialettica con gli oggetti del mondo esteriore” (1971).
Partendo da questo presupposto, Bleger considerava già l’introduzione del concetto di transfert come un cambiamento radicale nel panorama psicoanalitico poiché si cessava di pensare all’essere umano come a un sistema chiuso, aprendo ad una concezione che, per conoscere l’oggetto di studio, iniziava a considerare la relazione, il vincolo. Considerare il transfert permetteva di ripensare un fenomeno che precedentemente veniva inteso come ‘unipersonale’, consentendo ora di considerarlo come un campo attivo e originale, un fenomeno che coinvolge dinamicamente due o più persone in una situazione particolare. Conseguentemente, Bleger pensa che “il controtransfert smetta di essere un elemento perturbatore (entro certi limiti) per divenire un elemento attivo, operante, integrante di un atteggiamento e partecipando, immancabile e inevitabilmente, a quella sintesi che è l’interpretazione” (1958).

Penso che la questione del controtransfert possa certamente essere considerata un emergente del processo di sviluppo della psicoanalisi, in quanto rappresentativa degli ostacoli che Bleger evidenzia nel suo articolo a proposito del rapporto tra teoria e pratica. Sebbene le concezioni successive del controtransfert, già da circa 60 anni, abbiano messo in discussione la concezione classica del controtransfert, quella che prevede un’analista oggettivamente neutrale e impermeabile, nel senso di arbitrariamente distaccato, alle sollecitazioni del paziente, pare che quella concezione ‘unipersonale’ continui ad esercitare una certa attrazione e dunque sempre con quella si debbano fare i conti. La discriminante, a mio modo di vedere, è la concezione del controtransfert come strumento: se all’inizio il controtransfert veniva inteso come ostacolo, successivamente si è iniziato a coglierne gli aspetti positivi, di risorsa, dunque l’aspetto strumentale. Ora la questione è che questo aspetto, le cui potenzialità sono state accettate dalla comunità psicoanalitica, viene però alienato dalla relazione analitica: in altri termini, il controtransfert viene inteso come uno strumento che l’analista può decidere se usare o no, viene oggettivato. Se riesco ad elaborarlo e mi serve lo uso altrimenti non lo espongo, non lo faccio vedere. Non pare considerarsi il controtransfert come implicazione ineluttabile del campo analitico (bipersonale, come dicevano M. e W. Baranger), che coinvolge inevitabilmente l’analista, ma come uno strumento che entra in gioco solamente allorquando l’analista ritiene di poterlo usare poiché è stato in grado di elaborare la dinamica cognitiva ed emotiva che lo vede coinvolto. L’idea di fondo, dunque, è che il controtransfert, a discrezione dell’analista, possa essere reso muto e inoperante. Al di là dell’asimmetria della relazione analitica, stabilita partendo già dalla richiesta di aiuto del paziente e sancita con la predisposizione del setting, e dunque con la differenziazione dei ruoli e la formalizzazione del contratto analitico, questa concezione sembrerebbe legittimare la convinzione che l’analista possa mantenere sempre e comunque una posizione oggettiva, imperturbabile, una posizione di assoluta neutralità e forza, nella quale gli si riconosce implicitamente la possibilità di controllare tutto ciò che accade in seduta, incluso, dunque, ciò che avviene in lui anche inconsciamente. Sebbene il discorso istituzionale predominante affermi di mettere in discussione questa concezione tesa all’oggettività della posizione dell’analista, la sensazione è che, di fatto, questa posizione sia ancora quella che ne sostiene l’identità. Questa credo fosse anche la posizione sostenuta da un importante psicoanalista nordamericano, Merton Max Gill, che, in uno scritto dell’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, “Prospettiva intrasoggettiva e prospettiva intersoggettiva: ‘Osservazioni sull’amore di transfert’”, così si esprimeva: “Probabilmente il maggior ostacolo che impedisce agli analisti di riconoscersi partecipi della situazione analitica è il presumere di poter scegliere se partecipare o meno. Il punto è che l’analista partecipa che gli piaccia o no. La sua partecipazione sarà avvertita dal paziente in tutte le sfumature della soddisfazione e della frustrazione.”

Tornando all’articolo che ha mosso queste riflessioni, si rileva che, nella parte conclusiva del suo scritto, Bleger, sempre riallacciandosi al rapporto tra teoria e pratica psicoanalitica, pone attenzione alla questione istituzionale. Se da un lato, avendo molto lavorato e teorizzato sull’ambito istituzionale, afferma di comprendere, al fine dell’autoconservazione, l’inevitabilità di un movimento istituzionalizzante all’interno delle istituzioni, dunque anche all’interno di quella psicoanalitica, dall’altro ritiene che, se l’obiettivo fondamentale di questa istituzione è quello di “diffondere, insegnare e approfondire la ricerca e la conoscenza psicoanalitica”, questo venga inevitabilmente ostacolato da quello stesso presupposto di base. Infatti, per non mettere in pericolo l’istituzione garantendole al contempo una continuità, accade che i vari membri dell’istituzione possano pervenire ad accordi, impliciti od espliciti, per definire ciò che è psicoanalisi, focalizzandosi su aspetti di minore rilevanza, non ritenuti pericolosi per l’istituzione. Se l’istituzione psicoanalitica per poter sussistere deve fondarsi su degli accordi di minima, su degli assiomi condivisi, allora, nell’istituzionalizzazione quegli assiomi vengono dati per scontati e, considerati dimostrati a priori, spariscono dal tavolo delle discussioni. In sostanza, questo comporta che per continuare ad esistere, l’istituzione deve limitare la ricerca, spostandola su elementi che non tocchino gli assiomi basilari. L’obiettivo fondamentale dell’istituzione viene tralasciato per dedicarsi al proprio mantenimento: in altre parole, conclude l’analista, il consolidamento interno dell’istituzione psicoanalitica viene perseguito attraverso l’utilizzo di pratiche ortodosse, burocratizzate, connotate dalla resistenza al cambiamento, e mettendo in discussione solamente ciò che si trova all’esterno, dunque proponendosi come agente di cambiamento verso il fuori.
Credo sia importante ricordare che Bleger puntualizzi che, con questo suo lavoro, intende fare una diagnosi, o meglio un inventario della situazione della psicoanalisi la quale, se considerata nella sua totalità di teoria e pratica, dunque come prassi, necessariamente porta a scontrarsi con divergenze e contraddizioni.  Ciò che si propone di fare Bleger è, allora, di “illuminare possibili vie in funzione di quelle che sono già state delineate nello stesso processo di prassi, in modo tale che la ricerca successiva possa essere compiuta o tentata con maggiore chiarezza di obiettivi o correre lungo i sentieri della ricerca con meno cecità”. Bleger faceva parte dell’APA (Asociación Psicoanalítica Argentina) e, nonostante le perplessità che accompagnavano le sue considerazioni sull’operato dell’istituzione psicoanalitica, non si risolse mai ad uscirne.

A proposito del rapporto tra l’istituzione psicoanalitica dominante e i nuovi modelli concettuali emergenti, lo psicoanalista statunitense Jay R. Greenberg (2012), soffermandosi sui recenti sviluppi della psicoanalisi in Nord America, sostiene che dopo anni di privilegio della tecnica psicoanalitica ‘classica’, oggi la situazione è un po’ cambiata poiché nel secolo scorso si è assistito all’emergere di nuove correnti teoriche, oltre a quella pulsionale classica, che hanno avuto un certo riconoscimento: psicologia dell’Io, psicoanalisi relazionale e psicologia del Sé. Nota inoltre come, a fronte dell’intenzione di Freud di creare un’autorità centrale che avesse il compito di presiedere alla pratica della psicoanalisi, oggi ci si trova di fronte a diversi modelli teorici che, seppur affermando di imperniarsi su aspetti clinici differenti, sembrano condividere un panorama comune condividendo alcune idee di fondo: la pratica psicoanalitica come campo dinamico, la partecipazione conscia e inconscia dell’analista nella seduta, l’importanza della comunicazione verbale e non verbale. Conclude ipotizzando che sia la comune fiducia nel valore della “cura della parola” che tiene uniti gli psicoanalisti che si riconoscono nelle diverse correnti teoriche.
Certamente la questione è molto complessa ma, almeno questa è la mia impressione, il tentativo di spiegazione di Greenberg della situazione in cui versa il movimento psicoanalitico nordamericano pare abbastanza frettoloso. Il livello della discussione più ‘scottante’, in effetti, sembra venir liquidato con poche parole lasciate in sospeso. Premette che il problema della corrispondenza tra teoria e pratica in psicoanalisi è stato per lungo tempo evitato e che, a metà anni ’50, la posizione dominante sembrava postulare un’inevitabile connessione tra la pratica della tecnica standard e la teoria. Il pensiero implicito era che attraverso la tecnica psicoanalitica corretta si sarebbero potuti raccogliere dati psicoanalitici, che dunque avrebbero confermato la teoria; se invece la teoria non veniva confermata ciò significava che non si era utilizzata una tecnica giusta, ovvero non si era riusciti ad andare a fondo nell’analisi dell’inconscio. Un rapporto tautologico. Questa pratica, continua Greenberg, è andata avanti per molto tempo rendendo difficile l’affermarsi di nuove teorie o nuove metodologie, che non trovavano la considerazione e l’appoggio degli psicoanalisti classici: “Le strutture organizzative e politiche della psicoanalisi dominante sostenevano e perpetuavano il collegamento ipotizzato e forse desiderato tra metodo e risultanze. La certificazione degli analisti in training presso l’American Psychoanalytic Association e il relativo controllo delle analisi di training e delle supervisioni consistevano proprio in questo, cioè garantiva che gli analisti approvati avrebbero seguito le tecniche approvate e che sarebbero arrivati a risultati approvati. Le variazioni potevano essere causa di esclusione, una pratica che in una certa misura continua anche oggi”.
La constatazione con cui chiude il periodo, “una pratica che in una certa misura continua anche oggi”, espressa in modo così fugace, sebbene possa assurgere a posizione realistica, mi pare piuttosto inquietante. Nonostante lo psicoanalista statunitense concluda il suo intervento con toni di soddisfazione, registrando la presenza sulla scena psicoanalitica nordamericana di altri modelli teorici oltre a quello classico, viene da chiedersi qual è il prezzo da pagare all’Associazione Psicoanalitica Americana (aderente all’IPA), ossia che cosa venga escluso e perché.

