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Grassi Benaglia Moretti avvocati e commercialisti

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Aggiornato: 1 giorno 7 ore fa

Enti terzo settore: contributi a fondo perduto per prevenzione dipendenze da sostanze

Dom, 22/06/2025 - 11:25
Il Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze ha pubblicato sul proprio sito un avviso pubblico rivolto agli Enti pubblici e agli Enti del Terzo settore per la realizzazione di servizi o comunità educative rivolte ai giovani con l’obiettivo di prevenire le dipendenze patologiche sia da sostanze stupefacenti che dal sempre più presente problema della dipendenza da digitale. Le risorse, in totale dieci milioni di euro, sono state reperite sulle quote residue non assegnate dell’otto per mille a diretta gestione statale per l’annualità 2023 e riguardanti i progetti per il “Recupero dalle tossicodipendenze e dalle altre dipendenze patologiche”. Soggetti beneficiari. Possono presentare la domanda di contributo a fondo perduto:
  • gli enti pubblici;
  • gli enti del Terzo Settore regolarmente iscritti al Runts;
  • le associazioni sportive dilettantistiche iscritte al RAS;
  • le Onlus iscritte nell’anagrafe delle Onlus di cui all’articolo 10 del D. Lgs. 460/1997.
I progetti possono essere presentati anche da un’associazione temporanea di più enti privati e anche da un parternariato-pubblico privato. Spese ammissibili. Possono essere ammesse al finanziamento a fondo perduto le seguenti spese dirette:
  • spese per personale interno impiegato direttamente nel progetto;
  • spese per personale esterno impiegato direttamente nel progetto;
  • acquisto di beni e servizi;
  • spese per trasferte del personale nella misura massima del 15% del totale dei costi diretti.
Sono ammissibili anche le spese generali considerate come costi indiretti ma nella misura massima del 5% del costo totale del progetto. Le spese per essere ammesse a rendicontazione del progetto devono essere effettive, pagate con strumenti tracciabili e riferite al periodo di realizzazione del progetto stesso. Non sono ammesse, dunque, spese sostenute prima dell’inizio o dopo la fine del progetto oggetto di finanziamento a fondo perduto. Importo del contributo a fondo perduto e durata del progetto. Il finanziamento richiesto, che copre l’intero progetto presentato, non potrà essere superiore ad euro 200.000. Il progetto dovrà avere una durata complessiva pari a ventiquattro mesi, prorogabile una sola volta di ulteriori sei mesi. Modalità di assegnazione del contributo. La concessione del contributo avverrà a sulla base di una graduatoria a punteggio, sulla base dei seguenti parametri:
  • Qualità della proposta progettuale, basata sulla chiara esposizione degli obiettivi generali e sulla coerenza della proposta progettuale rispetto alle finalità dell’Avviso;
  • Caratteristiche del soggetto proponente, considerando l’esperienza maturata in ambito sociale;
  • Elementi finanziari e cronoprogramma, valutando la coerenza sia delle attività descritte con il piano finanziario che la coerenza della tempistica indicata rispetto alle attività proposte.
Scadenza dell’avviso. Le domande di ammissione al contributo a fondo perduto dovranno essere presentate tramite Pec entro e non oltre le ore 23.59 del giorno 25 luglio 2025.   Informazioni e supporto alla presentazione della domanda. Per avere maggiori informazioni sul bando e richiedere il supporto per la presentazione delle domande si può contattare lo studio al numero 0541.708252

 

Notizie ImpreseOggi
Categorie: siti che curo

Contributi a fondo perduto per le piccole e medie imprese della Valmarecchia.

Dom, 15/06/2025 - 11:11
Ampliare e riqualificare le piccole e medie imprese extra agricole della Valmarecchia per favorire lo sviluppo dell’occupazione, il potenziamento dell’offerta turistica e l’erogazione di nuovi servizi alle persone che vivono in quella zona: questi gli obiettivi dell’iniziativa proposta dal Gal Valli Marecchia e Conca, tramite il proprio "Avviso Pubblico denominato “Ampliamento e riqualificazione delle micro/piccole/medie imprese (PMI) extra agricole in zone rurali”. Misura del contributo a fondo perduto.  L’iniziativa prevede la concessione di un contributo a fondo perduto nella misura dal 40% al 60% a seconda del Comune della Valmarecchia dove è ubicato l’investimento proposto. Possono richiedere l’agevolazione le piccole e medie imprese, così come definite dall’allegato I del Reg.to UE 2472/2022, che svolgono attività extra agricole e che sono già costituite al momento della presentazione della domanda. Possono partecipare all’iniziativa anche i liberi professionisti. Beneficiari. I requisiti che i partecipanti devono possedere sono i seguenti:
  • essere iscritti al Registro Imprese della Camera di Commercio al momento della presentazione della domanda di contributo a fondo perduto;
  • rispettare i contratti collettivi nazionali e territoriali per il personale dipendente;
  • essere in regola con il Durc;
  • non trovarsi in stato di fallimento o liquidazione coatta amministrativa;
Interventi ammissibili. Gli interventi ammissibili, di almeno 20.000 euro di spesa minima e 90.000 euro di spesa massima, devono essere avviati solo dopo la presentazione della richiesta di contributo a fondo perduto. Le spese che danno diritto alla agevolazione sono le seguenti:
  • opere murarie e impiantistiche necessarie all’adeguamento, ampliamento, o al miglioramento degli immobili dove si esercità l’attività. Rientrano in questa categoria anche gli interventi finalizzati al contenimento dei consumi energetici, come il fotovoltaico;
  • macchinari, attrezzature, impianti di lavorazione o trasformazione;
  • mobili o arredi da destinare agli immobili oggetto di intervento;
  • sistemazione, adeguamento e miglioramento delle aree esterne degli immobili oggetto di intervento, nel limite massimo del 15% delle spese ammissibili;
  • software e attrezzature informatiche;
  • veicoli industriali con portata superiore ai 35 quintali con relativi allestimenti interni;
  • veicoli non industriali solo se strettamente funzionali alle attività di impresa oggetto dell’intervento, nel limite di spesa di euro 30.000 e con esclusione delle autovetture fino a cinque posti anche se immatricolate come autocarri;
  • spese di promozione nel limite del 10% delle spese ammissibili;
  • spese generali, nei limiti indicati dettagliatamente dal bando.
Termine per le domande.  Le domande devono essere presentate entro e non oltre le ore 13.00 del giorno 10.10.2025. Il contributo sarà erogato sulla base di una graduatoria formata utilizzando i criteri definiti all’interno dello stesso bando di agevolazione. Notizie ImpreseOggi
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Come si calcolano le tasse per le Cooperative sociali.

Dom, 01/06/2025 - 13:01
Le cooperative sociali di produzione e lavoro, ai sensi dell’art. 11 del Dpr 601/1973, hanno diritto all’esenzione dell’Ires nel caso in cui l’ammontare delle retribuzioni corrisposte ai soci lavoratori non sia inferiore al 50% degli altri costi con esclusione delle materie prime e sussidiarie. Nel caso in cui, invece, l’ammontare delle retribuzioni corrisposte ai soci lavoratori sta in un intervallo fra il 50% e il 25% l’imposta IRES è ridotta della metà. Le condizioni, quindi, per poter godere dell’esenzione dell’imposta Ires sono le seguenti:
  • La cooperativa deve essere una cooperativa sociale;
  • La cooperativa sociale deve essere di produzione e lavoro;
  • L’ammontare delle retribuzioni corrisposte ai soci deve essere non inferiore al 50% di tutti gli altri costi della cooperativa con esclusione degli acquisti di materie prime.
Definizione di cooperativa sociale. La definizione di cooperativa sociale la si rintraccia nell’art. 1 della Legge 381/91. In particolare le cooperative sociali si dividono in due tipologie, a seconda delle finalità che intendono raggiungere:
  • Cooperativa sociale di tipo A: rientrano in questa tipologia le cooperative sociali che hanno come finalità la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi. Sono, dunque, cooperative sociali quelle che erogano prestazioni sanitarie, socio sanitarie, dell’educazione, dell’istruzione e formazione professionale. Per intenderci, sono quelle cooperative che gestiscono case di cura, comunità terapeutiche, asili, scuole parificate.
  • Cooperativa sociale di tipo B: rientrano in questa tipologia le cooperative sociali che svolgono attività diverse rispetto a quelle di tipo A e che rientrano nel settore agricolo, industriale, commerciale o dei servizi. Queste attività devono essere finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. La condizione si verifica, ai sensi dell’art. 4 c. 2 della Legge 381/91, nel caso in cui le persone svantaggiate effettivamente impiegate siano almeno pari al  30% dei lavoratori della cooperativa.
Definizione di cooperativa di produzione e lavoro. Ai sensi dell’art. 1 della Legge 142/2001 le cooperative di produzione e lavoro sono quelle cooperative nelle quali il rapporto di scambio mutualistico ha per oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio della cooperativa stessa, che deve essere erogata sulla base di un regolamento che definisce l'organizzazione del lavoro dei soci. Calcolo delle imposte nella cooperativa sociale. Per le cooperative a mutualità prevalente (e la cooperativa sociale lo è per espressa previsione normativa contenuta nell’art. 111-septies delle norme di attuazione transitorie del codice civile) vige una parziale esenzione nel versamento dell’Ires. La disciplina per il calcolo delle imposte per le cooperative a mutualità prevalente è contenuta nell’art. 2 c. 36 bis e 36 ter del D.L. 138/2011, il quale stabilisce che debba essere comunque tassato:
  • una quota di utili complessivi annuali, in una percentuale che varia a seconda della tipologia di cooperativa. Nel caso di cooperativa sociale, la percentuale è 0%;
  • una quota pari al 10% degli utili accantonati a riserva obbligatoria. Siccome la riserva obbligatoria, ai sensi dell’art. 2545 quater del C.c. è sempre pari al 30% dell’utile, la quota degli utili da tassare è pari al 3%.
Di conseguenza, usando un esempio numerico, la base imponibile Ires sarà la seguente:


Ricavi   357.800 € Costi   298.573 € Utile coop   59.227 € Riserva obbligatoria 30% 17.768 € Quota riserva tassabile 10% 1.777 € Quota utile tassabile 0% 0 €       Base imponibile IRES   1.777 €

 A questo punto, per stabilire se la cooperativa sociale debba versare o meno l’imposta Ires, occorre procedere a verificare la presenza della prevalenza delle retribuzioni corrisposte ai soci rispetto a tutti gli altri costi della cooperativa sociale:



A. Costo del lavoro dei soci   Salari e stipendi soci 80.727,22 € Ristorno ai soci 0,00 € Oneri previdenziali 20.181,81 € Tfr lavoratori soci 2.350,00 € Altre indennità lavorative dei soci 980,00 € Totale A - Costo del lavoro dei soci 104.239,03 €     B. Materie prime e sussidiarie   Materie prime e sussidiarie   Acquisti di materie prime 18.773,39 € Acquisti di materie sussidiarie 2.250,00 € Variazione delle rimanenze di merci o prodotti -1.560,00 € Totale B - Materie prime e sussidiarie 19.463,39 €     C. Altri costi   Salari e stipendi non soci 22.081,63 € Oneri previdenziali non soci 5.520,41 € TFR non soci 1.300,00 € Costi per servizi (voce B7 - Bilancio Cee) 79.080,91 € Ammortamenti 10.614,67 € Costi per godimento beni di terzi (voce B8 - Bilancio Cee) 17.553,29 € Oneri diversi di gestione (voce B14 - Bilancio Cee) 38.540,00 € Interessi e altri oneri finanziari (voce C17 - Bilancio Cee) 180,14 € Totale C - Altri costi 174.871,05 € Rapporto dimostrante l'incidenza dell'apporto dell'opera personale dei soci rispetto agli altri fattori produttivi escluse le materie prime e sussidiarie:   Totale A - Costo del lavoro dei soci/Totale c - Altri costi 59,61%   Come si evince dalla tabella, il costo delle retribuzioni corrisposte ai soci rispetto a tutti gli altri costi della cooperativa è superiore al 50%. Per cui la cooperativa sociale non dovrà pagare alcuna imposta IrES. Viceversa se il valore fosse stato, per ipotesi, pari al 45% la cooperativa sociale avrebbe avuto uno sgravio Ires pari al 50%. Usando i dati del caso appena illustrato l’importo sarebbe stato così calcolato: euro 1.777,00 x 24% = euro 426,48 euro 426,48 x 50% = euro 213,24 IRES DA VERSARE. Analisi e commenti ImpreseOggi
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Come si calcolano le tasse per le Cooperative sociali.

