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Scuola di prevenzione José Bleger Rimini

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Scuola di prevenzione, psicanalisi operativa e concezione operativa di gruppo.
Aggiornato: 6 giorni 2 ore fa

Dall’Ayahuasca all’Inipi: Ricerche sugli stati modificati di coscienza

Gio, 28/01/2016 - 12:19

La Scuola di prevenzione “José Bleger”, in collaborazione con l’associazione di etnopsicanalisi Esodo, organizza il seminario:

Dall’Ayahuasca all’Inipi: Ricerche sugli stati modificati di coscienza

L’incontro si terrà venerdì 12 febbraio
dalle ore 16,00 alle ore 19,00
presso la Sala RM 25, a Rimini, in Corso d’Augusto 241.

Questo il programma:

16.15- 16.25 Introduzione, Leonardo Montecchi

16.30-16.50 Ayahuasca, la liana degli spiriti- botanica, farmacologia, effetti neurofisiologici e psicologici, Massimiliano Geraci

16.55-17.10 Un’esperienza con Inipi e Gruppi Operativi con gli utenti del Cod di Vallecchio, Luca Bersani

17.15-17.35 Etnografia dell’ayahuasca, Annalisa Valeri

17.35- 19.00 Dibattito

 

Non sono stati richiesti, ne lo saranno crediti ECM.
Il seminario è gratuito. Si richiede l’interesse al tema e la volontà di partecipare.

Categorie: siti che curo

Charles Peirce nostro contemporaneo

Mar, 19/01/2016 - 21:51

Il Dipartimento di Scienze per la Qualità della Vita – Università di Bologna,

e la Scuola José Bleger di Rimini,

invitano al seminario su Charle Sanders Peirce, il più importante filosofo americano e fondatore della semiotica:

Su Perice. Interpretazioni, ricerche, prospettive

(Bompiani, 2015)

a cura di Massimo A. Bonfantini, Rossella Fabbrichesi e Salvatore Zingale

Il seminario si svolgerà venerdì 22 gennaio dalle ore 16.00 alle ore 19.00
presso la Sede Universitaria Valgimigli, via Santa Chiara 40 

Ne dialogano, assieme ai partecipanti,

Massimo A. Bonfantini,
Leonardo Montecchi
Giampaolo Proni

 

Categorie: siti che curo

Il pensiero dialettico di José Bleger

Sab, 12/12/2015 - 12:47

di Ariel Liberman

La sezione sui lavori chiave dell’International Journal of Psychoanalysis che verrà pubblicata (agosto 2012, vol. 93, Issue 4, p. 819-1100) tratta di un lavoro di José Bleger, del (1969) 1970, che è commentato da due riconosciuti psicoanalisti contemporanei: Haydée Faimberg e Jay Greenberg. Questa sezione della rivista mira a riportare sulla scena della riflessione della psicoanalisi contemporanea alcuni lavori e/o autori che, in qualche modo, possiamo arrivare a considerare dei classici della storia della psicoanalisi. José Bleger, psicoanalista argentino, nacque nel 1922 e morì molto giovane nel 1972. Nonostante questa prematura scomparsa presentò un lavoro, un pensiero, all’interno del fertile contesto della psicoanalisi rioplatense degli anni 50, 60 e 70, che lo ha reso creditore di un meritato riconoscimento.

La sezione inizia con il lavoro di Haydéè Faimberg, “Il pensiero dialettico di José Bleger”, continua con il lavoro di Bleger che si intitola “Teoria e pratica in psicoanalisi. La prassi psicoanalitica”, e termina con il commentario che Jay Greenberg realizza su questo articolo. Noi opteremo per un altro ordine di esposizione perché pensiamo che sarà più chiaro per il lettore: inizieremo esponendo il testo di Bleger, dopo quello di Faimberg e sotto il commentario di Greenberg.

Nell’esporre il testo di Bleger cercheremo di definire, con i termini dello stesso Bleger, o con i nostri, alcune espressioni-concetti che Bleger trae da altre discipline e che, molto probabilmente, non risulteranno familiari al lettore contemporaneo.

Bleger: “Teoria e pratica in psicoanalisi. La prassi psicoanalitica”

Il proposito del testo è occuparsi di alcuni problemi relativi alla teoria e alla pratica della psicoanalisi, alle sue interrelazioni e alle sue contraddizioni.

Bleger parte dagli sviluppi epistemologici che evitano, già nel momento in cui scrive, l’ingenuo schema di supporre che i fatti “sono lì”, e che deduciamo le ipotesi-teorie dalla loro osservazione e studio. Questo problema epistemologico non riguarda solo la psicoanalisi ma tutte le discipline. Per Bleger la psicoanalisi approfondisce la crisi di questo schema nelle scienze.

Portato allo specifico psicoanalitico questo presuppone, secondo Bleger, che la teoria sviluppata ed esplicitata –la teoria ufficiale, quella che si formula pubblicamente e che guiderebbe la pratica della psicoanalisi- non sempre coincide con la teoria implicita nell’esercizio clinico medesimo, ovvero, nella pratica clinica. Nella psicoanalisi si dà questa divario tra la teoria esplicitata e la teoria implicita. Questo divario può, secondo Bleger, essere all’origine dei nuovi sviluppi teorici e pratici. In un libro pubblicato nel 1958, Bleger formulò una diagnosi di questa situazione che basava su una tripla divergenza:

  1. La teoria esplicita è fondamentalmente storico-genetica –la ricostruzione della biografia del paziente- mentre la teoria implicita, ciò che si fa nella pratica, è fondamentalmente situazionale poiché il lavoro psicoanalitico si centra su ciò che accade nel transfert-controtransfert.

 

  1. La teoria esplicita è fondamentalmente dinamica –cioè, “che fa derivare i processi psichici da un intergioco di forze” (1958, p. 111)- mentre la teoria implicita è fondamentalmente drammatica. Poi ci concentreremo su quest’ultimo concetto che è nodulare nel pensiero di Bleger. In questa enumerazione ci teniamo a precisare che il termine dinamica ha due usi abituali in psicoanalisi che, secondo Bleger, è necessario differenziare poiché generalmente si confondono e non si riferiscono allo stesso tipo di problema. Da un lato, Freud parla di dinamica per riferirsi allo sforzo teorico di far derivare i processi psichici dal gioco di forze che questo presuppone nella sua origine –questa è la concezione che Bleger fondamentalmente discuterà. Dall’altro lato, si suole usare il termine “dinamico/a” per segnalare, ci dice, “lo studio della comportamento nel suo sviluppo, nella sua evoluzione” (1958, p. 111-112).

 

  1. La “teoria esplicita” si organizza intorno alla logica formale mentre la “teoria implicita” nella pratica, che si esprime nel suo stesso esercizio, risponde alla logica dialettica.

Andiamo al primo punto. Delle serie complementari freudiane, sostiene Bleger, si è posta molta enfasi sulla seconda serie, ossia, sulla predisposizione per fissazione libidinale (articolazione di fattori costituzionali e vissuti infantili). La finalità terapeutica, di monitorare gli eventi infantili, cerca di modificare la disposizione superando le fissazioni e la compulsione alla ripetizione attraverso una rettificazione dell’esperienza. L’analogo freudiano è l’investigazione archeologica. Parallelamente, afferma Bleger, l’introduzione del concetto di transfert ed il lavoro sistematico sullo stesso ha portato a che si gerarchizzi nel lavoro la relazione interpersonale sulla situazione presente, ciò che non implica lo scartare il lavoro archeologico bensì che venga superato-incluso. Quest’ultima cosa ha portato a sottolineare le relazioni d’oggetto “sopra o almeno alla pari” delle tendenze istitntive. Bleger pensa che le relazioni oggettuali stanno cercando di colmare questo divario, questo vuoto, tra la teoria esplicita e la teoria implicita. In Freud, se non erano totalmente assenti le relazioni oggettuali, si enfatizzò maggiormente gli aspetti istintivi storico-genetici. Ricorderemo che per Bleger l’introduzione del concetto di transfert ha presupposto un “cambiamento radicale” poiché l’essere umano cessa di essere studiato come un “sistema chiuso” e passa ad esserlo come una relazione interpersonale nella quale il dialogo e la comunicazione umana sono posti in primo piano. Il transfert, ci diceva già nel 1958, non può essere più visto come un fenomeno “unipersonale” (Rikman) “ma come un campo attivo, originale e particolare, come quello che è ciascuno dei vincoli che si stabiliscono tra due o più persone in qualunque situazione [… e questo porta a che] il controtransfert smetta di essere un elemento perturbatore (entro certi limiti) per divenire un elemento attivo, operante, integrante di un atteggiamento e partecipando, immancabile e inevitabilmente, a quella sintesi che è l’interpretazione” (1958, p. 114).

Il punto due della diagnosi era la opposizoine tra dinamica e drammatica. La “drammatica” è definita in questo testo come “una comprensione dell’essere umano e del suo comportamento in termini di avvenimenti che si riferiscono alla vita medesima degli esseri umani considerata come tale”, mentre la dinamica riduce la drammatica ai giochi di forze istintive che determinano gli avvenimenti umani. Per Bleger non si è percepito o considerato sufficientemente che la tecnica e la pratica psicoanalitica non fanno ricorso alla dinamica bensì che lavorano e operano totalmente nella drammatica.

Il concetto di drammatica proviene dall’opera di Georges Politzer, un pensatore unghero-francese che nel 1928 scrisse un libro intitolato “Critica dei fondamenti della psicologia”, nel quale sostiene ciò che chiama una Psicologia Concreta, ossia, una psicologia priva della zavorra del meccanicismo e dello spiritualismo, che questo autore ritiene abbiano dominato nel campo della psicologia in generale e anche nell’opera di Freud. Questo non impedisce che sostenga “il carattere rivoluzionario della psicoanalisi”, poiché apporta, grazie a un lavoro critico di lettura, “nuovi fondamenti” per la “costruzione della psicologia”. Per Bleger Politzer realizza uno stusio epistemologico della psicoanalisi che porta a ciò che denomina, ispirandosi probabilmente a Spinoza, una “riforma della comprensione” o, come dice Bleger, di ciò che oggi chiamiamo “modelli concettuali” (1958, p. 196). Bleger la definisce come la “critica più lucida e valente della psicologia e della psicoanalisi” (p. 197). Politzer intende, lo citiamo, che “Il dramma è originale […] Allora il dramma implica l’uomo preso nella sua totlaità e considerato come il centro di un certo insieme di accadimenti che, precisamente perché sono in una relazione con una prima persona [protagonista], hanno un senso” (1928, p. 250). E continua: “l’originalità stessa del fatto psicologico è data dall’esistenza medesima di un piano propriamente umano e della vita drammatica dell’individuo che si sviluppa” (p. 250). Ma è necessario chiarire che per Politzer il dramma, la sua originalità, risiede nel fatto che non è né “interno” e né “esterno”. Richiede un luogo e uno spazio per svilupparsi, ma non è lo spazio della vita fisiologica o biologica, bensì è “… il luogo della mia vita drammatica, e, inoltre, le azioni, i crimini e la pazzia hanno luogo in uno spazio…” (p. 251). “La psicoanalisi, sostiene Bleger, studia la vita umana nel suo senso umano. Questo è ciò che Politzer chiama Drammatica: termine che accettiamo totalmente per la sua esattezza e capacità descrittiva” (1958, p. 219). Bleger si era riferito, anteriormente, a Drammatica come cio “che è, in ultima istanza, la descrizione, comprensione e spiegazione del comportamento in funzione della vita del paziente, in funzione di tutto il suo comportmaento” (1958, p. 90). “Dramma e significato, sostiene Bleger, hanno il vantaggio e la particolarità che orientano e centrano la ricerca sugli esseri umani concreti; e per concreto non si intende solamente l’essere umano come è in se stesso nella sua vita quotidiana ma anche nelle condizioni nelle quali la sua vita si sviluppa” (1958, p. 220).

Il terzo punto della diagnosi era l’opposizione tra laogica formale e logica dialettica. Per Bleger la drammatica del campo analitico si sviluppa ed è compresa a partire dal pensiero dialettico. Un pensiero dialettico non postula la lotta di opposti formali tradotti in entità [reificate, ossia, convertite in cose esistenti]. Ovvero, per Bleger, certe teorie dinamiche, che postulano una serie di forze che operano nello psichismo e la cui espressione sono i processi psichici, è il risultato dell’“abbandono di una certa drammatica, una trasposizione, una sostituzione del fatto o dell’accadere umano da parte di forze gestite come entità o cose, al posto dei fatti umani” (1958, p. 112). Questo presuppone attribuire il fenomeno a ciò che si manifesta nell’esperienza, un “doppio ontologico” (Sartre, in Bleger, 1958, p. 112), cioè, dargli uno statuto di cosa, di una entità del mondo naturale. Come afferma Bleger nel lavoro che commentiamo “molto probabilmente uno sviluppo teorico formulato dialetticamente rende inutile la contrapposizione tra, per esempio, fenomeni coscienti da un lato e inconsci dall’altro, tra il processo primario e quello secondario, tra approccio topografico, approccio dinamico ed economico, ecc.”.

Conclude Bleger che le tre contraddizioni che ha diagnosticato tra teoria e pratica potrebbero ridursi e comprendersi in forma unificata come “un riflesso della teoria dell’alienazione che porta sempre implicita una de-dialettizzazione della drammatica, dell’essere umano come totalità”. Chiariamo un po’ questa sintesi estrema che Bleger formula in questo testo programmatico. Bleger intende per alienazione il fenomeno che “il soggetto si estranea o si espropria, si svuota di qualità umane che disperde e attribuisce (proiezione) a oggetti (oggetti in generale: animati o inanimati); l’oggetto si fa altro per il soggetto, diviene investito di qualità e poteri particolari” (1958, p. 152). Perché l’alienazione presuppone la de-dialettizzazione della drammatica? Perché frammenta ciò che dovrebbe essere articolato, disperde ciò che dovrebbe essere integrato, e perché “le relazioni umane si sovvertono in modo da diventare rapporti di cose nelle quali si ‘cristallizzano’ questi rapporti, e alle quali gli esseri umani sono subordinati come potenze straniere; le relazioni umane si reificano, perdono la qualità di comunicazione diretta e piena. Nella misura in cui l’uomo si ‘reifica’ (si trasforma da essere umano in cosa perché si esteriorizzano le sue qualità umane, si svuota, si impoverisce, si trasforma in un ‘altro’) in quella stessa misura gli oggetti si animano, acquistano proprietà umane e sono dotati di un potere che sfugge al controllo degli uomini…” (1958, p. 148). La teoria si costruì, secondo Bleger, rispecchiando la struttura stessa dell’alienazione e della de-dialettizzazione propria del processo nevrotico: una disarticolazione dell’accadere della drammatica umana in elementi dissociati e, come conseguenza, la paralisi del processo dialettico, ciò che psicoanaliticamente si chiama dissociazioni, secondo Bleger.

Quindi Bleger tratta il punto epistemologico della sua diagnosi generale. Oppone l’approccio naturalista a quello fenomenologico. Secondo il primo, i fatti-fenomeni che studia lo scienziato, trasformati in cose, sono alieni al soggetto che li studia. Al contrario, l’approccio fenomenologico studia i fenomeni così come sono percepiti e sperimentati tanto dal soggetto che li studia come dal soggetto studiato. Secondo Bleger in Freud sono convissuti ambedue questi approcci in contraddizione. Il punto di vista dinamico presuppone un approccio naturalista poiché spiega l’essere umano con entità totalmente aliene a che le studia e a che è studiato. Per Bleger, la conoscenza dei fenomeni trasferali e controtrasferali, così come la configurazione del campo che presuppone la situazione analitica, dovrebbero avere rettificato la teoria medesima. Questa è una delle idee centrali della riformulazione blegeriana. Oppone, pertanto, una comprensione unipersonale-dinamica della situazione analitica ad una comprensione bipersonale o relazionale (sic) che ha come campo i fenomeni trasferali e controtrasferali. O sia che, da un lato, vede una teoria impulsivista, unipersonale e anoggettuale e, dall’altro, una teoria che enfatizza le relazioni oggettuali e che è bipersonale.

Afferma Bleger: “Il processo di alienazione e de-dialettizzazione che concepisco come soggiacente e comune denominatore delle contraddizioni che sto segnalando tra teoria e pratica…”, è presente nel carattere elementarista e non gestaltico della teoria psicoanalitica – e lo equipara con il processo stesso della nevrosi. Il processo di alienazione è, per lui, un processo di de-totalizzazione (separare in elementi, elementarismo). L’idea di de-totalizzazione è un altro modo di parlare della de-dialettizzazione. L’idea di totalità o configurazione dinamica (usando dinamica nel senso del movimento) presuppone che la modifica di uno degli elementi altera la struttura totale del campo di cui si tratta poiché tutti i suoi elementi sono interdipendenti. Porta, come esempio di questo, la sessione analitica, alla quale dedica un lavoro (1958, p. 107). Lì sostiene, per illustrare quest’idea di totalità nel campo clinico, che paziente e analista “formano una Gestalt nella quale niente è occasionale e ciò che succede nei due è condizionato da ciò che succede tra i due e dalla totalità della Gestalt in un momento dato” (p. 116-117)

Sostiene che nell’opera di Melanie Klein vediamo inoltre coabitare l’approccio naturalista-impulsivista con un intento di comprensione in termini di relazioni oggettuali e di gestalt.

Quindi, prende l’assunto della sessualità e dell’aggressività per illustrare la necessità di un movimento di “de-totalizzazione” della teoria così com’è. O sia, non prendere un aspetto parziale e far dipendere da quello la totalità di ciò che accade psichicamente. Per Bleger l’errore sta nell’aver preso ambedue i parametri come elementi privilegiati che strutturano la totalità dei fenomeni “quando dobbiamo capire che tanto l’aggressività quanto la sessualità sono fenomeni inclusi in una totalità”. La visione attuale, secondo Bleger, intenderà la sessualità, per esempio, come una delle vicissitudini di una Gestalt “nella quale privilegiamo le ansietà psicotiche”. Tanto le erpversioni quanto gli altri comportamenti sessuali non devono essere compresi come fenomeni originari bensì come difese e anche, sostiene, come restituzioni psicotiche.

Termina questa parte affermando che la sua diagnosi pretende essere un inventario di problemi e non una critica. La totalità della prassi psicoanalitica, come tutte le prassi, è un processo pieno di contraddizioni e divergenze. Chiariamo che Bleger usa il termine prassi per riferirsi al “processo del conoscere, nel quale coincidono pensiero e azione, la teoria e la pratica, e nel quale si ha un superamento dell’antitesi tra –come diceva Hegel- ‘la unilateralità della soggettività e la unilateralità dell’oggettività’” (1958, p. 111).

Conclude il lavoro con il punto istituzionale, con il come si insegna e si apprende psicoanalisi nelle associazioni. Se comprende che l’istituzionalizzazione è necessaria pensa che anche in questo campo si dà una contraddizione tra gli obiettivi primari di queste istituzioni e alcuni dei suoi risultati. Se l’obiettivo primario della stessa è diffondere, insegnare ed approfondire la ricerca e la conoscenza psicoanalitica, pensa che questo obiettivo abbia sofferto uno spostamento e che la preservazione dell’istituzione, la necessità della continuazione dell’organizzazione come tale rimpiazzi l’obiettivo primario. Questo porta i membri delle istituzioni a pervenire ad accordi, espliciti o impliciti, su ciò che si intende per psicoanalisi, come la si pratica e la si insegna, ecc., ciò che porta a privilegiare quello che non è pericoloso per l’istituzione. Questa enfasi entra in contraddizione, secondo Bleger, con quella caratteristica, che mette sempre e necessariamente in questione lo stabilito, che presuppone ogni ricerca. L’istituzione comincia a limitare la ricerca o riduce la libertà a quegli aspetti che non toccano gli assiomi accordati. Si ha, nelle istituzioni, un incremento molto grande della formalizzazione che sfocia in burocrazia. Così, afferma Bleger, “… l’organizzazione psicoanalitica nel suo complesso soffre da lungo tempo quel processo di ortodossia, di resistenza al cambiamento, di ricerca di un maggior consolidamento interno promuovendo i cambiamenti verso il fuori”.

 

Haydée Faimberg: Il pensiero dialettico di José Bleger

Haydée Faimberg ritiene che Bleger combini due caratteristiche che non si ritrovano frequentemente in psicoanalisi: essere un pensatore creativo e, allo stesso tempo, rigoroso nelle sue ricerche. Commenta che sebbene l’autore sia poco conosciuto dai lettori di lingua inglese, questa lacuna presto sarà riparata con la traduzione e la pubblicazione, già in corso, di uno dei testi centrali di questo autore: “Simbiosi e ambiguità” (Bleger, 1967). Pensa che Bleger può essere considerato un autore classico nella misura in cui la sua opera è generatrice di nuove idee nel lettore attuale. L’obiettivo del suo lavoro, sostiene, è sottolineare il pensiero creativo e dialettico di Bleger. Ci mette in guardia contro i rischi di ciò che intende come “anacronismo nella lettura”, ossia, attribuire alle idee che Bleger trasmise nel suo tempo un significato che appartiene ai lettori contemporanei. Tuttavia segnala che, per i suoi interlocutori, Bleger anticipò assunti che non hanno potuto essere sviluppati.

Parte dalla lettura del testo di Bleger pubblicato in questo numero. Mette in evidenza prima, per mezzo di una citazione del testo, la critica epistemologica che Bleger realizza rispetto a certe concezioni ingenue che pensano che i fatti “sono qui” e che bisogna solamente osservarli, studiarli e dedurre ipotesi (teorie) a partire da quelli. Faimberg si concentra solamente su come questo influisce sui fenomeni psicoanalitici. Seguendo Bleger, sostiene che tutta la ricerca deve partire dall’esperienza analitica attuale e che tutta la pratica è implicitamente supportata da una teoria. Partendo da questo punto epistemologico, a Bleger interessa il concetto di “praxis”, che allude a problemi vincolati alla complessa relazione tra teoria e tecnica psicoanalitica e anche alle istituzioni psicoanalitiche. Come dice Bleger: “…la totalità della psicoanalisi, la totalità che costituisce e configura la sua prassi è, necessariamente, come tutta la prassi, un processo pieno di divergenze e contraddizioni…”, divergenze e contraddizioni che è necesario non smentire e né ignorare poiché ciò andrebbe a detrimento di una ricerca effettiva. L’esplorazione di queste contraddizioni è al centro del pensiero dialettico di Bleger. Ciò distingue il suo lavoro tra la teoria esplicita di uno psicoanalista e la sua teoria implicita, quella che realmente utilizza nell’esperienza clinica. Haydée Faimberg qui ci ricorda, in una nota, che è stata una dei pionieri nel riattivare, a partire dal 1993 e fino al 2001, in seno della Federazione Europea di Psicoanalisi, gruppi di discussione clinica con uno spirito che è in debito con il pensiero di Bleger e che consiste nell’esplorare il ruolo fondamentale del dialogo nel pensare ciò che non sapevamo di stare pensando. “Così ho sviluppato un metodo per i gruppi di discussione di materiale clinico, nel 2002, conosciuto come ‘l’ascolto dell’ascolto’” (p. 93). Tanto Faimberg che, dopo, Greenberg ricorderanno che fu Joseph Sandler ad introdurre nel mondo anglosassone, nel 1983, la distinzione tra teporie esplicite e teorie implicite.

Bleger oppone, nel suo testo, l’approccio naturalista e quello fenomenologico nel problema epistemologico di cosa è l’oggettività nella scienza. Sosterrà anche, nel testo, che il progetto scientifico di Freud è basato sul modello naturalista. In una nuova nota, questa volta una comunicazione personale di Bleger a Faimberg, commenterà che nel marzo 1972 Bleger progettava di realizzare un seminario per tornare a leggere Freud da altre prospettive, motivo che le impone di omettere ciò che Bleger scrisse sui concetti di Freud in questo e altri suoi scritti.

Quindi riprende il cocetto di ‘campo analitico’, che introdusse Enrique Pichon-Riviére e che fu sviluppato da un insieme di discepoli e, essendo Bleger il più vicino – fa anche una menzione a M. e W. Baranger.

In opposizione all’approccio dinamico Bleger introduce il concetto di ‘dramma’, che definisce come “una comprensione dell’essere umano e del suo comportamento in termini di eventi che si riferiscono alla stessa vita degli esseri umani considerata come tale”. Bleger segnala, partendo da questo concetto, la divergenza tra il modo di teorizzazione che suppone l’approccio dinamico e la teoria implicita dell’esperienza analitica; sostiene che la psicoanalisi non si è fatta carico, nel paino della rettificazione teorica, delle conseguenze dei fenomeni di transfert e controtransfert e della configurazione del campo analitico.

Dopo questa introduzione, Faimberg situa ciò che chiama “la posizione nucleare” del pensiero di Bleger, che indica che l’esperienza clinica, centrata sulla drammatica, si sviluppa in un processo dialettico. Bleger, citato dall’autrice, sostiene che la disarticolazione del processo o della distribuzione del dramma umano in elementi dissociati paralizza il processo dialettico e presuppone l’alienazione e la de-dialettizzazione dello stesso. Bleger cercherà di studiare questo fenomeno di de-dialettizzazione. Faimberg qui cita il testo di Bleger “Simbiosi e ambiguità” (1967), riproduco la citazione:

“Dover ammettere, così come si fa, l’esistenza dell’identificazione proiettiva-introiettiva per tutti i casi, esige il presupposto che ciascun soggetto sia un ‘sistema chiuso’ e che si comunichi attraverso vari canali con altri esseri umani, mentre l’ammettere la partecipazione come fenomeno originario implica l’ipotesi che l’essere umano cominci o parta da un’organizzazione come ‘sistema aperto’ e che, gradualmente, si vada individualizzando e personificando” (p. 189).

Faimberg riferisce il concetto di sistema aperto al pensiero di Loewald, al suo testo “Io e realtà” (1951) che, per essa, propone un approccio dialettico simile.

A partire dagli anni 60 Bleger sviluppa l’idea che il mondo fusionale originario del paziente, che denomina “nucleo agglutinato”, è stato scisso. Su questa idea Bleger propone un nuovo concetto (una nuova posizione): la posizione ghlischro-carica, il cui sostrato è il nucleo agglutinato, posizione che precederebbe la posizione schizo-paranoide.

Poi l’autrice passa a commentare l’idea della dialettica dell’inquadramento secondo Bleger, portando come referenza il suo testo “Psicoanalisi dell’inquadramento psicoanalitico”, tradotto precedentemente nell’IJP. Questo testo parte dall’idea della ritualizzazione dell’inquadramento come sintomo della pratica psicoanalitica e come resistenza al cambiamento. Il problema che si pone è il seguente: com’è possibile mantenere l’inquadramento analitico, necessario per lo sviluppo del processo, e allo steso tempo, superare la sua ritualizzazione? Faimberg cita la tesi centrale di Bleger con le sue parole: “In realtà ci sono due inquadramenti”, uno, quello che lo psicoanalista propone, mantiene ed il paziente accetta, e, due, “un inquadramento del mondo di fantasia sul quale il paziente proietta”. “La cornice è l’implicito da cui dipende l’esplicito”. L’inquadramento è muto fino a che, in qualche momento dell’analisi, comincia a parlare. Questo riconoscimento dei due inquadramenti con una differenza tra essi permette all’analizzando, secondo Faimberg, di riconoscere l’alterità dell’analista. È un momento di interpretazione.

Faimberg espone brevemente un materiale clinico che Bleger lavora nell’articolo citato. Sostiene che la sua ipotesi è che sia in questa interpretazione, per mezzo della quale l’alterità dell’analista è riconosciuta, che si sviluppa il “superamento” (aufhebung). Chiarisce che, secondo lei, riconoscere l’alterità dell’analista non significa riconoscere la persona reale dell’analista. Il riconoscimento ha due facce: da un lato, la funzione analitica che sostiene il transfert e, dall’altro, l’analista come altro differenziato dal paziente. Secondo questa autrice, la sua posizione è in linea con Loewald e Bleger, nella misura in cui intende che il transfert non è solamente ripetizione ma anche creazione. Questo superamento per mezzo dell’interpretazione, conclude, è possibile dall’analisi “in silenzio” che l’analista fa della sua posizione controtransferale.

 

Commento di Jay Greenberg

Greenberg definisce il testo un manifesto più che un argomento. Anticipa, secondo lui, molte delle controversie più importanti che hanno preoccupato gli analisti da quando l’articolo fu pubblicato. Porta il segno, nel suo sviluppo, della visione che caratterizza la psicoanalisi del Rio de la Plata (rioplatense), secondo l’autore.

Greenberg cerca di guardare, da un lato, il testo di Bleger nel suo contesto storico, ossia, come parte di un gruppo di pensatori che abitano quelle latitudini, il Rio de la Plata; dall’altro latostabilisce similitudini e differenze con movimenti di apertura propri degli Stati Uniti d’America, poiché pensa che anche lì si posero alcuni problemi simili.

Il suo commento affronta esplicitamente tre assunti:

1) qual è il linguaggio proprio del discorso psicoanalitico e le implicazioni per la comprensione della situazione analitica;

2) il ruolo del controtransfert e la sua relazione con l’epistemologia psicoanalitica;

3) alcune riflessioni sulla sessualità ed il suo ruolo etiologico.

Nel primo punto riprende la differnza che realizza Bleger tra la teoria/linguaggio formale della psicoanalisi e la teoria dialettica/drammatica della stessa. La prima si caratterizza per la sua concezione dinamica della mente, la sua comprensione dell’individuo come un’entità isolata, in generale, per una comprensione della mente come un sistema chiuso; la seconda, per una comprensione drammatica e dialettica che apre la teoria formale e personalizza ciò che viene sollevato da quest’ultima nei termini meccanicisti della metapsicologia.