Scrive Kaës che una funzione assolutamente fondamentale dell’istituzione è quella di “fornire rappresentazioni comuni e matrici identificatorie: dare uno statuto alle relazioni tra la parte e il tutto, legare gli stati non integrati, proporre oggetti di pensiero che hanno un senso per i soggetti ai quali la rappresentazione è destinata e che generano pensieri sul passato, il presente e il futuro, indicare i limiti e le trasgressioni, assicurare l’identità, drammatizzare i movimenti pulsionali…” (1988). In altri termini l’istituzione comunica ciò che vorrebbe che il soggetto cui è rivolta pensasse di essa; anche se la comunicazione non ne rispecchia lo stato reale. Un sorta di propaganda ante litteram. L’istituzione si preoccupa di dare un’immagine di sé che possa raccogliere l’interesse della comunità sociale e che possa avere un significato per l’utenza-target. Per fare questo si richiama a quell’immagine sociale stereotipata con la quale è stata riconosciuta, che ha sancito la propria costituzione potremmo dire, al costo, però, della perdita di contatto con l’organizzazione concreta che la caratterizza nell’attualità. Si crea, così, una dissociazione tra ciò che viene trasmesso e ciò che viene effettivamente proposto, tra la teoria, ciò che viene formalmente comunicato, e la pratica, ciò che viene effettivamente fatto.
Un semplice esempio potrebbe essere quello della SPI (Società Psicoanalitica Italiana, anch’essa partecipante all’IPA)  che, attraverso il suo sito ufficiale, fa presente che un percorso di psicoanalisi comporta il rispetto di una precisa serie di regole (dalle tre alle cinque sedute a settimana, l’uso del lettino, il pagamento delle sedute saltate, ecc.) che fanno riferimento ad un tipo di psicoanalisi, classica/ortodossa/mitica, che oggi, nei fatti, non sembra più essere così tanto sostenuta e, soprattutto, praticata. Se mai lo fosse stata (cfr. Cremerius, 1995). In effetti, eminenti esponenti della stessa organizzazione psicoanalitica, in alcune interviste rilasciate negli ultimi anni a varie importanti testate giornalistiche[2], sembrano sconfessare la necessità di una pratica tanto rigida, mostrando una diversa apertura rispetto alle esigenze emergenti ed ai cambiamenti sociali avvenuti nel corso del tempo[3].

Nel 2015 a Bologna si è svolto un convegno organizzato dalla SPI, dal titolo “La relazione analitica”. Il convegno si concludeva con un intervento dell’attuale presidente dell’IPA, nonché past-president della SPI, Stefano Bolognini, che stilava una lista delle ‘certezze’ acquisite dal movimento psicoanalitico contemporaneo: e, tra queste, la prima, che aveva effettivamente occupato molto spazio durante le due giornate del convegno, era l’inclusione del concetto di enactment. Un concetto del quale, almeno all’interno della psicoanalisi nordamericana, si è iniziato a parlare nel 1986 quando venne introdotto dallo psicoanalista Theodore J. Jacobs del New York Psychoanalytic Society & Institute (NYPSI). L’enactment, che dovrebbe indicare “un evento analiticamente rilevante, che coinvolge contemporaneamente paziente e analista […] un episodio relazionale a reciproca induzione che si evidenzia attraverso un comportamento”, ci dice Maria Ponsi (2013) della SPI fiorentina, viene legato ad una psicoanalisi di impostazione relazionale che si differenzia da quella classica, legata agli aspetti pulsionali ed intra-psichici, che lo considera come “una collusione transfert-controtransfert, da imputare essenzialmente a un mancato controllo del controtransfert: è dunque in qualche modo un errore, o una smagliatura nella relazione analitica”. Questa, dunque, è, o dovrebbe essere, la posizione ufficiale della psicoanalisi istituzionale.
Voglio rilevare che, all’interno del panorama psicoanalitico attuale un modello di cui si parla spesso è quello del campo analitico, portato avanti, in Italia, dal gruppo di Antonino Ferro, attuale presidente della SPI, e Giuseppe Civitarese, anch’egli socio SPI. Questo modello trae espressamente spunto dalle formulazioni concettuali di Bion e propone l’idea di una relazione analitica fondata sul “campo inteso come narrazione in/conscia a due” (Civitarese, 2013). Formulazioni che appartengono, invero, a molta tradizione psicoanalitica gruppale e che, a mio parere, come abbiamo precedentemente accennato a proposito della concezione vincolare della soggettività di Bleger, riprendono molte intuizioni che fanno parte del bagaglio della concezione dei gruppi operativi di Pichon-Rivière. Devo dire che, sebbene la mia non estesa conoscenza di questa nuova proposta, mi colpisce che questo modello venga ritenuto così innovativo, appunto perché si fonda su concetti piuttosto noti per chi si è avvicinato agli autori testé citati. Al di là del mio stupore, è però interessante notare che nell’introduzione del suo libro, “I sensi e l’inconscio”, nel quale viene delineato il suo modo di intendere la relazione analitica facendo diversi accenni alla teoria del campo analitico, Giuseppe Civitarese rifiuti la nozione di enactment perché legata ad una concezione individualistica della relazione analitica. Una posizione in assoluta contrapposizione rispetto a quella formalizzata dal presidente dell’IPA, massimo esponente dell’istituzione psicoanalitica contemporanea, e menzionata precedentemente.

Da un certo punto di vista, tanto nel caso italiano (che vede coinvolti esponenti certamente importanti della psicoanalisi contemporanea) quanto in quello nordamericano descritto da Greenberg, si potrebbe vedere la difformità di idee ed il cambiamento di opinioni come prova dell’humus democratico del movimento psicoanalitico. Un ambiente in cui si possono manifestare apertamente opinioni discordanti, si dirà, e nel quale c’è spazio per tutti.
È lo stesso Greenberg, però, come precedentemente riportato, a sottolineare che all’interno dell’IPA le variazioni dalla norma istituita, ossia dalle direttive impartite, potevano, e possono, costare l’esclusione. La differenza può essere bandita e chi si trova nella posizione del più forte, nei fatti chi è riconosciuto ed interno all’istituzione, decide. Da questo punto di vista, invece, l’idea di democrazia viene messa piuttosto in discussione. Qui siamo al cospetto di un’altra contraddizione, che però non viene esplicitata: si rimane nell’ambiguità. Un qualcosa che verrebbe da definire inevitabile, se solamente si pensa alla rigida gerarchizzazione presente all’interno delle associazioni di psicoanalisi ed a tutta la complessa struttura organizzativa che guida il percorso da intraprendere per diventarne membri.

Affrontare il tema dell’istituzione psicoanalitica è molto complesso; autorevoli psicoanalisti che si sono occupati dell’ambito istituzionale hanno trattato l’argomento solamente in maniera marginale, ritenendo di non approfondire la questione. Vien da pensare che, anche per essi, scottasse il problema della propria implicazione, ovvero della propria appartenenza a quella istituzione. Certamente qualche critica è stata fatta, soprattutto riguardo al percorso formativo richiesto per poter essere riconosciuti come psicoanalisti. Per esempio, è ancora Fachinelli (1973) a criticare con decisione l’istituzione psicoanalitica quando, ricordando l’iter da sostenere per diventare analisti, e in particolar modo rivolgendosi alla cosiddetta analisi didattica, sostiene che esso favorisca una rigida ripetizione del modello istituzionale piuttosto che uno sviluppo ed un arricchimento della personalità: “… il processo analitico non favorisce qui l’autonomia e lo svincolamento dagli arcaici legami di dipendenza. Anzi, al contrario: proprio perché è legato all’istituzione, esso promuove la assimilazione di un nuovo e robusto sistema di regole, di norme, di procedure, che rafforza gli antichi legami anziché scioglierli”. E, a proposito di contraddizioni, nota che “il periodo più fecondo dell’analisi è stato quello in cui Freud era circondato da ‘selvaggi’, cioè da analisti che agli occhi degli attuali tutori dell’istituzione non sarebbero neanche analisti; la produttività analitica più interessante dei giorni nostri si situa fuori o ai margini dell’istituzione, mentre all’interno il sapere è istituzionale, cioè svolge un compito definito di affiliazione, conferma e riconoscimento”.
Si tratta di un aspetto critico che, in anni più recenti, è stato evidenziato in diversi lavori anche da altri autorevoli esponenti della stessa IPA, quali il già citato Johannes Cremerius e Otto Kernberg.
Fachinelli, comunque, faceva parte del ristretto gruppo di psicoanalisti che nel 1969, quando si tenne il congresso internazionale dell’IPA a Roma, all’Hotel Cavalieri Hilton, organizzarono un controcongresso in un ristorante lì vicino, “Carlino al Panorama”. Di quel gruppo[4] facevano parte molti nomi noti: oltre al già citato Elvio Fachinelli, c’erano Pierfrancesco Galli, Marianna Bolko, Berthold Rothschild, Armando Bauleo, Hernan Kesselman, Mauro Mancia ed altri ancora. Alla protesta di questi allora giovani candidati si unirono anche analisti più anziani e di chiara fama come Paul Parin, Alexander Mitscherlich e altri analisti didatti della società psicoanalitica di Zurigo; e poi Marie Langer, Emilio Servadio e Ralph Greenson, solo per fare alcuni nomi. Furono più di 200 le adesioni di psicoanalisti provenienti da diversi paesi, non solamente europei. Il gruppo si diede il nome di Plattform (Piattaforma) e aveva l’obiettivo di “attaccare a fondo l’ideologia delle società psicoanalitiche che si manifestava nella loro struttura gerarchica di potere, nel loro allontanamento dal pensiero freudiano radicale, nella ricerca, nella formazione, ecc., incompatibile con l’idea di una psicoanalisi con potenzialità eversive e rivoluzionarie” (Bolko M., Rothschild B., 2006). Il gruppo decise di proseguire anche dopo il controcongresso, con l’idea di rimanere eterni allievi in formazione permanente all’interno della società di psicoanalisi. Questa idea costituì il punto di rottura con l’IPA poiché da un lato si enfatizzava il valore culturale, lo studio, l’impegno personale non finalizzato ad un riconoscimento istituzionale e, dall’altro, rimanendo eterni allievi, si squalificava il valore della carriera all’interno dell’istituzione. Un valore, quest’ultimo, considerato strettamente collegato alle mire di potere personale all’interno del meccanismo burocratico messo a punto dall’istituzione psicoanalitica e che, proprio per tale motivo, costituiva un motore propulsivo per molti aspiranti analisti. Una presa di posizione che non piacque alla SPI, dalla quale partirono minacce di espulsione dall’iter formativo analitico per i candidati partecipanti al gruppo Plattform. Il risultato fu che alcuni di questi candidati, e tra questi anche qualcuno che aveva partecipato direttamente alla progettazione del controcongresso, ritirarono la propria adesione al gruppo.