Dom, 01/06/2025 - 13:01
Le cooperative sociali di produzione e lavoro, ai sensi dell’art. 11 del Dpr 601/1973, hanno diritto all’esenzione dell’Ires nel caso in cui l’ammontare delle retribuzioni corrisposte ai soci lavoratori non sia inferiore al 50% degli altri costi con esclusione delle materie prime e sussidiarie. Nel caso in cui, invece, l’ammontare delle retribuzioni corrisposte ai soci lavoratori sta in un intervallo fra il 50% e il 25% l’imposta IRES è ridotta della metà. Le condizioni, quindi, per poter godere dell’esenzione dell’imposta Ires sono le seguenti:
  • La cooperativa deve essere una cooperativa sociale;
  • La cooperativa sociale deve essere di produzione e lavoro;
  • L’ammontare delle retribuzioni corrisposte ai soci deve essere non inferiore al 50% di tutti gli altri costi della cooperativa con esclusione degli acquisti di materie prime.
Definizione di cooperativa sociale. La definizione di cooperativa sociale la si rintraccia nell’art. 1 della Legge 381/91. In particolare le cooperative sociali si dividono in due tipologie, a seconda delle finalità che intendono raggiungere:
  • Cooperativa sociale di tipo A: rientrano in questa tipologia le cooperative sociali che hanno come finalità la gestione di servizi socio-sanitari ed educativi. Sono, dunque, cooperative sociali quelle che erogano prestazioni sanitarie, socio sanitarie, dell’educazione, dell’istruzione e formazione professionale. Per intenderci, sono quelle cooperative che gestiscono case di cura, comunità terapeutiche, asili, scuole parificate.
  • Cooperativa sociale di tipo B: rientrano in questa tipologia le cooperative sociali che svolgono attività diverse rispetto a quelle di tipo A e che rientrano nel settore agricolo, industriale, commerciale o dei servizi. Queste attività devono essere finalizzate all’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. La condizione si verifica, ai sensi dell’art. 4 c. 2 della Legge 381/91, nel caso in cui le persone svantaggiate effettivamente impiegate siano almeno pari al  30% dei lavoratori della cooperativa.
Definizione di cooperativa di produzione e lavoro. Ai sensi dell’art. 1 della Legge 142/2001 le cooperative di produzione e lavoro sono quelle cooperative nelle quali il rapporto di scambio mutualistico ha per oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio della cooperativa stessa, che deve essere erogata sulla base di un regolamento che definisce l'organizzazione del lavoro dei soci. Calcolo delle imposte nella cooperativa sociale. Per le cooperative a mutualità prevalente (e la cooperativa sociale lo è per espressa previsione normativa contenuta nell’art. 111-septies delle norme di attuazione transitorie del codice civile) vige una parziale esenzione nel versamento dell’Ires. La disciplina per il calcolo delle imposte per le cooperative a mutualità prevalente è contenuta nell’art. 2 c. 36 bis e 36 ter del D.L. 138/2011, il quale stabilisce che debba essere comunque tassato:
  • una quota di utili complessivi annuali, in una percentuale che varia a seconda della tipologia di cooperativa. Nel caso di cooperativa sociale, la percentuale è 0%;
  • una quota pari al 10% degli utili accantonati a riserva obbligatoria. Siccome la riserva obbligatoria, ai sensi dell’art. 2545 quater del C.c. è sempre pari al 30% dell’utile, la quota degli utili da tassare è pari al 3%.
Di conseguenza, usando un esempio numerico, la base imponibile Ires sarà la seguente:


Ricavi   357.800 € Costi   298.573 € Utile coop   59.227 € Riserva obbligatoria 30% 17.768 € Quota riserva tassabile 10% 1.777 € Quota utile tassabile 0% 0 €       Base imponibile IRES   1.777 €

 A questo punto, per stabilire se la cooperativa sociale debba versare o meno l’imposta Ires, occorre procedere a verificare la presenza della prevalenza delle retribuzioni corrisposte ai soci rispetto a tutti gli altri costi della cooperativa sociale:



A. Costo del lavoro dei soci   Salari e stipendi soci 80.727,22 € Ristorno ai soci 0,00 € Oneri previdenziali 20.181,81 € Tfr lavoratori soci 2.350,00 € Altre indennità lavorative dei soci 980,00 € Totale A - Costo del lavoro dei soci 104.239,03 €     B. Materie prime e sussidiarie   Materie prime e sussidiarie   Acquisti di materie prime 18.773,39 € Acquisti di materie sussidiarie 2.250,00 € Variazione delle rimanenze di merci o prodotti -1.560,00 € Totale B - Materie prime e sussidiarie 19.463,39 €     C. Altri costi   Salari e stipendi non soci 22.081,63 € Oneri previdenziali non soci 5.520,41 € TFR non soci 1.300,00 € Costi per servizi (voce B7 - Bilancio Cee) 79.080,91 € Ammortamenti 10.614,67 € Costi per godimento beni di terzi (voce B8 - Bilancio Cee) 17.553,29 € Oneri diversi di gestione (voce B14 - Bilancio Cee) 38.540,00 € Interessi e altri oneri finanziari (voce C17 - Bilancio Cee) 180,14 € Totale C - Altri costi 174.871,05 € Rapporto dimostrante l'incidenza dell'apporto dell'opera personale dei soci rispetto agli altri fattori produttivi escluse le materie prime e sussidiarie:   Totale A - Costo del lavoro dei soci/Totale c - Altri costi 59,61%   Come si evince dalla tabella, il costo delle retribuzioni corrisposte ai soci rispetto a tutti gli altri costi della cooperativa è superiore al 50%. Per cui la cooperativa sociale non dovrà pagare alcuna imposta IrES. Viceversa se il valore fosse stato, per ipotesi, pari al 45% la cooperativa sociale avrebbe avuto uno sgravio Ires pari al 50%. Usando i dati del caso appena illustrato l’importo sarebbe stato così calcolato: euro 1.777,00 x 24% = euro 426,48 euro 426,48 x 50% = euro 213,24 IRES DA VERSARE. Analisi e commenti ImpreseOggi
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Cooperative sociali: reperibilità in struttura è orario di lavoro

Sab, 24/05/2025 - 16:52
L’obbligo per il lavoratore di una cooperativa sociale di svolgere dei turni di pernottamento presso la struttura in cui opera, anche se non effettua in quel momento degli interventi di assistenza, deve essere considerato come orario di lavoro. Come tale va adeguatamente remunerato, anche se non deve essere trattato come lavoro straordinario. Questo interessante, e per certi versi dirompente, principio è contenuto nella sentenza della Cassazione Civile, sezione Lavoro, numero 10653 del 05 febbraio 2025 e pubblicata il 23 aprile 2025. Il caso che gli Ermellini sono stati chiamati a giudicare riguarda un lavoratore di una cooperativa sociale che ha svolto un servizio di reperibilità notturna per tre notti alla settimana immediatamente al termine del turno di lavoro serale e al quale non è stato riconosciuta l’indennità come lavoro straordinario. CCNL Cooperative sociali e reperibilità in struttura. L’art. 57 del Contratto collettivo nazionale delle cooperative sociali prevede che nelle strutture residenziali continuative (case di cura, ospizi, comunità terapeutiche) al lavoratore al quale viene richiesta una reperibilità con obbligo di presenza nella struttura viene riconosciuta una indennità fissa mensile lorda di euro 77,47. Nel caso in cui, poi, la reperibilità si tramuti in intervento lavorativo vero e proprio, per le ore effettivamente lavorate gli viene riconosciuto lo stipendio ordinariamente previsto per la sua mansione al quale va aggiunta la maggiorazione notturna prevista dal Contratto nazionale.  La sentenza della Cassazione sulla reperibilità in struttura.  Nel giudicare la controversia la Corte di Cassazione si richiama ai principi espressi dalla Corte di Giustizia Europea con le sentenze C-303/98 e C-151/02 nelle quali si afferma che i periodi di reperibilità, anche senza obbligo di presenza sul luogo di lavoro, sono qualificati come “orario di lavoro”. A maggior ragione, dunque, osservano i Giudici, vanno trattati come tali i casi in cui alla reperibilità si accompagna pure l’obbligo per il lavoratore della permanenza obbligatoria sul luogo di lavoro stesso.  Gli Ermellini osservano, inoltre, che la definizione di “orario di lavoro”, secondo costante giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, è in antitesi con il concetto di “riposo” e le due nozioni si escludono a vicenda. Se poi alla reperibilità si aggiunge anche un obbligo di presenza al di fuori della propria dimora, conclude la Cassazione, inevitabilmente viene compressa per il lavoratore la gestione del proprio tempo, che non può essere più considerato come “tempo libero”. Il tutto, però, con una importante osservazione di fondo: il fatto di considerare la reperibilità notturna in struttura come “orario di lavoro” non implica che questo debba essere necessariamente retribuito come lavoro straordinario notturno. Di contro però non si può nemmeno considerarlo come tempo libero del lavoratore e, di conseguenza, pagarlo in maniera forfettaria su base mensile e con importi non certo congrui al tempo sacrificato dal lavoratore stesso.  Conclusione. La Cassazione, però, ritiene che la quantificazione della corretta remunerazione per la reperibilità in struttura non sia compito suo, ma che competa al Giudice di merito. Al quale, nel rinviare la decisione, impone la prescrizione di tenere in considerazione il principio espresso dall’art. 36 della Costituzione, quello che prevede che il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla qualità e alla quantità del lavoro prestato.  Notizie ImpreseOggi
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Cooperative sociali: reperibilità in struttura è orario di lavoro

Sab, 24/05/2025 - 16:52
L’obbligo per il lavoratore di una cooperativa sociale di svolgere dei turni di pernottamento presso la struttura in cui opera, anche se non effettua in quel momento degli interventi di assistenza, deve essere considerato come orario di lavoro. Come tale va adeguatamente remunerato, anche se non deve essere trattato come lavoro straordinario. Questo interessante, e per certi versi dirompente, principio è contenuto nella sentenza della Cassazione Civile, sezione Lavoro, numero 10653 del 05 febbraio 2025 e pubblicata il 23 aprile 2025. Il caso che gli Ermellini sono stati chiamati a giudicare riguarda un lavoratore di una cooperativa sociale che ha svolto un servizio di reperibilità notturna per tre notti alla settimana immediatamente al termine del turno di lavoro serale e per il quale non gli è stato riconosciuto l’indennità come lavoro straordinario. CCNL Cooperative sociali e reperibilità in struttura. L’art. 57 del Contratto collettivo nazionale delle cooperative sociali prevede che nelle strutture residenziali continuative (case di cura, ospizi, comunità terapeutiche) al lavoratore al quale viene richiesta una reperibilità con obbligo di presenza nella struttura viene riconosciuta una indennità fissa mensile lorda di euro 77,47. Nel caso in cui, poi, la reperibilità si tramuti in intervento lavorativo vero e proprio, per le ore effettivamente lavorate gli viene riconosciuto lo stipendio ordinariamente previsto per la sua mansione al quale va aggiunta la maggiorazione notturna prevista dal Contratto nazionale.  La sentenza della Cassazione sulla reperibilità in struttura.  Nel giudicare la controversia la Corte di Cassazione si richiama ai principi espressi dalla Corte di Giustizia Europea con le sentenze C-303/98 e C-151/02 nelle quali si afferma che i periodi di reperibilità, anche senza obbligo di presenza sul luogo di lavoro, sono qualificati come “orario di lavoro”. A maggior ragione, dunque, osservano i Giudici, vanno trattati come tali i casi in cui alla reperibilità si accompagna pure l’obbligo per il lavoratore della permanenza obbligatoria sul luogo di lavoro stesso.  Gli Ermellini osservano, inoltre, che la definizione di “orario di lavoro”, secondo costante giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, è in antitesi con il concetto di “riposo” e le due nozioni si escludono a vicenda. Se poi alla reperibilità si aggiunge anche un obbligo di presenza al di fuori della propria dimora, conclude la Cassazione, inevitabilmente viene compressa per il lavoratore la gestione del proprio tempo, che non può essere più considerato come “tempo libero”. Il tutto, però, con una importante osservazione di fondo: il fatto di considerare la reperibilità notturna in struttura come “orario di lavoro” non implica che questo debba essere necessariamente retribuito come lavoro straordinario notturno. Di contro però non si può nemmeno considerarlo come tempo libero del lavoratore e, di conseguenza, pagarlo in maniera forfettaria su base mensile e con importi non certo congrui al tempo sacrificato dal lavoratore stesso.  Conclusione. La Cassazione, però, ritiene che la quantificazione della corretta remunerazione per la reperibilità in struttura non sia compito suo, ma che competa al Giudice di merito. Al quale, nel rinviare la decisione, impone la prescrizione di tenere in considerazione il principio espresso dall’art. 36 della Costituzione, quello che prevede che il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla qualità e alla quantità del lavoro prestato.  Notizie ImpreseOggi
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Cassazione: cedolare secca ammessa anche per immobili locati ad imprese.