Oltre a evidenziare altri autori rioplatensi, come i Baranger, che sviluppavano assunti paralleli a quelli che Bleger sintetizza in questo lavoro, Greenberg segnala come negli USA, all’inziio della decade dei ’70, anche figure come Merton Gill, George Klein o Roy Schafer discutevano se il linguaggio della metapsicologia freudiana fosse il più idoneo per dar conto della clinica psicoanalitica. Schafer pubblicò, nel 1976, un libor il cui titolo è: “Un nuovo linguaggio in psicoanalisi”, libro che discuteva in forma radicale la concezione energetica e metapsicologica freudiana ma che, a dire di Greenberg, non usciva dal quadro unipersonale. Perciò l’autore segnala, allo stesso tempo, che questa similitudine nella discussione è un’originalità propria della psicoanalisi rioplatense: costituiva il movimento da una psicologia di un persona verso, come dice Bleger nel testo, una psicologia di due persone. Ricordiamo che Bleger porta come referenza centrale di questo movimento al bi-personale la necessità che la teoria si costriusca ome una riflessione intorno alla situazione clinica intesa come un campo transferale-controtransferale.

Mentre i dissidenti americani avevano come sottofondo la Psicologia dell’Io, gli psicoanalisti rioplatensi avevano come tradizione dominante il pensiero della Klein e, molte volte, di Fairbairn.

Per Bleger il cambiamento di linguaggio della psicoanalisi è intimamente vincolato ad una realtà fondamentale: la situazione analitica è una gestalt irriducibile e qualsiasi tentativo di teorizzare un elemento isolato presuppone un violentare il fenomeno. Bleger si fa eco, in questo senso –sostiene Greenberg- tanto delle idee di Pichon-Riviére quanto di Racker.

Nel secondo punto, Greenberg affronta la questione del controtransfert. La compresione di Bleger della situazione analitica come una totalità presuppone delle modifiche nella sua comprensione. In questo senso Bleger si colloca sulla scia della singolarità della riformulazione del controtransfert che, negli anni 50, si realizza nel Rio de la Plata e che differisce in aspetti importanti tanto da questo stesso giro in Inghilterra quanto, certo, dalla concezione freudiana classica che rimaneva dominante in altre parti del mondo psicoanalitico. Domande sul fatto se il controtransfert sia o no fonte di informazione (dati) rlevante per la situazione clinica, se può essere strumentalizzata o no, ecc., sono alcune delle questioni intorno alle quali ruotavano questi dibattiti. La svolta degli anni 50 presuppone il considerare che il controtransfert era onnipresente e non patologico: non poteva più essere escluso da ciò che accadeva tra i partecipanti ad un trattamento. Eppure, come vedremo in seguito, ci sono stati diversi modi di comprenderlo.

Greenberg sostiene che il termine controtransfet sia, nel suo nucleo, un ossimoro: “… perché il primo elemento del termine –contro- implica che è reattivo, stimolato da qualcosa di fuori che impatta nel soggetto dell’esperienza. Però il secondo elemento ha una connotazione differente: ci ricorda che il controtransfert è, dopo tutto, un tipo di transfert e che, classicamente definito, è proprio la componente dell’esperienza che emerge in maniera endogena, che modella l’esperienza del soggetto del mondo degli oggeti più che esserne influenzata” (p. 1010). Dunque il controtransfert evoca simultaneamente una strutturazione attiva del mondo dell’oggetto e la nostra reattività allo stesso.

Il problema che si pose dopo della svolta degli anni 50 fu come interpretare e lavorare con questo concetto. C’erano, schematicamente, due grandi correnti che Greenberg mette in relazione ai significati in conflitto nel termine stesso che viene posto. Da un lato, coloro che enfatizzano la prima parte, il “contro” del termine, e vedono nel paziente l’unico agente attivo del processo: l’analista sperimenta certe cose però queste esperienze riflettono il modo in cui il paizente ha agito su di lui. Paula Heimann parla del controtransfert come “creazione del paziente… parte della personalità del paziente” (1950, p. 83). Il concetto di identificazione proiettiva è il perno concettuale di questo tipo di comprensione. Questo modo di comprendere il controtransfert, afferma Greenberg, preserva l’essenziale del modello unipersonale della mente. Dall’altro lato ci sono quelli che hanno dato la priorità alla contraddizione stessa che il termine solleva dialettizzandola, ciò che conduce questo concetto in un luogo molto diverso. Sono gli autori della psicoanalisi rioplatense, nella linea di Pichon-Riviére e Racker. Il pensiero dialettico articola le relazioni di oggetto, interne ed esterne, creando una nuova Gestalt –che definisce le relazioni tra le persone. Essere coscienti diq eusta Gestalt rende impossibile sostenere e supporre –sostiene Greenberg- che l’analista sia solamente recettivo o solamente attivo. Anche Racker, sebbene non usi il concetto di gestalt, è sulla stessa linea. Esempio di quest’ultimo è la sua idea del “mito della situazione analitica” (1957, p. 308). Per lui la situazione analitica è co-creata in modo tale che è difficile –se non impossibile- attribuire l’attività e/o la passività. Greenberg sostiene che possiamo vedere anche nel concetto di “terzo analitico” di Thomas Ogden un parallelo attuale di questi pensieri.

Successivamente passa alla distinzione che Bleger fa tra versioni naturaliste o fenomenologiche del processo analitico. L’approccio fenomenologico ha implicazioni importanti nel suo modo di osservre e teirzzare il processo che accade nell’inquadramento psicoanalitico.

Greenberg conclude questo paragrafo sostenendo che: “Sebbene non utilizzo questo termine, la drammatica di Bleger e la sua visione della situazione analitica come una gestalt o campo prefigurano, molti anni prima, le teorie contemporanee dell’enactment (messa in scena). La sua visione (condivisa da molti nel Rio della Plata) rimane controversa oggi; l’enactment è onnipresente e continua lungo tutto l’incontro analitico” (p. 1013).

Nel terzo punto affronta il dibattito sulla sessualità e la causalità. Bleger, molto presto (1958) avanzò una serie di critiche rilevanti al concetto di istinto. Per lui Freud arriva al concetto di istinto perché portò le forze che agiscono al di fuori del contesto dei processi psicologici e del loro interazoine. Questo isolamento ha portato a considerarle alle spalle del comportamento. Non si deve pensare gli istinti al di fuori delle situazioni interpersonali nelle quali appaiono: “… ciò che appare come pulsione, sostiene Greenber, è una proprietà emergente dei contesti interpersonali”. In questo senso, argomenta, la posizione di Bleger è più radicae della revisione nordamericana: “lui cerca di fare di più che liberare la teoria pulsionale dalla sua impalcatura impersonale e meccanicista. Piuttosto, la sua intenzione è liberarsi tanto da essa quanto da un primo movimento endogeno, invertendo la conoscenza ricevuta della direzione della causalità psicologica. Le pulsioni non creano le situazioni, argomenta; le situazioni creano le pulsioni” (p. 1014).

Riprendendo il tema della sessualità e dell’aggressività, Greenberg sostiene che Bleger discute il suo privilegio motivazionale. Comprendere tanto la sessualità quanto l’aggresività dalla loro inclusione nella totalità, come sostiene Bleger nel suo lavoro, riformula il loro statuto. La visione di Bleger, sostiene l’autore, risuona con le critiche di Fairbairn o Kohut. Ma, continua, il punto di arrivo di Bleger è diverso: per lui la sessualità è una delle vicissitudini della gestalt nella quale Bleger dà priorità alle angosce psicotiche.

Ciò che è notevole di questo lavoro, conclude Greenberg, è sia che i suoi temi sono universali quanto, d’altra parte, che siano propri di quella particolare e creativa comunità rioplatense dalla quale emergono.

 

Commento personale

In primo luogo vorremmo segnalare l’importanza che ha, a nostro modo di vedere, la rilettura degli psicoanalisti creativi di diverse latitudini che ci offre questa sezione dell’IJP. Siamo convinti del fatto che la conoscenza della storia concettuale e situazionale della psicoanalisi aiuti a far sì che la problematizzazione dei suoi concetti abbia oggi consistenza e ricchezza. Inoltre troviamo molto soddisfacente, soprattutto, il recupero di pensatori del Rio della Plata che svilupparono un pensiero originale e personale grazie alle libertà che, tra le altre cose, permette l’abitare nelle periferie dei centri di potere.

Il lavoro di Bleger, come sergnala Greenberg, è più un manifesto che un argomento. La sua brevità forze ciò che Freud denoiminava la “esposizione dogmatica” delle sue idee (1940). Ma incontriamo questi argomenti già in un suo libro del 1958 così come nell’insieme della sua opera. Intento ambizioso, quest’ultima, come segnala Ricardo Bernardi (2009), poiché dirige le sue energie e inquietudini verso aree molto differenti: la psicoanalisi, l’ambito istituzionale così come la sua partecipazione attiva nelle questioni sociali e nelle politiche nazionali o di indole identitaria (vedasi le sue parecipazioni al Congresso Ebraico Mondiale o le sue riflessioni sulla situazione in Medio Oriente). Bleger era un uomo che affrontava le sfide, che affrontava gli stereotipi –sociali, istituzionali e del pensiero (come mostra in questo lavoro)- e solamente una morte prematura –aveva solo 50 anni- gli impedì un maggiore sviluppo.

Il lavoro che ci impegna e i commenti di questi psicoanalisti di spicco ne è una chiara manifestazione: il clinico, il teorico, l’istituzionale e l’espistemologico si articolano in ciò che definerei un “linguaggio dell’epoca” che oggi, forse, è poco indicativo per alcuni lettori. Il mio utilizzo dell’espressione “linguaggio dell’epoca” non ha niente di peggiorativo, al contrario. Penso che articoli questioni che oggi hanno un grande valore sebbene la terminologia in uso sia diversa.

Metterei in evidenza solo alcune questioni che questi lavori mi hanno suscitato, centrandomi fondamentalmente sui commenti al lavoro di José Bleger.

In primo luogo vorrei segnalare che tanto Faimberg come Greenberg evidenziano l’opposizione che fa Bleger tra “teorie esplicite” e “teorie implicite” in psicoanalisi. Ambedue, in nota, accennano al testo di Sandler del 1983 nel quale si utilizza questa opposizione. Tuttavia credo interessante chiarire che gli usi che ne fanno l’uno e l’altro, Bleger e Sandler, hanno delle differenze. Già solamente richiamare l’attenzione su questo fatto ha un effetto di ampliamento di prospettiva e di discussione che è interessante in se stesso.

Sandler propone l’uso più comune che oggi ha questa differenza. Tutti sappiamo che nella comunità analitica convivono differnti forme di comprendere tanto il funzionamento psichico quanto la situazione clinica; ma Sandler va più in là di questa costatazione: afferma che gli psicoanalisti, in forma inconscia, assumono determinati modi di stare nella clinica, di lavorare, che sono organizzati da teorie implicite o private e che molte volte, anche se non intenzionalmente, non le esponiamo perché non considerate abbastanza “kosher”, come dice Sandler, cioè, “pure”, che non si accordano a quella teoria ufficiale, esplicita e pubblica che un detemrinato individuo o gruppo sostiene. Così, afferma Sandler, “Ho la ferma convinzione che la ricerca delle teorie implicite o private degli psicoanalisti clinici apra una grande nuova porta nella ricerca psicoanalitica” (1983, p. 38).

Da parte sua, l’opposizione che rileva Bleger ha un altro fine poiché si rivolge, credo di capire, ad una certa universalità che deriverebbe dalla stessa pratica della psicoanalisi. Per Bleger, la clinica psicoanalitica mette in evdenza, come lui sostiene, il carattere bipersonale o relazionale di detta pratica, la sua essenza drammatica, e questo va al di là, per come lo capisco io, delle teorie implicite che ciascun analista può avere nel portare avanti un trattamento. Ci sarebbe un “implicito” della pratica psicoanalitica stessa che veniva negato, disconosciuto, nelle formulazioni teoriche di ciò che lì stava accadendo. Questa tesi è totalmente coerente con le critiche di Bleger alle diverse mitologie (1958, 1973) che molte volte accompgnano le teorizzazioni. Ricordiamo la tripla mitologia che non cessava di denunciare: il mito dell’uomo naturale, dell’uomo isolato o dell’uomo astratto.

In secondo luogo mi è sembrato interessante come ambedue gli autori, in modi differenti, mettono in relazione il lavoro di Bleger con psicoanalisti che hanno sviluppato il proprio pensiero in ambito americano. Faimberg suggerisce un’articolazione, che trovo molto affascinante, tra il pensiero di Bleger e quello di Hans Loewald, in relazione all’opposizione tra sistema chiuso e sistema aperto. Bleger sostiene, nella citazione estratta da Faimberg, che è necessario partire dall’idea di “partecipazione” nel mondo come fenomeno originario, ossia, che l’essere umano inizia come parte di un “sistema aperto” che si personalizza gradualmente. Da parte sua, Loewald, dall’inizio dei suoi lavori (1949), richiamò l’attenzionesulla necesità di intendere il narcisisimo primario come uno stato di indifferenziazione tra il bambino ed il suo mondo che, progressivamente, si va differenziando. La sua successiva idea di “densità primaria” cercherà di dare conto dell’origine della relazione d’oggetto discriminata a partire da questo “sincretismo” primario, per usare l’espressione di Bleger. Certo, ci sono stati molti altri autori che affrontarono questi problemi in sintonia con queste formulazioni: Winnicott o Balint, solo per citarne alcuni. Continuo a pensare che il segno più chiaro in Bleger sia il pensiero di Fairbairn, considerato oggi come il più rigoroso e raffinato rappresentante di una teoria delle relazioni oggettuali non istintivista. Nella sua opera incontriamo anche l’opposizione tra sistema aperto e chiuso (quello della nevrosi, secondo lui), che gli permette di partire da un concetto di “identificazione primaria” [inteso] come indifferenziazione soggetto-oggetto, che Bleger usa nel suo libro “Simbiosi e ambiguità”. Non possiamo non segnalare, tuttavia, l’influenza di M. Malher nell’opera blegeriana, soprattutto della sua idea di “simbiosi”, discutendo poi Bleger l’idea di “autismo primario” di questa autrice. Questo insieme di riferimenti permisero a Bleger, probabilmente, di uscire da ciò che lui riteneva fossero i “sistemi chiusi” del kleinismo della sua epoca.

Da parte sua, Greenberg, ci consente di scrutare gli sforzi che negli Stati Uniti si facevano, nello stesso periodo, per far fuoriuscire la psicoanalisi dall’“istintivismo”, dall’astrazionismo (metapsicologia) o dall’isolamento unipersonalista. Gli esempi più rilevanti sono la Psicoanalisi interpersonale (ricordiamo che negli anni 70 erano già stati pubblicati da qualche tempo autori come Edgar Levenson o Benjamin Wolstein), Georges Klein o Roy Schafer –solo per citare i più rilevanti.

In terzo luogo vorrei insistere nel riferimento a Racker che ha fatto Greenberg. Allude al concetto di “mito della situazione analitica” che pone nei sui “Studi di tecnica psicoanalitica” (Liberman A., 2007). Questo “mito” che la comunità analitica sosteneva, secondo Racker, per differenti ragioni vincolate all’esercizio del potere e a quello nevrotico, è articolato, a sua volta, con l’altra serie di “miti” che Bleger sviluppò.

Per mito intendiamo, qui, una credenza o un sistema di credenze che, come Freud disse in relazione al feticismo, è basato sulla negazione e sulla scissione. Questa mitologia include tanto “ideali irreali infantili”, ossia la difficoltà ad accettare di “essere bambini e nevrotici pur essendo adulti e analisti” (Racker, p. 228), come un certo ideale “ossessivo” di oggettività, ironizza Racker, inteso come esclusione della soggettività, che traduce il “mito dell’analista ‘senza angoscia e senza rabbia’”; per ultimo –per non citare che un altro mito ricorrente- quello che M. Little denominò il “mito dell’analista impersonale” (1950).

Vediamo come Racker definisce il mito della situazione analitica:

“Se si vuole considerare il “mito della situazione analitica”, si potrebbe iniziare deicendo che l’analisi è una questione tra un malato e un sano. La realtà è che è una questione tra due personalità il cui Io viene pressato dall’Es, dal Super Io e dal mondo esterno, ciascuno con le proprie dipendenze interne e esterne, angoscie e difese patologiche, ciascuno, altresì, un bambino con i propri genitori interni, e rispondendo, tutta questa personalità tanto dell’analizzato come dell’analista, a ciascuno degli accadimenti della situazione analitica” (p. 230-231).

Racker riprende, in una nota a pié di pagina, un altro fattore presente sul disconoscimento di questa situazione: i residui dell’ordine patriarcale che agiscono in un certo modo per costruire lo spazio analitico. Tuttavia, lo smontaggio o la decostruzione di questo ordine non comporta, necessariamente, la confusione tra mutualità e simmetria. Qualche anno fa L. Aron (1996) sviluppò ampliamente questo assunto e sostenne la necessità di differenziare ambedue i concetti. Mentre la mutualità, in termini di impatto e regolazione reciproca, è parte inerente della situazione analitica, anche l’asimmetria o “dissimmetria” –come la chiamano i Baranger- in termini funzionali lo è. Tornando alla definizione di Racker, abbiamo definito in precedenza che ciò che è negata, nel mito della situazione analitica, è la dimensione interattiva e bipersonale che le è propria. Questa negazione è stata una delle caratteristiche più salienti della storia della psicoanalisi (Mitchell, 1997). Riconoscendo l’inevitabilità di questa dimensione e, pertanto, la reciproca influenza nel processo analitico, permette che, come sostiene Mitchell, “… ne maneggiamo l’effetto in modo più responsabile quando riflettiamo su di esso, apertamente, dentro noi stessi e, in momenti molto importanti, con i pazienti (2000, la traduzione è mia).

In quarto luogo vorrei segnalare un aspetto dei progetti istituzionali di Bleger: la costituzione di un istituto di insegnamento per coloro che, per diverse ragioni, non vogliono o non possono fare la propria formazione nell’Istituto di Psicoanalisi dell’Associazione Psicoanalitica Argentina (allora si ammettevano solamente medici, e non gli psicologi). Insieme ad altri quattro psicoanalisti (Jorge Canestri, Cecilia Millonschik, Emilce Dio Bleichmar e Hugo Bleichmar) si decise di creare una scuola di formazione psicoanalitica. Il progetto avanzò, si delinearono i criteri fondamentali dell’insegnamento da sviluppare, si elesse un nome per la scuola (“Dianoia”, in greco: “ragione discorsiva”, che è l’acquisizione della conoscenza per mezzo della ragione rispetto a presunte consocenze acquisite in forma intuitiva e immediata). Si raggiunse anche la fase in cui era pronta la pubblicità per annunciare la scuola ma il progetto si fermò a quel punto a causa di problemi di rapporto istituzionale con l’Associazione Psicoanalitica Argentina. (Comunicazione personale di Hugo Bleichmar a Ariel Lieberman).

Infine, vorrei concentrarmi sugli stili e le forme che hanno avuto i commenti del testo. Presentiamo, prima, questi due rinomati psicoanalisti per coloro che non li consocono. Jay Greenberg è un’analista di formazione (didatta) e supervisore del William Alanson White Institute. Questo istituto fu la culla della psicoanalisi interpersonale dalla quale sono nati molti dei più influenti psicoanalisti relazionali contemporanei (vedasi Stephen A. Mitchell, amico personale e co-autore di Greenberg nel 1983. Da parte sua Haydée Faimberg è un’analista di formazione e supervisore della Società Psicoanalitica di Parigi, appartenente all’IPA. La sua formazione analitica inizia a Buenos Aires, ciò che lascerà un’impronta e un’interazione permanente nella sua opera, e, successivamente, si sviluppa a Parigi negli ultimi decenni.

Nel lavoro di Greenberg abbiamo una lettura molto attuale del pensiero di Bleger. Sensibile agli sviluppi del pensiero relazionale, vede nella sua opera un illustre antenato poco conosciuto negli ambienti di lingua inglese. Il testo è chiaro, dà priorità al contesto storico del pensiero di Bleger –probabilmente molto più accessibile a lui per l’impatto che ha avuto, al tempo, il libro di Racker negli USA- soprattutto sui mezzi di comunicazione interpersonale- e per le recenti traduzioni che l’IJP e altri stanno facendo dei testi dei Baranger. Il suo paragone con gli sviluppi americani ci sembrano interessanti e, anche, la capacità di cogliere l’originalità del pensiero rioplatense. Probabilmente molto di questo stile, oltre ad essere una qualità di scrittura, risponde ad una maggior distanza personale dal pensiero di Bleger, se si considera il testo.

Da parte sua il testo di è pieno di ciò che vorrei chiamare “lisci” o “ambivalenze”, sicuramente dovute ad una lunga storia di controversie, esterne o interne, con l’opera di José Bleger (come probabilmente le mie con il suo pensiero). Nonostante sia un testo che risalta alcune caratteristiche senza dubbio centrali del pensiero di Bleger, l’impressione del lettore –la mia, in ogni caso- è che ha molto da discutere con lui ma che, in questo testo, mette in sordina l’argomento poiché non è il luogo ideale per discuterlo o che la brevità dell’esposizione non le permette di toccare questo o quel tema. Ho rivisto, nella mia lettura di questo breve testo, sette argomenti di questo tipo che impediscono un possibile sviluppo in luoghi che, a mio avviso, risultavano significativi in quanto erano i temi più polemici o più rivelatori di una posizione critica di Faimberg verso il pensiero di Bleger. Ne segnalerei uno che mi è risultato particolarmente curioso: a p. 984 riferisce che Bleger afferma che il progetto di Freud è soggetto e inscritto dentro un modello naturalista ma segnala anche che c’è un altro Freud in contraddizione con questo approccio. In una nota Faimberg ci racconta, come comunicazione personale, che nel marzo 1972, Bleger “progettava di realizzare un seminario per tornare a leggere Freud da altre prospettive”. Questa è la ragione, suggerisce l’autrice, per la quale ometterà ciò che Bleger scrive in questo e altri lavori sui concetti di Freud. Credo che questa nota mi colpì per varie ragioni: da un lato, perché non riesco a capire il fatto di non discutere un tema perché si pensa che l’autore in questione avrebbe detto che avrebbe realizzato un seminario, ecc. Bleger, di fatto, nella sua opera scritta, ha detto molto, ha dibattuto molto e salvato molto del pensiero di Freud, e difficilmente penso che ci incontreremmo con un Freud che, e questa è la mia impressione fondamentale, fosse più in sintonia con Faimberg o che gli permetta di accordarsi maggiormente con la lettura che fece Bleger. D’altro lato, mi ha colpito come trascuri la forte discussione della metapsicologia freudiana che realizza Bleger.

 

Penso che Bleger sia più vicino a Laplanche quando quest’ultimo sosteneva che l’opera di Freud è piena di contraddizioni, come l’opera di tutti i grandi pensatori, che ci sono vari Freud e che, sulla base di un lavoro rigoroso sulla sua opera, si dovrebbero fare “elezioni” [“scelte”], queste ultime, senza dubbio e inevitabilmente, aggiungo, a seconda dei nostri interessi e problemi attuali. In questo senso penso che ubicare un autore nel suo contesto storico di produzione non ci impedisce di incontrare risonanze, chiavi di lettura e aperture per il nostro pensiero attuale.

 

Bibliografía

Aron, L. (1996). A Meeting Of Minds. Hillsdale, Nj: Analytic Press.

Bernardi, R. (2006), “El itinerario de José Bleger: caminos abiertos”. Jornada de Homenaje al Dr. José Bleger, 17-18 de Noviembre, Buenos Aires, Facultad de Psicología de la Universidad de Buenos Aires (UBA).

Bleger J. (1958). Psicoanálisis y Dialéctica Materialista. Buenos Aires. Paidós.

Bleger J. (1967). Simbiosis y ambigüedad. Estudio Psicoanalítico. (4ª ed.) Buenos Aires: Paidós.

Bleger J. (1969). Teoría y práctica en psicoanálisis. La praxis psicoanalítica.Revista Uruguaya de Psicoanálisis, XI, 287-303. También publicado en: Revista de Psicoanálisis, 2003, LX, 4, 1191-1104.

Bleger J. (1973). La Asociación Psicoanalítica Argentina, el psicoanálisis y los psicoanalistas. Revista de Psicoanálisis, XXX, 515-528.

Greenberg, J. And Mitchell, S.A. (1983). Object Relations In Psychoanalytic Theory. Cambridge, Ma/London: Harvard Univ.Press

Klein, G. S. (1970). ¿Dos teorías o una? Perspectiva para el cambio en la teoría psicoanalítica. Revista de Psicoanálisis, XXVII, 553-594.

Levenson, E. (1972) The Fallacy of Understanding, New York, Basic Books.

Liberman, A. (2007) Algunas contribuciones de H. Racker y M. y W. Baranger a la tradición del Psicoanálisis Relacional, CeiR, Vol 1 (2), diciembre

Loewald, H (1949-51) Ego and Reality, en The Essential Loewald, 2000, Maryland, University Publishing Group,.

Mitchell, S. A. (1997). Influence And Autonomy In Psychoanalysis.Hillsdale, Nj:Analytic Press

Politzer, G. (1928) Critique des Fondements de la Psychologie, Paris, PUF (edición de 1967).

Racker, H. (1960). Estudios Sobre Técnica Psicoanalítica. Buenos Aires : Paidós.

Sandler, J. (1983). Reflections on some relations between psychoanalytic concepts and psychoanalytic practice. Int.J.Psychoanal., 64, 35-45.

 

(pubblicato nella rivista n° 043 di “aperturas psicoanaliticas” – revista intenracional de psicoànalisis, www.aperturas.org. Il titolo originale dell’articolo è “El pensamiento dialectico de José Bleger” e la traduzione dallo spagnolo è ad opera di Lorenzo Sartini)

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Lettera a Pichon Riviére

Sab, 07/11/2015 - 11:25

di Alejandro Scherzer

I) Il mio vincolo con il Grande Maestro: E. Pichon Rivière.

Alla fine del 2006, Ana M. Pampliega ha avuto la cortesia di invitarmi al tributo realizzato dalla 1° Scuola di Psicologia Sociale della Repubblica Argentina e la A. P. S. R. A. (Associazione degli Psicologi Sociali della Reppublica Argentina) in occasione della commemorazione, nel giugno 2007, dei 100 anni di Pichon Rivière.
Si celebravano anche i 50 anni della Psicologia Sociale Argentina e i 40 anni della fondazione della Scuola. Di fronte a questo onore, accettai subito.
Inoltre, ci chiese, anche ad altri colleghi, un breve contributo da divulgare prima dell’evento per pubblicarlo sul sito web della Scuola.
In quell’occasione, ho voluto far conoscere un aspetto del mio rapporto con il Grande Maestro: da un sogno con Pichon Rivière.
Quello che leggete in seguito, è stato inviato come risposta alla richiesta fatta.

Per: caballeroandanteEPR@orillasdelplata.com
C.C: a pag. Web Omaggio a Pichon Rivière
Oggetto: dall’altra parte del fiume (Rivière).

Stimato Pichon Rivière, caro Maestro:
È con grande emozione che mi metto in contatto con Lei dopo più di trent’anni.
Grazie alla sensibilità di Ana Quiroga e di Joaquín P. R., ho avuto il Suo nuovo indirizzo di posta elettronica e so, per certo, che solo pochissime persone lo conoscono.
Sono quell’uruguaiano che, nel 1975, lasciò a casa Sua i miei primi scritti che mi legano alla Psicologia Sociale che Lei fondò –insieme ad altri “hidalgos” che l’hanno seguita, ispirati nelle “Strategie Terapeutiche” e nell’ “Approccio Pluridimensionale”.
Racconto spesso il lapsus che ho avuto quando abbiamo parlato al telefono alcuni giorni dopo. Volevo sapere il parere che meritavano i miei lavori e, volendo dire che ero uno grandemente dedito alle sue idee, ho detto che ero ““un gran adicto” (tossicomane) delle sue idee”. Sono stato molto preoccupato per un po’ di tempo, per questo lapsus, pensando come avrebbe Lei preso quelle parole. Più tardi ho capito che era stata la cosa migliore che Lei avrebbe potuto sentire da un giovane uruguaiano appena laureato in Psicologia Sociale, dalla Sua Scuola e dall’altra parte del fiume.

Avendo il privilegio di conoscere la Sua posta elettronica, invio questa mail per congratularmi con Lei con tutto me stesso, per questi anniversari così importanti: Il Suo e quello della Sua Scuola. E colgo l’occasione per raccontarLe che ho provato, insieme ad altri, a portare avanti, con una certa originalità, le Sue idee, nel mio paese. È stato da quando Bauleo, un precursore, un altro Grande Maestro, nel 1967 – sempre 40 anni fa-, arrivò a questa riva del “Plata”. Abbiamo un altro compleanno da festeggiare come può vedere. So che, pur essendo così impegnato a scrivere nuovi argomenti ed essendo un viaggiatore itinerante del mondo, vorrei presentarLe alcuni dei miei contributi. Così come continuo a pensarli, come cerco di risolverli alla luce della pratica. Sempre dalla pratica. Pichon, il Suo pensiero è vivo. A Montevideo noi diciamo: “Vivo e vegeto”. Non so se lei sa che, in uno degli omaggi che la Scuola Le organizzò, nel 2000, presentai un lavoro intitolato “Il pensiero vivo di EPR”, in un tavolo indimenticabile insieme a: Ana Quiroga, Fidel Moccio, Marcos Berstein, Alberto González.