Il terzo giorno del controcongresso intervenne anche Jacques Lacan, in aperta polemica già da qualche anno con l’IPA, rispetto alle direzioni teoriche prese dall’associazione e al metodo formativo utilizzato al suo interno. Lacan, inizialmente membro della “Société psychanalytique de Paris”, sarà protagonista di una prima scissione nel 1953 quando fonderà la “Société française de psychanalyse”, che, sempre legata all’IPA, non fu riconosciuta dall’associazione internazionale se non come “Study group”. Dopo dieci anni, nel 1963, venne praticamente escluso e decise di fondare una sua propria scuola, l’“Ecole freudienne de Paris”, che successivamente decise di sciogliere nel 1980. A livello istituzionale è interessante riportare anche il fatto che fino alla fine degli anni ’90, Lacan, o meglio i suoi allievi, non potevano ‘teoricamente’ godere del titolo di psicoanalista, essendo ritenuto questo di esclusivo appannaggio dell’IPA. È soltanto nel 1998, quando avvenne un incontro tra Horacio Etchegoyen (anch’egli allievo di Pichon-Rivière), allora presidente uscente dell’IPA, e Jacques-Alain Miller, presidente dell’AMP (Associazione Mondiale di Psicoanalisi), che, in virtù della declamata “essenza pluralistica” della disciplina analitica, avvenne l’“esplicito riconoscimento da parte del Presidente dell’IPA del pieno diritto di cittadinanza di Lacan nel variopinto consesso della dottrina analitica e con la conseguente rinuncia da parte dell’IPA alla prerogativa di dispensare tale formazione in via esclusiva” (Licita-Rosa, 2006)[5].

Penso che quando si ha a che fare con l’istituzione ci si trovi a confrontarsi con un rapporto sempre carico di ambiguità, nebuloso, e non si può pensare di affrontare un tema così intricato ritenendo di arrivare alla netta differenziazione di termini antinomici puri.
Armando Bauleo, nell’intervento proposto nel seminario “Psicoanalisi e istituzioni” (i cui interventi sono stati raccolti in un libro pubblicato nel 1983, “Il gioco impari”), sostiene che il vincolo tra soggetto ed istituzione è sempre costituito da una duplicità: una dissociazione, da un lato, e l’illusione di poter pervenire ad un unione, dall’altro. I due termini in gioco non sono in relazione per la loro corrispondenza, bensì per la loro diversità, dunque all’inizio c’è una non-relazione: “c’è carta carbone”, dice Bauleo. Il soggetto si muove all’interno di una situazione già decisa e cercherà di produrre un discorso, evidentemente caratterizzato anche da una certa aggressività, visto che ogni bisogno emancipativo si gioca sull’aggressività, con l’intento di discriminare l’Io da quel non-Io depositato nell’istituzione (cfr. Bleger, 1967) che, d’altra parte, gli consente di proteggersi dalle ansie psicotiche. Si tratta, utilizzando i termini proposti dall’analisi istituzionale, dell’istituzione intesa come costante movimento tra l’istituito e l’istituente: attraverso le fessure istituzionali le tensioni, gli affetti e i desideri cercano la scarica che la burocrazia tenta di fermare e impedire. Horacio Foladori (2008), partendo proprio dalla proposta di Castoriadis che considera l’istituzione come rapporto tra l’istituito e l’istituente, parla di teoria dell’incrinatura (teoria de la fisura) e sostiene che, affinché nell’istituzione si possa pensare ad un cambiamento, si deve registrare un’incrinatura, ossia, in seguito al movimento istituente, teso al cambiamento dello status quo, deve emergere uno stato di sofferenza, più o meno marcata. Se si crea questa incrinatura allora l’istituente può agire in due modi differenti sull’istituito al fine di determinare un cambiamento: un primo caso, detto di cambiamento riformista, è quello che René Lourau chiama dell’istituente nell’istituito e che ha a che fare con un cambiamento previsto, un cambiamento normato, il minimo indispensabile affinché l’istituzione non diventi anacronistica. Quasi fossimo al cospetto di un tipo di cambiamento, in un certo qual modo, già istituito. Un secondo caso, invece, è quello del cambiamento di rottura, che richiede la dissoluzione dell’istituito esistente per istituire qualcos’altro, per creare una nuova istituzione. Si tratterebbe di un atto rivoluzionario mirante alla creazione di una controistituzione.
Ma, nota Foladori, in molti casi l’unico cambiamento possibile parrebbe essere quello riformista poiché la corrente istituente fallisce. In effetti, la situazione di ‘pericolo’ registrata dall’istituito fa sì che esso riattivi le proprie difese, determinando una situazione di chiusura che, accettando alcuni cambiamenti minori, copre l’incrinatura, ovvero la tensione verso il cambiamento, manifestatasi. Alla fine, continua Foladori, è come se tutto questo movimento costituisse una trappola che l’istituito tende all’istituente per farlo manifestare e poterne prendere le contromisure.

Torna subito alla mente l’annotazione di Bleger, e ripresa anche da Kaës, per cui un’istituzione riesce a mantenere se stessa laddove vengano preservati gli assiomi fondamentali sui quali si erige, potendosi discutere solamente questioni di secondaria importanza, che non mettono in pericolo l’impalcatura condivisa dell’edificio istituzionale. E quale sarebbe, in questo caso, l’impalcatura condivisa della quale non si può parlare? Che cos’è che non si può mettere in discussione? Che cos’è che resta fuori? Perché è di questo che si occupa la psicoanalisi, come sottolineava Freud riprendendo l’esperto d’arte Morelli, di ciò che viene marginalizzato e non cade sotto l’attenzione della coscienza.
Penso che il concetto di enactment, oggetto di contrapposte opinioni all’interno della stessa SPI, se inteso come emergente dell’istituzione, possa aiutare ad ipotizzare una risposta. Formalizzando l’adozione di questo concetto, si istituzionalizza qualcosa che non appartiene all’istituzione. L’enactment, come abbiamo visto, indica un comportamento inconscio che coinvolge ambedue i protagonisti della relazione analitica, mettendo, di fatto, in forte discussione la possibilità dell’analista di mantenere una posizione neutrale. È un’infrazione della norma istituita, propria del modello psicoanalitico classico, che intende la relazione terapeuta-paziente come una relazione che si organizza tra un soggetto/terapeuta ed un oggetto/paziente (modello unipersonale) in maniera dissociata, svincolata, con il terapeuta come campo chiuso al riparo da qualsiasi implicazione[6]. Il taglio costituito dalla nozione di enactment, al contrario, riferisce di una relazione tra due soggetti, che hanno certamente ruoli differenti ma anche implicazioni personali che influenzano la relazione medesima (modello bipersonale, relazionale). Una concezione che, però, non viene estesa a tutto l’incontro analitico bensì solamente ad un singolo frammento dello stesso. Paradossalmente, il concetto di enactment fatto proprio e formalizzato da un’istituzione psicoanalitica nella quale è ancora predominante il modello definito classico, mitico, e che, come ricordava Greenberg, è ancora dominante nel panorama analitico istituzionale internazionale, le permette di non modificare le proprie concezioni profonde, i propri assiomi di base, rimanendo identica a se stessa.

Adriano Voltolin in “Grand hotel: o dell’immaginario”, scrive che “la trasgressione, in quanto difformità dalla regola, non implica di per sé un pericolo per l’istituzione, ma sottolinea invece solamente la sua potenza” (1983). L’istituzione, istituzionalizzando l’infrazione, la assorbe e la sottomette eludendo il principio di non contraddizione: considerandola estranea a sé, si permette di tollerarla ma non di confrontarcisi, sino a poterla, piano piano, espellerla.
Una sorta di granuloma istituzionale, si potrebbe dire. Ricorda, infatti, un processo simile a quella reazione immunitaria dell’organismo che, in termini medici, viene chiamata granuloma: quando l’organismo soffre per lesioni dovute a infiammazioni croniche di natura infettiva o da corpi estranei, può accadere che le cellule producano una sorta di capsula per rivestire l’agente infettivo/estraneo e renderlo innocuo. Infine il granuloma può evolvere verso la necrosi, con il focolaio infiammatorio che si estingue. Se l’infiammazione è dovuta ad un corpo estraneo, può accadere che il granuloma si sposti sempre più verso la superficie cutanea fino a rilasciarlo all’esterno. Il corpo estraneo viene espulso e tutto torna come prima. Anzi, tutto è stato sempre come prima, visto che l’agente estraneo, ad eccezione della lesione iniziale che ha provocato l’infiammazione e di un breve periodo susseguente, nel quale si sono prese delle contromisure per tenerne monitorata la presenza affinché non producesse un aggravamento dell’infezione, non ha avuto più alcun contatto con il resto dell’organismo.
Accade come nelle personalità ossessive che, per difendersi rispetto ad un contenuto disturbante, utilizzano il meccanismo di difesa dell’isolamento: l’elemento estraneo, affettivo, disturbante, viene isolato, slegato dal resto della personalità, per meglio controllarlo non facendosene influenzare. Lo stesso sembra poter avvenire nelle istituzioni dove, al fine di monitorare i contenuti considerati estranei e pericolosi, vengono formalizzati e strettamente sottoposti a procedure burocratiche che, come suggeriva anche il Foucault di “Sorvegliare e punire”, ne permettono il controllo.