Dom, 11/05/2025 - 17:53
La Corte di Cassazione, con le sentenze 12076 e 12079, entrambe del 23 gennaio 2025 e pubblicate il 07 maggio 2025, interviene sull’annosa questione dell’utilizzo della cedolare secca da parte di un locatore che ha affittato il proprio immobile a un soggetto che esercita l’attività di impresa e che ha destinato lo stesso a finalità abitative dei propri dipendenti o amministratori. La normativa sulla cedolare secca. Il contenzioso con il Fisco nasce in seguito alla corretta interpretazione dell’art. 3 del D. Lgs 23/2011 che ha introdotto, nel nostro ordinamento, l’agevolazione della c.d. “cedolare secca”. La norma indica chiaramente che questa agevolazione può essere utilizzata esclusivamente da locatori che assoggettano i propri redditi all’Irpef, i quali concedono in locazione immobili catastalmente abitativi a favore di soggetti che li destinano a tali finalità. Il nocciolo della questione sorta negli ultimi anni sta nella qualificazione soggettiva del conduttore. Deve intendersi strettamente un conduttore che non opera in regime di impresa, oppure può operare in regime di impresa e destinare l’immobile comunque a finalità abitative? Secondo l’Agenzia delle Entrate, nel silenzio della norma, il conduttore deve essere un privato, che non agisce nell’esercizio di impresa. La ferma posizione la si può rintracciare nella circolare 26/e del 2011: “tenuto conto che la norma consente l’applicazione della cedolare secca solo per gli immobili abitativi locati con finalità abitative, escludendo quelle effettuate nell’esercizio di un’attività di impresa, o di arti e professioni, occorre porre rilievo, al fine di valutare i requisiti di accesso al regime, anche all’attività esercitata dal locatario ed all’utilizzo dell’immobile locato”. Interrogazione parlamentare sulla cedolare secca. Il contenzioso che nel corso degli anni è scaturito sul tema, ha prodotto la sentenza della Cassazione n. 12395 del 07 maggio 2024. Gli Ermellini, con questa sentenza, hanno aperto alla possibilità di utilizzare l’agevolazione della cedolare secca anche nel caso di conduttore che esercita attività di impresa e che destina l’immobile locato a finalità abitative per i propri dipendenti o collaboratori. La pronuncia della Cassazione ha fatto da spunto all’interrogazione parlamentare numero 5-03773 del 26 marzo 2025, con la quale si è chiesto quale sia il comportamento che l’Agenzia delle Entrate vuole tenere sulla questione. La risposta del sottosegretario del Mef è assai disarmante: partendo dal fatto che la decisione della Cassazione “rimane al momento isolata”, l’Agenzia delle Entrate ritiene “opportuno attendere la formazione di un consolidato indirizzo interpretativo, anche a tutela delle esigenze di gettito erariali”. Le sentenze della Cassazione n. 12076/2025 e 12079/2025. L’attesa degli sviluppi in materia per l’Agenzia delle Entrate pare essere durata poco. Neanche un mese e mezzo dopo la risposta parlamentare, la Cassazione con due sentenze analoghe ha ribadito il concetto che l’agevolazione della cedolare secca può essere utilizzata anche in presenza di un conduttore che esercita attività di impresa e che destina l’immobile locato a finalità abitative proprie. Nella sentenza n. 12076 il conduttore è una Fondazione, che esercita attività di impresa e che ha stipulato il contratto di locazione per destinare l’immobile ad abitazione del presidente della Fondazione stessa. Nella sentenza n. 12079 il conduttore è, invece, una S.r.l. che ha stipulato il contratto per le esigenze abitative del proprio amministratore delegato: il classico caso dell’uso foresteria. In entrambi i casi la Cassazione ha ribadito il principio già espresso con la citata sentenza n. 12395/2024: “in tema di redditi da locazione, il locatore può optare per il regime della c.d. cedolare secca anche nell’ipotesi in cui il conduttore concluda il contratto di locazione ad uso abitativo nell’esercizio della sua attività professionale, ed in particolare per le esigenze abitative dei suoi dipendenti”. Il principio si fonda sul fatto che l’art. 3 comma 6 del D. Lgs. 23/2011 si riferisce solo ed esclusivamente alle locazioni di immobili ad uso abitativo nei quali è il locatore che esercita l’attività di impresa. Problemi operativi. Attualmente, in sede di registrazione, l’Agenzia delle Entrate non permette di richiedere l’agevolazione della cedolare secca in presenza di un conduttore in possesso di una partita iva. Per ovviare a tale impedimento lo Studio consiglia di può procedere in questo modo:
  • Registrare il contratto di locazione applicando l’imposta di registro proporzionale. Successivamente presentare una istanza di rimborso, che sarà ovviamente rigettata. A quel punto si può impugnare il diniego davanti a una Corte di Giustizia Tributaria.
  • dichiarare il reddito da fabbricato conseguente alla locazione a un conduttore imprenditore applicando l’imposta prevista per la cedolare secca. A questo punto l’Agenzia dell’Entrate provvederà a emettere un avviso di recupero ex art. 36ter DPR 600/73, dal quale scaturirà una cartella di pagamento che potrà essere oggetto di impugnazione davanti a una Corte di Giustizia Tributaria.
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Cassazione: cedolare secca ammessa anche per immobili locati ad imprese.

Dom, 11/05/2025 - 17:53
La Corte di Cassazione, con le sentenze 12076 e 12079, entrambe del 23 gennaio 2025 e pubblicate il 07 maggio 2025, interviene sull’annosa questione dell’utilizzo della cedolare secca da parte di un locatore che ha affittato il proprio immobile a un soggetto che esercita l’attività di impresa e che ha destinato lo stesso a finalità abitative dei propri dipendenti o amministratori. La normativa sulla cedolare secca. Il contenzioso con il Fisco nasce in seguito alla corretta interpretazione dell’art. 3 del D. Lgs 23/2011 che ha introdotto, nel nostro ordinamento, l’agevolazione della c.d. “cedolare secca”. La norma indica chiaramente che questa agevolazione può essere utilizzata esclusivamente da locatori che assoggettano i propri redditi all’Irpef, i quali concedono in locazione immobili catastalmente abitativi a favore di soggetti che li destinano a tali finalità. Il nocciolo della questione sorta negli ultimi anni sta nella qualificazione soggettiva del conduttore. Deve intendersi strettamente un conduttore che non opera in regime di impresa, oppure può operare in regime di impresa e destinare l’immobile comunque a finalità abitative? Secondo l’Agenzia delle Entrate, nel silenzio della norma, il conduttore deve essere un privato, che non agisce nell’esercizio di impresa. La ferma posizione la si può rintracciare nella circolare 26/e del 2011: “tenuto conto che la norma consente l’applicazione della cedolare secca solo per gli immobili abitativi locati con finalità abitative, escludendo quelle effettuate nell’esercizio di un’attività di impresa, o di arti e professioni, occorre porre rilievo, al fine di valutare i requisiti di accesso al regime, anche all’attività esercitata dal locatario ed all’utilizzo dell’immobile locato”. Interrogazione parlamentare sulla cedolare secca. Il contenzioso che nel corso degli anni è scaturito sul tema, ha prodotto la sentenza della Cassazione n. 12395 del 07 maggio 2024. Gli Ermellini, con questa sentenza, hanno aperto alla possibilità di utilizzare l’agevolazione della cedolare secca anche nel caso di conduttore che esercita attività di impresa e che destina l’immobile locato a finalità abitative per i propri dipendenti o collaboratori. La pronuncia della Cassazione ha fatto da spunto all’interrogazione parlamentare numero 5-03773 del 26 marzo 2025, con la quale si è chiesto quale sia il comportamento che l’Agenzia delle Entrate vuole tenere sulla questione. La risposta del sottosegretario del Mef è assai disarmante: partendo dal fatto che la decisione della Cassazione “rimane al momento isolata”, l’Agenzia delle Entrate ritiene “opportuno attendere la formazione di un consolidato indirizzo interpretativo, anche a tutela delle esigenze di gettito erariali”. Le sentenze della Cassazione n. 12076/2025 e 12079/2025. L’attesa degli sviluppi in materia per l’Agenzia delle Entrate pare essere durata poco. Neanche un mese e mezzo dopo la risposta parlamentare, la Cassazione con due sentenze analoghe ha ribadito il concetto che l’agevolazione della cedolare secca può essere utilizzata anche in presenza di un conduttore che esercita attività di impresa e che destina l’immobile locato a finalità abitative proprie. Nella sentenza n. 12076 il conduttore è una Fondazione, che esercita attività di impresa e che ha stipulato il contratto di locazione per destinare l’immobile ad abitazione del presidente della Fondazione stessa. Nella sentenza n. 12079 il conduttore è, invece, una S.r.l. che ha stipulato il contratto per le esigenze abitative del proprio amministratore delegato: il classico caso dell’uso foresteria. In entrambi i casi la Cassazione ha ribadito il principio già espresso con la citata sentenza n. 12395/2024: “in tema di redditi da locazione, il locatore può optare per il regime della c.d. cedolare secca anche nell’ipotesi in cui il conduttore concluda il contratto di locazione ad uso abitativo nell’esercizio della sua attività professionale, ed in particolare per le esigenze abitative dei suoi dipendenti”. Il principio si fonda sul fatto che l’art. 3 comma 6 del D. Lgs. 23/2011 si riferisce solo ed esclusivamente alle locazioni di immobili ad uso abitativo nei quali è il locatore che esercita l’attività di impresa. Problemi operativi. Attualmente, in sede di registrazione, l’Agenzia delle Entrate non permette di richiedere l’agevolazione della cedolare secca in presenza di un conduttore in possesso di una partita iva. Per ovviare a tale impedimento lo Studio consiglia di può procedere in questo modo:
  • Registrare il contratto di locazione applicando l’imposta di registro proporzionale. Successivamente presentare una istanza di rimborso, che sarà ovviamente rigettata. A quel punto si può impugnare il diniego davanti a una Corte di Giustizia Tributaria.
  • dichiarare il reddito da fabbricato conseguente alla locazione a un conduttore imprenditore applicando l’imposta prevista per la cedolare secca. A questo punto l’Agenzia dell’Entrate provvederà a emettere un avviso di recupero ex art. 36ter DPR 600/73, dal quale scaturirà una cartella di pagamento che potrà essere oggetto di impugnazione davanti a una Corte di Giustizia Tributaria.
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Cedolare secca per affitti a Cooperative sociali o Enti del Terzo settore.