ALEJANDRO SCHERZER

“Il pensiero di EPR, per noi, è un punto di riferimento…” dicevo all’inizio del lavoro, e ho sviluppato quello che per me è stato il suo maggior contributo nel campo della pratica clinica e gruppale: il concetto di EMERGENTE. E ho spiegato anche il perché. Non sono il suo ripetitore, neanche la suo eco. Mi sento un sostenitore e contribuisco allo Schema Aperto Pichoniano. Porto e apporto.
Tento di coniugare il suo pensiero, base della nostra pratica sociale in questo tempo. Coniugare, giocare con, estrarre il succo, per creare, per produrre strumenti, materie prime, per la pratica psicosociale. Con il peso degli anni, oso dirLe che la vedo come un “baqueano” nel mondo, un esperto nello sfidare le correnti avverse quando si è sulla barca.
Io mi vedo come un rabdomante nella mia terra, passo dopo passo, colpendo i due pezzi di legno -come fanno loro- per vedere in quale punto del terreno bisogna scavare per trovare, con alta probabilità, una sorgente d’acqua sotterranea. Come potrà vedere, quasi un medium, impegnando la mia energia in tutte le sue aree espressive.
Pichon –mi piace come soprannome rispettoso- preferisco non racchiudere la Psicologia Sociale definendola “Psicologia Sociale Pichoniana”, perché così finiremmo soltanto per ripetere le sue idee iniziali –geniali a quei tempi- ma rimanendo impantanati nel passato. Ancora di meno, ridurla a una Psicologia degli ambiti o a una Psicologia di gruppi operativi.
Preferisco chiamarla “Una Psicologia Sociale di Origine e Radice Pichoniana. La Psicologia Sociale Operativa (come altri preferiscono)”. Mi interessa sottolineare di più la radice anziché l’origine.

Pichon, il suo pensiero vivo è emancipazione. Decentra il soggetto dall’individualismo attraverso il gruppo. Collettivizza, rende coscienti, punta alla liberazione delle condizioni concrete quotidiane dell’esistenza. È in movimento! Non è più quello di prima, stava cambiando. Si è evoluto, è quello di adesso. Come molti dei suoi compatrioti dicono: “lui ci ha (E) arricchiti, (E) arricchendoci…”. È qui in giro, viene, sta con noi, dentro di noi, ci accompagna, ci sostiene.
Sa una cosa, aggiungerei –se qualcun’altro non l’ha fatto prima- che lei continua ad essere parte di ognuno di noi che ci siamo ispirati in quella fonte inesauribile e illimitata: “Enrique essendo noi…”

Senza false modestie, credo che ho imparato da lei a sviluppare un certo pensiero connettivo complementare, e ad aprirlo. Nelle mie produzioni c’è qualcosa di questo.
Voglio raccontarle qualcosa di incredibile che mi è capitato nel 2003.
Ho sognato con Lei.
Il sogno era così: lei era in piedi sul ciglio della porta di casa mia, un edificio di appartamenti, Vidal 715. Vestito con un gilet scuro, camicia bianca con maniche lunghe, pantaloni scuri, capelli bianchi, barba anche sul mento e baffi bianchi. Era alto e snello. Sorrideva e diceva alla gente che stava arrivando a una conferenza che io tenevo a casa mia: “Avanti… passate, passate…” E gli consegnava con la mano sinistra una sorta di programma sulle attività, mentre salutava stringendogli la mano destra. Era ancora presto, e c’erano poche persone nella sala. In quel momento, sono arrivate due Psicologhe amiche e discepole mie, che erano state detenute durante la dittatura in Uruguay, per la loro militanza politica. Pichon, lei era molto simile, fisicamente, a un ex Decano di Architettura della nostra Università della Repubblica che arrivò ad essere Presidente dell’Assemblea Generale del Claustro, massimo organo dell’Università del co-governo universitario.
Lì, in piedi, irradiava un’energia imponente, trasmetteva una vibrazione “molto speciale”, tale come quella che ho sentito quando la vidi per la prima volta entrando alla Scuola, salutando tutti quelli che si incontravano sul proprio cammino.
Questo è stato il sogno.

Queste Psicologhe mi raccontarono, una volta libere, nella democrazia, che quando erano detenute nel penitenziario femminile, ricordavano molto il loro gruppo di appartenenza della formazione in Psicologia Sociale, e quello gli dava speranza. Loro hanno lavorato clandestinamente, insieme ad altre detenute, con il gruppo operativo, sui compiti della convivenza all’interno del carcere. Né più né meno. Hanno trasgredito le regole del carcere, coordinando in maniera operativa il loro Gruppo!.. è come il momento della verità degli strumenti appresi!!!

Ho fatto tantissime interpretazioni personali, con diversi episodi della mia storia, a causa delle mie associazioni che ora sono irrilevanti. Ma è stato soltanto un sogno? O lei è passato a casa mia? Per abilitarmi con quel: “passate, passate”, dandomi un passaggio, passandomela, come nel calcio? O per incoraggiarmi con quel: “avanti”?
Abilitazione che, alla base di questo incontro, questa volta a casa mia, assumo, per concretizzare diversi cambiamenti nella mia vita. Un altro giro di spirale nella mia produzione e nella mia identità personale, dopo essermi ritirato dai miei incarichi come Professore universitario.
E quella figura donchisciottesca? Come Le sembra quel nobile cavaliere, alto, esile, che assunse un ruolo storico nella lotta contro l’ingiustizia sociale, con le sue utopie, che forse alcuni hanno associato, anni indietro, a un Don Chisciotte contro i mulini a vento! Una persona di grande statura intellettuale, artistica, letteraria, estetica, alternata con un umile “apriporta” di un’attività estranea.

Mi stava forse ricambiando la breve visita che, accompagnando Bauleo, Le abbiamo fatto nella sua abitazione tanti anni fa? Se non ricordo male, stava aspettando Zito Lema per continuare alcune conversazioni. Col passar degli anni, sono riuscito a migliorare quella dipendenza, che mi generava grandi emozioni, ma che limitava la mia capacità di scelta. Oggi posso dire che sono arrivato allo stato di addetto. Così, sono più libero di scegliere di essere un sostenitore – formare parte – di questa linea di pensiero e di azione.
Nell’allegato Le invio alcuni abbozzi su contributi, convergenze e divergenze.
Sono titoli.
Forse, a partire d’ora, già veterani ambedue, potremo incontrarci presto, per uno scambio proficuo e permanente.
Attendo una pronta risposta, Le auguro il meglio nei suoi meritati omaggi e nelle sue produzioni.
Un profondo ringraziamento a Lei, ai miei maestri, alla vita.
Un abbraccione e al prossimo giro di spirale (molto dialettico), Alejandro Scherzer.

(Diciembre de 2006).

alescher@adinet.com.uy
Teléfono: (005982) 27107378.

II) Dopo questa e-mail a Pichon Rivière, ho inviato tre copie:

Alla Scuola di Psicologia Sociale, ad Ana Quiroga e a Joaquín Pichon Rivière, (figlio di Pichon, Psicologo Sociale e Presidente di A.P.S.R.A.: Associazione di Psicologi in Psicologia Sociale della Repubblica Argentina). Mi hanno ringraziato molto emozionati per il testo che hanno pubblicato nella web.
Alcuni giorni dopo, Joaquín P. R. si è messo in contatto con me dicendomi che non gli avevo inviato l’allegato di cui parlo nella mail a Pichon.
La sua richiesta mi ha fatto sorridere perché tale allegato non esisteva, era una licenza della scrittura. Ridiamo tutti i due ogni volta che lo racconto.
Però Joaquín aveva ragione. Ero in debito con E. P. R. a cui avevo promesso quel documento.
Così, come promesso un paio di anni fa a E. P. R., gliel’ho inviato e oggi lo pubblico qui.

A)   CONTINUITÁ PICHON  RIVIERE, OGGI B)   IN DIBATTITO  C)   SVILUPPI E APPORTI L’adattamento attivo alla realtà.  Il Gruppo come struttura.  Una Psicologia Sociale di Origine e Radice Pichoniana.  Il passaggio della Psicanalisi alla Psicologia Sociale.  La denominazione: pre-compito (concordiamo con i fenomeni che descrive, non con la denominazione). Preferiamo: “proto-compito”. Proponiamo il titolo del pre-compito. L’imparare a pensare.  La denominazione di gruppo interno.  L’approccio Psicosociale. La dialettica del mondo interno – mondo esterno. La relazione gruppo interno – esterno (perché il gruppo non è interno né esterno). La 1°, 2°, 3°, 4°, 5°, 6° questione sui Gruppi Operativi. L’importanza della vita quotidiana nella costruzione della soggettività. Analisi delle ideologie e del potere nella famiglia. Le limitazioni dello Schema del Cono Rovesciato. Gli “Aggruppamenti” invece della denominazione gruppo interno. L’Epistemologia Convergente.  Il funzionamento del Gruppo appena iniziato quando gli integranti raggiungono la loro mutua rappresentazione interna. La Zona Comune.
La Mutualità La Famiglia come Gruppo L’orizzontalità e la verticalità: manca una maggior enfasi nella trasversalità. Il pensiero strategico – connettivo – congiunto. L’Emergente Gruppale. La teoria della “miniatura”. La presenza. Il paziente “designato” come emergente gruppale familiare. Differenze tra Vincolo – Zona Comune – Gruppo La Salute Mentale come criterio ideologico. Apporti alla nozione di Emergente La Tecnica Operativa di Gruppo. La necessità, il desiderio. Funzionamento Gruppale Operativo nei livelli 1, 2 e 3. La famiglia come unità di “salute”, di “malattia mentale”, o di “cura”. Apporti alla Scala di Valutazione Basica del funzionamento gruppale operativo. La teoria della “malattia unica”. La fenomenologia delle cinque depressioni. La poli-causalità. Il malinteso. Gli stereotipi. Come funzionerebbe lo psichismo: pseudopodi “bastoni-antenne” di appoggio e di connessione. La teoria del Vincolo. La Trasduzione di energie. I geni e lo psichismo aperti all’Ambiente La teoria del Deposito. La “teoria” delle 4 I (identificazione) L’identificazione con unità collettive. Teoria dell’Apprendimento. Meccanismi del Noi. Gli strumenti mutuanti. Teoria della Comunicazione. Definizione operativa della Famiglia come Gruppo: dalla famiglia edipica alla famiglia gruppale L’Arte, il Teatro e la Poesia. La Clinica Psicosociale. Nuove malattie. Nuovi quadri clinici? Direzionalità dell’approccio e dell’Intervento Operativo. Le differenti forme di partecipazione di genitori nella psicoterapia di bambine e adolescenti. Manovre “tecniche”: Le Strategie Terapeutiche di approccio pluridimensionale. Le Terapie Combinate L’Approccio della Psicosi Infantile di Base Emotiva. Sei passi nell’Intervento Il Carnevale. La “Murga Montevideana”.

III) Dopo un po’ di tempo, nel Laboratorio di Scrittura con i Professori Adriana Pastorino e Cholo Gómez, stimolanti collaboratori di questo prodotto, e di altri, è sorta l’idea di pubblicare, congiuntamente con altri compagni di quella corrente letteraria, il libro “Storia di labirinti”. Abbiamo concordato che la lettera a Pichon era materiale pertienente.

Adriana Pastorino ha scritto:

Nota dell’editore: “L’appropriazione dell’arte nell’espressione delle più variegate discipline dell’accadere umano non è una novità. In più di un tratto del percorso scientifico, ci sono dei labirinti che solo si esprimono o si risolvono ricorrendo alla finzione. Questo è il caso del seguente testo, un messaggio di posta elettronica ad un gran maestro che non c’è più. Alejandro, che è docente, ricercatore ed ex-cattedratico universitario, ha avuto bisogno di rompere le convenzioni e si è espresso in forma fantasticata per collaborare ad un omaggio al suo grande maestro. Come dice nella sua “e-mail”, ha avuto bisogno di comportarsi come un rabdomante, “quasi un medium, impegnando la mia energia in tutte le sue aree espressive”.

Nota dell’autore (A. S.): Enrique Pichon Riviére nacque nel 1907. Arrivò alla Repubblica Argentina all’età di 4 anni. Morì nel 1977. Fu uno dei precursori della Psicanalisi in Argentina e il fondatore della Psicologia Sociale di Rio de la Plata.
L’ho visto tre volte in vita mia. Solo una volta sono stato al suo fianco, a casa sua, poco prima della sua scomparsa.
Abbiamo avuto una breve conversazione e una stretta di mano che ancora il mio palmo destro conserva.

IV) Inserisco ora il commento della Dott.ssa Ana M. Rodríguez, uruguaiana, collega e artista in Arti Plastiche, sulla lettera a Pichon.

Quando Alejandro ci disse che “aveva avuto bisogno di comportarsi come un rabdomante, quasi un “medium”, impegnando tutte le sue energie in tutte le aree espressive”, a mio avviso, descrive lo stato di qualcuno che è gioioso e proficuamente catturato da un sogno ad occhi aperti.
Le parole che cito qui sotto sono di Bachelard e mi baso su di loro per spiegare le mie dichiarazioni precedenti: “ Improvvisamente un’immagine si colloca al centro del nostro essere immaginativo fermandoci, fissandoci, infondendo essere. Il cogito è conquistato da un oggetto del mondo, un oggetto che da solo rappresenta il mondo. Il dettaglio immaginato è una punta che penetra il sognatore originando in lui una meditazione concreta”. (La parte sottolineata è mia) (1.2)

Nel caso di Alejandro l’immagine che lui vive come “passaggio” è incontro e trasmutazione. Alejandro diventa Enrique e Pichon diventa Scherzer producendo un giro di vite o di spirale produttiva che aggiungerà nuove idee-mattoni a una comune edificazione: la Psicologia Sociale Operativa che per essere sociale e operativa sarà sempre in costruzione.
È in quella conjunctio che segnalavamo sopra, dove la voce –così sottolinea Alejandro- non diventa eco perché quell’incontro quasi corporeo genera e materializza una nuova voce. Voce polifonica che anche se crea scienza, germina, costruisce, non solo dall’intelletto ma anche dal sentimento e questo è molto serio dato che può succedere che il suo suono faccia rinascere Don Chisciotte “quel manchego, quel bizzarro fantasma del deserto” nel secolo XXI, il quale, sotto l’impero della stupidità, la tecnologizzazione e la banalizzazione: “tutto il mondo è sano di mente, terribile, mostruosamente sano” (3), (4).

V) Il documento allegato condensa e concentra argomenti che sono affrontati in diversi lavori sul web. Ho voluto fare una breve spiegazione di ogni item, ma la sua estensione de-contestualizzava il carattere del documento della lettera a E. P. R.. Preferisco rimandare ai contenuti del web.

Bibliografía:

1. Bachelard Gastón. “La poética de la ensoñación”. 1982, México, Fondo de Cultura Económica.

2. León Felipe: Pero ya no hay locos. En Antología rota1947, Bs. As Editorial Pleamar.

3. Idem.

4. Dott.ssa Ana M. Rodríguez.

 

(traduzione dallo spagnolo ad opera di Fabiola Gomez)

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Gladys Adamson: una ricerca operativa con giovani in condizione di vulnerabilità

Sab, 26/09/2015 - 17:38
Il Centro Studi e Ricerche “J. Bleger” invita al seminario che si terrà il 2 ottobre dalle 16 alle 19 presso la Sala di RM25

in Corso d’Augusto 241 a Rimini.

Sarà relatrice Gladys Adamson, da Buenos Aires, che presenterà un suo lavoro di ricerca operativa con giovani in condizione di vulnerabilità. Si tratta di un intervento di prevenzione in quartieri periferici e degradati di Buenos Aires.

La partecipazione è gratuita.

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Il trauma: una ricerca nell’ambito individuale della Concezione Operativa di Gruppo

Mar, 11/08/2015 - 17:44

di Simona Maini, Agnese Marchetti, Elena Marini, Arianna Occhio, Marella Tarini


INTRODUZIONE

Il nostro gruppo di ricerca si costituisce nel 2010. Il tema intorno a cui ci raggruppiamo è il trauma. Sicuramente non è casuale che 7 donne (rimaste poi 5) siano attratte da una riflessione su questo argomento.
Non è casuale. Ci diciamo, sorridendo, che siamo nella pancia, nell’antico, nel primordiale, e chissà quale emergente rappresentiamo nella Scuola “J. Bleger”, o cosa sentiamo su di noi depositato per immergerci in un pozzo già a prima vista così profondo.


L’INIZIO.

All’inizio la strada è stata tracciata dal prof. Bonfantini che, durante una lezione sulla metodologia della ricerca, ci parla del “fatto sorprendente” come motore di ogni ricerca degna di essere chiamata tale.
Il generatore della ricerca è il fatto sorprendente, il nuovo che stupisce e non ha spiegazione immediata nel già noto.
Di fatti sorprendenti ne emergono almeno 3 nel corso delle condivise riflessioni all’interno del nostro gruppo di ricercatrici. Il comune denominatore è comunque la parola “trauma”.

PRIMO FATTO SORPRENDENTE
E’ la non corrispondenza tra entità del trauma ed effetto.
Un apparente piccolo trauma può produrre effetti psichici importanti, talvolta devastanti, e viceversa. Semplificando, visualizziamo la situazione in un contenitore che ha un contenuto più o meno fluido, più o meno organizzato, che venga colpito da un corpo contundente e si incrini. L’entità dell’incrinatura sarà la risultante tra la forza del colpo e lo spessore del contenitore. E quello che si fa strada, il contenuto che fuoriesce, dipenderà sia dall’entità dell’incrinatura ma anche dall’essere più o meno fluido del contenuto, dal suo essere più o meno grezzo, disorganizzato, instabile . La cosa si complica laddove la demarcazione contenente\contenuto non è così netta. In quelle personalità che hanno già di per sé falle e varchi, risultati, forse, non di grandi eventi ma di tanti ripetuti piccoli quotidiani microtraumi.

SECONDO FATTO SORPRENDENTE
E’ il trauma che, in alcuni casi, ripete se stesso, si autoriproduce. Per usare un paragone biologico, in alcuni casi sulle forze riparative, rigenerative, che portano naturalmente la ferita a guarigione, prevalgono forze di automantenimento della ferita, che si cronicizza, diventa ulcera torbida, infetta, o peggio, ancora più subdolamente, guarisce per poi ricomparire, riprodursi, in una specie di memoria del danno che non vuol guarire. Un Alien che riproduce se stesso e non vuol dimenticare…. che sia come diceva Brecht che è la fragilità della memoria che dà forza agli uomini?….

CHI E’ STATO SBATTUTO A TERRA SEI VOLTE
COME POTREBBE RISOLLEVARSI LA SETTIMA
PER RIVOLTARE IL SUOLO PIETROSO
PER RISCHIARE IL VOLO NEL CIELO?
E’ LA FRAGILITÀ DELLA MEMORIA CHE DA’
FORZA AGLI UOMINI
(Brecht, Elogio della dimenticanza)

TERZO FATTO SORPRENDENTE
In un gruppo di operatori che assistono al trauma provocato da parte di un utente ad uno di loro, o al racconto di questo trauma, accadono cambiamenti significativi.
Nel pensare a questi interrogativi è inevitabile cercare una definizione comune sui termini chiave: Trauma” e Memoria.


TRAUMA

Parola innanzi tutto somatica: lesione prodotta accidentalmente da agenti meccanici la cui azione vulnerante è superiore alla resistenza dei tessuti su cui operano. Ma Trauma è anche parola psichica per eccellenza.
Ci colpisce il concetto di Freud di post definizione di un evento come trauma.
All’inizio, quando un evento accade, è COMMOZIONE e SPAVENTO.
La COMMOZIONE: con questo si intende l’aspetto somatico dell’evento, che provoca un’affluenza di eccitazione che irrompe e pone in pericolo l’integrità.
Il soggetto non può reagire mediante scarica adeguata o elaborazione psichica.
Lo SPAVENTO: è l’aspetto psichico dell’evento. Il termine usato da Freud è “Hilflosigkeit” che letteralmente è: lo stato di impotenza dell’originale e naturale condizione del cucciolo d’uomo.
All’inizio l’evento è commozione e spavento. Viene rimossa la memoria di qualcosa che solo più tardi sarà definito trauma.
Ancora, abbiamo lavorato molto sul termine Memoria con le infinite declinazioni, il rapporto che ha la memoria nella definizione, risoluzione o mantenimento del trauma.
In questo girovagare senza mete precise, ma ricco di suggestioni, ci guidano alcune letture. Ma anche libere associazioni, frammenti di film, di libri, ricordi, immagini infantili, racconti brevi e sinceri. Forse è a questo punto che, più o meno consapevolmente, il gruppo prende una svolta.
Diviene evidente:

  1. l’eccesso di ipotesi;
  2. ricercando, verifichiamo che, alla fine, le ipotesi non sono particolarmente sorprendenti. Ma non è questo il problema. Anzi, forse questo presupposto della sorpresa è fuorviante, perché rischia di far sembrar inutile un lavoro di studio che per noi è stato molto produttivo;
  3. il lavoro rischiava di diventare un piacevole ma infruttuoso percorso circolare, senza una meta precisa, senza un tempo di scadenza;
  4. infine, il problema sostanziale che si fa evidente è: in che consiste la ricerca ? Chi ricerca su chi?

Il Trauma nell’ambito individuale

Il tema del trauma è vastissimo ed affrontabile da infinite prospettive, è ritornato negli ultimi anni all’attenzione dei clinici e dei ricercatori dopo essere stato adombrato per molto tempo nella formulazione del pensiero psicoanalitico.
Nella ricerca, l’ambito a cui ci siamo riferite è quello individuale, ed il trauma è stato inteso non tanto come evento, quanto come esperienza soggettiva che si sviluppa in processi fenomenici successivi. Naturalmente, la nostra teoria di riferimento è la Concezione Operativa di Gruppo, quindi per noi, concettualmente, qualsiasi esperienza soggettiva, individuale, avviene all’interno di una dimensione gruppale, sia se inserita in un contesto istituzionale che collettivo.

Questo, anche quando l’esperienza sia vissuta da un soggetto “isolatamente”, in quanto entrano in azione, nella organizzazione della risposta all’evento traumatico, le rappresentazioni interne che il soggetto ha del gruppo al quale appartiene o al quale è appartenuto, in sostanza le dinamiche relative al suo gruppo interno primario o ai suoi gruppi di appartenenza successivamente internalizzati nel corso della sua esistenza.
Cosicché la nostra ricerca si è incentrata sulla investigazione di come si possano essere prodotte risposte ad un evento traumatico vissuto soggettivamente, laddove questo soggetto appartiene ad un gruppo, e di come le rappresentazioni del suo gruppo interno abbiano rispecchiato o meno le dinamiche presenti nel suo gruppo esterno attuale, il gruppo a cui il soggetto appartiene prima dell’evento, al momento dell’evento e nello sviluppo del processo successivo all’evento.

L’ipotesi sulla quale stiamo tentando di investigare è che un evento traumatico soggettivo irrompe determinando alterazioni sia sul contenitore che sul contenuto o, nel linguaggio della concezione operativa, sia sull’inquadramento che sul processo interno del soggetto e del gruppo di appartenenza e, nello specifico, sul sistema dei vincoli presente in quel determinato gruppo.


LA RICERCA

Per questa ricerca, secondo le ipotesi appena descritte, abbiamo lavorato su un gruppo istituzionale, una équipe di lavoro, all’interno della quale un operatore ha vissuto una esperienza traumatica durante lo svolgimento della propria professione.
Ciò che si voleva verificare è la dimensione e la qualità dei vincoli esterni ed interni sperimentati dai soggetti in quel gruppo e la loro eventuale trasformazione in seguito all’evento traumatico.

Si tratta di un’équipe istituzionale pubblica di un Servizio dell’Italia Centrale che eroga interventi nel campo della Igiene Mentale, multiprofessionale e transdisciplinare, istituita nel 1991.
Nel corso dei decenni, l’organizzazione ha avuto varie rimodulazioni che l’hanno portata a delinearsi secondo la dimensione che mostra al momento dell’indagine: tre infermieri professionali, un’assistente sociale, tre psicologi, di cui uno a contratto, quattro medici, di cui tre sono psichiatri. Una particolarità di questa équipe è che è costituita quasi completamente da donne, l’unico professionista di sesso maschile è uno degli infermieri professionali. Peraltro, il Servizio interagisce anche con personale appartenente al Privato Sociale del territorio attivo nel medesimo settore di intervento (Comunità Residenziali), con il quale condivide periodicamente, oltre ai programmi messi in essere per i pazienti, i percorsi formativi congiunti ed i momenti di supervisione, e anche uno di questi operatori esterni di comunità è di sesso maschile

In questo quadro, una delle psichiatre, dopo la stabilizzazione in ruolo, subisce un’aggressione, mentre presta servizio, da parte di una paziente assistita da molto tempo dalla struttura. Durante un colloquio individuale, l’utente, femmina, aggredisce la dottoressa verbalmente e con il lancio di alcuni oggetti che non la colpiscono direttamente, ma le conseguenze di questo evento derivano dai movimenti bruschi fatti per evitare gli oggetti scagliati. Dopo l’evento, la psichiatra sviluppa un problema alla colonna vertebrale e poi una sindrome post- traumatica da stress, per cui resta per circa sei mesi lontana dal servizio, con un certificato di infortunio sul lavoro per i postumi descritti. L’assenza della professionista, per tutto il tempo in cui si svilupperà, non verrà colmata da alcuna sostituzione.
Appare significativo segnalare che questa équipe, fin dal momento della sua fondazione, ha voluto costruire un’ECRO (Schema Concettuale di Riferimento Operativo) condiviso tra i suoi integranti per operare attraverso una effettiva interazione multiprofessionale e transdisciplinare. A questo scopo, tutti gli operatori di qualsiasi qualifica che si sono avvicendati nel corso degli anni, hanno frequentato la Scuola “José Bleger” per l’apprendimento della Concezione e della Tecnica Operativa di Gruppo. Sempre con la medesima finalità, l’équipe è stata fin dall’inizio costantemente supervisionata, attraverso incontri cadenzati, grazie all’intervento di un supervisore esterno esperto in COG.
Una volta rientrata in servizio la psichiatra, sono stati attivati, per decisione condivisa nell’équipe, cinque incontri di supervisione a cadenza quindicinale espressamente dedicati alla elaborazione di questa esperienza traumatica.

Metodologia

In questo campo apparivano rappresentate le istanze dei fatti sorprendenti che avevamo enucleato in premessa. Si è pensato quindi di ricercare proprio al suo interno, e di applicare i metodi che si riferiscono al paradigma della Investigazione Qualitativa, secondo il dispositivo della Osservazione Partecipante. Abbiamo deciso cioè di partecipare in qualità di osservatrici partecipanti alle sedute di supervisione che l’équipe aveva programmato per l’elaborazione dell’evento, di predisporre una rotazione delle osservatrici in modo che il processo potesse essere partecipato da più di un soggetto del gruppo di ricerca, e di enucleare gli emergenti di questo processo per analizzarli, in seguito, all’interno dell’intero gruppo di ricerca riunito, nel tentativo di addivenire collettivamente ad una ricostruzione delle risultanze investigative.

Prima di descrivere come si è svolto il lavoro sull’osservazione del gruppo degli operatori, crediamo sia necessario descrivere anche come ha operato al suo interno il nostro gruppo per tale lavoro di ricerca.
Innanzitutto le date per i nostri incontri erano stabilite di volta in volta, gli incontri sono stati numerosi, a volte con lunghe pause, ma il nostro gruppo ha tenuto, i vincoli si sono formati e non c’è mai stata la volontà di abbandonare malgrado la difficoltà nell’incontrarsi.
In alcuni momenti difficili in cui il gruppo sembrava sfilacciarsi, e pareva impossibile andare avanti, abbiamo riconosciuto come elemento di coesione l’aver partecipato noi stesse, come integranti, ai gruppi operativi organizzati dalla Scuola Bleger.
Nei nostri incontri abbiamo sempre pensato di non voler stabilire ruoli particolari: lavoriamo in gruppo ma senza avere un coordinatore o un osservatore, ci autogestiamo, non c’è qualcuno che in maniera stabile verbalizza.
Ad ogni incontro si integrano le verbalizzazioni individuali precedenti e su quelle nascono nuovi spunti di riflessioni e lavoro.

Lavorare sul trauma: pensarlo, osservarlo, scriverne, non è un lavoro facile, sempre ritorna il proprio vissuto interno.
Anche nel nostro gruppo viviamo ruoli diversi, così come nell’équipe osservata: siamo psicologhe, medico e psichiatra.
Inoltre, il nostro gruppo di ricerca ha una implicazione forte con l’équipe osservata: una delle nostre colleghe lavora nel Servizio stesso dove si è svolto l’incidente ed ha partecipato come integrante a tutte le sedute di supervisione, altri componenti dell’équipe sono conosciuti da tutte noi, frequentano l’Istituto Bleger e ne hanno condiviso la formazione; questa sottolineatura è importante, ma non impedisce una lettura degli eventi così come da noi impostata.

Veniamo ora alle osservazioni svolte. Gli incontri di supervisione sono stati in totale 5, noi abbiamo deciso di osservare il primo, quello centrale e l’ultimo.
Il Supervisore della équipe era il Dott. Montecchi, sostituito nei due centrali dal Dott.de Berardinis. Noi, come già detto, ci siamo alternate per effettuare la osservazione partecipante attraverso la quale sviluppare la ricerca, per cui le tre sedute di supervisione osservate hanno avuto tre osservatrici diverse.
Ognuna delle tre osservatrici ha poi riportato dentro il gruppo di ricerca ciò che ha annotato durante le supervisioni e si sono individuati gli emergenti.
Abbiamo poi analizzato le osservazioni attraverso i nostri riferimenti teorici, le nostre libere associazioni, il vissuto di gruppo attraversato a sua volta dal trauma. Quel che ci interessava non era tanto l’evento in sé, e attribuire una qualche responsabilità, ma studiare il possibile cambiamento dei vincoli e del gruppo, in questo caso un’équipe, attraversata da un trauma.

Vediamo ora, di seguito, un breve resoconto di ognuno dei tre incontri osservati, e i tre emergenti individuati.
Da notare che le frasi pronunciate dagli integranti dell’équipe sono messe tra virgolette e tra parentesi i ruoli professionali degli operatori; infine chiamiamo X l’operatrice che ha subito l’aggressione


1° Gruppo 23/11/2012

Supervisiona: L. Montecchi
Ricercatrice osservatrice partecipante: Agnese
Integranti: 14
L’operatrice aggredita non c’e all’inizio, arriverà in ritardo.
Presentazione del compito da parte del supervisore.