È il tema del controllo in ambito psicoanalitico su cui Bleger si focalizza nel lavoro che ha dato il là a queste riflessioni. Un tema che, con sfumature diverse, ha convogliato l’interesse, le riflessioni e le azioni anche di molti altri psicoanalisti. Questa preoccupazione per il controllo non solo è emersa con evidenza in diverse fasi della vita dell’istituzione psicoanalitica, ma sembra averla contraddistinta sin dagli albori. Come abbiamo visto, la psicoanalisi è sempre stata attraversata da una tensione che metteva di fronte un approccio naturalistico, per il quale la disciplina freudiana poteva e doveva addivenire allo stesso statuto delle scienze naturali, come se fosse una comune attività da laboratorio nella quale un soggetto può porsi in maniera neutra e imperturbabile rispetto al suo oggetto di studio, e un approccio fenomenologico, nel quale la separatezza tra il soggetto e l’oggetto viene messa in discussione ritenendo che l’unica possibilità di studio dell’oggetto sia la focalizzazione sul vincolo esistente tra i due termini, ovvero esaminando il fenomeno percepito. Penso che anche nella differenza tra queste due diverse concezioni si giochi la questione del controllo, che a ha che fare, altresì, con il tema del riconoscimento sociale e del potere: una questione estremamente scottante per il movimento psicoanalitico istituzionale.
Come si è riportato all’inizio di questo lavoro, Freud ha esplicitamente ritenuto di dover fondare l’istituzione psicoanalitica per poter distinguere un noi da un loro, al fine di poter controllare chi aderiva all’allora giovanissimo movimento psicoanalitico e chi, invece, spacciava per psicoanalisi una modalità di intervento che, par di capire leggendo le considerazioni freudiane, aveva poco a che fare con la cura della parola messa a punto dal neurologo viennese. E, a quanto si evince, credo che la preoccupazione di Freud fosse più volta a proteggere lo sviluppo della sua giovane creatura dalla possibilità di essere criticata socialmente, piuttosto che a proteggere gli eventuali pazienti da interventi terapeutici mal condotti. Comunque sia, com’è noto, già allora Freud dovette affrontare diverse difficoltà, ritrovandosi ad allontanare chi, anche tra i suoi più fidati collaboratori, non si mostrava d’accordo con le sue posizioni. È proprio rispetto alla fondazione dell’istituzione psicoanalitica che avvenne l’allontanamento di Adler. La fondazione dell’Associazione è mossa da una fondamentale preoccupazione di Freud, che scrive: “Sapevo fin troppo bene quali errori attendevano chiunque affrontasse i problemi dell’analisi e speravo che si sarebbe riusciti ad evitarne molti erigendo un’autorità disposta a istruire e vigilare”. Nel dichiarare formalmente gli scopi dell’Associazione Psicoanalitica si decide di tradurre tale motivazione di fondo con questi termini: “Coltivare e promuovere la scienza psicoanalitica fondata da Freud, sia come psicologia pura sia nella sua applicazione alla medicina e alle scienze morali; garantire ai membri dell’Associazione il sostegno reciproco in tutti gli sforzi intesi ad acquisire e diffondere le conoscenze psicoanalitiche”. L’intenzione di Freud venne letta in chiave critica da Adler che “espresse con appassionata animazione il timore che si mirasse ad una censura e restrizione della libertà scientifica” (1914): il risultato fu che Adler venne allontanato. Alla base dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale, dunque, c’è il desiderio di controllo, il cui soddisfacimento viene realizzato mediante la fondazione dell’istituzione psicoanalitica. Adler venne allontanato perché non era d’accordo con questa idea che interpretava come castrante, come limitante la libertà di ricerca scientifica: e forse non si sbagliava di molto visto che, successivamente, seguirono gli allontanamenti di altri nomi illustri come Stekel, Jung, Rank, Reich e Ferenczi.

Di fatto, il riconoscersi istituzionalmente ha permesso a Freud di separare il dentro dal fuori, l’interno dall’esterno, appropriandosi totalmente della disciplina psicoanalitica. Facendo coincidere l’istituzione fondata, l’IPA, con la psicoanalisi, si è ritenuto di poter decidere ciò che perteneva a quel campo di studi da ciò che non gli era proprio. L’istituzione è venuta così a coincidere con la totalità: dentro c’è il sapere assoluto, la verità (psicoanalitica), fuori l’errore, il travisamento (della psicoanalisi). In altre parole, sembra che l’aver assunto una forma istituzionale abbia permesso l’illusione di poter controllare totalmente l’oggetto di interesse, potendo autonomamente decidere che cosa far rientrare nel campo della psicoanalisi e cosa no. I pensieri e le opinioni non coincidenti con quelli dell’istituzione sono stati considerati ‘eretici’, non inerenti la verità già promulgata. Pur riconoscendo, senza alcun dubbio, l’atteggiamento scientifico che Freud ha mostrato lungo tutto il corso della sua attività professionale (perlomeno a livello di ricerca individuale), proponendo ipotesi esplicative e poi superandole per dar corso ad altre idee o ad altri modelli teorici sulla base della sua attività clinica, non si può non registrare che, in genere, quando ci si trova di fronte alle posizioni prima ricordate si parla di dogmatismo. Sappiamo che questo è un pericolo sempre presente in ambito istituzionale ed è un aspetto del quale è difficile liberarsi. L’IPA è un’istituzione che, nel corso del suo secolo di vita, è riuscita a conquistare un notevole riconoscimento sociale ed una solida credibilità professionale, nonostante i molti aspetti contradditori che hanno accompagnato la sua storia ed il suo proporsi all’esterno. Prima ho accennato a ciò che viene definito percorso psicoanalitico individuale da un punto di vista teorico e a quanto sembra venir svolto, in modo molto diverso, nella pratica. Un altro aspetto interessante è quello che riguarda il lavoro con i gruppi e con le istituzioni: fino a qualche decennio fa l’intervento su questi ambiti non poteva assolutamente essere considerato di natura psicoanalitica (nonostante eminenti psicoanalisti avessero già iniziato a lavorare con setting gruppali), non considerando psicoanaliticamente rilevanti le attività proposte su quei piani dai professionisti che le praticavano, mentre ora le pratiche di lavoro gruppali e istituzionali sembrano essere entrate nel regime della liceità, ovverosia le istituzioni psicoanalitiche paiono riconoscere la possibilità di svolgere lavori di carattere psicoanalitico anche in quegli ambiti.

Parrebbe che fondante l’istituzione psicoanalitica sia stata la preoccupazione per ciò che poteva legittimamente rientrare nell’alveo della psicoanalisi, con l’intento di rendere riconoscibile la disciplina a livello sociale da un punto di vista medico e scientifico: per raggiungere tale scopo si è ritenuto di erigere un’autorità che potesse controllare gli sviluppi della psicoanalisi. Lourau, sosteneva che un’istituzione per essere riconosciuta come equivalente alle altre istituzioni presenti all’interno di una comunità sociale, deve istituzionalizzarsi, stabilizzarsi. Solamente così è possibile un confronto. Da questo punto di vista, l’istituzione di un’associazione psicoanalitica potrebbe essere considerata un primo passo verso l’agognato riconoscimento sociale del carattere scientifico della disciplina. Un passo che, però, ha comportato anche risvolti meno positivi: inizialmente, le esclusioni eccellenti, e successivamente, una burocratizzazione dell’istituzione che parrebbe aver suscitato una sorta di paranoia generalizzata imperniata su un controllo interno che ha ostacolato le possibilità espressive e creative del movimento (cfr. Cremerius, 1995, e Kernberg, 1996).

L’idea di chi scrive è che la questione relativa al riconoscimento di scientificità non abbia ancora trovato una soluzione all’interno dell’associazione psicoanalitica e che sempre con quel dilemma stiano ancora facendo i conti le istituzioni di psicoanalisi odierne. Ancora oggi, continuando a sussistere il bisogno di essere riconosciute socialmente, la preoccupazione parrebbe legata al timore di perdere legittimità medica e scientifica[7], quella stessa legittimità cui aspirava Freud sin dall’inizio. Credo un segno ne sia il fatto che la domanda “la psicoanalisi è morta?” riemerga con costante frequenza dagli interstizi dell’umana società.
Di fatto, il pensare la relazione analitica come costituita da termini, analista/soggetto e paziente/oggetto, non nettamente disgiungibili, porta ad avere conseguenze non propriamente desiderabili per l’istituzione psicoanalitica, su due livelli: quello propriamente istituzionale e quello individuale dello psicoanalista che dell’istituzione è parte.
A livello individuale tale concezione comporta una ferita narcisistica per l’analista: accettando l’idea che nella relazione analitica vengano messi in gioco aspetti inconsci dell’analista (sembra tautologico affermarlo ma: anche e soprattutto quando egli stesso non se ne rende conto), dunque non immediatamente gestibili, si crea una situazione che chiede all’analista di fare un passo indietro, di scendere dal piedistallo di colui che tutto sa e che tutto vede, di colui che si riconosce un potere, e pensarsi come non totalmente in controllo della situazione analitica. Credo non sia una considerazione irrilevante poiché, al di là dell’eventuale ferita narcisistica, mette in discussione l’idea dell’analista come scienziato/osservatore che può raccogliere dati in modo oggettivo, ossia misurare in maniera neutra il proprio oggetto di studio e rendere pienamente conto della situazione analitica.
A livello istituzionale, questo presupposto rende più ostico il confronto con le cosiddette ‘scienze dure’ o esatte, imperniate sulla possibilità di fornire dati il più possibile oggettivi, quantificabili e ripetibili. E questa difficoltà mette in pericolo il riconoscimento sociale fino ad ora acquisito dalla psicoanalisi. Una ricerca di scientificità, forse, mossa anche dal dover confrontarsi con la psicologia cognitiva e comportamentale che, facendo proprio della rigida distinzione tra soggetto ed oggetto il suo tratto fondamentale, parrebbe permetterle di connotarsi come disciplina scientifica e di proporsi come disciplina credibile, cioè funzionale e spendibile, agli occhi del mondo medico-sanitario contemporaneo. In realtà, da questo punto di vista, al di là del confronto con la psicologia cognitiva e comportamentale così in auge in questi tempi, la ricerca della scientificità attraverso la netta distinzione tra soggetto ed oggetto sembrerebbe attualmente un paradosso poiché, occorre sottolinearlo, la scienza contemporanea, soprattutto nel campo della meccanica quantistica, teoria a base probabilistica, sta fortemente mettendo in discussione l’idea di poter considerare il ricercatore/osservatore di un evento come neutrale rispetto al proprio oggetto di studio, ovverosia l’idea di poter addivenire ad una conoscenza pura, oggettiva e totalmente verificabile. L’esattezza della fisica quantistica si fonda sulla ripetibilità del fatto studiato e definito, e sul riuscire a prevedere il proprio errore piuttosto che sulla convinzione di produrre dati certi.
In definitiva, parrebbe che la psicoanalisi, forse fuori tempo, sia ancora alle prese con la difficoltà di darsi uno statuto scientifico che vorrebbe essere della stessa natura di quelli delle scienze considerate esatte, una natura quantitativa, invece che qualitativa come sarebbe più agevole riconoscere alla materia psicoanalitica. Timore dell’istituzione psicoanalitica sembra sia che il non riuscire a definire chiaramente, rendendoli oggettivamente evidenti, i presupposti sui quali si fonda il metodo psicoanalitico, possa mettere la psicoanalisi a rischio di essere considerata una disciplina irragionevole, priva di fondamenta certe, ed essere così sospinta nell’alveo delle attività fideistiche, magiche o aleatorie.