Sab, 10/05/2025 - 12:38
Nel complesso mondo della corretta applicazione della agevolazione conosciuta come “cedolare secca”, diviso tra chi ritiene che sia possibile richiederla anche nel caso di un conduttore che svolge attività di impresa (la Cassazione, a più riprese) e chi, invece, la rende spettante solo nel caso di un conduttore non imprenditore (l’Agenzia delle Entrate), spicca l’apertura del Fisco al suo utilizzo nel caso in cui un locatore persona fisica conceda in affitto a una cooperativa sociale o a un generico ente del terzo settore. La normativa sulla cedolare secca. Introdotta dall’art. 3 del D. Lgs. 23/2011, l’agevolazione relativa alla cedolare secca può essere chiesta solo dai locatori che versano le imposte su redditi delle persone fisiche. Gli immobili agevolati sono quelli con destinazione catastale abitativa e che vengono locati con tale finalità. In assenza di un chiarimento normativo, l’Agenzia delle Entrate ha sempre sostenuto che la cedolare secca trova applicazione solo ed esclusivamente nel caso in cui il conduttore dell’immobile sia un privato o che non agisca nell’ambito dell’esercizio di impresa. Scrive, a tal proposito, il Fisco nella circolare 26/e del 2011: “tenuto conto che la norma consente l’applicazione della cedolare secca solo per gli immobili abitativi locati con finalità abitative, escludendo quelle effettuate nell’esercizio di un’attività di impresa, o di arti e professioni, occorre porre rilievo, al fine di valutare i requisiti di accesso al regime, anche all’attività esercitata dal locatario ed all’utilizzo dell’immobile locato”. Sulla base di questa valutazione, quindi, non rientrano nel campo dell’agevolazione della cedolare secca, i contratti nei quali il conduttore agisce nell’esercizio di attività di impresa o di lavoro autonomo, a prescindere dal fatto che poi l’immobile preso in locazione sia destinato a essere utilizzato, con finalità abitative, da dipendenti o altri soggetti riferibili al conduttore principale. E’ il caso, tanto per intenderci, degli immobili ad uso foresteria, cioè contrattualizzati da imprese che poi li utilizzano come alloggi per i propri dipendenti. Cedolare secca e cooperative sociali. Sempre nella circolare 26/e del 2011 (pag. 7, par. 1.2), l’Agenzia delle Entrate osserva che si può chiedere l’agevolazione della cedolare secca in presenza di contratti di locazione che sono conclusi con soggetti che non agiscono in qualità di imprenditori. Rientrano in tale casistica i contratti nei quali il conduttore è un ente pubblico o privato non commerciale, a condizione che nel contratto di locazione sia evidente che il contratto di locazione è destinato ad usi abitativi. E’ il caso, seguito dal nostro studio, di una Cooperativa sociale che ha preso in locazione un immobile da destinare a un progetto di accoglienza migranti: il proprietario persona fisica dell’immobile ha optato legittimamente per l’utilizzo della cedolare secca sul canone percepito.   Per la definizione di enti privato non commerciale si può far riferimento all’art. 4 del Codice del Terzo settore e cioè:
  • le organizzazioni di volontariato;
  • le associazioni di promozione sociale;
  • gli enti filantropici;  
  • le imprese sociali tra cui rientrano le cooperative sociali;
  • le reti associative;
  • le società di mutuo soccorso;
  • le associazioni sia quelle riconosciute che quelle non riconosciute;
  • le fondazioni;
  • gli altri enti di carattere privato diversi dalle società che perseguono, senza scopo di lucro, finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale.
Conclusione. A conferma della possibilità di poter utilizzare da parte di un proprietario di immobili la cedolare secca nel caso in cui sottoscriva un affitto con una cooperativa sociale (o un qualsiasi altro ente del terzo settore) vi sono anche due risposte che l’Agenzia delle Entrate ha dato sul suo sito FiscoOggi il giorno 14 novembre 2016 e il giorno 19 aprile 2019. In entrambe, l’estensore dell’articolo scrive che “[…] l’opzione per il regime della cedolare secca può essere esercitata anche in relazione a contratti di locazione conclusi con enti pubblici o privati non commerciali (tra cui rientrano le cooperative sociali, Onlus di diritto in base alla legge 381/1991)”. Notizie ImpreseOggi
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Cedolare secca per affitti a Cooperative sociali o Enti del Terzo settore.

Sab, 10/05/2025 - 12:38
Nel complesso mondo della corretta applicazione della agevolazione conosciuta come “cedolare secca”, diviso tra chi ritiene che sia possibile richiederla anche nel caso di un conduttore che svolge attività di impresa (la Cassazione, a più riprese) e chi, invece, la rende spettante solo nel caso di un conduttore non imprenditore (l’Agenzia delle Entrate), spicca l’apertura del Fisco al suo utilizzo nel caso in cui un locatore persona fisica conceda in affitto a una cooperativa sociale o a un generico ente del terzo settore. La normativa sulla cedolare secca. Introdotta dall’art. 3 del D. Lgs. 23/2011, l’agevolazione relativa alla cedolare secca può essere chiesta solo dai locatori che versano le imposte su redditi delle persone fisiche. Gli immobili agevolati sono quelli con destinazione catastale abitativa e che vengono locati con tale finalità. In assenza di un chiarimento normativo, l’Agenzia delle Entrate ha sempre sostenuto che la cedolare secca trova applicazione solo ed esclusivamente nel caso in cui il conduttore dell’immobile sia un privato o che non agisca nell’ambito dell’esercizio di impresa. Scrive, a tal proposito, il Fisco nella circolare 26/e del 2011: “tenuto conto che la norma consente l’applicazione della cedolare secca solo per gli immobili abitativi locati con finalità abitative, escludendo quelle effettuate nell’esercizio di un’attività di impresa, o di arti e professioni, occorre porre rilievo, al fine di valutare i requisiti di accesso al regime, anche all’attività esercitata dal locatario ed all’utilizzo dell’immobile locato”. Sulla base di questa valutazione, quindi, non rientrano nel campo dell’agevolazione della cedolare secca, i contratti nei quali il conduttore agisce nell’esercizio di attività di impresa o di lavoro autonomo, a prescindere dal fatto che poi l’immobile preso in locazione sia destinato a essere utilizzato, con finalità abitative, da dipendenti o altri soggetti riferibili al conduttore principale. E’ il caso, tanto per intenderci, degli immobili ad uso foresteria, cioè contrattualizzati da imprese che poi li utilizzano come alloggi per i propri dipendenti. Cedolare secca e cooperative sociali. Sempre nella circolare 26/e del 2011 (pag. 7, par. 1.2), l’Agenzia delle Entrate osserva che si può chiedere l’agevolazione della cedolare secca in presenza di contratti di locazione che sono conclusi con soggetti che non agiscono in qualità di imprenditori. Rientrano in tale casistica i contratti nei quali il conduttore è un ente pubblico o privato non commerciale, a condizione che nel contratto di locazione sia evidente che il contratto di locazione è destinato ad usi abitativi. E’ il caso, seguito dal nostro studio, di una Cooperativa sociale che ha preso in locazione un immobile da destinare a un progetto di accoglienza migranti: il proprietario persona fisica dell’immobile ha optato legittimamente per l’utilizzo della cedolare secca sul canone percepito.   Per la definizione di enti privato non commerciale si può far riferimento all’art. 4 del Codice del Terzo settore e cioè:
  • le organizzazioni di volontariato;
  • le associazioni di promozione sociale;
  • gli enti filantropici;  
  • le imprese sociali tra cui rientrano le cooperative sociali;
  • le reti associative;
  • le società di mutuo soccorso;
  • le associazioni sia quelle riconosciute che quelle non riconosciute;
  • le fondazioni;
  • gli altri enti di carattere privato diversi dalle società che perseguono, senza scopo di lucro, finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale.
Conclusione. A conferma della possibilità di poter utilizzare da parte di un proprietario di immobili la cedolare secca nel caso in cui sottoscriva un affitto con una cooperativa sociale (o un qualsiasi altro ente del terzo settore) vi sono anche due risposte che l’Agenzia delle Entrate ha dato sul suo sito FiscoOggi il giorno 14 novembre 2016 e il giorno 19 aprile 2019. In entrambe, l’estensore dell’articolo scrive che “[…] l’opzione per il regime della cedolare secca può essere esercitata anche in relazione a contratti di locazione conclusi con enti pubblici o privati non commerciali (tra cui rientrano le cooperative sociali, Onlus di diritto in base alla legge 381/1991)”. Notizie ImpreseOggi
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Agrivoltaico: riaperti i termini per gli incentivi a fondo perduto

Dom, 04/05/2025 - 12:09
Il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, con proprio decreto del 27 marzo 2025 ha riaperto i termini per la concessione di contributi a fondo perduto a favore della costruzione di impianti agrivoltaici su terreni agricoli, così come previsti dal DM 22 dicembre 2023, n. 436, noto anche come Dm Agrivoltaico. Interventi oggetto dell’agevolazioni a fondo perduto. Costituiscono oggetto del contributo a fondo perduto gli interventi riguardanti la realizzazione di impianti agrivoltaici di natura sperimentale. Rientrano in questa definizione gli impianti che adottano congiuntamente:
  1. Soluzioni integrate che prevedono il montaggio dei moduli fotovoltaici elevati da terra in modo da non compromettere l’attività agricola o pastorale;
  2. sistemi di monitoraggio, che permettono di verificare l’impatto dell’impianto realizzato sulla produttività agricola, sul risparmio energetico e sul risparmio idrico.
Caratteristiche degli impianti agrivoltaici. Non possono essere ammessi all’incentivo gli impianti per i quali i lavori siano iniziati prima di aver presentato la domanda di partecipazione. Inoltre gli impianti per i quali si procede alla richiesta di ammissione all’incentivo devono possedere i seguenti requisiti:
  • possesso del titolo abilitativo alla costruzione e all'esercizio dell'impianto. In alternativa, ove previsto, il provvedimento favorevole di valutazione di impatto ambientale;
  • possesso del preventivo di connessione alla rete elettrica accettato in via definitiva;
  • garantire la possibilità di continuare l’attività agricola o pastorale al di sotto dell’impianto, senza essere di alcun ostacolo;
  • rispettare i requisiti previsti nell’Allegato 2 lettera a) del Decreto, tra cui il fatto che la superficie destinata all’attività agricola deve essere almeno il 70% dell’intera superficie interessata dall’intervento e che i pannelli abbiano un’altezza da terra di almeno 2,1 metri in caso di esercizio di attività colturale o 1,30 metri in caso di attività di allevamento di animali;
  • siano di nuova costruzione e realizzati con componenti di nuova costruzioni e siano conformi alle norme in materia di tutela ambientale;
  • siano in possesso della dichiarazione di un Istituto bancario che attesti la capacità finanziaria ed economica del soggetto che ha presentato la domanda. In alternativa si può presentare l’impegno di un Istituto bancario a finanziare l’intervento. Nel caso dell’ATI la dichiarazione di capacità finanziaria può essere riferita anche a solo uno dei soggetti che la compongono.
I lavori devono essere terminati entro diciotto mesi dalla comunicazione di ammissione all’incentivo a fondo perduto. Beneficiari dell’intervento a fondo perduto. Come accennato, possono essere beneficiari dell’intervento a fondo perduto:
  1. Imprenditori agricoli, cioè coloro che ai sensi dell’art. 2135 del Codice Civile esercitano l’attività di coltivazione del fondo, la selvicoltura, l’allevamento di animali e attività connesse. Sono ammessi imprenditori agricoli sia a titolo individuale che in forma societaria compresa quella cooperativa e i consorzi formati da due o più imprenditori agricoli. Non possono essere destinatari di agevolazioni gli imprenditori agricoli che sono esonerati dalla tenuta della contabilità Iva: si tratta di quegli agricoltori che hanno un volume d’affari annuo inferiore ai 7.000 euro.
  2. Le associazioni temporanee di imprese (A.T.I.) che comprendono almeno un imprenditore agricolo.
Misura dell’incentivo a fondo perduto. Il Dm Agrivoltaico prevede:
  • un contributo in conto capitale nella misura massima del 40 per cento dei costi ammissibili;
  • una tariffa incentivante applicata alla produzione di energia elettrica netta immessa in rete.
Termini per la presentazione della domanda a fondo perduto. I soggetti beneficiari possono presentare la domanda di finanziamento a fondo perduto a partire dal giorno 01 aprile 2025 e termine al 30 giugno 2025. Avvertenza. Si segnala che coloro che sono titolari di progetti che sono in graduatoria sulla base dei Decreti del Dipartimento Energia – Direzione Generale Programmi e Incentivi Finanziari nn. 249 e 250 del 30 novembre 2024 e ss.mm.ii., non possono rinunciare alla posizione acquisita allo scopo di presentare una nuova domanda per gli stessi progetti.   Notizie ImpreseOggi
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Agrivoltaico: riaperti i termini per gli incentivi a fondo perduto