” L’idea era quella di riflettere su ciò che si è prodotto nell’équipe in seguito all’aggressione degli operatori , se siamo d’accordo”

Silenzio…..

Parla X (operatrice aggredita, che intanto è arrivata) : “Forse ci è stato utile parlare del conflitto esterno ma anche le nostre modalità sono molto violente… Il conflitto è stato al nostro interno…”

In tutta la riunione non si parlerà mai dell’accaduto, il discorso si sposta all’interno dell’équipe, si fa riferimento ad un gruppo di studio precedente: tempo addietro, infatti, nel Servizio si era costituito un gruppo di studio temporaneo composto da alcuni degli operatori, che si era dato come compito la rilettura del testo “Simbiosi ed Ambiguità” di José Bleger.

(Psicologa): ” Il conflitto traumatico è al nostro interno. Nel gruppo di studio sono emerse difficoltà sul mettere insieme professionalità diverse sulla diagnosi, sul suo significato, come si fa, etc.”

Per quasi tutto il tempo domina il tema della diagnosi, con confusione e conflittualità.

(Operatore di comunità): “Senza diagnosi non puoi lavorare… arrivano persone senza diagnosi…”

(Psicologa): “E’ sulla discriminazione, l’esplicitazione di una discriminazione porta ad un conflitto”.

Si fa riferimento qui al fatto che, solo di recente, è stato espressamente chiesto al Servizio, per questioni amministrative, di formulare diagnosi psicopatologiche “ufficialmente” condivise dai sistemi di classificazione ICD 10 o DSM IV, indispensabili per ottenere le ripartizioni della spesa necessaria per l’inserimento in Comunità Residenziale e per avvalorare la prescrizione di farmaci, in particolare antipsicotici atipici.

(Psicologa) : “Queste diagnosi psicopatologiche come avete intenzione di gestirle? La mia diagnosi è una restituzione di una valutazione diagnostica su base relazionale, con codici linguistici diversi dal DSM… c’è un problema di ruoli, il gruppo forse era simbiotico, ora si sta differenziando…”

(Psichiatra): “Lo avete capito perché ho chiesto le diagnosi?”

Solo alla fine della riunione, all’interno di un conteggio statistico sugli utenti, emerge il dato di due utenti che si sono suicidati dopo le dimissioni e di uno deceduto per overdose.

Gli emergenti sono:
1) La persona aggredita arriva in ritardo.
2) “Le epistemologie non convergono, frammentazioni di linguaggi… ognuno parla una lingua propria”
3) “Due suicidi sono un grosso trauma, la famiglia di P. (uno dei ragazzi suicidi) si è comportata in modo molto violento con il Servizio”.


2°Gruppo: 13/12/2012

Supervisiona: M. De Berardinis
Ricercatrice osservatrice partecipante: Elena
Integranti: 10
Inizia la supervisione , manca X, che arriverà in ritardo.
Compito: parlare di quel che è accaduto all’interno del servizio e di tutto ciò che si vuole.

Emerge il fatto dei suicidi, il fatto che la famiglia di uno di questi ragazzi si sia scagliata contro il Servizio e che il parroco, durante la messa di commiato, abbia fatto un’omelia contro la struttura pubblica..

Viene raccontato per la prima volta l’episodio dell’aggressione ma sembra soprattutto perché è cambiato il supervisore, e quindi per renderlo edotto degli accadimenti. Ma poi viene fuori il fatto che 3 anni prima, la stessa paziente ha agito un comportamento simile con un altro psichiatra, maschio, poi trasferitosi (per altri motivi) in un altra Struttura.

C’è tensione tra le diverse figure operative, si parla della Diagnosi Operativa.

Arriva X, insieme ad un’altra operatrice.

Emerge la sensazione di una disgregazione tra i ruoli, gli infermieri lamentano di sentirsi come poliziotti, non si sente il riconoscimento del ruolo.

I pazienti sembra sappiano da chi poter ottenere ciò che vogliono.

Emerge il problema di una non comunicazione tra i diversi settori e ruoli.

C’è rabbia, perché c’è chi viene ascoltato e chi no.

X.: “Fuori di qui ho cercato la risposta”.

Alcune operatrici escono perché hanno un gruppo.

X.: “Il gruppo mi avrebbe frammentato”, “non volevo sentire nessuno” .

“Sapevo che sarebbe andata così, avevo chiesto di vedere insieme a qualcuno questa paziente, ma sono abituata a far da sola senza pensarci. Mi è stato detto che dovevo farlo io, perché ero l’operatore di riferimento. Sono stata paralizzata dalla paura”.

Si discute animatamente sulla definizione del ruolo.

Ci si chiede se lo psichiatra deve dare per scontato che ci siano aggressioni e saper in qualche modo reagire ad esse o se queste aggressioni invece non debbano far parte del mandato.

Le opinioni a tal proposito non sono concordi.

Emerge la domanda se loro, come operatori, si devono occupare di maleducati da rieducare o di pazienti.

Gli emergenti individuati sono:
1) La persona aggredita arriva in significativo ritardo.
2) “Quello che succede in quella casa non si sa, come noi qui”. “Qui per parlare bisogna usare violenza”.
3) “Chi è il nostro alleato: il paziente violento o il collega?”.


3° Gruppo 10/ 5/ 2013

Supervisiona L. Montecchi
Ricercatrice osservatrice partecipante: Arianna
Integranti: 13, 1 assente
Anche a questo incontro l’operatrice aggredita arriva in ritardo.

Il primo intervento è significativo : “C’è l’accorpamento dei Dipartimenti, stiamo anticipando una diaspora…”

Il gruppo si riferisce al fatto che sta per concretizzarsi una riorganizzazione regionale della rete delle strutture sanitarie secondo criteri di Area Vasta, e si teme che il Servizio verrà accorpato insieme ad altri in un unico Dipartimento provinciale.

Questo sarà il motivo di fondo di tutto il gruppo, la sensazione di qualcosa destinato a cambiare per sempre, e l’impossibilità di opporre resistenza.

Arriva X in ritardo, mentre il discorso è: tutto finisce e nessuno ha detto niente, ho un brutto presagio , il peggio deve arrivare.

Le viene detto : “hai tentato una fuga”

L’idea è che per riprendere le forze bisogna andare fuori.

X dice: “devo tornare nella caverna”.

Quindi l’équipe è attraversata da questo continuo pensiero dello stare dentro o fuori, del pubblico e del privato, dell’esterno che arriva come una minaccia a sgretolare tutto.

Nella parte centrale dell’incontro vengono portati per la prima volta dei sogni.

Nel primo, c’è la descrizione dello stesso gruppo d’équipe, in una stanza rivestita di mattoni, con una rete in alto, ad un certo punto una persona, descritta come un’amazzone, sembra un uomo ma è una donna, si alza, corre verso la finestra e si lancia rompendo la rete, chi racconta dice che va a vedere e quella persona è sfracellata.

“Era la persona più pessimista del gruppo!”

Il secondo sogno è stato fatto da un’altra operatrice la stessa notte del primo: “dovevo recuperare la mia macchina con gli alberi che si sfracellavano ed era pericoloso.”

Terzo sogno, raccontato da una ulteriore operatrice: “torno a casa e la trovo piena d’acqua, era il mare, mi mettevo su una zattera di rete ma cado, non so nuotare e dico: è il momento di morire. Trovo un ragazzo che mi dice: ti aiuto!. Quando esco c’è un uomo elegante vestito di blu che mi dice di stare tranquilla, ma in realtà non fa niente, poi vedo due colleghe che mi aiutano e mi aspettano con gli asciugamani…”.

Tutti i tre sogni fanno pensare al gruppo che c’è una parte, il femminile, che protegge, come una madre, e c’è una parte negativa, maschile, che va eliminata, ammazzata, o sfracellata, ci sono il maschile e il femminile che si mischiano ma allo stesso tempo confondono, la persona del primo sogno che si sfracella è un’amazzone, con gli stivali, con la coda di cavallo, una donna che fa l’uomo.

Il gruppo lavora su questi temi: dentro/fuori, precari/stabili, il ruolo che si gioca, con tutte le diverse professioni, ma anche con il maschile o femminile: madre che deve solo nutrire o femmina che si può divertire, c’é il cambiamento che porta alla disgregazione, i vincoli e le relazioni che se mutano, finiscono:

“Sono stufa di nutrire, il compito femminile non può essere solo questo”

“Indurre dipendenza è un modo per non vedere la propria”

“Un conto è la vacanza, un conto la foto delle vacanze!”

“Se veniamo accorpati perdiamo questo modo di lavorare”

Nell’ultima parte si lavora su come ci si aspetta che avvenga il cambiamento, è la violenza che irrompe, rappresentata proprio da un uomo (il nuovo direttore che arriva dal potere centrale e che si teme sarà incaricato di dirigere l’unica struttura dipartimentale che verrà configurata in seguito all’accorpamento degli attuali servizi) che usa la violenza e la sua forza sulle Strutture gestite da donne.

Nella conclusione ci si sforza di essere propositivi, viene detto che i modelli che funzionano sono così come questo, a rete, e la rete consiste in una forma articolata, non come un modello dove c’è un sole centrale che nasconde ed ha la supremazia su tutto il resto.

Gli emergenti sono:
1) la persona aggredita arriva in ritardo: “stiamo anticipando una diaspora.”
2) Chi esce si sfracella o annaspa.
3) L’uomo che viene da fuori violenta.


CONSIDERAZIONI

In questo lavoro ci colpiscono immediatamente 3 elementi.
In prima istanza, rileviamo l’effettività del fatto sorprendente dal quale siamo partite: un trauma “apparentemente” lieve può provocare un’onda traumatica con una significatività importante.
L’utente si è scagliata infatti contro l’operatrice con forte aggressività, ma non c’è stato un esito immediato particolarmente grave.
Per la particolare competenza clinica del Servizio, si può rilevare che rabbia ed aggressività siano comportamenti che si possono attendere da utenti così problematici, ma l’effetto dell’attacco è dirompente: sia sull’individuo, portando l’operatrice a rimanere assente dal lavoro per diversi mesi, sia sul gruppo, innescando un processo che è stato l’oggetto delle nostre osservazioni. Quindi: piccolo trauma – grande effetto.

In secondo luogo, l’apparente scarso interesse ad affrontare il caso in sé.
Non si parla mai, o quasi, del fatto accaduto; solo nel secondo incontro, in maniera approssimativa e principalmente per via del cambio del supervisore. In pratica, è assente una cronaca dell’evento, una narrazione che possa condurre il gruppo a rivedere ciò che è successo e cercare di comprendere cause ed effetti.

Il terzo elemento è il ritardo dell’aggredita, che si ripeterà sempre.

Il conflitto e le ansie del gruppo si coagulano intorno a due temi principali che useremo come analizzatori: il potere e le differenze (di ruolo, sessuali, di linguaggi).


IL POTERE

Sin dalla prima riunione è evidente un conflitto di ruoli tra le professioni incentrato sul problema della diagnosi: chi deve o vuole o può fare diagnosi, come la si fa, a cosa serve.
Dall’osservazione emerge che vi è stata la richiesta istituzionale, esterna al servizio, di redigere diagnosi specifiche per i pazienti, questo conduce a discutere su chi ufficialmente può o deve fare la diagnosi, quindi su chi ha maggiori responsabilità ma anche potere.

Questa evidenza porta ad un altro analizzatore. La necessità della diagnosi espressa secondo criteri nosografici descrittivi e la conseguente differenziazione dei ruoli probabilmente mobilita delle ansie latenti, ci si riferisce al fatto che ci fosse un tempo in cui il linguaggio era comune (il tempo della “diagnosi operativa” costruita con l’apporto valutativo di tutte le figure professionali), condiviso, un “ bel tempo perduto”, linguaggio che ora appare frammentato, non più familiare e scontato.
La richiesta esterna della diagnosi fa uscire dall’idea, un po’ utopica, che gli operatori sono tutti uguali, dall’idea di una comunicazione condivisa, che poi si è incrinata e comunque non è più quella di prima.
Gli integranti dell’équipe, che non pensavano alle differenze come origine di conflitto e per i quali la diagnosi era il risultato di un lavoro collettivo, sono costretti ad assumere la differenza e l’obbligo di una diagnosi specifica secondo canoni esterni.
Si distingue tra chi ha più o meno potere, o ruoli diversi: lo psichiatra che è diverso dallo psicologo, chi è assunto a tempo indeterminato e chi no, chi è un tirocinante o un volontario, chi fa il padre o la madre, chi è accogliente e chi è autoritario. E la declinazione di queste distinzioni è caricata di una forte tonalità aggressiva.


LE DIFFERENZE

Sembra emergere la differenza tra ruolo materno e paterno che si inserisce su quello professionale. Ricordiamo che l’équipe è costituita quasi tutta da donne ad eccezione di un infermiere.
Il ruolo dello psicologo sembrerebbe quello più accogliente e tollerante, quindi simile al ruolo materno, il ruolo dello psichiatra, diversamente, sembra essere (o meglio, questo sembra il deposito del gruppo di operatori nei suoi confronti) quello di chi dà le regole, più autoritario. Proprio per questo esercizio d’autorità è il ruolo professionale verso cui, secondo questo gruppo, anche se non esplicitamente, sembra più naturale sia rivolta l’aggressività di coloro che le regole le devono subire.
Il gruppo è calibrato su un’identificazione collettiva con il “femminile”, mentre il ruolo dello psichiatra è vissuto come rappresentante della mascolinità ed è questo che viene esposto, per mandato conferito dal gruppo medesimo, all’aggressione esterna. Quindi, sembra di poter dire che questo stesso ruolo è oggetto di una forte aggressione implicita anche all’interno del gruppo delle operatrici.
I conflitti professionali sembrano, allora, confondersi con i conflitti di genere.

Quel che è accaduto può quindi essere l’agito di una aggressività non riconosciuta interna al gruppo, ma elementi aggressivi e violenti erano provenuti già da prima dall’esterno: il Servizio aveva in effetti subìto delle aggressioni importanti:

  1. una in seguito ai suicidi di due giovani pazienti (dei quali uno dimesso da poco da un programma residenziale). La famiglia di uno dei ragazzi aveva organizzato insieme alla parrocchia un’assemblea pubblica alla quale il Servizio non era stato invitato, e pare che il parroco avesse fatto un’omelia criticando pesantemente l’operato del Servizio medesimo, nonostante la Struttura si fosse in realtà molto prodigata nel tempo, operativamente e finanziariamente, per rispondere ai bisogni di questo assistito;
  2. la seconda è la notizia dell’imminente accorpamento di più Servizi e della imposizione del cambio dei direttori, stabilito unilateralmente dai livelli decisionali apicali, con una paventata probabile soppressione dell’autonomia gestionale ed organizzativa sperimentata finora;
  3. infine, la richiesta di redigere diagnosi nosografiche standardizzate al posto delle diagnosi operative che il Servizio era invece formato a produrre collettivamente, per la somministrazione di farmaci e la razionalizzazione dei costi.

Sembra, allora, che il trauma abbia messo in luce alcune fragilità nei vincoli, non evidenti finora sul piano manifesto, e procurate o esacerbate, presumibilmente, da queste azioni, ed esperienze politraumatizzanti precedenti: l’aggressività latente legata al conflitto professionale e di genere, la rabbia non esplicitata legata a questo conflitto latente e quella legata alle altre aggressioni subite dall’esterno, il dissenso non detto o non ascoltato che si sono insinuati tra le crepe ed il gruppo all’improvviso si è dovuto rimettere in gioco.
Il trauma può fungere in un gruppo come collante ma anche come elemento disgregativo: a noi sembra che, in questa osservazione, sia andato un po’ più in questa seconda direzione.
Si è inserito come un cuneo nella quotidianità e ha rotto il linguaggio familiare: prima erano apparentemente tutti uguali, una sorta di condivisione matriarcale dei poteri, adesso no, irrompe ed emerge il conflitto, determinato dalla percezione evidente delle differenze, che sono differenze di ruoli e di genere, e la differenza di genere richiama e sembra sovrapporsi alla differenza dei ruoli e innesca dinamiche competitive. La compattezza del gruppo è destabilizzata, la gestione della paziente non avviene secondo percorsi autenticamente condivisi, si apre il varco alla possibilità dell’aggressione, si genera il trauma: anche la risposta ad esso non è aggregata e condivisa, ma mostra modelli di risposta e di elaborazione frammentati. Il soggetto, vittima dell’evento aggressivo, cerca risposte secondo un paradigma individualistico.

Ci chiediamo: la posizione del gruppo di professionisti è dipesa anche da come si è posta l’operatrice aggredita? E lei avrebbe potuto sottrarsi al mandato conferitole da esso? Diceva infatti di sé, durante una delle supervisioni osservate: “Sapevo che sarebbe andata così, avevo chiesto di vedere insieme a qualcuno questa paziente, ma sono abituata a far da sola senza pensarci. Mi è stato detto che dovevo farlo io, perché ero l’operatore di riferimento.”
Apparentemente lei ha poi avuto, in seguito all’accadimento traumatico, un atteggiamento di rottura col gruppo: non ha chiesto aiuto, si è assentata per un lungo periodo, alle supervisioni da noi osservate è arrivata sempre in ritardo, “anticipando la diaspora” con un messaggio aggressivo che si riflette nelle dinamiche gruppali.

Tutto quel che abbiamo osservato e poi riportato al nostro gruppo di ricercatrici riverbera su di noi in modo differente, dati i nostri ruoli e i nostri gruppi interni: intorno a questo dibattiamo e cerchiamo di analizzare i contenuti che emergono. E’ come essere una squadra, un’osservatrice si avvicina di più ad un’ipotesi o all’altra.
Ma ci sembra di poter condividere unitariamente che la ricerca abbia evidenziato alcune risultanze, che vorremmo lasciare però sotto forma di domande aperte, per suscitare ed identificare pensieri e canali ulteriori di ricerca . Infatti, secondo alcuni autori della Rivista “Psicologia Social” di Bahia Bianca (Bernardo Jiménez Dominguez ) i ricercatori psicosociali dovrebbero considerarsi “costruttori di opere effimere” , quindi la ricerca dovrebbe servire, una volta ultimata, a produrre pensieri generativi e desideri di aprire ulteriori canali di investigazione.

Le risultanze sono:
1) un gruppo curante omogeneo per genere ascrive al suo proprio genere la specificità dell’esercizio della cura? Un gruppo di maschi, cioè, pensa che la cura debba seguire criteri “maschili” e un gruppo di donne pensa che  la cura sia legittima solo secondo criteri “femminili”? Il curare è maschile e la cura è femminile?

2) I conflitti fra categorie professionali sono conflitti di genere?

3) Come gioca la specificità di genere nel determinare difficoltà a rifiutare il deposito dei mandati? Per le donne è forse più difficile rifiutare il deposito di un mandato?

4) La prevalente omogeneità di genere, in un gruppo, rende i processi di differenziazione più difficili? Li rende carichi di un’aggressività reciproca importante tra i membri? Fa emergere dinamiche espulsive rispetto a chi si differenzia?

5) I politraumi precedenti e ripetuti espongono a successive, più dirompenti, esperienze traumatiche?

 

 

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La ricerca e l’abduzione

Mar, 26/05/2015 - 15:11

Charles Sanders Peirce, in “Some consequences of four incapacities” (trad. it. “Alcune conseguenze di quattro incapacità”), sostiene che il motore che muove l’essere umano alla ricerca è il dubbio: è la situazione di dubbio che stimola nell’uomo l’attivazione di un processo psichico, il pensiero, con il fine di porre fine alla situazione di dubbio e ricreare una situazione di tranquillità e quiete.
Questo motore può essere inteso in tre modi:

1. come stimolo che viene dalla realtà, una cosa di cui bisogna occuparsi;
2. una passione soggettiva che viene da lontano, legata alle relazioni sociali del vissuto;
3. l’egotismo, la soddisfazione derivante dal far parte di un gruppo che si occupa di un certo oggetto.

Aggiunge poi che non esiste nell’uomo un processo psichico che abbia come obiettivo la conoscenza e che non sia di tipo inferenziale. Con inferenza è da intendersi un percorso logico compiuto dalla mente dell’uomo: si parte da un oggetto conosciuto e, utilizzando un passaggio intermedio, si arriva a carpire una nuova conoscenza, un oggetto prima ignoto.

Fondamentalmente nei suoi ragionamenti l’uomo utilizza tre tipologie di inferenze, ossia tre forme di argomentazione: l’induzione, la deduzione e l’abduzione.

In ambito semiotico l’importanza delle inferenze è legata all’interpretazione: “…le inferenze costituiscono la via maestra attraverso cui un’interpretazione prende forma, o attraverso cui un oggetto diventa prima segno per essere poi pienamente interpretato” (S. Zingale, Il ciclo inferenziale, p. 1).

La differenza tra i tre tipi di inferenza sta nel fatto che nell’in-duzione si va verso qualcosa e la conclusione che viene prodotta è una sintesi; nella de-duzione si proviene da questo qualcosa e la conclusione che si ottiene è una tesi; nell’ab-duzione si compie invece un movimento logico laterale o a ritroso (retro-duzione in questo caso) e la conclusione cui si perviene è un’ipotesi.

Nell’inferenza di tipo induttivo si utilizza una logica di tipo associativo: ricercando relazioni tra due eventi osservati, uno considerato causale e l’altro considerato come effetto del primo, si perviene ad una conclusione (sotto forma di implicazione del tipo se … allora) che si propone come legge o regola generalizzata. Tale conclusione è determinata dalla sintesi tra le due premesse ed ha valore probabilistico, dunque fallibile e da considerare vera fino a prova contraria.
 Un esempio di inferenza induttiva[1] è:

Caso: Ha piovuto

Risultato: Il terreno è bagnato

Regola: La pioggia comporta il terreno bagnato

La regola cui si perviene è però solamente probabile poiché il terreno potrebbe essere bagnato anche per altri motivi. Così, ad una prima fase di osservazione dei fenomeni di interesse, deve seguire la fase della sperimentazione, nella quale due oggetti di ricerca vengono messi in relazione, e, successivamente, quella della verifica, che ha l’obiettivo di controllare la validità delle procedure utilizzate e delle scelte fatte.

 Nella inferenza di tipo deduttivo si parte da un oggetto già conosciuto, una regola o legge, da cui si sviluppano, necessariamente, delle conseguenze. In questo caso è la premessa iniziale ad essere un’implicazione del tipo se… allora, e tale premessa si deve ripetere sempre con le stesse modalità: in sostanza deve essere considerata, o presunta, vera. Dunque da una premessa (legge) considerata vera, se si verifica un certo fenomeno e se viene condotto un ragionamento secondo una modalità “meccanica” corretta, allora ne deriva una conclusione certa.
 L’inferenza deduttiva ha questa sequenzialità:

Regola: La pioggia comporta il terreno bagnato

Caso: Ha piovuto

Risultato: Il terreno è bagnato

Nell’inferenza di tipo abduttivo si produce un’ipotesi per provare a dare una spiegazione di un fatto osservato: dato un evento (fatto sorprendente), considerando che potrebbe dipendere da una legge d’implicazione (del tipo se… allora) particolare, se ne fa derivare una possibile causa (assente possibile). La conclusione del ragionamento di tipo abduttivo è un’ipotesi, ossia una possibilità che deve essere sottoposta a verifica. L’ipotesi, nella concezione peirceiana, deve essere considerata come una domanda che, richiedendo una verifica, cerca una teoria.
L’inferenza abduttiva si presenta con questa forma:

Risultato: Il terreno è bagnato

Regola: La pioggia comporta il terreno bagnato

Caso: Ha piovuto

Ma non è detto effettivamente che abbia piovuto; la pioggia è soltanto una delle possibilità che avrebbero potuto comportare quella conclusione, ossia il terreno bagnato.

L’abduzione è dunque un azzardo poiché, pur fondandosi sulle premesse del ragionamento, non si configura come pura ripetizione del contenuto delle premesse medesime, come avviene negli altri due tipi di inferenza, bensì come “ricomposizione di tale contenuto semantico” (M. A. Bonfantini e G. Proni, To guess or not to guess?, p. 152): anche con premesse valide la conclusione potrebbe risultare falsa. Questo rischio è il prezzo che viene pagato a fronte del forte potenziale creativo proprio dell’abduzione: questo tipo di argomentazione, in effetti,  non si fonda sul ragionamento logico meccanico quanto sull’interpretazione del dato o “risultato”, che viene motivato facendo leva su un principio generale (o legge-mediazione). È l’elemento interpretativo che connota l’inferenza abduttiva come rischiosa, in quanto non è detto a priori che sia proprio la legge-mediazione che si ipotizza ad essere motivo dell’effetto sorprendente osservato. Ed anzi è nella scelta della legge-mediazione che si gioca la creatività e la possibilità di scoperta del ricercatore, poiché tanto più la legge-mediazione appartiene ad un campo semantico distante dal quello proprio dell’evento osservato, e tanto più è possibile ritenere l’abduzione innovativa. Ossia tanto meno la conclusione abduttiva era suggerita dalle informazioni incluse nel campo osservato e quanto più la si può connotare come una nuova conoscenza.

A tale proposito i due semiologi Massimo A. Bonfantini e G. Proni distinguono tra tre tipi di abduzione:

1) un primo tipo in cui la legge-mediazione usata per inferire il caso dal risultato è data in modo obbligato o semiautomatico: sono abduzioni che si elaborano in maniera inconsapevole, utilizzando schemi mentali abitudinari (o abiti, per dirla con Peirce) per rispondere agli stimoli provenienti dal mondo esterno;

2) un secondo tipo in cui la legge-mediazione utilizzata viene reperita e selezionata nell’ambito dell’enciclopedia disponibile: accanto agli abiti personali si utilizzano le informazioni e le conoscenze che consapevolmente si hanno, si fa riferimento ad un sapere istituzionalizzato, a teorie già esistenti;

3) un terzo caso in cui la legge-mediazione viene costituita ex novo, inventata[2]: è l’invenzione che propone una conoscenza del mondo “così come ancora non è stato” (S. Zingale, Il ciclo inferenziale, p. 11).

Peirce paragona il ragionamento abduttivo ad un tirare a indovinare (il lume naturale), appunto per la distanza esistente tra le premesse e la conclusione di tale inferenza, ma ipotizza l’esistenza di un’affinità tra la mente dell’uomo che produce un’ipotesi e la natura su cui si applica il suo interesse, sostenendo “che la mente umana, essendosi sviluppata sotto l’influenza delle leggi naturali, per questa ragione in qualche modo pensa secondo modelli naturali”(C.S. Peirce, 1929, p.269). Nelle previsioni che fanno, gli uomini sarebbero guidati da concezioni sistematiche della realtà, presenti in maniera più o meno consapevole, che determinano orientamenti di giudizio specifici. Dunque partendo da tale presupposto suppone che gli elementi che sostengono un’ipotesi sarebbero già presenti nella mente dell’uomo, ma la novità consiste nel immaginare di poter metter insieme, come attraverso un “insight”, un’intuizione, ciò che prima non si  pensava minimamente di associare.

L’abduzione, dice ancora Peirce, è “il primo passo del ragionamento scientifico”, l’inferenza mediante la quale è possibile adottare una nuova idea, un’ipotesi che possa permettere di dare spiegazione di un fatto altrimenti considerato inspiegabile. A questa deve però seguire un’inferenza induttiva, che funge da prova sperimentale dell’ipotesi (si deve ripetere molte volte un esperimento per eliminare il più possibile il frutto del caso, sosteneva Galileo Galilei), e poi quella deduttiva, che permette di trarre dall’ipotesi sperimentale le necessarie conseguenze e conclusioni. 

Note:
[1] Rifacendoci alla teoria dell’abduzione di Peirce consideriamo che con “caso” si intende la “conclusione abduttiva” o “ipotesi” del ragionamento; con “risultato” si intende il “fatto osservato”; con “regola” invece si intende la “legge generale”, l’“esperienza”.

[2] Questo terzo tipo di abduzione può a sua volta essere suddiviso in tre sottotipi: un primo nel quale la legge-mediazione viene estesa ad altro campo semantico (spostamento); un secondo nel quale la legge-mediazione crea una nuova relazione tra due elementi già presenti nel medesimo campo semantico (connessione); un terzo nel quale la legge-mediazione introduce come antecedente logico un termine inventato (inventato dal suo istitutore).

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Seminario intensivo: “Interpretazione”

Lun, 13/04/2015 - 13:28

Il Centro studi e ricerche “José Bleger” di Rimini e l’Associazione “Area3″ di Madrid
organizzano il seminario intensivo

INTERPRETAZIONE

15 e 16 maggio     Spazio DuoMo     via Giovanni XXIII, 8     Rimini

PROGRAMMA

>>>>>>>>>>     Venerdì 15 Maggio

Ore 9.30
Tavola rotonda
Coordina: Laura Buongiorno
Massimo Bonfantini: “Interpretazione e trasformazione secondo il materialismo storico pragmaticista. Oltre Marx e oltre Peirce.”
Renato Curcio: “La costruzione socio analitica del significato.”
Leonardo Montecchi: “Delirio di interpretazione ed interpretazione del delirio.”

A seguire approfondimento delle informazioni attraverso i gruppi operativi.

Ore 15.00
Tavola rotonda
Coordina: Gabriella Maggioli
Patrick Boumard: (in attesa del titolo dell’intervento)
Federico Suarez: (in attesa del titolo dell’intervento)
Loredana Boscolo: “Interpretazione e contro transfert.”

A seguire approfondimento delle informazioni attraverso i gruppi operativi.