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Note:

[1] Scrivo di ‘situazioni individuali’ per semplicità, per non rischiare di complicare il discorso sul metodo: oggi, ma non da oggi, le applicazioni della psicoanalisi coprono ambiti molto variegati e si estendono ai gruppi, alle istituzioni e alle comunità sociali.

[2]Qui è possibile reperire gli articoli cui ci si riferisce, apparsi nel 2011 sul “Corriere della sera”: http://www.corriere.it/cultura/11_febbraio_14/messina-giu-lettino_9c54f2e4-3818-11e0-9d0e-ca1b56f3890e.shtml?refresh_ce-cp
e nel 2013 su “La Stampa”, cui ci si riferisce:
http://www.spiweb.it/rassegna-stampa/538-italiana-ed-estera/rassegna-stampa-italiana-2013/3034-portero-da-noi-la-psicanalisi-low-cost-e-le-sedute-via-skype-la-stampa-3-marzo-2013

[3] Le contraddizioni, interne alle stesse istituzioni psicoanalitiche aderenti all’IPA, suscitate dal cercare di definire che cosa possa essere inteso per ‘psicoanalisi’ e quali criteri la caratterizzano sono tante: lo scritto di Cremerius, “Il futuro della psicoanalisi”, approfondito e molto articolato, in cui si esprime una critica serrata e su più piani alla psicoanalisi istituzionale, ne propone una panoramica molto interessante.

[4] L’idea del controcongresso, evento che sembra venire lasciato cadere nel dimenticatoio, partì dal gruppo degli italiani e da quello di Zurigo: a questi si unirono via via gli altri.

[5] Oggi, in Italia, sono riconosciute dal MIUR diverse scuole di psicoanalisi lacaniana: istituzioni che possono riconoscere il titolo di ‘psicoanalista’ ai propri allievi. La questione è particolarmente interessante poiché le istituzioni di psicoanalisi lacaniana, rispondendo ad una diversa concezione nel considerare la relazione analizzando-analizzante, propongono, a quanto mi è dato sapere, una modalità di pensare e strutturare i percorsi con i pazienti molto diversa da quella che si esprime nel setting classico proposto dalle associazioni di psicoanalisi aderenti all’IPA.

[6] È la concezione naturalistica cui fa cenno Bleger nel suo articolo.

[7] È chiaro che la questione della legittimità scientifica dell’istituzione psicoanalitica (come, per altri versi, facevano notare gli aderenti al gruppo Plattform, ma anche come sottolinea Cremerius nell’articolo citato) va oltre, avendo implicazioni a livello personale, ovvero comportando dei risvolti utilitaristici e convenienti per i membri dell’istituzione: il far parte dell’istituzione psicoanalitica permette l’acquisizione di uno status professionale riconosciuto socialmente e, man mano che si scalano le gerarchie, come in tutte le istituzioni, si ha la possibilità di confrontarsi con la gestione del potere che viene riconosciuto all’interno di un’istituzione organizzata in maniera estremamente burocratica. Con i vantaggi sociali ed economici conseguenti. A questo proposito, Cremerius nota che, almeno nella Germania di fine anni ‘60, gli analisti didatti e chi occupava posizioni preminenti all’interno dell’istituzione psicoanalitica tedesca vivevano una condizione di vantaggio economico rispetto agli altri. Non so come stiano le cose attualmente ma una delle critiche che maggiormente vengono rivolte alle istituzioni psicoanalitiche aderenti all’IPA è che, prevedendo un sistema formativo chiuso, ossia il candidato analista potendo svolgere la propria analisi didattica solamente con analisti didatti, dunque appartenenti all’istituzione (da questo punto di vista non considerando le implicazioni cui soggiacciono il candidato e lo stesso analista didatta), si realizza un sistema che crea e assicura direttamente opportunità di lavoro per questi ultimi. Freud faceva ‘indirettamente’ presente già questa dinamica nel 1937, in “Analisi terminabile e interminabile”, dove scrive: “Una volta avevo a che fare con un numero piuttosto considerevole di pazienti, i quali, com’è comprensibile, puntavano a cavarsela rapidamente; negli ultimi anni le analisi didattiche presero il sopravvento e rimase in cura da me un numero relativamente esiguo di soggetti gravemente ammalati, il cui trattamento, se pure intervallato da pause più o meno lunghe, si protrasse nel tempo”.

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“La Memoria come riserva di vitalità: Ricordando Rimini, dalla distruzione alla rinascita”. Giovanni Benaglia invitato a una serata del Rotary.

Lo scorso 28 aprile 2016, nella cornice dell’Hotel Ambasciatori di Rimini, il socio dello studio Benaglia Giovanni ha tenuto una breve dissertazione sul valore della Memoria rapportata alle vicende belliche che hanno riguardato la città di Rimini.
“Devo ringraziare l’opportunità che mi ha dato il Rotary di Rimini e il suo Presidente, il dott. Venturelli. Un ringraziamento particolare, però, lo voglio mandare a un amico che si è adoperato affinchè tutto succedesse: l’arch. Mauro Ioli al quale è venuto in mente che io fossi la persona adatta a presentare una piccola ricerca nata senza nessuna pretesa scientifica”.
La serata ha avuto come tema centrale la Memoria e la descrizione della devastazione bellica nella città di Rimini e fa seguito alla piccola pubblicazione inviata lo scorso Natale dal Dott. Benaglia a tutti i suoi clienti. “Durante la serata ho cercato di affrontare il tema della Memoria non solo come monito confinato alla funzione didattica di non ripetere più gli errori commessi” ma ho cercato di dargli anche il significato di utile esercizio di speranza per il futuro. Di fronte a questi nostri tempi difficili, di crisi economica, dove tutto appare più difficile dobbiamo sempre ricordare che siamo parte di un grande Paese che ha conosciuto, in anni non poi così distanti, una distruzione fisica, morale e umana ben peggiore. Così come ce l’abbiamo fatta settant’anni fa, dove la morte e il dolore accompagnavano la vita quotidiana, dove il mondo sembrava dovesse finire sotto l’odio degli uomini, ecco, allora, sono sicuro che ce la faremo anche oggi”.

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“La Memoria come riserva di vitalità: Ricordando Rimini, dalla distruzione alla rinascita”. Giovanni Benaglia invitato a una serata del Rotary.

Lo scorso 28 aprile 2016, nella cornice dell’Hotel Ambasciatori di Rimini, il socio dello studio Benaglia Giovanni ha tenuto una breve dissertazione sul valore della Memoria rapportata alle vicende belliche che hanno riguardato la città di Rimini.
“Devo ringraziare l’opportunità che mi ha dato il Rotary di Rimini e il suo Presidente, il dott. Venturelli. Un ringraziamento particolare, però, lo voglio mandare a un amico che si è adoperato affinchè tutto succedesse: l’arch. Mauro Ioli al quale è venuto in mente che io fossi la persona adatta a presentare una piccola ricerca nata senza nessuna pretesa scientifica”.
La serata ha avuto come tema centrale la Memoria e la descrizione della devastazione bellica nella città di Rimini e fa seguito alla piccola pubblicazione inviata lo scorso Natale dal Dott. Benaglia a tutti i suoi clienti. “Durante la serata ho cercato di affrontare il tema della Memoria non solo come monito confinato alla funzione didattica di non ripetere più gli errori commessi” ma ho cercato di dargli anche il significato di utile esercizio di speranza per il futuro. Di fronte a questi nostri tempi difficili, di crisi economica, dove tutto appare più difficile dobbiamo sempre ricordare che siamo parte di un grande Paese che ha conosciuto, in anni non poi così distanti, una distruzione fisica, morale e umana ben peggiore. Così come ce l’abbiamo fatta settant’anni fa, dove la morte e il dolore accompagnavano la vita quotidiana, dove il mondo sembrava dovesse finire sotto l’odio degli uomini, ecco, allora, sono sicuro che ce la faremo anche oggi”.

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Calunnia: non c'è reato se la falsità non riguarda la sussistenza del fatto

Se la falsità non riguarda la sussistenza del fatto, non c'è reato di calunnia: lo ha stabilito il Giudice Monocratico di Rimini, il Dott. Massimo Di Patria, il quale ha pronunciato sentenza di piena assoluzione nei confronti di un riminese accusato, all’epoca ventottenne, di calunnia e difeso dall'avvocato Davide Grassi del Foro di Rimini.

Secondo la tesi della Procura di Rimini, che ne aveva richiesto e ottenuto il rinvio a giudizio, il giovane aveva presentato una querela nei confronti di una signora accusandola falsamente di avergli cagionato, a seguito di un sinistro stradale, “lesioni personali durate oltre quaranta giorni, pur sapendola innocente” in quanto, come riferito dal capo d'imputazione, “l'evento, contrariamente a quanto riportato in denuncia, era di lieve entità ed incompatibile con la prognosi dichiarata (ndr. 81 giorni)”.