Dom, 04/05/2025 - 12:09
Il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, con proprio decreto del 27 marzo 2025 ha riaperto i termini per la concessione di contributi a fondo perduto a favore della costruzione di impianti agrivoltaici su terreni agricoli, così come previsti dal DM 22 dicembre 2023, n. 436, noto anche come Dm Agrivoltaico. Interventi oggetto dell’agevolazioni a fondo perduto. Costituiscono oggetto del contributo a fondo perduto gli interventi riguardanti la realizzazione di impianti agrivoltaici di natura sperimentale. Rientrano in questa definizione gli impianti che adottano congiuntamente:
  1. Soluzioni integrate che prevedono il montaggio dei moduli fotovoltaici elevati da terra in modo da non compromettere l’attività agricola o pastorale;
  2. sistemi di monitoraggio, che permettono di verificare l’impatto dell’impianto realizzato sulla produttività agricola, sul risparmio energetico e sul risparmio idrico.
Caratteristiche degli impianti agrivoltaici. Non possono essere ammessi all’incentivo gli impianti per i quali i lavori siano iniziati prima di aver presentato la domanda di partecipazione. Inoltre gli impianti per i quali si procede alla richiesta di ammissione all’incentivo devono possedere i seguenti requisiti:
  • possesso del titolo abilitativo alla costruzione e all'esercizio dell'impianto. In alternativa, ove previsto, il provvedimento favorevole di valutazione di impatto ambientale;
  • possesso del preventivo di connessione alla rete elettrica accettato in via definitiva;
  • garantire la possibilità di continuare l’attività agricola o pastorale al di sotto dell’impianto, senza essere di alcun ostacolo;
  • rispettare i requisiti previsti nell’Allegato 2 lettera a) del Decreto, tra cui il fatto che la superficie destinata all’attività agricola deve essere almeno il 70% dell’intera superficie interessata dall’intervento e che i pannelli abbiano un’altezza da terra di almeno 2,1 metri in caso di esercizio di attività colturale o 1,30 metri in caso di attività di allevamento di animali;
  • siano di nuova costruzione e realizzati con componenti di nuova costruzioni e siano conformi alle norme in materia di tutela ambientale;
  • siano in possesso della dichiarazione di un Istituto bancario che attesti la capacità finanziaria ed economica del soggetto che ha presentato la domanda. In alternativa si può presentare l’impegno di un Istituto bancario a finanziare l’intervento. Nel caso dell’ATI la dichiarazione di capacità finanziaria può essere riferita anche a solo uno dei soggetti che la compongono.
I lavori devono essere terminati entro diciotto mesi dalla comunicazione di ammissione all’incentivo a fondo perduto. Beneficiari dell’intervento a fondo perduto. Come accennato, possono essere beneficiari dell’intervento a fondo perduto:
  1. Imprenditori agricoli, cioè coloro che ai sensi dell’art. 2135 del Codice Civile esercitano l’attività di coltivazione del fondo, la selvicoltura, l’allevamento di animali e attività connesse. Sono ammessi imprenditori agricoli sia a titolo individuale che in forma societaria compresa quella cooperativa e i consorzi formati da due o più imprenditori agricoli. Non possono essere destinatari di agevolazioni gli imprenditori agricoli che sono esonerati dalla tenuta della contabilità Iva: si tratta di quegli agricoltori che hanno un volume d’affari annuo inferiore ai 7.000 euro.
  2. Le associazioni temporanee di imprese (A.T.I.) che comprendono almeno un imprenditore agricolo.
Misura dell’incentivo a fondo perduto. Il Dm Agrivoltaico prevede:
  • un contributo in conto capitale nella misura massima del 40 per cento dei costi ammissibili;
  • una tariffa incentivante applicata alla produzione di energia elettrica netta immessa in rete.
Termini per la presentazione della domanda a fondo perduto. I soggetti beneficiari possono presentare la domanda di finanziamento a fondo perduto a partire dal giorno 01 aprile 2025 e termine al 30 giugno 2025. Avvertenza. Si segnala che coloro che sono titolari di progetti che sono in graduatoria sulla base dei Decreti del Dipartimento Energia – Direzione Generale Programmi e Incentivi Finanziari nn. 249 e 250 del 30 novembre 2024 e ss.mm.ii., non possono rinunciare alla posizione acquisita allo scopo di presentare una nuova domanda per gli stessi progetti.   Notizie ImpreseOggi
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Italiani con pensioni di San Marino: nuovi stop alle pretese del Fisco italiano.

Dom, 27/04/2025 - 21:18
La questione è nota: l’Agenzia delle Entrate di Rimini ritiene che le pensioni che un residente italiano percepisce dalla Repubblica di San Marino debbano essere interamente dichiarate in Italia e le eventuali imposte trattenute all’estero non possano formare oggetto di credito di imposta ma devono essere chieste a rimborso allo Stato estero che le ha effettuate. Di contro, la Repubblica di San Marino sostiene che le pensioni erogate a favore di cittadini italiani debbano scontare le imposte solo a San Marino e, di conseguenza, nega qualsiasi possibilità di vederle rimborsate. Le prime sentenze sulla querelle pensioni di San Marino. Questa diatriba è già stata oggetto di due sentenze della Corte di Giustizia Tributaria di Rimini, la numero 144 e 145 entrambe del 24 luglio 2024 e depositate il 27 agosto 2024, le quali entrambe hanno riconosciuto le ragioni del contribuente e hanno annullato gli avvisi di accertamenti emessi dall’Agenzia delle Entrate. Il concetto di sicurezza sociale nei rapporti con San Marino. Il nodo centrale della discordia si basa sulla interpretazione del concetto di “sicurezza sociale” contenuto nell’art. 18 del Trattato contro le doppie imposizioni sottoscritto dalle due Repubbliche. Nel comma 1 del Trattato si legge che le pensioni pagate da uno Stato contraente a favore di un residente dell’altro Stato contraente scontano le imposte solo in quest’ultimo Stato. In sostanza se la Repubblica di San Marino paga le pensioni a un italiano, questo è obbligato a pagare le imposte solo in Italia. Il successivo comma 3 dell’art. 18, tuttavia, per complicare ulteriormente le cose introduce una deroga a questo principio. Infatti “le pensioni e altri pagamenti analoghi ricevuti nell’ambito della legislazione di sicurezza sociale di uno Stato contraente sono imponibili soltanto in detto Stato”: se la Repubblica di San Marino eroga una pensione di “sicurezza sociale” a un cittadino italiano questo pagherà le tasse solo nella Repubblica di San Marino. Sembra tutto facile e molto comprensibile. A questo punto non resta altro che capire cosa rientra nel concetto di “sicurezza sociale”. Per l’Agenzia delle Entrate con “sicurezza sociale” si intendono solo le pensioni di invalidità o sociali, cioè quelle che non tengono conto dei contributi effettivamente versati ma che vengono corrisposte sulla base di principi generali di solidarietà sociale.   Secondo i Giudici Tributari riminesi, invece, il termine “sicurezza sociale” non ha solo il significato di pura assistenza sociale ma anche quello più ampio di assistenza previdenziale. Questa loro convinzione, rintracciabile nelle richiamate sentenze 144 e 145 del 2024, poggia su quanto esplicitato nella sentenza della Cassazione n. 23001/2010, secondo la quale “il termine “sicurezza sociale” sia indicativo di un concetto di ampio contenuto, comprensivo di tutti i diritti, tanto di previdenza che di assistenza […]. Pertanto nel genere “sicurezza sociale” è venuto così a trovare collocazione non solo il trattamento assistenziale ma anche quello previdenziale […]. Conseguentemente ha trovato collocazione il concetto stesso di pensione, declinato in tutte le sue accezioni, anche quella di anzianità..” Le nuove pronunce in materia di pensioni sammarinesi. Alle due sentenze già citate, la 144 e la 145 del 2024, ne sono seguite altre, tutte orientate a riconoscere l’esenzione in Italia della tassazione delle pensioni erogate dalla Repubblica di San Marino: la numero 198 del 04.11.2024 depositata il giorno 08 novembre 2024, la numero 48 e la numero 49, entrambe del 13 gennaio 2025 e depositate il 27 gennaio 2025. Di interesse, però, ce ne sono ulteriormente due: la numero 6 del 09 dicembre 2024 depositata il 23 gennaio 2025 e la numero 40 del 09 dicembre 2024 depositata il 23 gennaio 2025.   Sentenza numero 6/2025 della C.g.t. di Rimini. La sentenza numero 6/2025 offre una prospettiva diversa rispetto alla questione della tassazione della pensione sammarinese. Infatti, se nelle altre sentenze l’oggetto del contendere è la tassabilità esclusivamente a San Marino, in questa il contribuente condivide la possibilità di pagare le imposte in Italia e, contemporaneamente, chiede la possibilità di usufruire del credito per le imposte maturate all’estero. Tesi ovviamente respinta dall’Agenzia delle Entrate di Rimini ma accolta dai Giudici tributari. Secondo quest’ultimi, infatti, negando la possibilità di scomputare il credito di imposta pagate all’estero ma aprendo solo alla richiesta di rimborso a San Marino (che a sua volta lo nega interpretando non correttamente la Convenzione contro le doppie imposizioni) si espone il contribuente alla doppia imposizione. Si contravviene in tal modo al dettato dell’art. 165 del Tuir che prevede appunto che le imposte pagate all’estero a titolo definitivo sono “ammesse in detrazione dall’imposta netta dovuta, fino a concorrenza della quota di imposta corrispondente al rapporto tra i redditi prodotti all’estero ed il reddito complessivo al netto delle perdite di precedenti periodi di imposta ammesse in diminuzione”. Sentenza n. 40/2025 della C.g.t. di Rimini. La seconda sentenza da approfondire è la 40/2025 la quale, tra le altre cose, apre alla possibilità di impugnare l’avviso ex art. 36 ter del Dpr n. 600/73 senza dover attendere la cartella di pagamento. L’Agenzia delle Entrate, infatti, per molto tempo ha sostenuto, in maniera solitaria, l’autonoma impugnabilità dell’avviso ex art. 36 ter, dovendo invece attendere la conseguente cartella di pagamento. Tesi più volte rigettata dalla Corte di Cassazione, non ultimo con l’ordinanza n. 10094/2023. Nel giudizio in esame il contribuente non ha atteso la cartella di pagamento e ha impugnato direttamente l’avviso ex art. 36 ter il quale disconosceva il credito di imposta maturato all’estero sulla pensione sammarinese percepita dal contribuente italiano. Infatti quest’ultimo aveva indicato in dichiarazione il reddito da pensione estera e nel quadro C del modello 730 il credito di imposta formato dalle imposte trattenute dalla Repubblica di San Marino. In sede di ricorso, poi, ha chiesto l’emendabilità della dichiarazione presentata, manifestando la volontà di esentare completamente in Italia la pensione percepita da San Marino, contrariamente a quanto fatto con la dichiarazione oggetto di contestazione. L’Agenzia delle Entrate, invece, pretendeva di non riconoscere il credito maturato sulle imposte pagate all’estero, sostenendo che la pensione andava interamente tassata in Italia e non a San Marino. Nulla però ha eccepito sulla questione dell’impugnabilità dell’avviso ex art. 36, ammettendo così implicitamente la sua possibilità. I Giudici riminesi hanno ammesso pacificamente la possibilità di impugnare l’avviso ex art. 36 ter senza bisogno di dover aspettare la relativa cartella di pagamento. Sulla questione della tassazione della pensione si sono poi allineati alle sentenze n. 144 e 145 e, per rafforzare il significato ampio di “sicurezza sociale”, hanno richiamato anche l’ordinanza numero 26915/22 della Cassazione la quale esplicita che si deve riconoscere al termine “sicurezza sociale” un significato “ampio e, come tale, comprensivo tanto dei diritti di previdenza che di quelli di assistenza”.   Notizie ImpreseOggi
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Italiani con pensioni di San Marino: nuovi stop alle pretese del Fisco italiano.