>>>>>>>>>>     Sabato 16 maggio

Ore 9.30
Tavola rotonda
Coordina: Raul Cifuentes (da confermare)
Violeta Suárez: (in attesa del titolo dell’intervento)
Thomas Von Salis: “Il setting come condizione quasi necessaria per fare l’interpretazione.”
Massimo De Berardinis: “L’interpretazione nel gruppo multifamigliare.”

A seguire approfondimento delle informazioni attraverso i gruppi operativi.

Ore 14,30
Tavola rotonda
Coordina: Massimo Mari (da confermare)
Franco Berardi (Bifo): “Psico architettura della illusione condivisa. Note su Leopardi, Foscolo, Schopenhauer, Nietzsche letto da Yalom e da Ferraris, Philip Dick.”
Nicola Valentino: “La costruzione di significato delle narrazioni esperienziali in socio analisi narrativa con riferimenti ad un cantiere di socio analisi.”
Soren Lander: “Interpretazione, emergente ed (eventualmente) una piccola dose di tango argentino.”

Ore 15.30
Assemblea conclusiva
Coordina: Marella Tarini

Ore 17.30
In collaborazione con Casa Madiba, per la rassegna Varchi, presentazione e discussione di libri:

” Cambiare il mondo. Lettere fra l’Italia e il Messico.”
di Leonardo Montecchi e Paolo Pagliai

Coordina: Manila Ricci

http://www.ibs.it/…/montecchi-l…/cambiare-mondo-lettere.html

Ore 19 aperitivo per congedarsi

I gruppi operativi saranno coordinati da:
Fabiola Gomez, Laura Grossi, Annalisa Valeri

>>>>>>>>>>     La partecipazione al seminario è gratuita     <<<<<<<<<<

 

Franco (Bifo) Berardi (Bologna): scrittore, filosofo e agitatore culturale.

Massimo Bonfantini (Milano): filosofo e scrittore, è professore di Semiotica, da ultimo nel Politecnico di Milano. Si è occupato dapprima dei grandi realisti inglesi, poi di marxismo, quindi di Charles S. Peirce, di cui ha curato le Opere (Bompiani, 2003).

Loredana Boscolo (Chioggia): psicologa e psicoterapeuta, docente della Scuola “Josè Bleger”, dirigente della Asl di Chioggia.

Patrick Boumard (Parigi): professore emerito dell’Università Europea della Bretagna occidentale, ove dal 1990, provenendo da un’esperienza di ricerca e didattica a Paris VIII, ha insegnato scienze dell’educazione. E’ considerato oggi uno dei massimi rappresentanti della etnografia delle pratiche educative ed è, attualmente, il presidente della “Societé Internationale d’Ethnographie”.

Laura Buongiorno: coordinatrice didattica della Scuola “Josè Bleger”.

Raul Cifuentes (Madrid): presidente dell’Associazione “Area3″ di Madrid.

Renato Curcio (Roma): direttore editoriale della Cooperativa “Sensibili alle foglie”, ricercatore socioanalitico sugli stati modificati di coscienza.

Massimo De Berardinis (Firenze): psichiatra, psicoterapeuta, docente della Scuola “Josè Bleger”, direttore dell’Unità Operativa di Psichiatria Asl di Firenze.

Fabiola Gomez (Rimini): educatrice professionale, docente della Scuola “Josè Bleger”.

Laura Grossi (Rimini): pedagogista, docente della Scuola “Josè Bleger”.

Soren Lander (Göteborg): psicologo e psicoterapeuta.

Gabriella Maggioli (Rimini): psicologa e psicoterapeuta, docente della Scuola “Josè Bleger”.

Massimo Mari (Jesi): psichiatra e psicoterapeuta, docente della Scuola “Josè Bleger”, direttore del Dipartimento di Psichiatria di Jesi.

Leonardo Montecchi (Rimini): psichiatra e psicoterapeuta, direttore della Scuola “Josè Bleger”.

Manila Ricci (Rimini): Casa Madiba.

Federico Suarez (Madrid): psicologo e psicoanalista, membro dell’Associazione “Area3″ di Madrid, docente della Scuola “Josè Bleger”.

Violeta Suarez Blazquez (Madrid): psicologa e psicoanalista, vicepresidente dell’Associazione “Area3″ di Madrid.

Marella Tarini (Senigallia): psichiatra e psicoterapeuta, ricercatrice della Scuola “Josè Bleger”, direttore del Dipartimento Dipendenze Patologiche di Senigallia.

Nicola Valentino (Roma): ricercatore in socioanalisi narrativa della Cooperativa “Sensibili alle foglie”.

Annalisa Valeri (Rimini): psicologa e psicoterapeuta, docente della Scuola “Josè Bleger”

Thomas Von Salis (Zurigo): psichiatra infantile e psicoanalista, docente della Scuola “Josè Bleger”.

 

 

 

 

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“Cambiare il mondo. Lettere fra l’Italia e il Messico”

Lun, 23/02/2015 - 23:36

VARCHI! Presentazione di libri per allargare l’area della coscienza promossa da
Scuola Bleger e Casa Madiba

NEXT STOP: Sabato 14 marzo dalle ore 16.00 Casa Madiba Network
Casa Occupata_Laboratorio antirazzista cittadino per i nuovi diritti
Via Dario Campana (dietro il civico 61) vicino all’Amir ( Rimini)

Presentazione di “Cambiare il mondo. Lettere fra l’Italia e il Messico”, ed. Sensibili alle foglie, di e con Leonardo Montecchi e Paolo Pagliai (in collegamento via web conference da Città del Messico)

>>CAMBIARE IL MONDO<<
In un’epoca che non riesce più a immaginare la costruzione di un sistema di relazioni diverso da quello dettato dal capitalismo, gli autori, uno in America Latina e l’altro a Rimini, si scambiano lettere sui temi del cambiamento sociale e politico.
A fronte della perdita dei riferimenti propri del Novecento, con le sue ideologie e le sue rivoluzioni, essi si interrogano sulle pratiche che potrebbero sostituire i paradigmi precedenti per cambiare il mondo.
Immaginare una forza istituente che, dal basso, reinterpreti la realtà e sappia orientare gli umani verso una società finalmente giusta e accogliente, sembra una necessità impellente, considerata la ferocia (o la banalità) del sistema in cui viviamo.
In questi informali scambi di idee e riflessioni molti lettori potranno riconoscere il loro smarrimento, i loro riferimenti culturali e la loro ansia di cambiamento.

Leonardo Montecchi, Paolo Pagliai: “Cambiare il mondo. Lettere fra l’Italia e il Messico” (Sensibili alle foglie, 2015)

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“Sull’intimità”: il passaggio dall’Io al noi

Lun, 23/02/2015 - 23:30

Sabato 14 marzo, dalle 9.30 alle 12.30, presso la sede della Scuola Bleger in via Circonvallazione Occidentale 122, a Rimini, si terrà un seminario con Mario Galzigna: prendendo spunto dal libro “Sulla Intimità” di Francois Jullien (ed. Cortina, 2014) si discuterà della problematica del passaggio dall’io al noi.

Mario Galzigna, docente di filosofia all’università di Padova e curatore dell’ultima edizione de “La storia della follia” di Michel Foucault in italiano, ha studiato epistemologia ed etnopsichiatria ed è autore di numerosi testi. L’ultimo libro pubblicato è “Rivolte del pensiero: Dopo Foucault, per riaprire il tempo” (Bollati Boringhieri Saggi, 2014).

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“Medici senza camice. Pazienti senza pigiama”. Socioanalisi narrativa dell’istituzione medica

Gio, 05/02/2015 - 10:15

Varchi! Presentazione di libri per allargare l’area della coscienza
1° Appuntamento – Venerdì 13 febbraio dalle ore 16 alle ore 19 presso Casa Madiba Network
Via Dario Campana 61 dietro la palazzina AMIR – Rimini
>>>Presentazione della ricerca:
“Medici senza camice. Pazienti senza pigiama”.
Socioanalisi narrativa dell’istituzione medica

Saranno presenti Nicola Valentino e qualche medico del collettivo.
Questo libro è il frutto di un cantiere di socioanalisi narrativa voluto da un gruppo di studenti di medicina e di medici specializzandi per indagare e raccontare i limiti dell’istituzione medica. L’esperienza di tirocinio ospedaliero, mettendoli a confronto con la pratica di spersonalizzazione dell’ammalato e con il rapporto gerarchico istituito dal corpo medico con le altre figure professionali dell’ambito sanitario, ha generato in loro malessere e insoddisfazione.
Di qui l’esigenza di un confronto che ha aperto il cantiere anche ad alcuni operatori, impegnati in ambito sanitario con altri ruoli professionali, e persone interessate al tema, che svolgono attività estranee alla relazione di cura. La raccolta narrativa e la riflessione collettiva hanno individuato due grandi aree tematiche: i dispositivi della formazione medica e la forma istituita della relazione medico-paziente. Ci si è soffermati perciò sulle modalità della formazione dei medici al loro ruolo e all’identità di gruppo e ci si è interrogati sulla costruzione del paziente come oggetto passivo, osservando come questa modalità relazionale sia fonte di un malessere aggiuntivo per la persona ammalata. I partecipanti al cantiere, infine, hanno provato a immaginare parole nuove e momenti formativi autogestiti, orientati a relazioni di cura rispettose, paritarie e non passivizzanti.
Relazioni che vedano protagonisti medici senza camice e pazienti senza pigiama.
Gli incontri della Rassegna “Varchi!” si svolgeranno negli spazi autogestiti e riutilizzati di Casa Madiba Network in Via Dario Campana dietro il civico 61 a fianco dell’AMIR

Info: lab.paz@gmail.com – www.bleger.org
FB: Casa Madiba – Scuola Bleger Twitter: @labpazproject

>>>Cos’è la rassegna “Varchi! Presentazioni di libri per allargare l’area della coscienza”:
Varchi! è transito e movimento.
Varchi! è una rassegna di presentazione di libri che vuole scuotere le coscienze ed immaginare processi di liberazione possibile.
Varchi! è il campo della possibilità, della ricerca della sincronia fra tanti e tante.

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Pedagogia istituzionale e gruppi

Sab, 29/11/2014 - 19:54

Venerdì 5 dicembre dalle 16.00 alle 19.00 si svolgerà a Rimini, presso la sala RM 25 in Corso d’Augusto 241, il seminario dal titolo Pedagogia istituzionale e gruppi.

Relatore sarà Alberto Carraro, autore del libro “Pedagogia istituzionale e gruppi. Contro la fabbrica della dipendenza” (Armando editore, 2014).
Il Prof. Carraro ha insegnato materie letterarie e latino nei licei. Possiede una formazione in psicologia sociale e gruppi ed ha collaborato in vari ambiti con progetti e funzione di coordinamento e ricerca. Si dedica al mondo giovanile proponendo attività di orientamento scolastico e professionale e partecipa alla realizzazione di eventi formativi nella prospettiva di consolidamento e diffusione della concezione operativa di gruppo.
E’ socio del centro di studi e ricerche Jose Bleger.

Il seminario è gratuito ed aperto a tutti gli interessati.

Non sono stati richiesti e né lo saranno i crediti ECM.

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Come si fa a negare l’istituzione

Dom, 23/11/2014 - 11:00

Il 28 novembre alle 16.00 alle 19.00 si svolgerà a Rimini, in Corso d’Augusto 241, presso l’RM25, il seminario dal titolo:

Come si fa a negare l’istituzione.

Sarà il primo seminario autogestito del collettivo Scuola Bleger.
Con questo seminario iniziamo un percorso teorico pratico di cambiamento delle istituzioni. Stiamo vivendo un momento in cui le istituzioni stanno subendo un processo di istituzionalizzazione, cioè si è perso lo scopo per cui sono state istituite ed ora lo scopo è diventato l’auto riproduzione e l’auto mantenimento.
E’ arrivato il momento per una forza istituente.

Il seminario è gratuito ed aperto a tutti gli interessati.

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Vincolo ed emergente nei gruppi di formazione della scuola Bleger

Dom, 18/05/2014 - 20:31

Nel Maggio 2013 a Rimini ci siamo confrontati sulla lettura degli Emergenti nei Gruppi operativi coordinati nella scuola Bleger di Rimini e nella scuola area3 di Madrid.

Leggendo i testi in parallelo si sono potute vedere analogie e differenze.

Mentre il dispositivo di area3 è sempre costituito da coordinatore e osservatore con lettura di emergenti con alternanza di ruoli anche rispetto all’informazione che uno di loro tiene prima di ogni gruppo, nei gruppi operativi della scuola Bleger è previsto sempre il solo coordinatore tranne in quella occasione in cui il dispositivo ha visto coordinatore e osservatore.

L’informazione è sempre tenuta da un terzo.

Abbiamo già visto che non è tanto importante sapere quale sia il miglior dispositivo,bensì vedere quali sono le condizioni che rendono possibile un inquadramento vale a dire perchè area3 ha deciso di impegnare coordinatore e osservatore e la scuola Bleger solo il coordinatore.

Il mio contributo alla discussione sull’Emergente sarebbe quello di riportare come coordinatore per l’intero primo anno di scuola Bleger le differenze emerse tra i diversi dispositivi nei gruppi che prevedevano solo il coordinatore e quelli dove c’erano coordinatore e osservatore.

Il lavoro riguarda dunque livelli diversi che sono tra le due scuole e nella Bleger tra i due dispositivi

Tornando alla questione iniziale, coordinatore e osservatore entrambi sono incaricati perchè il gruppo realizzi il suo lavoro, i loro ruoli sono di farsi carico degli elementi di base che inquadreranno lo sviluppo del gruppo, poi emerge l’elemento fondamentale che riassume le loro funzioni e che assicura le previsioni: lo schema referenziale.(ECRO)

Lo schema referenziale è ciò che rassicura il futuro del gruppo operativo.

Lo stesso schema è costituito dalla formazione di entrambi (coordinatore-osservatore), che dipende dal tipo di apprendimento effettuato non solo in riferimento alla professione, ma anche nella vita sociale.

Così il gruppo operativo esige anche che il coordinatore e l’osservatore abbiano una collocazione determinata dall’insieme delle passate esperienze.

In questa dialettica si organizzano e si strutturano gli apprendimenti del coordinatore e dell’osservatore del gruppo operativo.

Per essere più espliciti e cercando di discriminare ciascuna delle funzioni possiamo dire:

1 – Il coordinatore ha come funzione quella di interpretare e segnalare quello che va succedendo. Si incarica di effettuare l’enunciazione che unirà la tematica verbalizzata con quella del funzionamento gruppale, dando così un elemento di organizzaione nel momento in cui il gruppo è sommerso dall’ansia nella discussione del tema. E’ lui che deve mostrare la molteplicità, segnalando gli elementi contraddittori che la costituiscono, che emergono però durante l’accadere gruppale come parti divise tra loro e senza connessione.

Il compito centrale del coordinatore consiste nell’indicare questa connessione, la quale così avvolta, porta in sé l’elemento vissuto e pensato del gruppo nell’esercizio del compito, che a sua volta, però, va ad occultarsi nell’attitudine disorganizzativa (ansia) nella quale il gruppo si dibatte nella scelta se assumere o no il compito.

2 – L’osservatore ha come fondamentale lavoro quello di organizzare gli elementi Emergenti del gruppo, per poterli ritornare al gruppo (lettura degli emergenti 20 minuti prima della fine dell’incontro), oppure per rielaborarli poi con il coordinatore che ristrutturerà la prospettiva che entrambi avevano del gruppo e poter così cominciare l’incontro successivo.

L’osservazione è essenzialmente un compito di ricerca mentre sul versante della coordinazione l’accento è posto più sulla operatività.

Entrambe si complementano e costituiscono piani distinti di lavoro di coordinamento nel gruppo non se ne può privilegiare una, in quanto tra loro non esiste sovrapposizione, ma complementarietà. L’osservatore può anche essere integrante al gruppo, osservatore partecipante, emettendo segnali sulla situazione. Questa partecipazione deve però essere concepita all’interno delle linee del coordinatore.

Se si prendessero in considerazione le analogie dei gruppi delle due scuole (qui non è possibile riportare gli Emergenti per un problema di tempo) si potrebbe vedere che il percorso confusionale iniziale, le difficoltà di comunicazione, le paure individuali e l’assenza di interrelazioni vincolari sono comuni nei gruppi sia dove c’è solo il coordinatore sia anche con l’osservatore.

Nel nostro caso alla fine di ogni gruppo viene fatta tra il coordinatore e l’informatore una discussione sugli Emergenti, che serve anche per la successiva informazione e coordinazione.

Una volta specificati i campi di lavoro, dirò alcune cose sull’Emergente

“La nozione di Emergente non può essere capita fuori dalla nozione di Vincolo”

(A.Bauleo)

Pichon Riviere arriva alla nozione di Vincolo dopo un percorso dentro la stessa Psicaonalisi.

La nozione di Vincolo si pone, quando viene enunciata alla fine degli anni ’50 un po’ come riassun-

to di una teoria dell’identificazione, il problema della relazione d’oggetto, il problema del rapporto analitico, un’idea di Gruppo.

La nozione di Vincolo si pone allora come la fine di un certo percorso: finisce attorno a questa nozione l’idea che c’è un oggetto ed un osservatore, lontano estraneo a questo oggetto.

D’ora in poi l’oggettività ha a che vedere con la soggettività e il “contesto”, senza il quale il rapporto non esiste. Molte volte è il contesto a darci la soluzione di una problematica.

Quando parliamo di Vincolo osserviamo il rapporto tra due elementi e la struttura che si organizza quando essi si combinano.

Edgar Morin nel “Metodo” parla di principio di emergenza e del pricipio di vincolo nelle organizzazioni sociali e dice che si opera l’organizzazione tramite vincoli che in determinati momenti inibiscono il gioco di processi relativamente autonomi.

Questo problema dei vincoli si pone in maniera a un tempo ambivalente e tragica quando la società impone le sue coercizioni e le sue repressioni su ogni attività, da quelle sessuali a quelle intellettuali

Così pure nelle società storiche, il dominio gerarchico, le oppressioni e le schiavitù inibiscono e im

pediscono le potenzialità creative di coloro che si trovano a subire tali domini e oppressioni.

Tutto questo ci serve per mostrare che i gruppi si differenziano non soltanto sulla base dei loro costituenti fisici o dei loro schemi di riferimento, ma anche sulla base del tipo di produzione dei Vincoli e delle Emergenze.

Il Gruppo Operativo è un tutto che prende forma nello stesso tempo in cui si trasformano i suoi elementi.

L’idea di emergenza è inseparabile dalla creazione di una nuova forma che costituisce un tutto.

Si potrebbe rappresentare partendo da un gruppo-raggruppamento per andare da una parte verso la globalità attraverso gli Emergenti e dall’altra verso la qualità attraverso i Vincoli delle interrelazioni così da poter rappresentare il processo gruppale.

Vale a dire a una maggior ricchezza nella diversità potrebbe corrispondere una maggior ricchezza nell’unità se questa fosse fondata sulla comunicazione reciproca e non sulla coercizione.

Così qualità dell’unità globale e sviluppi della differenza/diversità da una parte e qualità emergenti interne e esterne segnalate dall’altra andrebbero tutte di pari passo.

Per questo si può dire che le relazioni tra le parti differenti e diverse e fra le parti e il tutto non sono

altro che rispettivamente Vincoli e Emergenti.

Emerge dunque la necessità che nel processo le forze di comunicazione, affinità, connessione predominino sulle forze di repulsione, di esclusione, dissociazione.

Il Gruppo Operativo costituisce una realtà nuova dal punto di vista strutturale, dal punto di vista qualitativo, nello spazio e nel tempo. Il processo trasforma una diversità discontinua di elementi in una forma globale.

Gli Emergenti sono le proprietà globali e particolari che determinano la trasformazione, il cambiamento in parti di un tutto e la diversità in unità senza annullare la diversità.

Due facce, Vincolo e Emergente, dello stesso processo: una manifesta e una latente.

Ci troviamo davanti a concetti chiave: Vincolo e Emergente tra formazione e cambiamento. Tutto ciò che forma trasforma.

Questo principio deve diventare attivo e dialettico non solo nel gruppo ma in tutti gli ambiti perché formazione e trasformazione costituiscano un circuito ininterrotto.

 

Madrid Maggio 2014

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Violenza istituzionale violenza familiare: la relazione introduttiva al convegno della scuola Bleger

Sab, 15/06/2013 - 11:36

Per introdurre brevemente il percorso storico sociale ed economico che oggi ci porta a parlare di violenza istituzionale e violenza familiare pare opportuno ricordare il movimento delle donne nato negli ultimi decenni dell’Ottocento e nel primo ventennio del Novecento, ispirato a tesi liberali come richiesta di uguaglianza di diritti secondo la legge (voto, proprietà, accesso all’istruzione e alle libere professioni).

Il movimento conquisterà solo parte dei diritti richiesti, diritti che ancora oggi spesso si constata che sono solo sulla carta.

La tesi di fondo che distingue l’orientamento socialista da quello liberale sul problema dell’emancipazione e liberazione della donna è che,perchè le condizioni di subordinazione materiale delle donne e dei proletari cambino realmente, è necessario realizzare, tramite la rivoluzione, una società nella quale possano scomparire tutte le forme di subordinazione dei proletari (uomini e donne) rispetto ai capitalisti, delle donne rispetto agli uomini.

Tematiche relative alla condizione di subordinazione della donna sono presenti nel corso dell’Ottocento sia in teorici cosidetti “utopisti” (da Robert Owen a Charles Fourier) sia in donne impegnate nelle lotte operaie dalla metà del secolo in poi (Flora Tristan, le donne del ’48 parigino quelle della Comune del 1871).

L’elaborazione più organica di tale tematica è presente negli scritti di Karl Marx e di Friedrich Engels , sin dagli anni quaranta e soprattutto come viene riconosciuto dalle storiche del femminismo, in due scritti : uno liberale “L’asservimento delle donne” del 1869 di Mill e “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato” di Engels del 1884, sulla problematica femminile.

Engels parla di trasformazioni sociali e culturali dei rapporti tra donne e uomini in fasi della preistoria dell’umanità, nelle quali prevale l’economia della caccia e della raccolta e dove c’è una divisione del lavoro tra donne e uomini, ma non una subordinazione delle donne agli uomini. Anzi la condizione delle donne in quanto fonte di vita è esaltata nelle religioni primitive nelle quali è la dea madre, simbolo della fecondità, che costituisce il momento più alto di venerazione religiosa.

Le cose cambiano gradualmente quando l’umanità in alcune zone passa allo stadio dell’allevamento del bestiame, della agricoltura organizzata , delle guerre per la conquista di terre e di schiavi.

L’uomo diventa il protagonista , il capofamiglia, il proprietario del territorio.

Questo passaggio rappresenta la grande sconfitta storica delle donne che da protagoniste diventano schiave ,oggetti di proprietà del marito.

Nasce la famiglia patriarcale e con essa la schiavitù della donna verso l’uomo.

In una linea di continuità con le tendenze socialiste dei movimenti politici più avanzati le ultime pensatrici femministe hanno ricordato l’uso insistente delle analisi freudiane a sostegno delle loro tesi, nonostante i molteplici attacchi mossi da una certa parte femminista.(Psicoanalisi e femminismo, di Julier Mitchell 1974) .

Freud ha indicato i condizionamenti psichici del rapporto uomo – donna oltre che le origini storiche.

Basti ricordare “Totem e tabù”. Il totem (il padre assassinato divinizzato dopo la morte) e il tabù dell’incesto (il divieto dei rapporti sessuali con consanguinei e conseguente scambio delle donne)

Ma è la comparsa sempre del 1974 del volume “Speculum” della psicanalista Luce Irigaray che la discussione sulle tematiche femministe riceve un nuovo slancio.

L’opera propone una fondazione della teoria della “differenza sessuale “attraverso una analisi critica sia delle tesi di Freud sia dell’intera tradizione filosofica occidentale, da Platone a Hegel.

Entrambe convergono nella tesi della essenzialità della differenza sessuale in una maniera che esalta e non reprime la sessualità femminile, di fronte alla quale sia la filosofia sia la psicanalisi, portatrici di pregiudizi maschilisti, sono rimaste cieche.

L’analisi più dettagliata è dedicata al notissimo mito della caverna proposto da Platone.

La caverna è l’equivalente per Irigaray dell’utero materno da cui nasce l’essere umano; è lo speculum che si contrappone allo “specchio” esterno /il Sole Il bene/; è il luogo dell’assenza, del vuoto, è la sede dell’ignoranza e della passività.

La caverna è il simbolo della donna, l’esterno della caverna è il simbolo dell’uomo.

Quando negli anni ’80 il movimento femminista entra in crisi, come movimento organizzato, la sua eredità politica e teorica non si disperde.

Se il movimento femminista entra in crisi quasi ovunque, non entra in crisi il movimento di liberazione delle donne.

I motivi centrali, quelli relativi alla parità dei diritti tra uomo e donna, non vengono abbandonati anche perchè quei diritti sono oggetto di continua minaccia in alcuni paesi o ancora di conquista in altri.

I temi cari all’orientamento socialista del movimento come lo sfruttamento economico ricompaiono oggi con forza , anche nei paesi più avanzati nei quali la reazione liberista produce immediatamente un arretramento della condizione economica delle donne e maggiori difficoltà di accesso al mercato del lavoro, in particolare per le donne delle minoranze etniche.

Il generale peggioramento della condizione sociale delle donne, in alcuni paesi, offre nuovo vigore alla differenza sessuale come luogo dell’oppressione femminile sia nella sfera pubblica (mercato del lavoro, presenza nelle istituzioni) sia in quella privata (famiglia).

Il lavoro teorico connesso alle tematiche contro” l’omofobia” collegate non solo al pensiero femminile ma anche a autori come Derrida, Foucault, Deleuze degli anni ’80, pone problemi di natura più generale relativi al “ come” e al “quando” si costituisce un “soggetto”, un’identità, addirittura un “corpo”, con le sue caratteristiche,scelte, orientamenti sessuali ma anche con aspetti più generali di “costruzione” del soggetto.

La violenza non è un comportamento inacettabile, è un REATO.

La violenza è potere e il potere è come una droga: difficile da abbandonare.

Per la maggior parte gli uomini violenti hanno subito aggressione diretta o indiretta da bambini.

Questo spiega in parte la violenza alla quale sono improntati i loro rapporti con le donne ma non li giustifica.

Raramente è un sincero desiderio di cambiare che li spinge a chiedere di essere indirizzati ai centri di sostegno per uomini violenti che oggi cominciano ad esserci anche da noi.

Li frequentano a volte riluttanti per uno scopo ben preciso: ottenere l’affido dei figli, ampliare il diritto di visita, ritornare a convivere con la vittima.

Questo significa che l’intervento deve rientrare in un programma complesso di educazione nelle scuole, di prevenzione nella cittadinanza, di conquista di diritti con disegni di legge che siano approvati perchè spesso rimangono sulla carta.

La violenza dei diversi e degli stranieri a proposito di mutilazioni dell’apparato riproduttivo, come la cinconcisione dei maschi e l’infibulazione delle femmine, sono presentate come usanze religiose, riti di passaggio verso la maturità,

La violenza familiare è diventata uno dei temi centrali nel discorso pubblico in Italia e all’estero.

Di violenza si parla sui giornali, all’interno delle istituzioni pubbliche, nei luoghi di lavoro, sui mass media, nei social network,

La violenza è un abuso fisico, sessuale,psicologico, emotivo, economico, oltre che attraverso minacce e atteggiamenti persecutori, quali lo stalking, fino a giungere all’omicidio.

L’elenco si allunga di giorno in giorno, come recenti casi di cronaca ci hanno drammaticamente mostrato.

Pur agita nell’intimità delle mura domestiche,subdola o manifesta che sia, la violenza fra partner oltrepassa quegli stessi steccati che solitamente vengono posti tra genere, età, livello di istruzione, cultura ,classe, origine etnica, religione, condizione socio-economica.

La violenza domestica è cioè transculturale e globale.

L’attualità della violenza è oggi legata non tanto al fenomeno in sé, quanto alla radicale trasformazione della tradizionale forma di famiglia mononucleare.

La violenza familiare non riguarda più solo la donna nella veste di moglie (il cui omicidio veniva chiamato uxoricidio che oggi diventa femminicidio).

Altre figure unite al partner violento possono essere vittime di violenza: conviventi, amanti, bambini.

L’emergere culturale, sociale e politico della violenza di genere è stato senza dubbio determinato da più fattori consociati: la lotta delle donne, le leggi, i servizi sociali, le volontà individuali.

Un dato è comunque certo: la violenza di genere è una questione dalle proporzioni “endemiche globali “, così è stata definita dal fondo delle nazioni unite per l’infanzia (Unicef).

Pur essendo comune a tutte le classi e le culture, la violenza di genere colpisce gruppi di donne rese più vulnerabili da altri fattori discriminanti. Si pensi a disabili, prostitute, immigrate, rifugiate e richiedenti asilo, appartenenti a minoranze etniche come i Rom, detenute.

La violenza diventa assoluta quando degenera in omicidio. Grazie alla crescente sensibilizzazione popolare, alle campagne promosse da associazioni femminili si è cominciato a parlare con insistenza del numero di donne uccise per questioni di genere, ovvero di un fenomeno sottaciuto anche dalle istituzioni.

Il discorso pubblico porta consapevolezza nelle coscienze e magari qualche violenza in meno.

Il 2012 si è chiuso con 127 omicidi di donne.

Parlare di violenza significa stabilire un nuovo patto fra le generazioni a partire dalle precarie mura domestiche. La violenza può esser affrontata solo con un lavoro diffuso di reti che interagiscono capillarmente sul territorio.

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Violenza istituzionale e familiare

Ven, 07/06/2013 - 16:20

L’argomento che oggi affronteremo insieme, è per vedere se tra tutti noi possiamo dare un giro di spirale alle linee di pensiero del nostro schema concettuale di riferimento sulla violenza istituzionale e la violenza familiare.

La violenza nella scena familiare è molto diffusa in tutti i paesi, al di là del fatto che oggi sembri una “moda giornalistica”, in realtà è un’emergenza sociale.