L'articolo 368 del Codice Penale, nel disciplinare la fattispecie della calunnia, stabilisce infatti che chiunque, con denuncia o querela, anche se anonima o sotto falso nome, incolpi qualcuno di un reato pur sapendolo innocente, è punito con la reclusione da due a sei anni.

Secondo quanto riferito dalla signora, costituitasi parte civile nel relativo processo penale, il giovane riminese aveva di fatto “ingigantito” il danno subito - un trauma al rachide cervicale provocatogli a seguito di un tamponamento mentre si trovava alla guida del proprio scooter - prolungando la malattia dai venti giorni iniziali sino ai complessivi ottanta.

Il ragazzo, infatti, aveva querelato la donna per il reato di lesioni personali colpose al fine di ottenere un risarcimento del danno subito in conseguenza di quel tamponamento, allegando i relativi certificati medici attestanti la prognosi di venti giorni e provvedendo, in seguito, anche al deposito presso il giudice di pace penale di Rimini di ulteriore documentazione medica attestante il prolungamento della malattia.

Nonostante il processo per lesioni si fosse concluso con la remissione della querela in seguito al versamento, da parte della compagnia assicurativa, di una cifra a titolo di risarcimento danni, la donna decideva comunque di denunciare il ventottenne per il reato di calunnia, dopo aver scoperto che questi, nonostante la prognosi, aveva comunque disputato una partita di calcio, oltretutto segnando un gol proprio grazie ad una magistrale “incornata”.

La donna aveva appreso la notizia direttamente dai commenti pubblicati sul forum della squadra di calcio in cui il giovane militava: “Sono un po' incriccato ma tutto sommato me la sono cavata bene”.

Dunque, tratto a giudizio per rispondere del reato di calunnia, il ventottenne è stato assolto con formula piena dal giudice dopo una lunga istruttoria celebrata attraverso l'esame di diversi testimoni, tra cui i medici che lo avevano visitato e che ne avevano certificato le lesioni.

Si riporta per intero il passaggio della sentenza con il quale il giudice riminese ha scagionato l'imputato: “Dunque gli eventuali profili di falsità, emergenti, secondo la prospettazione accusatoria, non dalla denuncia, ma dalla produzione documentale, non afferiscono alla sussistenza del fatto ed alla sua qualificazione giuridica, ma eventualmente all'individuazione dell'aspetto circostanziale dell'illecito (lesioni colpose aggravate dalla durata della malattia): pertanto, non è configurabile il reato di calunnia”.

Secondo le argomentazioni del giudice, quindi, non ricorre la calunnia quando la falsità della denuncia non incide sul giudizio circa la fondatezza del fatto e sulla relativa qualificazione giuridica, anche se da essa possa derivare l'indebita contestazione di circostanze aggravanti, orientamento avvallato anche dalla stessa Corte di Cassazione.

La pronuncia assolutoria, dunque, trova il suo fondamento nella totale assenza nel giovane - il quale aveva allegato alla querela un certificato medico di soli 20 giorni di prognosi - della volontà di richiedere la condanna della donna per lesioni colpose gravi - 81 giorni di prognosi erano quelli indicati nel capo di imputazione - circostanza assai rilevante per la difesa in quanto la querela costituisce, nel caso in esame, il c.d. “corpo di reato” e pertanto, affinché possa dirsi integrato il reato di calunnia, è necessario che i profili di falsità emergano direttamente da questo.

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Calunnia: non c'è reato se la falsità non riguarda la sussistenza del fatto

Se la falsità non riguarda la sussistenza del fatto, non c'è reato di calunnia: lo ha stabilito il Giudice Monocratico di Rimini, il Dott. Massimo Di Patria, il quale ha pronunciato sentenza di piena assoluzione nei confronti di un riminese accusato, all’epoca ventottenne, di calunnia e difeso dall'avvocato Davide Grassi del Foro di Rimini.

Secondo la tesi della Procura di Rimini, che ne aveva richiesto e ottenuto il rinvio a giudizio, il giovane aveva presentato una querela nei confronti di una signora accusandola falsamente di avergli cagionato, a seguito di un sinistro stradale, “lesioni personali durate oltre quaranta giorni, pur sapendola innocente” in quanto, come riferito dal capo d'imputazione, “l'evento, contrariamente a quanto riportato in denuncia, era di lieve entità ed incompatibile con la prognosi dichiarata (ndr. 81 giorni)”.

L'articolo 368 del Codice Penale, nel disciplinare la fattispecie della calunnia, stabilisce infatti che chiunque, con denuncia o querela, anche se anonima o sotto falso nome, incolpi qualcuno di un reato pur sapendolo innocente, è punito con la reclusione da due a sei anni.

Secondo quanto riferito dalla signora, costituitasi parte civile nel relativo processo penale, il giovane riminese aveva di fatto “ingigantito” il danno subito - un trauma al rachide cervicale provocatogli a seguito di un tamponamento mentre si trovava alla guida del proprio scooter - prolungando la malattia dai venti giorni iniziali sino ai complessivi ottanta.

Il ragazzo, infatti, aveva querelato la donna per il reato di lesioni personali colpose al fine di ottenere un risarcimento del danno subito in conseguenza di quel tamponamento, allegando i relativi certificati medici attestanti la prognosi di venti giorni e provvedendo, in seguito, anche al deposito presso il giudice di pace penale di Rimini di ulteriore documentazione medica attestante il prolungamento della malattia.

Nonostante il processo per lesioni si fosse concluso con la remissione della querela in seguito al versamento, da parte della compagnia assicurativa, di una cifra a titolo di risarcimento danni, la donna decideva comunque di denunciare il ventottenne per il reato di calunnia, dopo aver scoperto che questi, nonostante la prognosi, aveva comunque disputato una partita di calcio, oltretutto segnando un gol proprio grazie ad una magistrale “incornata”.

La donna aveva appreso la notizia direttamente dai commenti pubblicati sul forum della squadra di calcio in cui il giovane militava: “Sono un po' incriccato ma tutto sommato me la sono cavata bene”.

Dunque, tratto a giudizio per rispondere del reato di calunnia, il ventottenne è stato assolto con formula piena dal giudice dopo una lunga istruttoria celebrata attraverso l'esame di diversi testimoni, tra cui i medici che lo avevano visitato e che ne avevano certificato le lesioni.

Si riporta per intero il passaggio della sentenza con il quale il giudice riminese ha scagionato l'imputato: “Dunque gli eventuali profili di falsità, emergenti, secondo la prospettazione accusatoria, non dalla denuncia, ma dalla produzione documentale, non afferiscono alla sussistenza del fatto ed alla sua qualificazione giuridica, ma eventualmente all'individuazione dell'aspetto circostanziale dell'illecito (lesioni colpose aggravate dalla durata della malattia): pertanto, non è configurabile il reato di calunnia”.

Secondo le argomentazioni del giudice, quindi, non ricorre la calunnia quando la falsità della denuncia non incide sul giudizio circa la fondatezza del fatto e sulla relativa qualificazione giuridica, anche se da essa possa derivare l'indebita contestazione di circostanze aggravanti, orientamento avvallato anche dalla stessa Corte di Cassazione.

La pronuncia assolutoria, dunque, trova il suo fondamento nella totale assenza nel giovane - il quale aveva allegato alla querela un certificato medico di soli 20 giorni di prognosi - della volontà di richiedere la condanna della donna per lesioni colpose gravi - 81 giorni di prognosi erano quelli indicati nel capo di imputazione - circostanza assai rilevante per la difesa in quanto la querela costituisce, nel caso in esame, il c.d. “corpo di reato” e pertanto, affinché possa dirsi integrato il reato di calunnia, è necessario che i profili di falsità emergano direttamente da questo.

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SOTERIA: TRA ESODO E APPARTENENZA Dalla Comunità…verso una “clinica della comunità”

Scuola di prevenzione José Bleger Rimini - Lun, 11/04/2016 - 22:30

di Gilberto Maiolatesi (Responsabile Comunità “Soteria”)
e Marzia Pennisi (Coordinatrice Comunità “Soteria”)

PREMESSA

 “Ricordo di aver pensato che gli schizofrenici sono i poeti strangolati della nostra epoca. Forse per noi, che dovremmo essere i loro risanatori, è giunto il momento di togliere le mani dalle loro gole.”

Con questa frase di David Cooper abbiamo a che fare ogni giorno, quando iniziamo il nostro lavoro di terapeuti e di operatori psichiatrici, queste righe sono all’entrata della nostra comunità  quotidianamente ci dobbiamo fare i conti.

Ma la nostra riflessione parte da lontano e il modo di intervenire oggi e la storia e i perché del progetto della “Comunità Soteria”, forse hanno a che fare con la storia del movimento antipsichiatrico e antiistituzionale in Italia, a cominciare dalla Riforma psichiatrica e dalla cosiddetta “rivoluzione basagliana”.

Il 13 marzo del 1978, nasceva in Italia la L. 180 che di fatto concludeva, con un atto legislativo, l’esperienza della custodia manicomiale, imponendo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici (OP).

Possiamo tranquillamente sostenere che in Italia, gran parte degli interventi psichiatrici si sviluppano all’interno delle cosiddette strutture intermedie.

Dopo quasi 30 anni dall’attuazione della Legge 180, che poneva fine alla pratica e all’utilizzo dei manicomi, si sono sviluppate sempre di più servizi, dove il “folle”, viene inserito per iniziare percorsi di risocializzazione e programmi riabilitativi psico-sociali.

In realtà tutto questo, si traduce troppo spesso in delega pressochè totale dei familiari e della società alle strutture istituzionali.

Il rischio di creare nuovamente piccoli e moderni manicomi è evidente e non basta avere piscine, campi da tennis, saune…per non essere una istituzione chiusa e totale. Non è sufficiente fare psicoterapia, attività riabilitative e laboratori occupazionali, per costruire identità fortemente alternative e antagoniste al manicomio.

Ogni istituzione totale toglie dignità, reprime, estorce diritti, nega democrazia, contribuisce alla formazione di sintomi, produce malattia. Nel manicomio (istituzione totale per eccellenza insieme al carcere) non esiste né passato né futuro, esiste solo il presente, sempre lo stesso, giorno dopo giorno, immobile presente senza tempo, dove non c’è “vita” e cambiamento, bensì “morte” e staticità. Il manicomio, insomma, non si pone  il problema della trasformazione.