Dom, 27/04/2025 - 21:18
La questione è nota: l’Agenzia delle Entrate di Rimini ritiene che le pensioni che un residente italiano percepisce dalla Repubblica di San Marino debbano essere interamente dichiarate in Italia e le eventuali imposte trattenute all’estero non possano formare oggetto di credito di imposta ma devono essere chieste a rimborso allo Stato estero che le ha effettuate. Di contro, la Repubblica di San Marino sostiene che le pensioni erogate a favore di cittadini italiani debbano scontare le imposte solo a San Marino e, di conseguenza, nega qualsiasi possibilità di vederle rimborsate. Le prime sentenze sulla querelle pensioni di San Marino. Questa diatriba è già stata oggetto di due sentenze della Corte di Giustizia Tributaria di Rimini, la numero 144 e 145 entrambe del 24 luglio 2024 e depositate il 27 agosto 2024, le quali entrambe hanno riconosciuto le ragioni del contribuente e hanno annullato gli avvisi di accertamenti emessi dall’Agenzia delle Entrate. Il concetto di sicurezza sociale nei rapporti con San Marino. Il nodo centrale della discordia si basa sulla interpretazione del concetto di “sicurezza sociale” contenuto nell’art. 18 del Trattato contro le doppie imposizioni sottoscritto dalle due Repubbliche. Nel comma 1 del Trattato si legge che le pensioni pagate da uno Stato contraente a favore di un residente dell’altro Stato contraente scontano le imposte solo in quest’ultimo Stato. In sostanza se la Repubblica di San Marino paga le pensioni a un italiano, questo è obbligato a pagare le imposte solo in Italia. Il successivo comma 3 dell’art. 18, tuttavia, per complicare ulteriormente le cose introduce una deroga a questo principio. Infatti “le pensioni e altri pagamenti analoghi ricevuti nell’ambito della legislazione di sicurezza sociale di uno Stato contraente sono imponibili soltanto in detto Stato”: se la Repubblica di San Marino eroga una pensione di “sicurezza sociale” a un cittadino italiano questo pagherà le tasse solo nella Repubblica di San Marino. Sembra tutto facile e molto comprensibile. A questo punto non resta altro che capire cosa rientra nel concetto di “sicurezza sociale”. Per l’Agenzia delle Entrate con “sicurezza sociale” si intendono solo le pensioni di invalidità o sociali, cioè quelle che non tengono conto dei contributi effettivamente versati ma che vengono corrisposte sulla base di principi generali di solidarietà sociale.   Secondo i Giudici Tributari riminesi, invece, il termine “sicurezza sociale” non ha solo il significato di pura assistenza sociale ma anche quello più ampio di assistenza previdenziale. Questa loro convinzione, rintracciabile nelle richiamate sentenze 144 e 145 del 2024, poggia su quanto esplicitato nella sentenza della Cassazione n. 23001/2010, secondo la quale “il termine “sicurezza sociale” sia indicativo di un concetto di ampio contenuto, comprensivo di tutti i diritti, tanto di previdenza che di assistenza […]. Pertanto nel genere “sicurezza sociale” è venuto così a trovare collocazione non solo il trattamento assistenziale ma anche quello previdenziale […]. Conseguentemente ha trovato collocazione il concetto stesso di pensione, declinato in tutte le sue accezioni, anche quella di anzianità..” Le nuove pronunce in materia di pensioni sammarinesi. Alle due sentenze già citate, la 144 e la 145 del 2024, ne sono seguite altre, tutte orientate a riconoscere l’esenzione in Italia della tassazione delle pensioni erogate dalla Repubblica di San Marino: la numero 198 del 04.11.2024 depositata il giorno 08 novembre 2024, la numero 48 e la numero 49, entrambe del 13 gennaio 2025 e depositate il 27 gennaio 2025. Di interesse, però, ce ne sono ulteriormente due: la numero 6 del 09 dicembre 2024 depositata il 23 gennaio 2025 e la numero 40 del 09 dicembre 2024 depositata il 23 gennaio 2025.   Sentenza numero 6/2025 della C.g.t. di Rimini. La sentenza numero 6/2025 offre una prospettiva diversa rispetto alla questione della tassazione della pensione sammarinese. Infatti, se nelle altre sentenze l’oggetto del contendere è la tassabilità esclusivamente a San Marino, in questa il contribuente condivide la possibilità di pagare le imposte in Italia e, contemporaneamente, chiede la possibilità di usufruire del credito per le imposte maturate all’estero. Tesi ovviamente respinta dall’Agenzia delle Entrate di Rimini ma accolta dai Giudici tributari. Secondo quest’ultimi, infatti, negando la possibilità di scomputare il credito di imposta pagate all’estero ma aprendo solo alla richiesta di rimborso a San Marino (che a sua volta lo nega interpretando non correttamente la Convenzione contro le doppie imposizioni) si espone il contribuente alla doppia imposizione. Si contravviene in tal modo al dettato dell’art. 165 del Tuir che prevede appunto che le imposte pagate all’estero a titolo definitivo sono “ammesse in detrazione dall’imposta netta dovuta, fino a concorrenza della quota di imposta corrispondente al rapporto tra i redditi prodotti all’estero ed il reddito complessivo al netto delle perdite di precedenti periodi di imposta ammesse in diminuzione”. Sentenza n. 40/2025 della C.g.t. di Rimini. La seconda sentenza da approfondire è la 40/2025 la quale, tra le altre cose, apre alla possibilità di impugnare l’avviso ex art. 36 ter del Dpr n. 600/73 senza dover attendere la cartella di pagamento. L’Agenzia delle Entrate, infatti, per molto tempo ha sostenuto, in maniera solitaria, l’autonoma impugnabilità dell’avviso ex art. 36 ter, dovendo invece attendere la conseguente cartella di pagamento. Tesi più volte rigettata dalla Corte di Cassazione, non ultimo con l’ordinanza n. 10094/2023. Nel giudizio in esame il contribuente non ha atteso la cartella di pagamento e ha impugnato direttamente l’avviso ex art. 36 ter il quale disconosceva il credito di imposta maturato all’estero sulla pensione sammarinese percepita dal contribuente italiano. Infatti quest’ultimo aveva indicato in dichiarazione il reddito da pensione estera e nel quadro C del modello 730 il credito di imposta formato dalle imposte trattenute dalla Repubblica di San Marino. In sede di ricorso, poi, ha chiesto l’emendabilità della dichiarazione presentata, manifestando la volontà di esentare completamente in Italia la pensione percepita da San Marino, contrariamente a quanto fatto con la dichiarazione oggetto di contestazione. L’Agenzia delle Entrate, invece, pretendeva di non riconoscere il credito maturato sulle imposte pagate all’estero, sostenendo che la pensione andava interamente tassata in Italia e non a San Marino. Nulla però ha eccepito sulla questione dell’impugnabilità dell’avviso ex art. 36, ammettendo così implicitamente la sua possibilità. I Giudici riminesi hanno ammesso pacificamente la possibilità di impugnare l’avviso ex art. 36 ter senza bisogno di dover aspettare la relativa cartella di pagamento. Sulla questione della tassazione della pensione si sono poi allineati alle sentenze n. 144 e 145 e, per rafforzare il significato ampio di “sicurezza sociale”, hanno richiamato anche l’ordinanza numero 26915/22 della Cassazione la quale esplicita che si deve riconoscere al termine “sicurezza sociale” un significato “ampio e, come tale, comprensivo tanto dei diritti di previdenza che di quelli di assistenza”.   Notizie ImpreseOggi
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Riduzione Inps 50% neo iscritti: pubblicata la circolare applicativa

Ven, 25/04/2025 - 16:36
Con la Legge di Stabilità 2025 è stata introdotta una riduzione, pari al 50%, dei contributi previdenziali artigiani e commercianti a favore di coloro che si iscrivono per la prima volta alla gestione Artigiani o Commercianti gestita dall’Inps. L’agevolazione vale sia sull’importo dovuto per i contributi minimali sia sugli importi che eccedono tale limite. Tuttavia per rendere effettivamente applicabile tale agevolazione si dovevano attendere le istruzioni operative. Istruzioni che, finalmente, sono arrivate con la circolare n. 83 che l’Inps ha reso disponibile sul suo sito il giorno 24 aprile 2025. Beneficiari della riduzione Inps al 50%. La Legge di Stabilità del 2025, all’art. 1 comma 186, prevede che i beneficiari della riduzione dei contributi Inps al 50% possono essere:
  • i titolari di ditte individuali e familiari che percepiscono dei redditi di impresa;
  • i contribuenti forfettari che percepiscono reddito di impresa;
  • i soci delle società di persone o di capitali, tenuti al versamento dei contributi IVS;
  • coadiuvanti e coadiutori familiari dei titolari di impresa che possiedono i sopra indicati requisiti.
I requisiti per poter beneficiare della riduzione sono: Può richiedere l’agevolazione anche l’imprenditore che ha avviato l’attività nel corso del 2025 e che abbia presentato la richiesta di iscrizione al Registro Imprese e all’Inps nei termini di legge. Ad esempio, può godere dell’agevolazione il titolare di impresa che avvia l’attività il 20 dicembre 2025 e poi si iscrive alla gestione commercianti o artigiani entro il 19 gennaio 2026. Durata dell’agevolazione Inps. La durata della riduzione è di trentasei mesi a decorrere dalla data di avvio dell’attività di impresa o di primo ingresso nella società. Data di avvio dell’attività di impresa che coincide con la prima iscrizione nella gestione IVS. I mesi di riduzione devono essere continuativi e non possono essere interrotti e poi ripresi. Si può passare da una gestione all’altra nel corso dei trentasei mesi di durata dell’agevolazione ma non ci possono essere buchi contributivi, come si può passare dalla ditta individuale a socio di una snc, purchè vi sia continuità contributiva. Si ricorda che la riduzione del 50% si calcola solo sull’aliquota della contribuzione artigiani e commercianti, mentre è dovuta per intero il contributo di maternità (pari a 7,44 euro annui) e, per i soli commercianti, il contributo destinato al finanziamento dell’indennizzo per la cessazione definitiva dell’attività senza aver raggiunto i requisiti per la pensione di vecchiaia. Calcolo dei contributi per la pensione. L’utilizzo della riduzione del 50% dei contributi IVS comporta il dimezzamento del calcolo dei mesi ai fini del computo del periodo per godere della pensione. Si ricorda che l’art. 2, comma 20 della Legge 335/1995 prevede che il versamento del contributo annuo minimale fa maturare, ai fini del calcolo del periodo per andare in pensione, 12 mesi effettivi. Vuol dire che se un titolare di impresa versa per intero i contributi minimali nel 2025, ai fini pensionistici maturerà 12 mesi di contributi, cioè un anno intero. Al contrario, se ci si avvale di una riduzione dell’obbligo nel pagamento dei contributi minimali, i mesi accreditati ai fini pensionistici saranno riparametrati sulla base della percentuale di riduzione di cui si è beneficiato. Nel caso della riduzione del 50% della contribuzione previdenziale, quindi, saranno accreditati solo 6 mesi. In sostanza, se ci si avvale dell’agevolazione del 50%, al fine di poter maturare un anno utile al calcolo della pensione, bisognerà effettivamente lavorarne due, essendo conteggiati i contributi al 50% del loro valore. Riduzione 50% e contribuenti forfettari. I contribuenti forfettari che, nel dubbio, hanno presentato entro il 28 febbraio 2025 la richiesta per la riduzione dei contributi del 35%, possono stare tranquilli: hanno la facoltà, infatti, eccezionalmente per l’anno 2025 di richiedere la riduzione del 50% dei contributi, fermo restando il rispetto dei requisiti di ammissione (essersi iscritti per la prima volta alla gestione IVS nel corso del 2025). Inoltre, al termine dei trentasei mesi di utilizzo del beneficio del 50%, i contribuenti forfettari potranno richiedere la riduzione del 35% dei contributi IVS prevista dall’articolo 1, comma da 77-4 della L. 190/2014. Modalità per richiedere il beneficio. Il richiedente potrà presentare la domanda per la riduzione accedendo al “Portale delle Agevolazioni” e compilando il relativo modulo. Domanda: chi ha aperto la partita iva nel 2024 può richiedere l’agevolazione? Nell’operatività quotidiana può essere capitato che un contribuente abbia aperto la partita iva nel corso del 2024 e solo nel 2025 abbia comunicato l’inizio attività alla Camera di Commercio e, di conseguenza, all’Inps. Analogo problema può averlo chi ha aperto una società nel corso del 2024 e solo nel 2025 abbia provveduto alla sua attivazione, facendo sorgere l’obbligo del versamento contributivo. La circolare n. 83/2025 su questo punto non dice niente. Occorre, dunque, arrivare alla risposta basandosi sulla normativa vigente. Il comma 186 della Legge di Stabilità del 2025 recita testualmente: “I lavoratori che nell'anno 2025 si iscrivono per la prima volta a una delle gestioni speciali autonome degli artigiani e degli esercenti attività commerciali […], che percepiscono redditi d'impresa, anche in regime forfetario, possono chiedere una riduzione contributiva al 50 per cento”. Più oltre si legge ancora che l’agevolazione ha una durata di trentasei mesi a decorrere “dalla data di avvio dell'attività di impresa o di primo ingresso nella società avvenuti nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2025 e il 31 dicembre 2025”. Nella legge si fa esclusivo riferimento alla data di avvio dell’impresa e alla data di prima iscrizione alla gestione IVS e non si accenna minimamente alla data di apertura della posizione IVA. Si ricorda che la data di avvio dell’impresa, così come la data di prima iscrizione alla gestione IVS, può non necessariamente coincidere con l’apertura della partita Iva. Si può concludere, quindi, che chi ha aperto la partita IVA nel 2024 e non ha mai dato inizio attività come artigiano o commerciante fino al 2025 può, a parere di chi scrive, utilizzare la riduzione del 50% dei contributi INPS. Così come chi nel 2024 o in anni precedenti ha esercitato una attività libero professionale, non soggetta all’iscrizione IVS, se nel 2025 dà avvio ad una attività come commerciante o artigiano, può avvalersi dell’agevolazione sulla riduzione alla metà dei contributi previdenziali dovuti.   Notizie ImpreseOggi
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Riduzione Inps 50% neo iscritti: pubblicata la circolare applicativa