Ci dicono che questo dipende da una molteplicità di fattori sia economici, politici, sociali e culturali che psicopatologici e ne sono attraversate tutte le classi sociali.

Possiamo affermare che è un effetto sintomatico della trasformazione della famiglia e delle istituzioni.

Nell’epoca della globalizzazione, paradossalmente, assistiamo ad una maggiore localizzazione e provincializzazione, che gioca un ruolo importante su questi cambiamenti.

Sappiamo da molti studi realizzati sul tema della violenza, che la violenza viene esercitata sulle persone più deboli: bambini, donne, anziani.

La violenza intrafamiliare tra i coniugi o tra i componenti del nucleo familiare, si manifesta attraverso comportamenti abusivi che vanno dalle aggressioni fisiche, ai maltrattamenti di carattere psicologico fino alle aggressioni sessuali.

Entrano in campo come variabili, che incidono sui fenomeni di violenza anche l’alcolismo, la tossicodipendenza e la patologia psichiatrica.

Far emergere gli episodi di violenza tra i componenti della famiglia non è facile, in quanto questi episodi vengono occultati o nascosti da un sentimento di vergogna.

In alcune situazioni si verifica che n’è la vittima n’è il carnefice sono consapevoli che, potrebbero esserci altri tipi di rapporto.

L’umiliazione che sentono nel raccontare questi episodi, fa sì che da parte del professionista o degli operatori ci debba essere un atteggiamento non giudicante (non colpevolizzare), senza pregiudizi (non etichettare n’è stigmatizzare), ma con un’attitudine verso l’altro di empatia e di ascolto, per mettere in luce le verità e le possibili cause di questi atti violenti.

La violenza attraversa anche le istituzioni, sia che la consideriamo sul versante psicologico, cioè come una nozione interna al soggetto, sia che la intendiamo come istituzione esterna.

Mi sembra che nell’attualità queste organizzazioni istituzionali siano diventate sempre più repressive, con caratteristiche autoritarie (verticistiche) che tendono alla burocratizzazione degli interventi.

Allo stesso tempo, osserviamo una grande sofferenza e anche un’impotenza degli operatori, dal momento che si stanno riducendo gli spazi (se non addirittura mancano), per riflettere e confrontarsi sul lavoro quotidiano e sulla elaborazione delle ansietà e dei conflitti che il lavoro risveglia, in particolar modo quando si trattano e si toccano queste tematiche sulla violenza.

Prenderò spunto da alcuni autori che hanno pensato direttamente o indirettamente su questa problematica.

Partirò dall’assunto di Freud in cui afferma che, il fondamento della vita psichica, è basato sulla tendenza del soggetto a soddisfare il piacere ed evitare il dolore e il dispiacere. Si è interrogato, nei suoi diversi scritti, e continuiamo ad interrogarci sulla violenza e sull’aggressività.

Come voi sapete, Freud mantiene l’idea che nell’essere umano sono presenti due pulsioni (dualità pulsionale): Eros e Thanatos intese come metaforizzazione delle forze che legano e slegano.

Questa dualità pulsionale agisce nei vincoli che il soggetto intraprende con i suoi simili. Nei tre saggi sulla Teoria sessuale del 1905 e Pulsioni e i loro destini del 1915, Freud accenna alla pulsione di dominio che ha come base l’autonomia, la separazione e l’interscambio.

La pulsione di dominio o d’impossessamento è una pulsione per certi aspetti oscura e ancora poco analizzata, ed ha come fine ultimo il dominio dell’oggetto (l’altro).

In qualsiasi atto clinico, tanto psicoterapeutico quanto preventivo, è di fondamentale importanza mantenere un’attitudine che tenda a non considerare naturale il fenomeno della violenza.

Credo che un compito importante sia l’elaborazione della ripetizione e l’integrazione delle parti scisse del soggetto.

Dobbiamo menzionare la complessità che ruota intorno a queste problematiche, che va dall’individuale al sociale e, transita per le condizioni economiche concrete.

Possiamo prendere l’esempio delle persone che vengono escluse ed emarginate dal circuito socio-lavorativo, in cui le tensioni sono talmente potenti tali da far esplodere atti di violenza.

Perché l’esclusione stessa è in sé è una forma carica di violenza.

Diversi tipi di violenza vengono esercitati sugli immigrati, sugli stranieri, sui diversi, per esempio quando viene negato loro il diritto di appartenenza (cittadinanza).

La non appartenenza viene vissuta con colpa e angoscia, legata al sentimento di non appartenere a se stessi “senza identità e senza luogo”.

La violenza esercitata in generale sulle minoranze implica azioni che producono fenomeni di frantumazione dei legami sociali e forme di sottomissione.

Vi è sempre un tentativo di annullare l’autonomia, la volontà e i desideri; sono il rovescio dei diritti dell’altro con la sua singolarità e differenza. Nelle nostre società basate sul “controllo” e sull’autoritarismo si tende ad alienare e cosificare i soggetti. Tutto ciò è insopportabile!

Passiamo ora a Bleger, facciamo riferimento all’opera Psicoigiene e psicologia istituzionale, in particolare nei passaggi in cui afferma che è necessario ripensare ai modelli concettuali per ampliare la mente e allagare il campo del nostro lavoro, dotandoci di uno schema di riferimento flessibile, dato che dobbiamo studiare l’essere umano nelle situazioni concrete di vita, nella sua quotidianità, nei suoi vincoli interpersonali e nei vari ambiti di intervento.

Questi ambiti (individuali, familiari, gruppali, istituzionali e comunitari) interagiscono tra di loro e, lo stesso accade con il fenomeno della violenza, che attraversa questi ambiti.

Nella nostra concezione, la stessa idea di soggettività è considerata come il prodotto di questi vincoli. In questo mondo globalizzato è necessario studiare gli effetti che la violenza produce sui nostri corpi, sulle nostre identità e sulle diverse appartenenze.

Adesso mi interessa collocare nella scena familiare ed anche istituzionale, questa nozione di violenza e le forme che prende in questi ambiti.

Prima due parole sulla famiglia.

Questa configurazione attuale non è esistita da sempre ma inizia con la rivoluzione industriale.

Da tempi lontani sono esistite forme di raggruppamento dell’uomo e della donna e dei loro discendenti in forma tribale di clan, nomade etc. e fino ad oggi in cui si parla di famiglia allargata.

Direi che nella sua forma moderna possiamo considerare la famiglia su due versanti:

  1. la famiglia come istituzione la cui finalità è la socializzazione dei suoi membri in cui concorrono altre istituzioni (della salute, educativa, etc.). Questo è il versante delle regole, del diritto e della norma.
  2. La famiglia come gruppo dove interveniamo con diversi compiti, psicoterapeutico o di prevenzione. La principale funzione di questo gruppo familiare è servire da contenitore per permettere lo sviluppo, la crescita e cioè l’evoluzione dei suoi componenti. Questo gruppo preformato ha una storia che deriva dai suoi antenati e che, a sua volta, è stata trasmessa dalle altre generazioni. Questa trasmissione avviene soprattutto in modo non dicibile: sono i “non detti” o non consci che determinano nei membri della famiglia azioni, pensieri, affetti che sono in relazione al corpo, al rapporto con gli altri e anche con il contesto extrafamiliare.

Questa trasmissione latente è stata denominata “trasmissione trans generazionale”. Tutte le scuole che studiano la famiglia riconoscono questa nozione.

La famiglia è la matrice formativa dell’identità e delle differenze sessuali e generazionali, che nei migliori dei casi crea le condizioni verso l’autonomia dei suoi integranti.

In certi gruppi familiari, il processo verso l’indipendenza e l’autonomia viene impedito e ostacolato da difficoltà insorte per diversi motivi: i deficit o la distorsione nei vincoli, i malintesi o i silenzi nella comunicazione che possono manifestarsi con atti di violenza e privi di senso.

È impedita la possibilità di simbolizzare la conflittualità e trasformarla in un atto di pensiero.

Ora prendiamo Pichon Riviére. Egli analizza i conflitti che insorgono a livello della comunicazione tra i diversi membri del gruppo familiare a partire dal malinteso. Il malinteso “serve” a volte per sostenere a tutti i costi un ideale familiare (trasmesso da altre generazioni). In questo senso ha creato la sua teoria del deposito, che afferma che il depositario è colui che si fa carico delle ansie del gruppo di fronte a situazioni irrisolte (crisi della vita, lutti), o situazioni traumatiche mai elaborate. Per esempio gli effetti delle guerre esterne e interne; pulsioni violente verso se stessi o un altro per un eccesso narcisistico che non sopporta le differenze.

Per queste situazioni di violenza possiamo prendere in analogia la nozione di trauma, in cui vi è la tendenza alla scarica impulsiva immediata che irrompe violentemente e si esprime su tutti gli ambiti.

Per sintetizzare questa nozione di trauma, dato che sarebbe necessario un seminario solo per approfondire questa nozione, darò due elementi per pensare alla situazione:

1) la prima situazione di trauma è per accumulo di tensioni e frustrazioni prolungate nel tempo, che fa salire la tensione senza offrire vie di scarica. Questo è un processo che avviene più all’interno e noi lo intendiamo come gruppo interno;

2) il ruolo che gioca l’ambiente. Freud, in Inibizione, sintomo e angoscia, distingue tra situazioni problematiche e di pericolo, postulando un’angoscia automatica (panico) e l’angoscia come segnale dell’avvicinarsi del trauma. Un esempio per tutti è quando pensiamo al bisogno del lattante dell’oggetto esterno (madre o sostituto) dato che si trova in una situazione di immaturità e impotenza.

Riprendiamo l’ambito istituzionale e le forme di violenza che si caratterizzano su questo livello.

Pensiamo di più alla prevalenza delle dispute, che al dialogo, all’interscambio delle idee nelle equipe curante, oppure a quegli atteggiamenti dove ognuno si rinchiude in se stesso nelle proprie stanze.

Per difendersi da chi o da che cosa?

Dalle esigenze o dalle pressioni che pongono le istituzioni? O forse per resistere al cambiamento?

Le forme di violenza nelle istituzioni agiscono nei bordi di questi problematiche, irrompono con modalità di complicità, con i silenzi e con le adesioni di sottomissione al potere.

In questo senso dobbiamo pensare all’istituzione come ad uno strumento operativo: l’istituzione intesa come intergruppo, è una “unità minima di analisi”, a partire dalla quale possiamo pensare diversi rapporti istituzionali.

Sempre saranno rapporti tra i gruppi (interni ed esterni) e, queste relazioni, saranno o di cooperazione o di litigio resistenziale.

Si giocherà in ognuno dei componenti il confronto tra il proprio gruppo interno (primario) ed i gruppi attuali. Questo movimento permette di mettere in luce il controtransfert con l’istituzione o l’implicazione che gli operatori hanno verso la loro appartenenza istituzionale, così come il transfert verso i pazienti.

Questa nozione di intergruppo ci permette di ripensare ai rapporti interni, di interscambio, simbolico, affettivo, economico e di potere che transitano tra i gruppi, ed è utile e importante per costruire un’idea di istituzione, che ci permetta di pensarla come uno strumento terapeutico, se non è troppo ammalata o ammalante. Da sempre siamo intervenuti nelle istituzioni, con l’idea o ideologia, che con diversi dispositivi potevamo trasformarle da dentro.

L’istituzione era pensata come supporto per il paziente (utente), per dare un’opportunità di rivedere e avere un nuovo vissuto delle situazioni conflittuali e della loro vita.

Un contenitore dove poter giocare tutte le fantasie sulla malattia, sulla guarigione e sul processo della cura. Se viene operata una discontinuità nella cura, questo è sentito e sofferto dagli utenti come violenza che viene provocata dall’istituzione su di loro.

Inoltre sappiamo che gli operatori rappresentano aspetti e parti inconsce del paziente, che questo proietta e deposita su di loro e, quindi deve esserci una continuità che li contenga.

In questa matrice intergruppale, i diversi compiti sono di fondamentale importanza, perché si manifestino le situazioni non dette, cioè il latente istituzionale.

A mio avviso, questo rappresenta un fattore di salute, tanto per le istituzioni-organizzazioni quanto per l’equipe curante e come effetto sull’utenza.

Da sempre abbiamo sostenuto che, prima di intraprendere un rapporto terapeutico con un paziente, è necessario rivedere i nostri schemi di riferimento il cui nemico è lo stereotipo, la rigidità e la ripetizione.

Ma cosa succede quando, questa ripetizione o burocratizzazione del lavoro, ci viene riproposta nella quotidianità istituzionale?

Non possiamo fare a meno di pensare agli atti violenti che attraversano questo ambito, i cui effetti sono prodotti da una scelta della logica del profitto e fissità (mentale, dei ruoli, la gerarchia non funzionale che crea autoritarismo).

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L’Istituzione implicata. Istituzione, implicazione e ideologia.

Mer, 17/04/2013 - 09:41

Di Daniela Barazzoni, Yuri Gidoni, Anna Maria Marinelli e Lorenzo Sartini

Il lavoro qui presentato è stato realizzato da uno dei gruppi di ricerca all’interno del Centro Studi e Ricerche “Josè Bleger” di Rimini; nasce dalla necessità di interrogarsi sui fattori che favoriscono o limitano le collaborazioni fra le istituzioni che, a vario titolo e con metodologie diverse, si attivano per promuovere e realizzare interventi di prevenzione in ambito socio-sanitario.

Se prendiamo le mosse dalla “Teoria degli ambiti” di Bleger tale studio si colloca nell’ambito istituzionale, seppure nel corso del processo di ricerca più volte ci siamo chiesti se la sua collocazione fosse corretta o se dovessimo rivalutarla per inserirla nell’ambito comunitario.

L’applicazione della metodologia della concezione operativa ha accompagnato costantemente il nostro lavoro, in una continua tensione dialettica tra il fare ed il pensare; ha attraversato in modo trasversale il compito, il setting, i ruoli ed il nostro gruppo interno ed esterno. La complessità di un oggetto di studio fortemente collegato alle tematiche della ideologia e dell’implicazione rispetto ai ruoli ci ha portato a creare un dispositivo che permettesse una sorta di dissociazione strumentale per leggere, comprendere come queste tematiche agissero anche all’interno del gruppo di ricerca. Lavorare intorno alla questione dell’implicazione, soprattutto, è risultato particolarmente ostico: il problema si è posto fin dall’inizio, ma solamente alla fine del percorso è stato possibile recuperarlo in tutta la sua pregnanza e rielaborarlo.

Un ultimo breve cenno, poi, va dedicato alla scelta di scrivere insieme, alla ricerca di una scrittura collettiva come ennesima sintesi di produzione gruppale, come ricombinazione di elaborati individuali, tante volte rimaneggiati dall’altro da non riconoscere più quale fosse il pezzo di ciascuno. Una pratica difficile ed entusiasmante allo stesso tempo.

Dal metodo alla ricerca Teorie di riferimento

Il laboratorio di ricerca ha utilizzato una metodologia basata fondamentalmente sul concetto di abduzione, sulla concezione operativa e sull’applicazione di un pensiero auto-riflessivo rispetto al processo del gruppo di lavoro che abbiamo chiamato ‘metaricerca’.

Nell’inferenza di tipo abduttivo si produce un’ipotesi per provare a dare una spiegazione di un fatto osservato: si parte da un evento, o fatto sorprendente e, considerando che potrebbe dipendere da una legge d’implicazione (del tipo seallora) particolare, se ne fa derivare una possibile causa, ovvero l’assente possibile. La conclusione del ragionamento di tipo abduttivo è un’ipotesi, ossia una possibilità che deve essere sottoposta a verifica. L’ipotesi, nella concezione di Charles Sanders Peirce, da cui deriva tale pensiero, deve essere considerata come una domanda che, richiedendo una verifica, cerca una teoria. Tenendo presente che durante la ricerca sarà sempre possibile avere nuove intuizioni e formulare nuove ipotesi, rispetto all’oggetto della ricerca, che dovranno successivamente essere vagliate.

L’abduzione è dunque un azzardo poiché, pur fondandosi sulle premesse del ragionamento, non si configura come pura ripetizione del contenuto delle premesse medesime, come avviene negli altri due tipi di inferenza (deduzione e induzione), bensì come ricomposizione di tale contenuto semantico (M. A. Bonfantini e G. Proni, To guess or not to guess?, p. 152): anche con premesse valide la conclusione potrebbe risultare falsa. Questo rischio è il prezzo che viene pagato a fronte del forte potenziale creativo proprio dell’abduzione: questo tipo di argomentazione, in effetti, non si fonda sul ragionamento logico meccanico quanto sull’interpretazione del dato o ‘risultato’, che viene motivato facendo leva su un principio generale (o legge-mediazione). È l’elemento interpretativo che connota l’inferenza abduttiva come rischiosa, in quanto non è detto a priori che sia proprio la legge-mediazione che si ipotizza ad essere motivo dell’effetto sorprendente osservato.

Per quanto riguarda la concezione operativa di gruppo ci si è focalizzati soprattutto sui concetti degli teoria degli ambiti, di ECRO e di inquadramento.

Verso la metà degli anni sessanta José Bleger teorizza che qualsiasi forma di progetto e di intervento debba essere pensato considerando l’individuo nella sua costante relazione con i diversi ambiti nei quali è inserito: l’ambito individuale (da ritenersi astratto, in quanto non si può pensare una persona come completamente svincolata dal contesto); l’ambito gruppale (nelle relazioni con gli amici, con i familiari, con i colleghi); l’ambito istituzionale (nelle dinamiche familiari, lavorative); l’ambito comunitario (nel contesto paesano, cittadino, nazionale). Recentemente Leonardo Montecchi ne ha proposto un quinto, l’ambito globale (o sociale), che racchiude i precedenti ed è legato al fenomeno della globalizzazione, dello spostamento continuo, attraverso gli stati, le nazioni, di persone e di merci. Esiste una comunità globale che permea qualsiasi cosa, per cui diventano molto più fragili i legami, gli affetti tra le persone, mentre aumenta massicciamente l’invasività dei prodotti e delle merci.

ECRO è un acronimo che sta per Esquéma conceptual de riferimento y operativo (Schema Concettuale di Riferimento e Operativo) ed Enrique Pichon-Rivière, da cui deriva tale concetto, lo descrive così: La didattica interdisciplinare si basa sulla preesistenza in ognuno di noi di uno schema di riferimento (insieme di esperienze, conoscenze e affetti con i quali lindividuo pensa e agisce) che acquista unità attraverso il lavoro in gruppo e che a sua volta produce in quel gruppo o comunità uno schema di riferimento operativo, sostenuto dal comune denominatore degli schemi precedenti (1971).

Per inquadramento, sinteticamente, s’intende: Questi elementi: spazio, tempo, ruolo, compito o compiti costituiscono la cornice che ci permette di ritagliare lingresso nella dimensione gruppale. Questa cornice delimita un campo in cui si producono degli eventi che appartengono al processo di gruppo(Montecchi L., 2000).

Con il termine di meta-ricerca intendiamo il fatto che il gruppo abbia pensato di utilizzare se stesso, con le varie modulazioni affettive esperite durante gli incontri, come fonte di informazione per lavorare sul compito che si era dato. Così, probabilmente condizionato dall’ipotesi di lavoro (assenza di inquadramento inter-istituzionale), e nel tentativo di osservare con maggior efficacia il processo gruppale, il gruppo di ricerca ha deciso di dotarsi di un proprio inquadramento.

Si è individuata la figura di un coordinatore (con la funzione, oltre a quella di partecipare in prima persona alle riflessioni del gruppo, di riportare il gruppo al proprio compito nelle situazioni più confuse), si è identificato l’ osservatore (con il compito di verbalizzare gli incontri) e si sono definiti il tempo (una riunione di tre ore una volta al mese) e lo spazio (nello studio della psicologa del Dipartimento Dipendenze all’interno del servizio) degli incontri.

La necessità di tenere un verbale derivava dal fatto che si era sviluppata nei ricercatori la convinzione che, così come avviene nelle istituzioni, mentre si sta lavorando sul contenuto della ricerca si innescano meccanismi e dinamiche all’interno del gruppo che in qualche modo riflettono l’oggetto di studio; il verbale sembrava costituire lo strumento o dispositivo che poteva permettere un controllo e lo studio di questi aspetti. A questo proposito citiamo R. Hess: “Il ricercatore istituzionalista [] fa parte del suo oggetto. Senza questa consapevolezza il produttore di conoscenza è soprattutto un produttore diatti mancati(Lourau R.,1994). Come analizzare il modo in cui il ricercatoreè preso nel suo oggetto? René Lourau segnala linteresse (e limportanza) di tenere un diario della ricerca [...].(Corso di analisi istituzionale, pag. 75).

Abbiamo ritenuto necessario dotarci di un inquadramento poiché ciò avrebbe facilitato l’analisi dei movimenti e delle dinamiche espresse dal gruppo medesimo, permettendoci di confrontarci con gli stimoli che conseguentemente ne derivavano.

L’evento sorprendente

Nel 2008/09 il Dipartimento Dipendenze Patologiche (ex Ser.T) dell’ASUR Zona 4 di Senigallia, avendo la possibilità di ricevere dei finanziamenti ministeriali con la finalità di strutturare un progetto di prevenzione, decide di coinvolgere alcune realtà istituzionali del territorio che aggregano i ragazzi della città di Senigallia:

- il Centro di Aggregazione giovanile “Bubamara”, co-gestito, promosso dal Comune di Senigallia e istituito nel 2003 con finanziamenti provenienti dal Fondo nazionale lotta alla droga. Il Dipartimento Dipendenze è risultato coinvolto nel progetto poiché i finanziamenti venivano erogati per un 30 % sulla base dellutenza tossicodipendente in carico ai Ser.T ricadenti in ciascuna provincia (dall’Atto di definizione dei criteri e delle modalità gestionali della quota del fondo assegnata alla regioneesercizio finanziario 2000).

- il Centro sociale autogestito “Mezzacanaja”.

Nel corso di due incontri separati, uno con i ragazzi frequentatori del centro di aggregazione e uno con quelli del centro sociale autogestito, gli operatori del Dipartimento Dipendenze prospettano loro la possibilità di collaborare, avendo appunto dei fondi disponibili, per organizzare un progetto di prevenzione: non c’è niente di prestabilito ed il tutto è da strutturare.

La proposta avanzata dal Dipartimento Dipendenze riceve una risposta negativa dal “Bubamara”, emanazione di istituzioni pubbliche sorto con l’obiettivo di fare prevenzione; la stessa proposta è, al contrario, accolta positivamente dal “Mezzacanaja”, centro sociale autogestito, che si pone invece come antagonista alle istituzioni formalmente riconosciute.

L’evento sorprendente è costituito dal fatto che i ragazzi del centro di aggregazione “rifiutano la proposta e non si riesce a strutturare una collaborazione: questa eventualità era considerata molto poco probabile, ed anzi si pensava che la collaborazione fosse quasi scontata, anche in ragione di alcune considerazioni:

  1. il centro di aggregazione è stato istituito con una collaborazione tra Comune di Senigallia e Dipartimento Dipendenze;

  2. il Dipartimento Dipendenze è un servizio organizzato secondo lo schema di riferimento della concezione operativa di gruppo;

  1. l’apertura del centro di aggregazione era stata anticipata da un percorso di formazione, appoggiato dal Dipartimento Dipendenze, accettato ed organizzato dal Comune di Senigallia con il coinvolgimento della Scuola “José Bleger”. In esso si era utilizzato il metodo della concezione operativa di gruppo con il compito di formare i possibili frequentatori del centro di aggregazione alla ‘co-gestione’;

  2. un operatore del centro di aggregazione era conosciuto dagli operatori del Dipartimento Dipendenze per precedenti collaborazioni e si era formato alla Scuola di prevenzione “José Bleger”. Tra l’altro, sua era stata l’idea di proporre il progetto di formazione sulla ‘co-gestione’ di cui sopra.

L’potesi della ricerca

Dopo aver valutato alcune ipotesi legate all’ambito istituzionale, la ricerca si è sviluppata attorno ad un’ipotesi che, sebbene abbia accompagnato il gruppo di ricerca fino alla fine del proprio percorso, non si è mai mancato di mettere in discussione allorquando sorgevano dubbi e perplessità sulla plausibilità dell’ipotesi medesima.

L’ipotesi sulla quale si è imperniato il lavoro di ricerca è: se manca un inquadramento, una cornice a livello inter-istituzionale, le istituzioni coinvolte si muovono in maniera frammentata, non coesa, contribuendo a determinare un’organizzazione inadeguata nell’istituzione che deve nascere. O, più sinteticamente: se manca l’inquadramento non è possibile una collaborazione tra le istituzioni e non si riesce a strutturare un’ECRO comune.

Il processo della ricerca

Per verificare l’ipotesi, il gruppo di ricerca ha ritenuto di esplorare due direttrici:

- la prima incentrata sulla lettura della documentazione disponibile attinente alla costituzione del centro di aggregazione;

- la seconda basata su alcune interviste a persone che, a titolo diverso, erano state direttamente coinvolte nella vicenda (il funzionario del Comune, la responsabile del Dipartimento Dipendenze, l’operatore del centro di aggregazione e due frequentatori ‘della prima ora’ del medesimo centro).

Se fossimo stati in una detective story potremmo dire che prima abbiamo cercato le impronte e poi interrogato i testimoni. 

La documentazione: atti mancanti, atto mancato?

La ricerca della documentazione relativa al progetto di istituzione del “Bubamara” ci ha messi subito di fronte ad un’evidenza: all’interno del Dipartimento Dipendenze non si è riusciti a trovare alcun documento inerente al progetto o che possa testimoniare di ciò che si era concordato con il Comune. Anche i ricordi sullo svolgimento dei fatti da parte degli operatori dello stesso servizio risultavano piuttosto confusi, testimoniando dunque della poca chiarezza presente in seno all’organizzazione nell’affrontare il progetto.

Il funzionario del Comune, che ha promosso e redatto il progetto seguendone tutto il percorso di costituzione, aveva tutta la documentazione e pareva ricordare con precisione il susseguirsi degli eventi.

Leggendo i documenti reperiti si evidenzia un accenno ad un presunto ‘coordinamento’ che dovrebbe avvenire tra gli enti coinvolti ma senza definire niente di più (incontri, compiti, ruoli…). Sembra emergere, tra l’altro, una certa marginalità del Dipartimento Dipendenze nell’organizzazione del centro di aggregazione. 

Le interviste

L’idea della mancanza dell’inquadramento tra le istituzioni coinvolte come ipotesi per cercare di spiegare l’assenza di continuità e di legame tra Comune e Dipartimento Dipendenze appare confermata dalle informazioni raccolte per mezzo delle interviste.

Il funzionario del Comune coinvolto nel progetto del “Bubamara” riferisce che non si è mai discussa una divisione dei compiti tra le varie istituzioni coinvolte nel progetto poiché il centro di aggregazione era fondamentalmente legato al Comune.

L’idea che il Bubamara fosse legato esclusivamente al Comune non è condivisa dagli operatori del Dipartimento Dipendenze; questi ultimi, peraltro, ritengono di non essere stati dovutamente considerati per ciò che attiene gli aspetti organizzativi del centro di aggregazione, anche in relazione all’importante ruolo del Dipartimento Dipendenze per l’acquisizione del finanziamenti specifici. Sembra palesarsi l’assenza di uno spazio all’interno del quale elaborare eventuali conflitti e ricercare una sintesi progettuale.

Le stesse impressioni appaiono confermate dalle successive interviste ad altre figure coinvolte nel processo istituente.

L’operatore del “Bubamara”, che avrebbe dovuto costituire il trait dunion tra Dipartimento Dipendenze e centro di aggregazione, parla di una generale assenza del Dipartimento Dipendenze nella gestione del centro dopo la sua istituzione. Per quanto riguarda la mancata accettazione della proposta di costruire insieme un progetto di prevenzione, l’intervistato riferisce che non cera interesse allargomento da parte dei frequentatori. L’operatore evidenzia anche la distanza che si è creata nel tempo tra lui, allora dipendente del Comune con contratto di collaborazione, ed il Dipartimento Dipendenze con il quale aveva avuto modo di collaborare in passato.

I due frequentatori del centro di aggregazione intervistati fanno fatica a ricordare l’incontro con gli operatori del Dipartimento Dipendenze.

L’assenza del ricordo espressa dai ragazzi frequentatori e la distanza percepita dall’operatore del centro di aggregazione potrebbero rappresentare gli emergenti della mancanza di un ECRO comune tra “Bubamara” e Dipartimento Dipendenze, in quanto l’ECRO si costruisce sulla base di riconoscimenti e vincoli reciproci.

Inoltre, all’inizio, sembrava ci fosse stata una co-progettazione pressoché ‘alla pari’ tra Comune di Senigallia e Dipartimento Dipendenze (tale è la posizione espressa dagli operatori del servizio); di fatto nel tempo l’influenza del servizio per le tossicodipendenze, sia nella progettazione e sia nell’organizzazione istitutiva del centro, appare più marginale rispetto a quella del Comune.

Sia il funzionario del Comune e sia gli operatori del Dipartimento Dipendenze hanno evidenziato conflitti e problematicità, presenti già da prima dell’inizio del progetto, nel rapporto tra le due istituzioni.

Il corso di formazione alla co-gestione

L’unico punto di incontro tra i due enti sembra essere stato il corso di formazione sul modello organizzativo della ‘co-gestione’ organizzato subito prima dell’apertura del “Bubamara”.

Gli operatori del Dipartimento Dipendenze tenevano molto a che il corso di formazione del centro di aggregazione si dovesse organizzare con la metodologia della concezione operativa di gruppo, in quanto a tale metodo si riferisce l’intero servizio per gli aspetti formativi, gestionali e clinici.