 

COMUNITA’ COME LABORATORIO DELLA TRASFORMAZIONE

Il nostro orizzonte  ideale, che ha determinato e determina l’intervento terapeutico quotidiano, si colloca in piena continuità con  quello storico movimento che negli anni ‘60-’70 ha criticato, combattuto e vinto le logiche custodialistiche e le istituzioni manicomiali.

La Legge 180, è stato lo strumento legislativo che ha permesso, nel lontano 1978, il progressivo smantellamento degli ospedali psichiatrici e l’inizio di una nuova epoca per la sofferenza psichica.

Si stava abbattendo una delle più vergognose e violente opere del genere umano: i manicomi, che andavano chiusi, e in alternativa aperti luoghi di “cura” e di socialità, dove l’intervento terapeutico si coniugava, e si coniuga, con la battaglia per i diritti di cittadinanza, contro lo stigma sociale e il pregiudizio.

Dentro questa cornice si esprime il nostro lavoro.

Ore, settimane, mesi, vissuti insieme ai nostri utenti, sempre più convinti che l’utilizzo e l’affinamento delle più moderne tecniche riabilitative non sarebbero mai sufficienti a restituire “abilità sociali”, voglia di vivere, autonomia, dignità a uomini e donne che hanno trascorso troppo tempo “prigionieri”  all’interno del loro mondo, isolati dagli altri mondi possibili.

In questi anni abbiamo capito che essere dei “bravi tecnici  specialisti” non può bastare.

E’ NECESSARIO “ESSERCI”. Perché “…l’affetto è prassi di essere presente, cioè pratica costante dello stare insieme come ci ricorda Massimo Marà nel suo libro “Comunità per psicotici”.

All’interno del nostro programma di attività settimanale abbiamo in effetti diversi gruppi (funzione dell’abitare, di convivenza, di ascolto e organizzativi, espressivi, terapeutici, multifamiliari…).

L’importante però, è fare le cose insieme e trovare dei momenti per discutere e ascoltare, anche con i pazienti più gravi e regrediti.

Indubbiamente un elemento  fondamentale del nostro agire è il rapporto con il sociale, con la città: l’intervento socio-riabilitativo dentro la nostra realtà territoriale.

Purtroppo nulla di tutto questo è scontato, anzi molta strada abbiamo ancora di fronte a noi per una oggettiva cittadinanza del disagio mentale e per un reale rispetto della diversità.

La lotta allo stigma e al pregiudizio, la battaglia per i diritti, l’integrazione, si raggiungono con la visibilità, con la rivendicazione della propria diversità, della propria storia, della propria intima sofferenza.

Detto questo, dovremmo “vivere” e utilizzare la comunità come luogo dove si sperimenta la trasformazione, ma anche come luogo e strumento della trasformazione.

In entrambi i casi per TRASFORMAZIONE dobbiamo sempre intendere modificazione delle relazioni interpersonali, della comunicazione patologica, metamorfosi dei propri stati interiori intrapsichici; ma anche TRASFORMAZIONE come processo di liberazione, come superamento e stravolgimento dei rapporti sociali alienati i quali producono inevitabilmente  malattia e sofferenza.

TRASFORMAZIONE quindi come riappropiazione del potere decisionale da parte di chi, mistificato e sottomesso, per una intera vita ha dovuto chiedere sempre il permesso a qualcuno, anche per comprare un semplice pacchetto di sigarette.

 

COMUNITA’ COME SETTING E SPAZIO PROGETTUALE

Soteria è un servizio gestito dalla Cooperativa Sociale Cooss Marche. in convenzione con il Dipartimento di Salute Mentale di Jesi. Il 3 maggio 1999 nasce come  struttura socio-riabilitativa di tipo residenziale che accoglie 12 pazienti di diverse patologie psichiatriche con evidenti difficoltà nella sfera relazionale e un basso livello d’autonomia, con una significativa potenzialità evolutiva e capacità di recupero a livello relazionale e sociale. In effetti, gli obiettivi principali dell’attività riabilitativa sono la riappropriazione della propria soggettività da parte del paziente  e  il miglioramento generalizzato della qualità della vita, accanto al raggiungimento del massimo livello d’autonomia possibile, limitando contemporaneamente il rischio di “crisi involutive”.

La Comunità intera può essere vista come un unico setting, nel quale viene praticato un intervento multifattoriale ( farmacologico, assistenziale, riabilitativo, di sostegno psicologico, psicoterapico) prevedendo una serie di attività, a livello individuale e gruppale, strutturate a loro volta come sottosetting. Gran parte della vita della Comunità è pensata e organizzata in sottosetting con precisi confini spazio-temporali-metodologici (tempo, spazio, ruoli e compito)  ciò per tre importanti ragioni: 1)contenere l’ansia, l’angoscia e l’aggressività dei pazienti (e degli operatori); 2)osservare i complessi fenomeni psichici e relazionali che si verificano all’interno della vita  comunitaria; 3)costruire una “realtà condivisa”.

Ma poichè la costruzione e conservazione di setting si basa sulla adesione e sul rispetto delle regole concordate, è necessario prevedere alcuni momenti di confronto con i pazienti (e altri solo tra operatori) per discutere, condividere, ribadire, ridefinire, eventualmente modificare, regole, programmi, organizzazione e metodi di lavoro.

 

Strategie terapeutico-riabilitative

L’istaurarsi di rapporti “affettivi” significativi tra pazienti e tra paziente e operatore rappresentano il primo vero elemento terapeutico. Il “fare insieme” permette di sperimentare comportamenti più adeguati e nel frattempo il riemergere di fattori motivazionali assopiti, interrompendo la spirale dei fallimenti. Il lavoro del gruppo-comunità tende quindi a:

  • rafforzare l’autonomia e l’autodeterminazione soggettiva,
  • far riemergere le capacità motivazionali e espressive,
  • riscoprire la socialità e lo star bene con gli altri,
  • rafforzare l’autostima e la capacità di subire frustrazioni,
  • gestione della propria impulsività ed emotività,
  • favorire l’autogestione dei propri spazi vitali,
  • supportare quando ci sono le condizioni, un avvicinamento al mondo del lavoro.

 

Il lavoro terapeutico-riabilitativo può essere suddiviso in due macro aree: una più strettamente psicologica e l’altra di tipo sociale.

Attività psicologica:

  • colloqui individuali (sempre più limitati),
  • incontri di gruppo (gruppo terapeutico settimanale, gruppo di convivenza giornaliero, Assemblea di Comunità settimanale, gruppo multifamiliare mensile ),
  • incontri periodici con il paziente e i propri familiari,

Attività di tipo sociale

  • cura di se e dei propri spazi,
  • web radio,
  • giardinaggio e verde,
  • inseriementi lavorativi e sociali,
  • inserimenti in gruppi sportivi,
  • attività ricreative,
  • attività espressive e artistiche

 

L’ETICA DEL CAMBIAMENTO E DISPOSITIVO MULTIFAMILIARE: DALLA LEGGE DELLA FAMIGLIA ALLA LEGGE DELLA CITTA’

L’esperienza del Gruppo Terapeutico Multifamiliare (GMF) nasce all’interno della Comunità Socio Riabilitativa “Soteria” di Jesi nel settembre del 2000, esattamente dopo un anno dal’apertura della Comunità, grazie agli stimoli provenienti dalla supervisione clinica condotta dal Prof. Alfredo Canevaro sin dall’apertura del servizio.

Di seguito, in modo sintetico e schematico, gli aspetti fondamentali per una riflessione collettiva.

 

  1. Il setting

Gli incontri si tengono all’interno della Comunità a frequenza mensile (il terzo lunedì del mese) con una durata di 90 minuti, preceduti da un momento conviviale di circa 20 minuti. Alla fine di ogni gruppo l’equipe di lavoro si incontra per circa 45 minuti per rielaborare i vissuti e la molteplicità dei transfert, controtransfert e identificazioni proiettive sviluppatisi all’interno della seduta gruppale appena conclusa.

Il gruppo per il primo anno e mezzo è stato condotto (senza un co-conduttore) dal Dott. Gilberto Maiolatesi, Direttore Responsabile della Comunità con una supervisione mensile all’equipe del Prof. Canevaro, utilizzando anche le registrazioni degli incontri ai quali partecipavano gli ospiti della Struttura con le loro famiglie e gran parte del gruppo degli operatori (non solo quelli in turno).

Uno dei limiti evidenziati in quella fase era legato alla modalità di comunicazione “a stella”, cioè diretta solo dagli integranti del gruppo verso il conduttore; limite di partenza di tutti gli incontri, probabilmente amplificato dall’ambivalenza del ruolo coordinatore del gruppo/ Direttore della Comunità.

Nel 2002 si decide, all’interno della supervisione, di modificare il setting terapeutico con l’ingresso del Prof Canevaro come conduttore del gruppo e il Dott. Maiolatesi come co-terapeuta.

Questa seconda fase ha posto una rottura con il passato e ha portato ad un cambiamento molto positivo grazie all’esperienza del Prof Canevaro, ma anche perché la coterapia è fondamentale per una buona riuscita di un gruppo come il multifamiliare e, inoltre, in quel momento era fondamentale  avere più chiarezza nel ruolo del coordinatore gruppale.

Dal 2005 ad oggi il gruppo è condotto in co-terapia dal Dott. Maiolatesi e dalla Dott.ssa Marzia Pennisi.

Tutti gli operatori presenti possono intervenire all’interno del gruppo per evitare una comunicazione “radiale”, non circolare e quindi bloccata. In alcune occasioni utilizziamo delle tecniche esperenziali e di drammatizzazione attraverso la comunicazione non verbale e gli aspetti emozionali per facilitare l’incontro affettivo tra gli integranti. L’utilizzo di “io ausiliari” o tecniche tipo quella dello “zaino” (specie se si affrontano i temi legati allo svincolo dalla famiglia d’origine)  sono molto utili perché  a volte la comunicazione e l’interpretazione verbale non sono sufficienti al cambiamento.