Ven, 25/04/2025 - 16:36
Con la Legge di Stabilità 2025 è stata introdotta una riduzione, pari al 50%, dei contributi previdenziali artigiani e commercianti a favore di coloro che si iscrivono per la prima volta alla gestione Artigiani o Commercianti gestita dall’Inps. L’agevolazione vale sia sull’importo dovuto per i contributi minimali sia sugli importi che eccedono tale limite. Tuttavia per rendere effettivamente applicabile tale agevolazione si dovevano attendere le istruzioni operative. Istruzioni che, finalmente, sono arrivate con la circolare n. 83 che l’Inps ha reso disponibile sul suo sito il giorno 24 aprile 2025. Beneficiari della riduzione Inps al 50%. La Legge di Stabilità del 2025, all’art. 1 comma 186, prevede che i beneficiari della riduzione dei contributi Inps al 50% possono essere:
  • i titolari di ditte individuali e familiari che percepiscono dei redditi di impresa;
  • i contribuenti forfettari che percepiscono reddito di impresa;
  • i soci delle società di persone o di capitali, tenuti al versamento dei contributi IVS;
  • coadiuvanti e coadiutori familiari dei titolari di impresa che possiedono i sopra indicati requisiti.
I requisiti per poter beneficiare della riduzione sono: Può richiedere l’agevolazione anche l’imprenditore che ha avviato l’attività nel corso del 2025 e che abbia presentato la richiesta di iscrizione al Registro Imprese e all’Inps nei termini di legge. Ad esempio, può godere dell’agevolazione il titolare di impresa che avvia l’attività il 20 dicembre 2025 e poi si iscrive alla gestione commercianti o artigiani entro il 19 gennaio 2026. Durata dell’agevolazione Inps. La durata della riduzione è di trentasei mesi a decorrere dalla data di avvio dell’attività di impresa o di primo ingresso nella società. Data di avvio dell’attività di impresa che coincide con la prima iscrizione nella gestione IVS. I mesi di riduzione devono essere continuativi e non possono essere interrotti e poi ripresi. Si può passare da una gestione all’altra nel corso dei trentasei mesi di durata dell’agevolazione ma non ci possono essere buchi contributivi, come si può passare dalla ditta individuale a socio di una snc, purchè vi sia continuità contributiva. Si ricorda che la riduzione del 50% si calcola solo sull’aliquota della contribuzione artigiani e commercianti, mentre è dovuta per intero il contributo di maternità (pari a 7,44 euro annui) e, per i soli commercianti, il contributo destinato al finanziamento dell’indennizzo per la cessazione definitiva dell’attività senza aver raggiunto i requisiti per la pensione di vecchiaia. Calcolo dei contributi per la pensione. L’utilizzo della riduzione del 50% dei contributi IVS comporta il dimezzamento del calcolo dei mesi ai fini del computo del periodo per godere della pensione. Si ricorda che l’art. 2, comma 20 della Legge 335/1995 prevede che il versamento del contributo annuo minimale fa maturare, ai fini del calcolo del periodo per andare in pensione, 12 mesi effettivi. Vuol dire che se un titolare di impresa versa per intero i contributi minimali nel 2025, ai fini pensionistici maturerà 12 mesi di contributi, cioè un anno intero. Al contrario, se ci si avvale di una riduzione dell’obbligo nel pagamento dei contributi minimali, i mesi accreditati ai fini pensionistici saranno riparametrati sulla base della percentuale di riduzione di cui si è beneficiato. Nel caso della riduzione del 50% della contribuzione previdenziale, quindi, saranno accreditati solo 6 mesi. In sostanza, se ci si avvale dell’agevolazione del 50%, al fine di poter maturare un anno utile al calcolo della pensione, bisognerà effettivamente lavorarne due, essendo conteggiati i contributi al 50% del loro valore. Riduzione 50% e contribuenti forfettari. I contribuenti forfettari che, nel dubbio, hanno presentato entro il 28 febbraio 2025 la richiesta per la riduzione dei contributi del 35%, possono stare tranquilli: hanno la facoltà, infatti, eccezionalmente per l’anno 2025 di richiedere la riduzione del 50% dei contributi, fermo restando il rispetto dei requisiti di ammissione (essersi iscritti per la prima volta alla gestione IVS nel corso del 2025). Inoltre, al termine dei trentasei mesi di utilizzo del beneficio del 50%, i contribuenti forfettari potranno richiedere la riduzione del 35% dei contributi IVS prevista dall’articolo 1, comma da 77-4 della L. 190/2014. Modalità per richiedere il beneficio. Il richiedente potrà presentare la domanda per la riduzione accedendo al “Portale delle Agevolazioni” e compilando il relativo modulo. Domanda: chi ha aperto la partita iva nel 2024 può richiedere l’agevolazione? Nell’operatività quotidiana può essere capitato che un contribuente abbia aperto la partita iva nel corso del 2024 e solo nel 2025 abbia comunicato l’inizio attività alla Camera di Commercio e, di conseguenza, all’Inps. Analogo problema può averlo chi ha aperto una società nel corso del 2024 e solo nel 2025 abbia provveduto alla sua attivazione, facendo sorgere l’obbligo del versamento contributivo. La circolare n. 83/2025 su questo punto non dice niente. Occorre, dunque, arrivare alla risposta basandosi sulla normativa vigente. Il comma 186 della Legge di Stabilità del 2025 recita testualmente: “I lavoratori che nell'anno 2025 si iscrivono per la prima volta a una delle gestioni speciali autonome degli artigiani e degli esercenti attività commerciali […], che percepiscono redditi d'impresa, anche in regime forfetario, possono chiedere una riduzione contributiva al 50 per cento”. Più oltre si legge ancora che l’agevolazione ha una durata di trentasei mesi a decorrere “dalla data di avvio dell'attività di impresa o di primo ingresso nella società avvenuti nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2025 e il 31 dicembre 2025”. Nella legge si fa esclusivo riferimento alla data di avvio dell’impresa e alla data di prima iscrizione alla gestione IVS e non si accenna minimamente alla data di apertura della posizione IVA. Si ricorda che la data di avvio dell’impresa, così come la data di prima iscrizione alla gestione IVS, può non necessariamente coincidere con l’apertura della partita Iva. Si può concludere, quindi, che chi ha aperto la partita IVA nel 2024 e non ha mai dato inizio attività come artigiano o commerciante fino al 2025 può, a parere di chi scrive, utilizzare la riduzione del 50% dei contributi INPS. Così come chi nel 2024 o in anni precedenti ha esercitato una attività libero professionale, non soggetta all’iscrizione IVS, se nel 2025 dà avvio ad una attività come commerciante o artigiano, può avvalersi dell’agevolazione sulla riduzione alla metà dei contributi previdenziali dovuti.   Notizie ImpreseOggi
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Il giardino di casa non paga l’Imu come area fabbricabile.

Dom, 20/04/2025 - 11:54
Il giardino di casa accatastato unitariamente con il fabbricato non paga l’Imu come area fabbricabile, anche se possiede una capacità edificatoria, purchè sia dimostrato il vincolo durevole con il bene di cui costituisce l’ornamento. Così si è espressa la C.g.t. di Rimini, sezione 1, con sentenza n. 55/2025 depositata il 27 gennaio 2025. Il caso: area edificabile, pertinenze e Imu. Il Comune di Santarcangelo di Romagna ha contestato a due comproprietari l’omessa dichiarazione di pertinenzialità per l’anno 2017 di un’area di circa 1.500 mq. che costituiva il giardino di una abitazione, in parte destinato ad area di manovra e parcheggio delle autovetture e in parte a orto ad uso domestico. La tesi del Comune si fonda sul fatto che l’area, all’epoca, possedeva una sua edificabilità in base allo strumento urbanistico vigente e che sulla stessa mancassero quelle opere “inamovibili” che sancissero un vincolo di accessorietà durevole. Secondo il Comune, infatti, la semplice presenza di un giardino e di un parcheggio non rappresenta un elemento “inamovibile” nel caso si volesse realizzare nell’area un compendio edilizio. La sentenza: il giardino accatastato con la casa. La Corte di Giustizia Tributaria riminese non è, però, di questo avviso. Sulla questione della dichiarazione di pertinenzialità, i Giudici osservano che la sua presentazione è necessaria qualora l’area sia un bene immobile separato ed autonomo rispetto alla casa alla quale viene asservita. Quando l’area sia accatastata unitariamente con il fabbricato come “bene comune non censibile”, rappresentando catastalmente un unico lotto, la dichiarazione di pertinenzialità è superflua, perché sarebbe come voler dichiarare l’area pertinenziale a sé stessa. Su questa affermazione poi non c’è nemmeno più nessun dubbio in quanto l’art. 1 c. 740 della Legge 160/19 ha stabilito che l’accatastamento unitario dell’area con il fabbricato asservito è da intendersi come elemento decisivo per stabilire la natura pertinenziale dell’area stessa. Per quanto riguarda l’elemento oggettivo della pertinenzialità, la Corte osserva che l’ampiezza dell’area non può costituire motivo per negarla, stante il fatto che non è la dimensione che ne sancisce o meno la connessione con il fabbricato asservito. Richiama, in tal senso, la sentenza della Corte di Cassazione n. 27573/18, che tratta un caso analogo a quello in esame. La sentenza citata rimanda alla nozione di pertinenzialità prevista dall’art. 817 del codice civile, il quale stabilisce che sono da considerare pertinenze le cose destinate in modo durevole a servizio o ornamento di un’altra cosa. Secondo gli Ermellini per stabilire la pertinenzialità di un bene immobile a un altro occorre innanzitutto verificarne la caratteristica oggettiva, cioè il fatto di essere ornamento o di servire un’altra cosa; funzione che è svolta in pieno da un giardino e da un’area di manovra e parcheggio. Fatta questa verifica occorre poi, successivamente, verificare se il vincolo di accessorietà è “durevole”. Per “durevole” si può intendere sia la presenza di opere inamovibili sia anche come presenza di un vincolo di accessorietà prolungato nel tempo, anche in assenza di opere rilevanti sull’area stessa. Nel caso trattato dalla citata sentenza della Cassazione, il vincolo durevole era rappresentato dal fatto che la destinazione a giardino dell’area fabbricabile permaneva su di essa da almeno trentasei anni. Conclusione: il giardino di casa non paga l'Imu.   I Giudici di Primo Grado di Rimini concludono, quindi, che, l’area fabbricabile si può considerare accessoria anche in assenza della specifica dichiarazione purchè questa sia accatasta unitariamente al fabbricato asservito e la destinazione ad ornamento o servizio di quest’ultimo sia presente da un numero ragionevole di anni, a prescindere dalla presenza, al suo interno, di opere considerate “inamovibili”. Notizie ImpreseOggi
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Il giardino di casa non paga l’Imu come area fabbricabile.

Dom, 20/04/2025 - 11:54
Il giardino di casa accatastato unitariamente con il fabbricato non paga l’Imu come area fabbricabile, anche se possiede una capacità edificatoria, purchè sia dimostrato il vincolo durevole con il bene di cui costituisce l’ornamento. Così si è espressa la C.g.t. di Rimini, sezione 1, con sentenza n. 55/2025 depositata il 27 gennaio 2025. Il caso: area edificabile, pertinenze e Imu. Il Comune di Santarcangelo di Romagna ha contestato a due comproprietari l’omessa dichiarazione di pertinenzialità per l’anno 2017 di un’area di circa 1.500 mq. che costituiva il giardino di una abitazione, in parte destinato ad area di manovra e parcheggio delle autovetture e in parte a orto ad uso domestico. La tesi del Comune si fonda sul fatto che l’area, all’epoca, possedeva una sua edificabilità in base allo strumento urbanistico vigente e che sulla stessa mancassero quelle opere “inamovibili” che sancissero un vincolo di accessorietà durevole. Secondo il Comune, infatti, la semplice presenza di un giardino e di un parcheggio non rappresenta un elemento “inamovibile” nel caso si volesse realizzare nell’area un compendio edilizio. La sentenza: il giardino accatastato con la casa. La Corte di Giustizia Tributaria riminese non è, però, di questo avviso. Sulla questione della dichiarazione di pertinenzialità, i Giudici osservano che la sua presentazione è necessaria qualora l’area sia un bene immobile separato ed autonomo rispetto alla casa alla quale viene asservita. Quando l’area sia accatastata unitariamente con il fabbricato come “bene comune non censibile”, rappresentando catastalmente un unico lotto, la dichiarazione di pertinenzialità è superflua, perché sarebbe come voler dichiarare l’area pertinenziale a sé stessa. Su questa affermazione poi non c’è nemmeno più nessun dubbio in quanto l’art. 1 c. 740 della Legge 160/19 ha stabilito che l’accatastamento unitario dell’area con il fabbricato asservito è da intendersi come elemento decisivo per stabilire la natura pertinenziale dell’area stessa. Per quanto riguarda l’elemento oggettivo della pertinenzialità, la Corte osserva che l’ampiezza dell’area non può costituire motivo per negarla, stante il fatto che non è la dimensione che ne sancisce o meno la connessione con il fabbricato asservito. Richiama, in tal senso, la sentenza della Corte di Cassazione n. 27573/18, che tratta un caso analogo a quello in esame. La sentenza citata rimanda alla nozione di pertinenzialità prevista dall’art. 817 del codice civile, il quale stabilisce che sono da considerare pertinenze le cose destinate in modo durevole a servizio o ornamento di un’altra cosa. Secondo gli Ermellini per stabilire la pertinenzialità di un bene immobile a un altro occorre innanzitutto verificarne la caratteristica oggettiva, cioè il fatto di essere ornamento o di servire un’altra cosa; funzione che è svolta in pieno da un giardino e da un’area di manovra e parcheggio. Fatta questa verifica occorre poi, successivamente, verificare se il vincolo di accessorietà è “durevole”. Per “durevole” si può intendere sia la presenza di opere inamovibili sia anche come presenza di un vincolo di accessorietà prolungato nel tempo, anche in assenza di opere rilevanti sull’area stessa. Nel caso trattato dalla citata sentenza della Cassazione, il vincolo durevole era rappresentato dal fatto che la destinazione a giardino dell’area fabbricabile permaneva su di essa da almeno trentasei anni. Conclusione: il giardino di casa non paga l'Imu.   I Giudici di Primo Grado di Rimini concludono, quindi, che, l’area fabbricabile si può considerare accessoria anche in assenza della specifica dichiarazione purchè questa sia accatasta unitariamente al fabbricato asservito e la destinazione ad ornamento o servizio di quest’ultimo sia presente da un numero ragionevole di anni, a prescindere dalla presenza, al suo interno, di opere considerate “inamovibili”. Notizie ImpreseOggi
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Fuori campo Iva la co-progettazione tra ente non commerciale e Comune.