Il corso di formazione sembrerebbe essere stato strumentalizzato sia dal Dipartimento Dipendenze sia dal Comune, divenendo il deposito di conflitti non elaborati tra le due istituzioni. Ciascuna istituzione, partendo dalle proprie implicazioni, poteva vedere in questo dispositivo l’opportunità per raggiungere i propri fini. Da un lato il Dipartimento riteneva di importare sul territorio il proprio ECRO, legato alla concezione operativa di gruppo; dall’altro, il Comune, accogliendo la proposta del dispositivo, ricompensava il Dipartimento dell’appoggio avuto per ottenere i finanziamenti ministeriali, consapevole del fatto che la gestione (o co-gestione) del centro di aggregazione sarebbe rimasta pienamente di sua competenza.

Il corso di formazione sembrerebbe essere diventato, paradossalmente, il luogo deputato alla non elaborazione di conflitti che, da diversi anni, tenevano a distanza le due istituzioni. È diventato il “depositario” di ciò che era rimosso dai due “depositanti” (Dipartimento Dipendenze e Comune) mentre le ansie, i conflitti inter-istituzionali sono stati “depositati” nel corso. Il corso di formazione parrebbe, quindi, aver perpetuato il non incontro tra le due istituzioni coinvolte.

Un incontro sfiorato, che non si concretizza, che non pare creare vincoli.

Verifica della ipotesi e riflessioni Tra implicazioni, ECRO ed ideologie si affaccia una nuova ipotesi

In seguito ad un periodo di impasse piuttosto lungo, durante il quale non si è redatto il verbale, il gruppo ha ritenuto di poter fare a meno della funzione di coordinazione. Questa funzione era stata ricoperta dalla la psicologa che, al tempo stesso, era: portavoce della proposta di collaborazione al centro di aggregazione; integrante e coordinatrice del gruppo di ricerca che si incontrava nel suo studio.

È stato in seguito a questo riassetto gruppale che pare sia stato possibile esprimere emozioni (stanchezza, frustrazione, rabbia..) collegabili alla situazione di stallo nella quale ci si trovava e che presumibilmente già da tempo circolavano tra i membri, anche se in maniera latente. Questo outing pare aver prodotto una mutazione nelle modalità di rapporto con l’oggetto della ricerca che il gruppo aveva avuto sino ad allora e, probabilmente, l’aver ripreso a fare il verbale degli incontri può essere considerato un segno indicativo del fatto che qualcosa fosse accaduto.

È divenuto possibile mettere se stessi in discussione e aprirsi ad una domanda che ha sorpreso lo stesso gruppo per la sua banalità: per quale motivo gli operatori del Dipartimento Dipendenze si aspettavano che la loro proposta dovesse essere accolta? Per quale motivo il ‘no’ espresso dai frequentatori del “Bubamara” aveva creato così tanta sorpresa nel Dipartimento Dipendenze?

Nel corso del lavoro di gruppo è scaturita, quindi, una nuova domanda che sembra mettere in discussione l’ipotesi iniziale: perché la presenza di un inquadramento nella fase istitutiva del “Bubamara” (2003) doveva comportare la sicura adesione dei frequentatori del centro alla proposta fatta dal Dipartimento Dipendenze nel 2008? E inoltre perché si pensa che da un ECRO comune debba necessariamente conseguire una risposta positiva rispetto alla proposta di collaborazione? E ancora: era viziata da dogmatismo l’ipotesi iniziale per cui si ha collaborazione solo se c’è un inquadramento?

Sembra quasi che ci si riferisca ad un mito per cui l’appartenenza ad un’istituzione, o comunque la condivisione del proprio percorso di vita (formazione, amicalità, ideologia), possa autorizzare a pensare che ci debba essere, nell’altro, una disponibilità a progettare insieme, a dire ‘si’. Pare piuttosto una situazione di fusività ed indiscriminazione.

Si riflette sulle difficoltà incontrate dal gruppo e dalle istituzioni coinvolte a mettere in discussione i propri schemi di riferimento. Si pensa al pericolo insito nell’utilizzo di determinati concetti quali l’ECRO, preso come riferimento per spiegare il proprio agire, ma troppo spesso assunto, anche inconsapevolmente, in maniera ideologica, dogmatica, come nascondimento per non mettersi in discussione nel confronto/scontro con l’altro.

Il lavoro di ricerca mette in luce due elementi strutturali e concettuali di criticità: l’implicazione e l’ECRO.

L’implicazione

Attraverso l’analisi della documentazione e l’elaborazione delle interviste effettuate ai vari soggetti istituzionali, ci si è resi conto, sempre in modo più marcato, che si profilava un problema di implicazione. Mancava la distanza ottimale per potere leggere i fenomeni e gli accadimenti oggetto di studio a causa dei coinvolgimenti pregressi o attuali dei ricercatori, in quanto soggetti fortemente implicati, seppure a vario titolo e con modalità diverse, nel processo oggetto di studio.

Il gruppo di lavoro ha cominciato a chiedersi se l’intero processo di ricerca potesse essere inquinato dalle implicazioni esistenti. Il singolo accadimento o intervista veniva interpretato, infatti, in base al vincolo che il ricercatore aveva, o aveva avuto in passato, con le istituzioni oggetto di studio.

Si è delineata in modo chiaro la difficoltà e la complessità insita nel concetto di implicazione: risorsa o elemento di intrusività disturbante, addirittura bloccante?

Sappiamo che ci si può riferire all’implicazione nella sua accezione negativa allorché evoca riferimenti di invischiamento e irretimento ma, d’altro canto, per la concezione operativa, l’implicazione ha anche un’accezione ed un valore positivo. Nella concezione operativa di gruppo il concetto di implicazione rimanda all’esserci, allo stare dentro, accettando il fatto di appartenere all’istituzione. Se si parte dal presupposto che l’istituzione è dentro di noi siamo dunque consapevoli dell’impossibilità di raggiungere una posizione di assoluta neutralità. Se noi siamo la rete dei nostri vincoli l’implicazione potrebbe assumere un ruolo conoscitivo e di intelligibilità nella consapevolezza, tuttavia, che tutto ciò che ci determina non è conoscibile.

Prendere consapevolezza della potenza delle implicazioni nel determinare pensieri, rappresentazioni e agiti all’interno del laboratorio di ricerca, ci ha portato a riflettere sull’importanza dell’analisi delle implicazioni come elemento imprescindibile allorché le istituzioni promuovono una progettualità comune.

Per esemplificare ciò che si intende con il termine ‘implicazione’ è significativo riprendere un’affermazione di uno degli attori coinvolti nel progetto: il fatto di essere una dipendente del Dipartimento Dipendenze e che avevo depositato dentro di me lappartenenza mi faceva dire che era impossibile collaborare con il comune. Da una parte, in ciò che si era dichiarato, ci si proponeva di collaborare con il Comune e dall’altra, nel latente, si riteneva trattarsi di una collaborazione impossibile. Quando parliamo di ‘implicazione’ parliamo di questa complessità.

Ma allora come può essere possibile gestire e controllare tutto l’insieme di investimenti libidici, anche inconsci, che si strutturano tra le istituzioni coinvolte in un progetto comune? Che cosa mette in gioco un progetto inter-istituzionale a questo livello? E ancora: chi e come ci si può fare carico del vincolo esistente tra le istituzioni, ossia del vincolo inter-istituzionale?

Queste domande ci rimandano, in termini psicodinamici, ai concetti di transfert e controtransfert istituzionale.

Come possiamo leggere i concetti di transfert e controtransfert all’interno del rapporto fra le istituzioni coinvolte e che tipo di struttura relazionale si origina in tale dinamica inter-transferale?

Come può essere gestita questa dinamica tra i vari soggetti implicati e che tipo di conseguenze ne derivano nel lavoro inter-istituzionale finalizzato alla elaborazione e realizzazione di progetti? Può una mancata attenzione ed elaborazione alla dimensione controtransferale costituire una condizione di impedimento e di ostacolo?

Se così fosse se ne potrebbe dedurre, a maggior ragione, che diventa fondamentale strutturare un dispositivo finalizzato anche alla gestione ed all’elaborazione di queste dimensioni.

Potremmo pensare che la disattenzione o il poco interesse posto alla dimensione controtransferale inneschi meccanismi non gestibili o addirittura inconsapevoli, latenti, i quali costituiscono elementi di distruttività e di sabotaggio rispetto alle dichiarazioni e alle intenzioni razionali esplicite.

Il dispositivo che, in termini operativi, potrebbe costituire l’argine e lo strumento di elaborazione di tali dinamiche è l’inquadramento con la definizione dei diversi elementi che lo strutturano: ruolo, compito, tempo e spazio.

Allora se dovessimo rifarci allo schema di ricerca proprio del metodo abduttivo di Peirce, la regola che definirebbe l’ipotesi di lavoro potrebbe essere così formulata: “Linquadramento istituzionale permette di gestire le istanze transferali e controtransferali inter-istituzionali.

Osvaldo Saidon scrive: No podremos investigar el quehacer institucional si no es en sus relaciones con otras instituciones: dunque è nel rapporto e nel confronto di una istituzione con un’altra che possiamo indagare il lavoro, il compito istituzionale. È nel confronto all’interno del rapporto tra le diverse istituzioni che ci si può interrogare sui movimenti delle singole organizzazioni.

ECRO ed ideologie istituzionali

La questione dell’implicazione richiama il concetto di ECRO, della sua funzione e della sua declinazione operativa.

Nelle aspettative del Dipartimento Dipendenze il centro di aggregazione avrebbe dovuto avere il suo stesso ECRO. Gli operatori del Dipartimento Dipendenze avevano più volte sottolineato, in fase istituente del “Bubamara”, l’importanza che esso aderisse allo schema di riferimento della concezione operativa. A suffragio di ciò aveva accolto il corso di formazione iniziale rivolto ai futuri frequentatori e confidava anche nella presenza di un operatore della struttura formato allo stesso modello. Ma le aspettative degli operatori del Dipartimento Dipendenze sono state deluse in relazione all’evento da noi definito sorprendente, in quanto il rifiuto è stato interpretato come assenza di un comune schema di riferimento: se si ha la stesso ECRO come può avvenire il rifiuto rispetto ad una proposta di elaborazione comune di un progetto di prevenzione? Ciò significa che non è presente la stessa ECRO?

Quando Pichon-Rivière parla di epistemologia convergente intende indicare la possibilità di una conoscenza dell’oggetto facendo riferimento all’incontro di punti di vista differenti. Nell’acronimo ECRO il primo termine, ésquema, ovvero schema, deriva dal latino e significa forma. In latino il vocabolo forma, di origine incerta, indicava lo stampo della cera, di metalli vari e soprattutto del formaggio, in latino formaticus, da cui deriva appunto il termine forma.

Il concetto di forma è, dunque, da pensarsi come un contenitore vuoto, cui si contrappone ciò che deve essere contenuto, la materia. È il contenuto che da sostanza alla forma. Il contenuto è il riferimento, ciò di cui concretamente ci si occupa.

È, allora, con l’operatività, con l’esperienza che quel contenitore vuoto, l’ésquema, la forma, si riempie e si attiva. Operativo è l’ultimo riferimento della parola ECRO e sta ad indicare la necessità di operare nella realtà per poter produrre un cambiamento ed adattarvisi in maniera attiva. Nel modello della concezione operativa di gruppo il criterio di operatività è come se sostituisse quello di verità: non si dà una verità coincidente con se stessa, assoluta ed immodificabile, una verità che si possiede e che risulterebbe allora dogmatica.

La verità la si costruisce, continuamente, nel vincolo con il compito.

Dunque quando si parla di ECRO si fa riferimento ad una tensione vincolare costante che, almeno dal punto di vista concettuale, dovrebbe impedire l’arroccamento dello schema di riferimento in certezze precostituite e far sì che esso sia sempre in movimento, in costruzione permanente, continuamente arricchito dagli apporti dei diversi punti di vista potenzialmente in gioco. In altre parole, l’ECRO è indissolubilmente collegato ad un processo dialettico di scambio continuo e di reciproca influenza tra la forma ed il contenuto, tra la teoria e l’esperienza, tra il soggetto ed il compito. Un processo che, attraverso l’alternanza di momenti di critica ed autocritica, permette la ratificazione o la rettificazione delle ipotesi prodotte mediante il confronto con la realtà, mirando a raggiungere un grado sempre maggiore di obiettività.

Il concetto di ECRO è molto articolato e di difficile definizione e per riflettere sulla sua complessità torna utile rifarsi ad un’affermazione presente nel lungo e complesso articolo di J. C. De Brasi: [] penso che non si dovrebbe avere unECRO. Ogni domanda che tenta di dare conto delle sue proprietà la cristallizza. Operare in uno dei suoi possibili percorsi, provare la sua validità, etc, è differente, in quanto questo parla del compito incrostato nel piacere del pensare, e di esercitarlo per trasformare e trasformarci effettivamente (1992, pag 74).

È altresì difficile definire l’ECRO soggettivo (o istituzionale) perché come si tenta di definirlo si va incontro alla sua cristallizzazione, ossia alla sua istituzionalizzazione. Una volta che si istituzionalizza, e dunque perdendo il suo carattere dialettico, inevitabilmente lo schema di riferimento diventa dogma, un principio considerato assoluto e indiscutibile. L’identificazione con l’ECRO, ovvero con il dogma, a questo punto significa identificazione con la verità. E se lo schema di riferimento si fa dogma, il confronto con l’altro diviene impossibile poiché si considera lecito, pregiudizialmente, ciò che viene ritenuto appartenere al proprio ECRO, la verità, e non ci si lascia scalfire da ciò che viene visto come estraneo, come diverso ed irriducibile a sé. L’ECRO diviene totalitaristico. L’identificazione idealistica con il proprio ECRO rappresenta la perdita di contatto con la realtà dell’altro, come soggetto implicato nella relazione.

È la vita quotidiana, l’esperienza che determina lo schema di riferimento, e dunque l’ideologia, che guida le modalità di relazione del soggetto con il mondo esterno. È possibile riprendere Bauleo che dice: LECRO rappresenta lideologia che permette di agire e di analizzare in un determinato campo. Pertanto tale schema si può dedurre direttamente dai differenti tipi di comportamento in gioco nel gruppo []. Un gruppo affronta il compito con gli strumenti in suo possesso, cioè con una serie di comportamenti abituali (pag. 37). Ciascun soggetto è implicato con il proprio ECRO, che non ha solamente una matrice teorica ma è definito anche, e forse in misura maggiore, dall’esperienza vissuta e dalle conseguenze cognitive ed affettive che ne derivano in termini di costruzione di significati.

Il dispositivo dell’inquadramento

La risposta inaspettata che il Dipartimento Dipendenze faceva fatica ad accettare rimanda all’incapacità di accogliere il rifiuto, il limite, il ‘no’ dei frequentatori del ‘Bubamara’. Ma anche il ‘no’ è segno di relazione poiché si assume, dal luogo del ‘no’, una posizione chiara e responsabile, posizione che può costituire un nuovo punto di partenza dal quale poter proseguire nella edificazione delle basi di un nuovo confronto

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Nella definizione del vincolo con l’altro, convocati dal compito di avviare un centro di aggregazione giovanile, sembrano emergere elementi di ambiguità tra il Dipartimento Dipendenze ed il Comune. Nessuna delle due parti ha detto ‘sì’ e nessuna delle due parti ha detto ‘no’, ma si è andati avanti nel progetto di collaborazione per la strutturazione del centro ciascuna al riparo dietro la propria ideologia e agiti dalle proprie implicazioni.

A questo proposito Bleger scrive: Dobbiamo far che lideologia diventi uno strumento in mano alluomo e non che questultimo si trasformi in uno strumento dellideologia. [] Nel gruppo operativo cerchiamo costantemente di ottenere che ognuno utilizzi il proprio o i propri schemi di riferimento, così come le proprie ideologie. Il resto va da sé.(pag. 174).

Nel caso specifico il Dipartimento Dipendenze ed il Comune, al contrario, sembrano aver decisamente evitato un confronto che mettesse in gioco le rispettive dichiarate ideologie. Un confronto che sarebbe stato, con tutta probabilità, proprio in ragione delle differenti ECRO, assolutamente conflittuale e faticoso da sviluppare. Ambedue manifestano, riprendendo il concetto blegeriano, un basso ‘grado di dinamica, non chiarendo le ambiguità presenti in rapporto al compito, né rendendo espliciti ed affrontabili i conflitti.

Per evitare situazioni di ambiguità tra le istituzioni è necessario predisporre il dispositivo dell’inquadramento inter-istituzionale con un compito specifico. L’inquadramento a questo livello permetterebbe di definire in maniera chiara i ruoli di ciascuno nel progetto che si vuole attuare, le differenti responsabilità, i passi da compiere per raggiungere gli obiettivi, ecc., consentendo una maggior consapevolezza delle ansie e delle tensioni che sempre emergono quando si compie un lavoro in comune. Solo in questo modo si può cercare di evitare il malinteso che ha determinato tutta una serie di incomprensioni e di sorprese nel Dipartimento Dipendenze.

Trasversalità di una riflessione

Felix Guattarì propone la differenziazione tra gruppo in , ossia un gruppo che esegue quasi meccanicamente ciò che gli si dice di fare, e gruppo per , ovvero un gruppo che mentre agisce prova a riflettere su di sé, sui meccanismi che operano al proprio interno, sulla sua organizzazione e sulle relazioni che prendono forma.

Il gruppo di ricerca ha continuamente provato a riflettere, mentre lavorava sul compito, su ciò che stava accadendo al proprio interno anche in rapporto al contesto istituzionale nel quale è inserito: è ciò che inizialmente abbiamo definito ‘metaricerca’.

Va ricordato che la ricerca è nata all’interno di un contesto specifico: il Centro Studi e Ricerche “José Bleger”. Questa istituzione sta attraversando una fase istituente per riorganizzare il corso formativo biennale già attivo da circa venti anni e per poter essere riconosciuta come scuola di specializzazione in psicoterapia dal MIUR. È all’interno di questa riorganizzazione che il Centro Studi e Ricerche ha pensato di doversi dotare di gruppi di ricercatori per continuare a riflettere sui concetti cardine della Concezione operativa di gruppo. Il gruppo di ricerca sull’ambito istituzionale è solamente uno dei gruppi esistenti all’interno dell’istituzione, essendovi anche il gruppo dei docenti, i diversi gruppi di ricerca dedicati agli altri ambiti di intervento e i gruppi di allievi.

Giunti al termine della ricerca che aveva come oggetto le modalità di relazione fra istituzioni con il compito di creare una istituzione “figlia”, emerge una riflessione di grande interesse; una riflessione che, in verità, ha accompagnato il lavoro del gruppo sin dall’inizio.

Lo specifico della ricerca ha permesso di riflettere sul rapporto esistente tra il neo-istituito gruppo di ricerca, che ha provato ad istituirsi dandosi un inquadramento (cfr. Psicoanalisi dellinquadramento psicoanalitico” di Bleger), e l’istituzione che lo contiene, ossia il Centro Studi e Ricerche “José Bleger”.

Abbiamo visto lo stupore e lo scontento del Dipartimento Dipendenze ma solo dopo un lavoro di riflessione durato tre anni il gruppo di ricerca è potuto arrivare a concepire la legittimità di quel rifiuto. Quel ‘no’ sanciva la differenziazione, perlomeno, tra una delle due istituzioni genitoriali, il Dipartimento Dipendenze, e l’istituzione figlia, il “Bubamara”: il rifiuto, forse vissuto da parte dei frequentatori del Centro di aggregazione come movimento vitale di potenziale individuazione, è stato recepito dall’istituzione del servizio sanitario pubblico con ansia e paranoia, sentendo messa in discussione la propria funzione.

Il rapporto tra istituzione genitoriale ed istituzione figlia sembra riproporsi all’interno del Centro Studi e ricerche “Josè Bleger”. Crediamo si possa affermare che il gruppo di ricerca, dovendo svolgere un determinato compito, si sia istituito e, in diverse fasi del proprio percorso, pareva costituire un riferimento stabile rispetto all’instabilità percepita nell’istituzione di appartenenza in fase istituente. È pure da rimarcare che il gruppo di ricerca dell’ambito istituzionale si è sentito più volte messo in discussione ed attaccato dagli altri gruppi presenti all’interno dell’istituzione genitoriale proprio per il fatto di essersi dotato di un inquadramento ed aver provato ad istituirsi per portare avanti il proprio compito. È corretto riportare anche che, a fianco di questa corrente più critica, se ne è avvertita un’altra, contraria, tesa a sostenere la direzione del lavoro che il gruppo di ricerca aveva scelto.

L’idea è che l’istituzione del gruppo di ricerca abbia contribuito a creare uno spostamento di equilibri, già precari in virtù della fase istituente cui si accennava più sopra, nel Centro Studi e Ricerche. Horacio Foladori, parlando della “teoria de la fisura” (teoria della fessura) scrive: Diría que es lo instituido que instituye la fisura, aunque paradójicamente se resiste a reconocer su existencia en tanto la naturaleza de la misma proviene de lo instituyente (Foladori, 2008, pag. 37)

Come se l’istituirsi fosse in stretto contatto con il differenziarsi. Ci si istituisce e, conseguentemente, ci si distacca. Se l’istituzione, permettendo il deposito delle parti psicotiche della propria personalità in un “tempo/spazio comune” è rassicurante, il vincolo che si crea con gli altri partecipanti alla nuova istituzione pare permettere, o perlomeno facilitare, anche l’assunzione di responsabilità. L’unione e la condivisione permesse dallo stringersi dei vincoli sembrano consentire la facilitazione dell’espressione delle proprie istanze e, dunque, l’assunzione di una propria originale posizione. A questo proposito riprendiamo ancora Foladori che sostiene: Recuperar la palabra es romper la represión psíquica, superar la apatía, ponerse en movimiento, porque hablar es moverse (2008, pag. 88). Ma un movimento rispetto a chi o che cosa? Ci si muove avendo come riferimento l’istituzione all’interno della quale si trova uno spazio di senso. In termini operativi il gruppo istituito permette la creazione di un nuovo schema di riferimento, un nuovo ECRO potenzialmente non riducibile a quello dell’istituzione di appartenenza.

Al di là dei concetti teorici cui ciascuna istituzione suole riferirsi le domande che riteniamo siano emerse da questo lavoro sono: come si pone l’istituzione di appartenenza, o genitoriale, rispetto alla nascita di una nuova realtà con proprie idee, proprie esperienze e propri valori, in definitiva con una propria storia non riducibile a quella dell’istituzione di origine? E ancora: che ansie scatena nell’istituzione iniziale e come si attrezza per affrontarle?

Note

Con la definizione di ‘centro di aggregazione co-gestito’ si intende una gestione dello spazio di incontro organizzata in collaborazione tra i frequentatori dello spazio aggregativo e l’ente, pubblico o privato, che ne finanzia la sussistenza.

Con la formula di ‘centro sociale autogestito’ si intende, invece, uno “spazio di aggregazione e di proposta di attività culturali e politiche, che viene gestito in maniera comunitaria e collettiva, permettendo a chi partecipa alle iniziative di esserne al tempo stesso promotore ed organizzatore (definizione tratta da wikipedia), dove è cardine il concetto di autonomia decisionale, cioè il rifiuto di qualsiasi intervento di una volontà esterna nella definizione del processo decisionale (N. Bobbio e altri “Dizionario di politica”).

Ci ha fornito la seguente documentazione: il Progetto per l’accesso alla quota regionale del Fondo Nazionale Lotta alla Droga anno 2000; l’Atto di definizione dei criteri e delle modalita’ gestionali della quota del fondo assegnata alla regione; il Protocollo d’intenti tra il Comune di Senigallia (Servizio servizi educativi, culturali, sociali, sportivi e manifestazioni), Azienda ASUR n° 4 – Servizio Tossicodipendenze e l’Osservatorio di area sulla dispersione scolastica; i Criteri funzionamento centro di aggregazione giovanile.

Ci si riferisce alla Teoria del deposito di Pichon-Rivière per la quale all’interno dei gruppi, di fronte a situazioni di difficoltà e crisi, avviene un movimento di questo tipo: un soggetto, il depositante, proietta materiale non accettabile, il deposito (costituito da ansie, problemi, tensioni, ecc..), su un altro soggetto, il depositario, che funge quindi da capro espiatorio.

Come a confermare questo assunto, ovvero l’opportunità di non considerare il ‘no’ come cesura nella costruzione di una relazione bensì come possibile base di partenza per una relazione, e dunque una progettazione congiunta futura, è interessante mettere in evidenza come nel 2012, 4 anni dopo la proposta di collaborazione fatta dagli operatori del DDP e rifiutata dai frequentatori del CAG “Bubamara”, un esponente del centro di aggregazione abbia contattato il DDP per chiedere la possibilità di organizzare presso il centro un percorso di prevenzione alle sostanze stupefacenti.

Il problema, a questo punto, riguarda il rapporto con l’altra istituzione genitoriale, il Comune: si è avuta l’opportunità di differenziarsi rispetto ad essa oppure da quella si continua a dipendere? Il Centro di aggregazione “Bubamara” riesce a vedersi come differenziato rispetto al Comune che lo finanzia e che decide, in ultima istanza, le attività che si possono proporre o che sono da rifiutare?

Direi che è listituito che istituisce la fessura, anche se paradossalmente si rifiuta di riconoscere la sua esistenza in quanto la natura di esso proviene dallistituente

Recuperare la parola è rompere la repressione psichica, superare la apatia, porsi in movimento, perché parlare è muoversi.

Bibliografia

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O. Saidon, G. Baremblitt, F. Ulloa, La escena institucional

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L’Istituzione implicata. Istituzione, implicazione e ideologia.

Mer, 17/04/2013 - 09:41
Daniela Barazzoni, Yuri Gidoni , Anna Maria Marinelli, Lorenzo Sartini INTRODUZIONE

Il lavoro qui presentato è stato realizzato da uno dei gruppi di ricerca all’interno del Centro Studi e Ricerche “Josè Bleger” di Rimini; nasce dalla necessità di interrogarsi sui fattori che favoriscono o limitano le collaborazioni fra le istituzioni che, a vario titolo e con metodologie diverse, si attivano per promuovere e realizzare interventi di prevenzione in ambito socio-sanitario.

Se prendiamo le mosse dalla “Teoria degli ambiti” di Bleger tale studio si colloca nell’ambito istituzionale, seppure nel corso del processo di ricerca più volte ci siamo chiesti se la sua collocazione fosse corretta o se dovessimo rivalutarla per inserirla nell’ambito comunitario.

L’applicazione della metodologia della concezione operativa ha accompagnato costantemente il nostro lavoro, in una continua tensione dialettica tra il fare ed il pensare; ha attraversato in modo trasversale il compito, il setting, i ruoli ed il nostro gruppo interno ed esterno. La complessità di un oggetto di studio fortemente collegato alle tematiche della ideologia e dell’implicazione rispetto ai ruoli ci ha portato a creare un dispositivo che permettesse una sorta di dissociazione strumentale per leggere, comprendere come queste tematiche agissero anche all’interno del gruppo di ricerca. Lavorare intorno alla questione dell’implicazione, soprattutto, è risultato particolarmente ostico: il problema si è posto fin dall’inizio, ma solamente alla fine del percorso è stato possibile recuperarlo in tutta la sua pregnanza e rielaborarlo.

Un ultimo breve cenno, poi, va dedicato alla scelta di scrivere insieme, alla ricerca di una scrittura collettiva come ennesima sintesi di produzione gruppale, come ricombinazione di elaborati individuali, tante volte rimaneggiati dall’altro da non riconoscere più quale fosse il pezzo di ciascuno. Una pratica difficile ed entusiasmante allo stesso tempo.

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“La sinistra freudiana: il fiume carsico che parte dall’Europa, scorre in Argentina e giunge in Italia”

Ven, 15/03/2013 - 11:00

Il corso si pone l’obiettivo di discutere il percorso che dal “Disagio della civiltà” di Sigmund Freud dipana la questione storica dell’ampliamento dell’intervento psicoanalitico dall’individuo alla società, con particolare riferimento alla funzione attributiva di ruoli e compiti fornita dalle istituzioni sociali. La verticalità del potere, il simbolismo coercitivo che attraversa gli ambiti dell’universo psicologico umano dalla sua condizione (impraticabile) di individuo a quella di depositario attivo e passivo delle norme comunitarie. La funzione degli stereotipi e dei pregiudizi ed i principi del gruppo operativo di E. Pichon-Riviere e Josè Bleger. La pratica clinica. La attualizzazione europea di Armando Bauleo e Leonardo Montecchi.

Esercizi di Sinistra Freudiana
Philolab 17 maggio 2011 Roma

1. Brevi citazioni dalla “Psicologia delle masse e analisi dell’Io” (1921) e da “Il disagio della Civiltà”, S. Freud (1929)

Psicologia delle masse e analisi dell’Io

“Nella vita psichica del singolo, l’altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come soccorritore, come nemico, e pertanto la psicologia individuale è anche, fin dall’inizio, psicologia sociale”
“La psicologia delle masse considera quindi l’uomo singolo in quanto membro di una stirpe, di un popolo, di una casta, di un ceto sociale, di una istituzione, o in quanto elemento di un raggruppamento umano che a un certo momento e in vista di un determinato fine si è organizzato come massa”  imponendo l’esigenza di identificare una forza specifica, la pulsione sociale, il cui costituirsi può venire individuato nell’ambito più ristretto della formazione familiare.