Oltre alla coppia (sempre complementare) di coterapeuti, il dispositivo prevede un operatore con il ruolo di osservatore partecipante la cui funzione è quella di raccogliere gli emergenti gruppali.


  1. Origini: la definizione della situazione ambientale

 Il  contesto interno

Il GMF nasce  per uscire da una crisi interna al gruppo  di lavoro e per correggere quindi una comunicazione disfunzionale dell’equipe “giovane”, formata da operatori con poca esperienza in psichiatria che si trovavano ad intervenire e  supportare un utenza molto grave. Questo produceva tensioni interne, manifeste e latenti e una comunicazione entropica, confusiva e ansiogena.  Nello stesso tempo c’era il bisogno di definirsi, di trovare un percorso costituente identitario, tenendo in considerazione una naturale “vocazione antipsichiatrica” della Comunità. Gli operatori si sentivano  troppo isolati e “chiusi” oltre il cancello della Comunità, lontani dal tessuto urbano jesino. Questo portò al bisogno di uscire e di scendere dal colle in cui è situata la Struttura ed entrare all’interno della Città (nelle piazze, negli spazi di aggregazione, nelle scuole…) con progetti di promozione della salute mentale. Nasce così, insieme al gruppo multifamiliare, la Rassegna “Malati di Niente”. Possiamo dire oggi, in maniera (anche) provocatoria, che c’è stato un passaggio dalla “legge della famiglia” alla “legge della città”.

Le difficoltà riguardo alla comunicazione erano anche rispetto al rapporto operatori-famiglie in quanto quest’ultime all’inizio facevano molta difficoltà ad incontrarsi tutti insieme e discutere delle proprie problematiche, mentre nel tempo è diventato quasi naturale. E per dirla con le parole di una madre del gruppo: “…mi rendo conto che oramai non vengo per mio figlio, vengo per me, per curare la mia solitudine…mi fa bene incontrarvi…”

       Il  contesto esterno

La nostra città è situata in un territorio che ha visto uno sviluppo industriale e manifatturiero importante dagli anni ‘50 – ’60, che ha modificato strutturalmente l’economia  da agricola ad industriale (tanto da definire Jesi la piccola Milano delle Marche). Storicamente la nostra è stata una città con forti connotazioni democratiche e antifasciste, provenienti direttamente dalla guerra di liberazione, determinando un “humus culturale” proficuo a strutturare senso di comunità e forti legami sociali. Rispetto allo stigma e al pregiudizio nei confronti del disagio mentale, Jesi presentava due facce della stessa medaglia; una città dove  il pregiudizio verso il “matto” era abbastanza forte anche a causa di un fatto grave avvenuto nel 1979 ad un anno dalla legge Basaglia:  l’uccisione di un carabiniere da parte di un paziente seguito dai servizi. Dall’altra una città  indignata per un fatto accaduto nel 1999 nei confronti di un paziente, aggredito e malmenato per noia da alcuni giovani della “jesi-bene” nella sua abitazione.

Sempre in quel momento storico il Dipartimento di Salute Mentale era in fermento e in fase di cambiamenti istituzionali. Infatti nel 1995 iniziano i primi gruppi riabilitativi e di incontro con i familiari e pazienti e nel 1998 nascevano le prime strutture intermedie della riabilitazione psicosociale.

 

  1. Il cambiamento e la rottura di un paradigma

Nella nostra esperienza clinica abbiamo potuto constatare che il dispositivo multifamiliare non ha rappresentato soltanto una tecnica o uno strumento in più, magari più appropriato,  ma un vero e proprio cambiamento epistemologico, una cesura storica con il paradigma medico psichiatrico novecentesco, non solo nella relazione terapeuta-paziente.

In tutti questi anni abbiamo potuto osservare dei notevoli processi di apprendimento e cambiamento rispetto a vari aspetti. Ad esempio per quanto riguarda la comunicazione disfunzionale ed entropica sia della famiglia che dell’equipe di lavoro. Le famiglie e gli operatori sono molto più capaci di comunicare in maniera orizzontale senza doversi sempre e solo riferire al Responsabile della Comunità come leadership unica.

Rispetto alla  necessità di creare una rete sociale e di interagire IN e CON essa, negli anni abbiamo imparato a pensare alla cura come un intervento reticolare multidisciplinare e, quindi, a riferirci costantemente con istituzioni, enti pubblici, associazioni di volontariato, cooperative sociali.

Per quanto riguarda l’esigenza di modificare i dispositivi organizzativi interni del servizio e le metodologie di lavoro, siamo riusciti a strutturare anche dei gruppi comunitari come l’assemblea di comunità settimanale dove si discute in maniera democratica dei problemi anche pratici del vivere in comune. Questo diventa un luogo di recupero della soggettività nell’esercizio di una comunicazione non gerarchica ma orizzontale.

Altro elemento da sottolineare, ad esempio, è quello della discussione e condivisione di alcuni progetti terapeutici riabilitativi (per esempio anche le dimissioni di un paziente) all’interno dell’incontro multifamiliare. Quindi la discussione gruppale si dimostra vera, propositiva e decisionale.

Inoltre abbiamo notato dei notevoli cambiamenti rispetto ad una maggior consapevolezza nel correggere onnipotenza e narcisismo del paziente e  dell’operatore specularmente intrappolati nel delirio e nella sua interpretazione (“…sono il figlio di Dio…”; “ho capito…ci penso io e ti guarirò”)

 

DAL SETTING-COMUNITA’ AL SETTING-CITTA’  

Noi, operatori psichiatrici, che lavoriamo quotidianamente nel settore della riabilitazione e dell’inserimento sociale dei pazienti, denunciamo troppo spesso una intolleranza e una diffidenza verso il diverso, verso l’escluso, ed è per questo che istituzioni, associazioni, strutture operative del settore, cooperatori, dovrebbero farsi carico di una vera e propria promozione culturale della salute mentale nei territori; dove riversare idee ed esperienze, mettendole a confronto con i desideri e le angosce di chi soffre, ma anche con le paure, l’intolleranza, lo smarrimento di una collettività sempre più in difficoltà ad accogliere senza remore, a riconoscersi senza escludere.

In effetti i presupposti della Riforma psichiatrica tendenti a sviluppare una coscienza critica e una trasformazione dell’organizzazione sociale, attraverso la partecipazione della collettività a tutte le forme di emarginazione, sono rimasti troppo spesso sulla carta, non realizzati. Ma con tutti i limiti che possiamo trovare alla Legge 180 (più che altro per la sua non applicazione), certo non possiamo e dobbiamo tornare indietro, perché nulla è più come prima, perché abbiamo appena iniziato a restituire a quelle persone ridotte a “matti da legare”, lo statuto di cittadini, il diritto di esistere dentro quel contratto sociale da cui erano stati definitivamente espulsi in modo del tutto improprio.

Anche per questo la battaglia contro lo stigma e il pregiudizio verso la persona sofferente è, e rimarrà, l’obiettivo primario per quanti credono che ogni essere umano ha il diritto di migliorare la propria qualità di vita e che il disturbo mentale è un “male oscuro”, dove i termini relazionali e socio-culturali rivestono una importanza cruciale, a volte drammatica.

 

La “clinica della comunità”: il laboratorio permanente di “Malati di Niente”

Nel lontano settembre 2000 nasce il progetto “Malati di Niente”.

In quel periodo a Jesi un gruppo di operatori della Comunità “Soteria” aveva iniziato ad interrogarsi sul senso del proprio lavoro nei servizi psichiatrici, sulla natura del mandato sociale, sull’etica e sul significato della riabilitazione psicosociale a più di vent’anni dall’emanazione della Legge 180. Ci si chiedeva, tra dubbi e stati di ansia confusiva, se la famosa e tanto discussa  “rivoluzione basagliana”, non avesse completamente esaurito la propria spinta propulsiva.

Sicuramente la Legge 180, aveva rappresentato lo strumento legislativo che  permise il progressivo smantellamento degli Ospedali Psichiatrici e l’inizio di una nuova epoca per la sofferenza psichica. Si era chiusa una delle più vergognose e violente opere del genere umano, l’esperienza manicomiale, con la possibilità e la speranza di aprire luoghi di cura e di socialità dove l’intervento terapeutico esce fuori dal setting tradizionale, per entrare in quello comunitario, coniugando terapia e battaglia per i diritti di cittadinanza.

Proprio noi, operatori psichiatrici, essendo i soggetti più esposti, dovevamo mandare un segnale alla comunità e alle istituzioni. Nelle lunghe discussioni, emergeva sempre più nitidamente l’idea di un progetto di promozione culturale della salute mentale nei territori, nelle comunità. Un progetto “etico-politico-terapeutico” l’avevamo poi definito e nominato nel tempo, dove riversare idee ed esperienze mettendole a confronto con i desideri e le angosce di chi soffre, ma anche con le paure, l’intolleranza e lo smarrimento di una collettività sempre più chiusa, autistica, in difficoltà ad accogliere senza remore, a riconoscersi senza escludere.

Feste, concerti, spettacoli teatrali, mostre, cinema, dibattiti seminari…la città e le sue piazze vengono invase e “occupate” da iniziative ed eventi che determinano progressivamente una nuova sfera politica pubblica.

Dopo 15 anni di lavoro, di progressi e crisi regressive, almeno due degli obiettivi progettuali originari, ci sembrano ancora molto stimolanti ed attuali: 1)promuovere la salute mentale attraverso processi di  contaminazione culturale e l’intervento sociale sul territorio,  in maniera specifica e approfondita all’interno delle scuole cittadine grazie all’attivazione dei Laboratori di cittadinanza (con gli studenti del Liceo Classico e delle Scienze Umane,Liceo Artistico, IIS-Liceo Scienze Sociali); 2)costruire e attivare  un reale lavoro di rete con i movimenti sociali, l’associazionismo, i servizi, le istituzioni, il mondo della cooperazione e del volontariato.

Anche per l’anno 2016 i Laboratori di cittadinanza comprenderanno gli stage formativi all’interno della nostra Comunità, inizieranno nei mesi di maggio, giugno e novembre, dove gli studenti faranno tirocinio pratico, interagendo direttamente con i nostri ospiti, attraverso le varie attività gruppali terapeutico-riabilitative affiancando gli operatori in servizio.

 

Jesi, 6 aprile 2016

 

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