Dom, 13/04/2025 - 12:15
Il Codice del Terzo Settore ha introdotto, con l’art. 55, la co-progettazione tra gli Enti del Terzo Settore e la Pubblica Amministrazione. L’introduzione di tale strumento permette agli enti locali di sviluppare il principio di sussidiarietà e cooperazione e ha lo scopo principale di individuare, da un lato, i bisogni di una collettività, e dall’altra, di coinvolgere quelle realtà che per diretta esperienza sono in grado di soddisfare questi bisogni. Tuttavia è sorto da più parti l’esigenza di capire se i contributi percepiti a seguito della firma di un accordo di co-progettazione siano da considerare “commerciali” e come tali soggetti a Iva, oppure “istituzionali” e quindi fuori dall’ambito dell’imposta sul valore aggiunto. Per rispondere a questa domanda si può far ricorso a una serie di documenti di prassi emanati dall’Agenzia delle Entrate nel corso degli anni. Il principale, che costituisce un architrave nell’interpretazione della fattispecie che stiamo esaminando, è la circolare n. 34 del 21 novembre 2013. La quale stabilisce, curiosamente, che non esiste alcuna regola precisa per interpretare la natura di una somma ricevuta da un Ente no profit. Occorre, invece, analizzare caso per caso, basandosi su tre principi fondamentali. 1.Esistenza di un rapporto sinallagmatico. Il primo lo si rintraccia nella risoluzione del 11 giugno 2002 n. 183 la quale stabilisce che un contributo è soggetto ad Iva allorquando viene ricevuto a fronte di una obbligazione che l’ente no profit si assume nei confronti dell’Amministrazione Pubblica. Il famoso rapporto sinallagmatico: l’ente locale eroga una somma a favore di un ente no profit e in cambio da questo riceve un servizio. Viceversa, se la somma viene concessa senza alcun obbligo di prestazione da parte dell’ente non commerciale, ci si trova senza ombra di dubbio di fronte a un contributo fuori campo Iva ai sensi dell’articolo 2, terzo comma, lettera a) del Dpr 633/72. 2. Rispetto dell’art. 12 della Legge 241/1990 Il secondo punto fermo prevede la necessità di analizzare se l’Amministrazione, nell’erogare il contributo, agisce secondo i principi contenuti nell’articolo 12 della legge 241/1990. Norma che prevede che la concessione di sovvenzioni o contributi deve avvenire secondo modalità e criteri predeterminati, a garanzia di trasparenza e imparzialità. Quando si rientra in questo caso? Quando la scelta dell’ente no profit beneficiario avviene sulla base di un regolamento precedentemente approvato oppure sulla base di un bando che ha seguito le regole di pubblicità previste dalle normative sugli appalti. Se vi ricorrono almeno una di queste due condizioni, la somma erogata può essere considerata come “contributo istituzionale” e, di conseguenza, essere considerata fuori campo di applicazione dell’Iva. 3. Finalità del contributo: interesse generale o particolare dell’Ente. Il terzo e ultimo punto principio da utilizzare si basa sulla necessità di valutare se la somma viene erogata a fronte di una prestazione che persegue un interesse generale oppure solo quello esclusivo dell’ente erogante. Su questo punto si può analizzare la risposta n. 375 del 2021, a proposito di un contributo erogato su un progetto FAMI, che ha tra gli obiettivi quelli di aiutare le persone fragili provenienti da Paesi extracomunitari. Nel caso esaminato il contributo era stato erogato a fronte di un Avviso pubblico da parte del Ministero e del Comune. Già di partenza, quindi, il contributo specifico rientrava nella casistica di cui all’art. 12 della legge 241/1990, proprio perché era stata erogato in conformità ai principi di massima pubblicità e trasparenza. Oltre a questo, però, l’Agenzia delle Entrate ha osservato che le elargizioni di denaro erano destinate a finanziare attività di interesse generale e rivolte a soggetti fragili, non certo per fornire servizi di diretto ed esclusivo interesse dell’ente proponente.   Conclusione: i contributi della co-progettazione sono fuori campo Iva. Arrivati a questo punto, si deve rispondere alla domanda iniziale: i contributi legati alla co-progettazione di cui all’art. 55 del Codice del Terzo Settore possono rientrare nell’esclusione dell’applicazione della disciplina Iva? Secondo la risposta ad interpello n. 904-785/2024 della Direzione Regionale della Lombardia, le somme percepite a seguito di una co-progettazione non sono soggette a Iva. Ad analoga conclusione si arriva, però, anche esaminando il dettato letterale del citato art. 55. Innanzitutto il coinvolgimento degli enti nella co-progettazione deve avvenire sulla base della legge 241/1990 oppure sulla base di forme di coinvolgimento che garantiscano “principi di trasparenza, imparzialità, partecipazione e parità di trattamento, previa definizione, da parte della pubblica amministrazione procedente, degli obiettivi generali e specifici dell'intervento, della durata e delle caratteristiche essenziali dello stesso nonché dei criteri e delle modalità per l'individuazione degli enti partner”. Il punto fermo della massima pubblicità e della trasparenza dell’iniziativa è qui espressamente previsto. Inoltre l’Ente locale deve definire e realizzare “specifici progetti di servizio o di intervento finalizzati a soddisfare bisogni definiti”. Il punto fermo della soddisfazione di bisogni ed interessi generali e quello della mancanza di un rapporto sinallagmatico sono qui rispettati.

 

 

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Fuori campo Iva la co-progettazione tra ente non commerciale e Comune.

Dom, 13/04/2025 - 12:15
Il Codice del Terzo Settore ha introdotto, con l’art. 55, la co-progettazione tra gli Enti del Terzo Settore e la Pubblica Amministrazione. L’introduzione di tale strumento permette agli enti locali di sviluppare il principio di sussidiarietà e cooperazione e ha lo scopo principale di individuare, da un lato, i bisogni di una collettività, e dall’altra, di coinvolgere quelle realtà che per diretta esperienza sono in grado di soddisfare questi bisogni. Tuttavia è sorto da più parti l’esigenza di capire se i contributi percepiti a seguito della firma di un accordo di co-progettazione siano da considerare “commerciali” e come tali soggetti a Iva, oppure “istituzionali” e quindi fuori dall’ambito dell’imposta sul valore aggiunto. Per rispondere a questa domanda si può far ricorso a una serie di documenti di prassi emanati dall’Agenzia delle Entrate nel corso degli anni. Il principale, che costituisce un architrave nell’interpretazione della fattispecie che stiamo esaminando, è la circolare n. 34 del 21 novembre 2013. La quale stabilisce, curiosamente, che non esiste alcuna regola precisa per interpretare la natura di una somma ricevuta da un Ente no profit. Occorre, invece, analizzare caso per caso, basandosi su tre principi fondamentali. 1.Esistenza di un rapporto sinallagmatico. Il primo lo si rintraccia nella risoluzione del 11 giugno 2002 n. 183 la quale stabilisce che un contributo è soggetto ad Iva allorquando viene ricevuto a fronte di una obbligazione che l’ente no profit si assume nei confronti dell’Amministrazione Pubblica. Il famoso rapporto sinallagmatico: l’ente locale eroga una somma a favore di un ente no profit e in cambio da questo riceve un servizio. Viceversa, se la somma viene concessa senza alcun obbligo di prestazione da parte dell’ente non commerciale, ci si trova senza ombra di dubbio di fronte a un contributo fuori campo Iva ai sensi dell’articolo 2, terzo comma, lettera a) del Dpr 633/72. 2. Rispetto dell’art. 12 della Legge 241/1990 Il secondo punto fermo prevede la necessità di analizzare se l’Amministrazione, nell’erogare il contributo, agisce secondo i principi contenuti nell’articolo 12 della legge 241/1990. Norma che prevede che la concessione di sovvenzioni o contributi deve avvenire secondo modalità e criteri predeterminati, a garanzia di trasparenza e imparzialità. Quando si rientra in questo caso? Quando la scelta dell’ente no profit beneficiario avviene sulla base di un regolamento precedentemente approvato oppure sulla base di un bando che ha seguito le regole di pubblicità previste dalle normative sugli appalti. Se vi ricorrono almeno una di queste due condizioni, la somma erogata può essere considerata come “contributo istituzionale” e, di conseguenza, essere considerata fuori campo di applicazione dell’Iva. 3. Finalità del contributo: interesse generale o particolare dell’Ente. Il terzo e ultimo punto principio da utilizzare si basa sulla necessità di valutare se la somma viene erogata a fronte di una prestazione che persegue un interesse generale oppure solo quello esclusivo dell’ente erogante. Su questo punto si può analizzare la risposta n. 375 del 2021, a proposito di un contributo erogato su un progetto FAMI, che ha tra gli obiettivi quelli di aiutare le persone fragili provenienti da Paesi extracomunitari. Nel caso esaminato il contributo era stato erogato a fronte di un Avviso pubblico da parte del Ministero e del Comune. Già di partenza, quindi, il contributo specifico rientrava nella casistica di cui all’art. 12 della legge 241/1990, proprio perché era stata erogato in conformità ai principi di massima pubblicità e trasparenza. Oltre a questo, però, l’Agenzia delle Entrate ha osservato che le elargizioni di denaro erano destinate a finanziare attività di interesse generale e rivolte a soggetti fragili, non certo per fornire servizi di diretto ed esclusivo interesse dell’ente proponente.   Conclusione: i contributi della co-progettazione sono fuori campo Iva. Arrivati a questo punto, si deve rispondere alla domanda iniziale: i contributi legati alla co-progettazione di cui all’art. 55 del Codice del Terzo Settore possono rientrare nell’esclusione dell’applicazione della disciplina Iva? Secondo la risposta ad interpello n. 904-785/2024 della Direzione Regionale della Lombardia, le somme percepite a seguito di una co-progettazione non sono soggette a Iva. Ad analoga conclusione si arriva, però, anche esaminando il dettato letterale del citato art. 55. Innanzitutto il coinvolgimento degli enti nella co-progettazione deve avvenire sulla base della legge 241/1990 oppure sulla base di forme di coinvolgimento che garantiscano “principi di trasparenza, imparzialità, partecipazione e parità di trattamento, previa definizione, da parte della pubblica amministrazione procedente, degli obiettivi generali e specifici dell'intervento, della durata e delle caratteristiche essenziali dello stesso nonché dei criteri e delle modalità per l'individuazione degli enti partner”. Il punto fermo della massima pubblicità e della trasparenza dell’iniziativa è qui espressamente previsto. Inoltre l’Ente locale deve definire e realizzare “specifici progetti di servizio o di intervento finalizzati a soddisfare bisogni definiti”. Il punto fermo della soddisfazione di bisogni ed interessi generali e quello della mancanza di un rapporto sinallagmatico sono qui rispettati.

 

 

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