“Psicologia delle folle” di Gustave Le Bon (1895): “La massa psicologia è una creatura provvisoria, i cui membri si legano fra loro necessariamente per mezzo di una qualche forma di vincolo, che sarebbe ascrivibile ad aspetti inconsci della personalità. “Nella massa l’individuo si trova posto in condizioni che gli consentono di sbarazzarsi delle rimozioni dei propri moti pulsionali inconsci (…) in tali circostanze la coscienza morale o il senso di responsabilità vengono meno, e sappiamo che la coscienza morale è il risultato della angoscia sociale legata alla repressione degli istinti necessaria alla convivenza sociale.”La massa è impulsiva, mutevole e irritabile, è governata per intero dall’inconscio (…) si sente onnipotente, per l’individuo appartenente alla massa svanisce il concetto di impossibile (…) è influenzabile, pensa per immagini, i sentimenti sono semplici ed esagerati (…) chi desidera agire su di essa, non bisogno di coerenza logica fra i propri argomenti (…) vuole essere dominata e oppressa e temere il proprio padrone. Fondamentalmente conservatrice in senso assoluto (…) per influsso della suggestione le masse sono però anche capaci di realizzazioni più alte, l’abnegazione, il disinteresse, la dedizione ad un ideale (…) si può parlare di una moralizzazione del singolo attraverso la massa (…) Le masse non hanno mai conosciuto la sete della verità, hanno bisogno di illusioni e a queste non possono rinunciare”. Si evidenzia un predominio della vita fantastica, dell’appagamento sostitutivo ed illusorio di desideri inconsci, della realtà psichica su quella materiale, tipicamente nevrotico.

“La psiche collettiva” di W. Mc Dougall (1920)
“Anche l’anima delle masse è capace di creazioni spirituali geniali (lingua, canto popolare, folklore, la rivoluzione russa e cubana, ecc..) sono state classificate masse formazioni assai diverse che occorre distinguere, le masse di Le Bon fanno riferimento a gruppi di breve durata, eterogenee e frettolose, transitorie (…) le affermazioni contrarie scaturiscono dalla considerazione di quelle masse o associazioni stabili entro cui gli uomini trascorrono la loro vita e che si incarnano nelle istituzioni della società. Gli elementi più interessanti di questa analisi si riferiscono agli aspetti costitutivi della masso altamente organizzate, dove si comincia ad individuare, grazie a Mc Dougall, la conformazione distintiva di ciò che chiameremo gruppo operativo, fondato sul compito e sulla suddivisione dei ruoli, e su aspetti di proiezione emozionale di carattere ambivalente

“Libido è un termine desunto dalla teoria dell’affettività, chiamiamo così l’energia delle pulsioni attinenti a tutto ciò che può venir compendiato come amore (sessuale, filiale, amicale, per l’umanità per idee astratte e oggetti concreti). Tramite la parola amore nelle sue molteplici accezioni, la lingua ha creato una sintesi perfettamente legittima seppur questo utilizzo abbia provocato numerose reazioni ed accuse di pansessualismo alla psicoanalisi alle quali Freud risponde: “Non posso scorgere alcun merito nel fatto di vergognarsi della sessualità”ma, in relazione alle questioni dibattute si considererà l’ipotesi che le relazioni d’amore (i legami del sentimento) costituiscono l’essenza della psiche collettiva. Due ipotesi: la massa viene tenuta insieme da qualche potenza, l’Eros; Se  nella massa il singolo rinuncia al proprio modo di essere personale e si lascia suggestionare dagli altri, sembra farlo perchè in lui c’è un bisogno di concordare con gli altri anziché contrapporsi. Ci si lascia suggestionare per amore (nel senso sopra descritto, libidico/energetico) degli altri.

Due masse artificiali: “la chiesa e l’esercito: altamente durevoli ed organizzate, per salvaguardarle dalla dissoluzione e per impedire modificazioni della loro struttura viene impiegata una certa coercizione esterna. Di regola non veniamo consultati circa la nostra volontà di entrare a far parte di una massa siffatta ne la cosa resta affidata alla nostra decisione§; il tentativo di uscirne viene solitamente perseguito o severamente punito o risulta vincolato a condizioni ben determinate (…) nella chiesa come nell’esercito vige la medesima illusione, in base a cui esiste un capo supremo che ama di amore uguale tutti i singoli componenti della massa. Vige una subordinazione al capo motivata da un investimento libidico, in entrambe queste masse artificiali ogni singolo è legato da un lato al capo (Cristo, il comandante supremo) e dall’altro agli altri individui componenti la massa per cui ci sembra di essere sulla strada giusta, ossia sulla strada che può condurci a una spiegazione del fenomeno fondamentale della psicologia collettiva: l’assenza di libertà del singolo all’interno della massa
Freud aggiunge anche che sostanzialmente ogni religione è una siffatta religione dell’amore per tutti coloro che essa abbraccia nel suo ambito (per l’esercito, per le tifoserie, per i partiti politici?)  e ogni religione è per sua natura crudele e intollerante nei confronti di coloro che non ne fanno parte.
Sorge qui spontaneo il riferimento ai concetti di stereotipo, pregiudizio di Bleger e Montecchi e agli assunti di base di Bion.
Inoltre è interessante la chiosa di Freud al paragrafo: Se, come oggi sembra accadere per quanto riguarda  il sentimento socialista, al posto del legame religioso subentra un legame collettivo diverso, ne deriverà, nel confronto con gli esterni, la medesima intolleranza avutasi al tempo delle guerre di religione e, qualora i divari tra le concezioni scientifiche potessero acquistare per le masse un’importanza analoga, il medesimo risultato si ripeterebbe anche per la nuova motivazione”.

“Occorrerebbe partire dalla constatazione che, fin quando tali legami non vi siano stabiliti, una mera moltitudine (v. Revelli) di uomini non è ancora una massa, e ammettere al tempo stesso che in una qualsivoglia moltitudine umana si manifesta con grande facilità la tendenza al formarsi di una massa psicologica (v. Sartre, gruppo seriale e gruppo in fusione), diviene interessante citare il famoso paragone schopenaureiano dei porcospini che hanno freddo, nessuno tollera una vicinanza troppo intima dell’altro (v. pag. 97). In base alla testimonianza della psicoanalisi, quasi ogni stretto rapporto emotivo sufficientemente durevole tra due persone contiene un sedimento di sentimenti di rifiuto, ostili, sedimento che rimane impercettibile solo in virtù della rimozione (…) lo stesso accade allorchè gli uomini si riuniscono in unità più grandi (…) quando l’ostilità ha per oggetto le persone amate, la chiamiamo ambivalenza emotiva e ci spieghiamo tale caso, in termini troppo razionali, adducendo le molteplici occasioni di conflitto d’interesse che sorgono (…) nella palese avversione e ripugnanza provata per l’estraneo con cui siamo a contatto, è avvertibile l’espressione di un amore per noi medesimi, di un narcisismo che tende alla autoaffermazione (…) in tale comportamento umano si manifesta una aggressività la cui origine ci è sconosciuta e a cui potremmo attribuire un carattere elementare (la pulsione di morte esplicitato in Al di là del principio di piacere rifiutato poi da Reich) ma tutta questa intolleranza scompare, temporaneamente o durevolmente, tramite la formazione collettiva e nella massa (…) in base alle concezioni teoriche psicoanalitiche tale limitazione del narcisismo può essere solo il prodotto di un solo fattore, il legame libidico con altre persone (…) che non può essere esclusivamente di carattere utilitaristico poiché se così fosse in maniera esclusiva la tolleranza non dura più a lungo del vantaggio immediato che viene ricavato dalla collaborazione con l’altro (…) l’esperienza ha infatti dimostrato che nel caso della collaborazione si formano invariabilmente fra gli associati legami libidici che prolungano e fissano di la da ciò che è vantaggioso la relazione reciproca (…) se quindi nella massa compaiono limitazioni dell’egoismo narcisistico non operanti all’infuori di essa, ciò costituisce una prova persuasiva del fatto che l’essenza della formazione collettiva consta di legami libidici di tipo nuovo fra i membri della massa”.
Consideriamo quindi quali tipologie di legame libidico possono intervenire nella formazione collettiva.
“L’identificazione è per la psicoanalisi la prima manifestazione di un legame emotivo con un’altra persona. Svolge una sua funzione nella preistoria del complesso edipico. Il maschietto manifesta un interesse particolare per il proprio padre, vorrebbe divenire ed essere come lui, sostituirlo in tutto e per tutto (…) prende il padre come proprio ideale (…) Contemporaneamente il maschietto ha cominciato a sviluppare un vero e proprio investimento oggettuale della madre (…) egli manifesta allora due legami psicologicamente diversi, un investimento nettamente sessuale verso la madre, un’ identificazione con il padre inteso come modello. Questi due legami (…) finiscono per incontrarsi e da tale loro confluire scaturisce il normale complesso edipico.
Tale forma primigenia di relazione oggettuale, che può apparire anche in maniera regressiva quando diventa il sostituto di un legame oggettuale libidico e quindi acquista carattere parziale, come quando ad esempio una bambina esprime il desiderio di sostituirsi alla madre (desiderio rimosso e colpevolizzante) acquisendone il medesimo carattere sintomatico o come quando un adolescente assume atteggiamenti evidentemente simili ad un altro individuo amato.
“C’è un terzo caso, particolarmente frequente e importante, di formazione del sintomo, quello in cui l’identificazione prescinde interamente dal rapporto oggettuale con la persona copiata, nei confronti della quale non è presente un investimento libidico e può sorgere in rapporto a qualsiasi aspetto posseduto in comune. “Siamo già in grado di scorgere che il legame reciproco tra gli individui componenti la massa ha la natura di tale identificazione dovuta a un importante aspetto affettivo posseduto in comune, e possiamo supporre che questa cosa in comune sia il tipo di legame istituito col capo.
Dall’identificazione, passando per l’imitazione si giunge alla immedesimazione, ossia all’intendimento del meccanismo mediante il quale ci è possibile prendere posizione nei confronti di un’altra vita psichica.
Tali questioni pongono come naturale conseguenza l’esistenza di un Io diviso, all’interno del quale si sviluppi una istanza suscettibile di separarsi dal resto dell’Io e di entrare in conflitto. L’abbiamo chiama ta ideale dell’io e le abbiamo attribuito come funzioni l’auto-osservazione, la coscienza morale, la censura onirica e l’influsso determinante nella rimozione. Essa è l’erede del narcisismo originario (…) essa fa proprie, a poco a poco, dagli influssi dell’ambiente, le richieste che questo pone all’Io e cui l’Io non sempre si dimostra pari: di modo che, qualora non possa essere soddisfatto del proprio Io in quanto tale, l’uomo possa trovare la propria soddisfazione nell’Io ideale differenziatosi dall’Io.

A questo proposito diviene centrale la definizione psicoanalitica di innamoramento, con le sue dinamiche di relazione esclusivistiche grazie alle quali avviene una sopravvalutazione sessuale, per cui l’oggetto amato sfugge entro certi limiti alla critica e tutte le sue qualità vengono apprezzate in modo particolarmente netto. Lo sforzo che falsa il giudizio qui è quello dell’idealizzazione (…) l’oggetto viene trattato alla stregua del proprio Io (…) una quantità notevole di libido narcisistica straripa sull’oggetto. In alcuni casi si avverte addirittura la sostituzione del proprio non soddisfacente ideale dell’Io con l’oggetto amato.
Nella complessa definizione delle differenze esistenti tra identificazione ed innamoramento possiamo intravedere un’altra alternativa che contiene in se l’essenza di questo stato di cose, quella tra collocare l’oggetto al posto dell’Io oppure collocarlo al posto dell’ideale dell’Io. Nel primo caso potremmo riferirci all’identificazione, nel secondo all’innamoramento o all’ipnosi, definita da Freud come formazione collettiva a due: l’ipnosi si distingue dalla formazione collettiva per questa limitazione di numero, e insieme si distingue dall’innamoramento per l’assenza di pulsioni sessuali dirette. Tali modalità relazionali, dette anche impulsi sessuali inibiti alla meta si contraddistinguono per la loro durevolezza, legata alla impossibilità di soddisfacimento completo della carica libidica investita. Ne consegue che la definizione di massa subordinata ad un capo, secondo Freud è un insieme di individui che hanno assunto a loro ideale dell’Io lo stesso oggetto e che pertanto si sono identificati gli uni agli altri nel loro Io.

Il ragionamento successivo si dirige verso il concetto di pulsione gregaria, riprendendolo da Trotter W. (Instincts in the Herd in peace and war, 1916) che deduce i fenomeni psichici riscontrabili nella massa da un istinto gregario che risulta innato. Biologicamente, tale gregarietà è un analogia e al tempo stesso una continuazione della pluricellularità; nel senso della teoria della libido, è un’ulteriore espressione della tendenza, di origine libidica, di tutti gli esseri viventi della stessa specie a riunirsi in unità via via più ampie. Freud aggiunge a queste considerazioni quelle relative al bisogno di assoggettamento ad un capo tipico di molte specie animali e soprattutto dell’uomo che, piuttosto che un animale che vive in gregge è un animale che vive in orda, un essere singolo appartenente ad un ‘orda guidata da un capo supremo.
In questo senso Freud si riallaccia al suo importante scritto del 1912, Totem e tabù, nel quale si propone di proseguire sulla strada delle ipotesi darwiniane di composizione originaria della società umana, quella di un orda sottoposta al dominio di un maschio forte, il quale dominava l’orda animalesca proibendo la soddisfazione sessuale dei suoi membri e detenendone l’esclusività, Tale obbligo all’astinenza permise lo sviluppo di relazioni basate su impulsi inibiti alla meta che diedero vita alla prima forma di psicologia collettiva che culminò nell’uccisione del padre e con la creazione della divinità, del totemismo e quindi della primigenia religione e articolazione sociale basata su regole intersoggettive. Secondo Freud la massa intesa come la stiamo trattando finora ci appare come una reincarnazione dell’orda originaria poiché le descrizioni fin qui fatte presentano gli aspetti della scomparsa delle personalità dingola cosciente, il predominio dell’affettività e delle tendenze inconsce: il carattere perturbante, costrittivo, della formazione collettiva, il quale è manifesto nei fenomeni di suggestione che la contraddistinguono, può venir con ragione ricondotto all’origine di questa nell’orda primordiale. Il capo della massa è ancora sempre il temuto padre primigenio, la massa vuole sempre venir dominata (…) ha sete di sottomissione (…) il padre primigenio è l’ideale della massa che domina l’Io invece dell’ideale dell’Io. (vedi pp. 133-134) quindi affermiamo con Freud che tutti i legami su cui poggia la massa sono del tipo delle pulsioni inibite alla meta, in effetti le tendenze sessuali dirette sono sfavorevoli alla formazione collettiva,  a meno che non si considerino delle regressioni ad uno stadio primitivo delle relazioni sessuali, stadio nel quale l’innamoramento non svolgeva alcuna funzione e gli oggetti sessuali venivano considerati equivalenti come nel caso dell’orgia. Non a caso nelle grandi masse artificiali, chiesa ed esercito, non c’è posto per la donna in quanto oggetto sessuale, la relazione amorosa tra uomo e donna rimane estranea a tali organizzazioni. Le psiconevrosi entrano in relazione con tali suggestioni quando osserviamo il rapporto duplice che hanno le formazioni collettive, da un lato esse tendono alla disgregazione delle masse, in quanto tendono verso una generale asocialità e dall’altro possono scomparire temporaneamente quando l’individuo vive una esperienza gruppale emotivamente potente. La funzione terapeutica dell’esperienza di gruppo è prassi assodata in psicologia e nel senso comune e diviene particolarmente evidente, seppur si debba sospendere il giudizio sulla reale efficacia, nelle comunità a sfondo mistico (confronto con la visione reichiana del misticismo).

Il disagio della civiltà

“Il programma impostoci dal principio di piacere: diventar felici, non può essere adempiuto, ne attraverso la fede religiosa, la sublimazione intellettuale, la pratica del lavoro, il godimento estetico, l’eremitismo, l’utilizzo di sostanze inebrianti, l’amore sessuale sfrenato o monogamico. Se non in maniera puramente episodica.
La malattia psichica, la nevrosi, la psicosi divengono strumenti sostitutivi dolorosi ed inefficaci, la religione sminuisce il valore della vita presente per idealizzare quello della vita ultraterrena mediante la fissazione violenta a un infantilismo psichico e la partecipazione a un delirio collettivo.
Tre fonti da cui proviene la nostra sofferenza: la forza soverchiante della natura, la fragilità del nostro corpo e l’inadeguatezza delle istituzioni che regolano le reciproche relazioni degli uomini nella famiglia, nello Stato e nella società.
A ben vedere dobbiamo considerare il momento storico, immediatamente successivo al primo conflitto mondiale, caratterizzato dalla incapacità delle istituzioni nazionali ed internazionali di evitare una guerra sanguinosissima di cui l’Austria, patria di Freud, fu protagonista.
Sembrerebbe quindi che la civiltà stessa sia la fonte primaria della sofferenza umana e del mancato raggiungimento della felicità per l’essere umano, poiché tutto si svolge in essa, anche le risposte alle frustrazioni che da essa derivano sembrano, per l’uomo, proponibili e praticabili solo al suo interno.
Che cos’è la civiltà?  La civiltà (Kultur) designa la somma delle realizzazioni e degli ordinamenti che differenziano la nostra vita da quella dei nostri progenitori animali e che servono a due scopi: a proteggere l’umanità contro la natura e a regolare le relazioni degli uomini fra loro.
Nel primo caso le argomentazioni riguardano la capacità dell’essere umano di intervenire nei confronti della conoscenza, del controllo, nella previsione dei fenomeni naturali che, attraverso lo sviluppo della meccanica e della tecnologia, appaiono progressivamente più sottoposti al dominio umano.
Nel secondo caso ci si riferisce al percorso di autoregolamentazione delle società umane derivato, secondo Freud, dalle prime norme di “diritto” associativo scaturite dalla necessaria confluenza di interessi dei fratelli, componenti dell’orda primordiale, a seguito della eliminazione del padre tirannico e la conseguente nascita dei tabù, prime ingiunzioni restrittive necessarie a definire la regolamentazione della convivenza, che diede vita alle esperienze matriarcali poi degenerate nella re-instaurazione della logica autoritaria patriarcale. Quindi la vita in comune degli uomini ebbe un duplice fondamento: la coercizione al lavoro, creata dalla necessità (ananke) e la potenza dell’amore (eros), che nel maschio provocò il desiderio di non essere privato dell’oggetto sessuale, cioè della femmina, e nella femmina quello di non essere privata della parte da lei separatasi, cioè del figlio. Eros e Ananke sono divenuti del pari i progenitori della civiltà umana. La prima conseguenza fu che ora un numero anche abbastanza grande di uomini poté restare unito in comunità.
L’amore che fondò la famiglia continua ad operare nella civiltà nella sua forma originaria, nella quale non rinuncia al soddisfacimento sessuale diretto, e nella forma modificata, come tenerezza inibita alla meta. In ambedue le forme adempie alla sua funzione di legare l’uno all’altro un numero considerevole di persone, più intensamente di quel che può fare l’interesse del lavoro in comune.
Ma la correlazione tra amore e civiltà cessa, nel corso dell’evoluzione, di essere univoca. Da un lato, l’amore oppone agli interessi della civiltà, dall’altro, la civiltà minaccia l’amore con gravi restrizioni. Nel primo caso si manifesta come una opposizione tra la famiglia e la comunità più ampia a cui il singolo appartiene, nei confronti dei giovani che intendono allontanarsi dalle restrizioni familiari, e nei confronti delle donne che vedono la loro vita sessuale ristretta dalle esigenze di investimento oggettuale degli uomini nel campo  del lavoro e, nel secondo, dai meccanismi repressivi che nei confronti della urgenza delle pulsioni sessuali la civiltà impone ai bambini prima e agli adulti poi nell’obbligo morale ad una conduzione monogamica della vita sessuale, rivolta esclusivamente ad individui del sesso opposto, adducendo come perversioni i soddisfacimenti extragenitali. Ma la società incivilita si è vista costretta a passare sotto silenzio molte trasgressioni che secondo i suoi canoni avrebbe dovuto punire (…) la vita sessuale dell’uomo civile è in effetti seriamente danneggiata, nella vita dell’uomo civile contemporaneo non c’è più posto per l’amore semplice, naturale di due esseri umani poiché al di la del raggiungimento del naturale piacere sessuale che si contrae tra due persone la civiltà necessita di energia libidica necessaria alla costruzione di legami tra i membri della comunità, la cosiddetta inibizione alla meta, ed obbliga una restrizione della vita sessuale.
Tutto ciò parrebbe definire un contesto pulsionale nel quale l’elemento amoroso, di investimento libidico, mantiene una sua esclusività ma, in relazione alle questioni etiche della contrapposizione tra bene e male, nelle quali la civiltà ha un ruolo decisorio fondamentale, Freud afferma che l’uomo non è una creatura mansueta, bisognosa d’amore, capace, al massimo, di difendersi se viene attaccata; ma che occorre attribuire al suo corredo pulsionale anche una buona dose di aggressività. Ne segue che egli vede nel prossimo non soltanto un eventuale aiuto e oggetto sessuale, ma anche un invito a sfogare la propria aggressività, a sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, ad abusarne sessualmente senza il suo consenso, a sostituirsi a lui nel possesso dei beni, ad umiliarlo, a farlo soffrire, a torturarlo e a ucciderlo. Homo homini lupus. A questo punto Freud riconosce alla causa comunista della abolizione della proprietà privata, dell’abolizione della famiglia autoritaria, l’eventuale funzione di togliere armi al meccanismo aggressivo ma, ritenendo questo una pulsione primaria, ne evidenzia la futura inefficacia. Inoltre, accennando ai meccanismi gruppali di definizione di comunità distinte, sciorina una delle sue affermazioni di sapore sociologico più affascinanti: é sempre possibile riunire un numero anche rilevante di persone che si amino l’uno l’altro fin tanto che ne restino altri per le manifestazioni di aggressività. Vedremo poi come Reich contesterà fortemente, riformandole sostanzialmente, queste pessimistiche conclusioni. Ma la civiltà, con le sue regole e i suoi statuti e le sue costituzioni impone sacrifici tanto grandi non solo alla sessualità ma anche alla aggressività dell’uomo (…) di fatto l’uomo primordiale stava meglio, poiché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale, in compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza. Egli giunge anche ad affermare che forse ci abitueremo anche all’idea che ci sono difficoltà inerenti alla essenza stessa della civiltà e che non cederanno di fronte ad alcun tentativo di riforma poiché ci sovrasta il pericolo d’una condizione che potremmo definire la miseria psicologica della massa, particolarmente presente laddove i legami tra gli uomini si basano su meccanismi identificativi sottomessi all’autorità di capi inadatti a tale ruolo. Si evincono numerosi spunti che verranno ripresi e traslati fortemente da Reich ma appare emergere una tendenza autoritario-conservatrice che fu poi rilevata da alcuni critici freudiani, soprattutto da sinistra.

Ora, data per Freud, l’indiscussa esistenza di una pulsione di morte, avente tendenza autodistruttiva, anch’essa caratterizzabile in senso narcisistico, va indagato attraverso quali mezzi usa la civiltà per frenare la spinta aggressiva che le si oppone, per renderla innocua, per abolirla? (…) L’aggressività viene introiettata, interiorizzata, propriamente viene rimandata la donde è venuta, ossia è volta contro il proprio io. Qui  viene assunta da una parte dell’Io, che si contrappone come Super-Io al rimanente, ed ora come coscienza è pronta a dimostrare contro l’Io la stessa inesorabile aggressività che l’Io avrebbe volentieri soddisfatto contro altri individui estranei. Chiamiamo senso di colpa la tensione tra il rigido Super-Io e l’Io ad esso soggetto; tale senso si manifesta come bisogno di punizione. La civiltà domina dunque io pericoloso desiderio di aggressione dell’individuo infiacchendolo, disarmandolo e facendolo sorvegliare da una istanza nel suo interno ma, in assenza della possibilità che la distinzione tra bene e male possa sussistere originariamente nella struttura umana, il male spesso non è quel che danneggia o mette in pericolo l’Io, anzi può essere anche qualcosa che l’Io desidera (…) qui agisce dunque un influsso estraneo, il quale decide cosa debba chiamarsi bene o male (…) è facile scoprirlo nella debolezza dell’uomo e nella sua dipendenza dagli altri; può essere indicato meglio come paura di perdere l’amore (…) pertanto il male è originariamente tutto ciò a causa di cui si è minacciati della perdita d’amore (…) perciò conta poco se si è già fatto il male  se soltanto si intenda farlo; in entrambi i casi il pericolo si presenta solo se l’autorità lo scopre (…) questo stato d’animo si chiama cattiva coscienza e a questo stadio il senso di colpa è chiaramente solo paura della perdita d’amore, angoscia sociale. Quando, in relazione al incivilimento, il Super-Io diviene istanza strutturata vengono anche a cessare sia la paura di venir scoperti, sia la differenza tra fare e volere il male, perchè niente può rimaner nascosto dinanzi al Super-Io, neppure i pensieri. Perciò, nel passaggio tra fanciullezza e adultità, quindi nella instaurazione della istanza super egoica, il sentimento di colpa può avere due origini: una dal timore che suscita l’autorità (genitoriale), e una successiva dal timore che suscita il Super-Io. La prima obbliga a rinunciare al soddisfacimento pulsionale, la seconda, oltre a ciò e poiché è impossibile nascondere al Super-Io che i desideri proibiti continuano, preme per la punizione.
A questo punto, non possiamo prescindere dall’ipotesi che il senso di colpa dell’umanità abbia origine dal complesso edipico e venisse acquisito con l’uccisione del padre da parte dei fratello alleati. In quell’occasione una aggressione non fu repressa ma effettuata, la medesima aggressione che, repressa nel bambino, è destinata ad essere la fonte del senso di colpa (…) ma se l’umano senso di colpa risale davvero all’uccisione del padre primordiale, esso fu un caso di rimorso (…) quel rimorso fu il risultato dell’ambivalenza emotiva primigenia verso il padre: i figli lo odiavano ma anche l’amavano; dopo che l’odio fu soddisfatto con l’aggressione, l’amore prevalse nel rimorso per l’atto, elevò il Super-Io mediante l’identificazione col padre, gli diede il potere paterno quasi a punire l’atto d’aggressione perpetrato contro lui, instaurò le restrizioni che dovevano prevenire il ripetersi del fatto.
A questo punto del ragionamento, afferma Freud, non è questione realmente decisiva se abbiamo ucciso il padre o se ci siamo astenuti dal farlo, in entrambi i casi dobbiamo sentirci colpevoli perchè il senso di colpa è l’espressione del conflitto ambivalente, dell’eterna lotta tra l’Eros e la pulsione distruttiva o di morte (…) finché l’unica forma di comunità è quella della famiglia, il conflitto si esprime per forza nel complesso edipico, insedia la coscienza e crea il primo senso di colpa. E qui si lega l’amara conclusione freudiana che sostiene che dato che la civiltà obbedisce a una spinta erotica interna che le ordina di unire gli uomini in una massa collegata intimamente, essa può raggiungere tale meta solo per la via di un sempre crescente rafforzamento del senso di colpa.
Tale meccanismo di costruzione del senso di colpa e del bisogno di punizione però non riguardano solo i casi coscienti di rimorso, bensì appaiono nettamente negli episodi nevrotici, dove i desideri aggressivi o inaccettabili vengono sottoposti a rimozione: se una tendenza pulsionale soggiace alla rimozione, le sue parti libidiche si trasformano in sintomi, le sue componenti aggressive in senso di colpa.
Questo percorso della psicologia individuale, così strettamente interconnesso con il processo d incivilimento prevede l’esistenza, in termini del tutto simili, di un Super-Io civile, derivato anch’esso dalla tensione tra le pulsioni vitali e quelle distruttive insite nella natura umana, che si tradurrebbe in forma di Etica civile dinamica, spesso contradditotria, come quella individuale come ad esempio alcuni precetti moralistici della religione cattolica quali “ama il prossimo tuo come te stesso”, pulsionalmente impercorribili
Ma l’elemento più stimolante, alla luce della psicologia sociale e istituzionale che si svilupperanno da tali notevoli intuizioni freudiane è contenuta nella parte finale del saggio quando Freud si chiede se l’evoluzione della civiltà è tanto simile a quella dell’individuo e se usa gli stessi mezzi, non saremmo giustificati nel fornire le diagnosi che alcune civiltà, o epoche civili, forse l’intero genere umano, sono divenuti “nevrotici” per effetto del loro sforzo di civiltà? (…) bisognerebbe andar molto cauti, non dimenticare che in fin dei conti si tratta solo di analogie, e che è pericoloso, non solo con gli uomini ma anche coi concetti, strapparli dalla sfera in cui sono sorti e si sono evoluti. La diagnosi di nevrosi collettive s’imbatte poi in una difficoltà particolare. Nella nevrosi individuale, il contrasto che il malato fa sullo sfondo del suo ambiente considerato come “normale” ci offe un immediato punto di riferimento. Un simile sfondo viene a mancare in una massa tutta egualmente ammalata e dovrebbe essere cercato altrove. Quanto poi all’applicazione terapeutica della comprensione raggiunta, a che cosa gioverebbe la più acuta analisi delle nevrosi sociali, visto che nessuno possiede l’autorità di imporre alla massa la terapia?
Wilhelm Reich intende proseguire, conflittualmente, esattamente accettando queste ultime sfide poste dal padre della psicoanalisi.

2. Osservazioni su “Psicologia di massa del fascismo” di W. Reich (1933) – terza edizione con  
prefazione di Reich del 1942

L’opera “Analisi del carattere” (1933), l’unica opera del ricercatore austriaco riconosciuta dalla psicoanalisi ortodossa (SPI) che lo espulse nel 1934, apre la prefazione all’edizione in questione dell’importante saggio reichiano con queste parole: Un vasto e coscienzioso lavoro terapeutico sul carattere umano mi ha dato la certezza che nel giudicare le reazioni umane ci troviamo di fronte a tre strati differenti della natura bio-psichica, Questi tre strati della struttura caratteriale sono sedimenti che funzionano in modo autonomo (…) nello strato superficiale del proprio essere l’uomo medio è moderato, cortese, caritatevole, conscio del proprio dovere, coscienzioso. Non esisterebbe una tragedia sociale dell’animale uomo se questo strato superficiale fosse direttamente collegato con il nucleo centrale. Purtroppo non è così: lo strato superficiale della cooperazione sociale non ha alcun contatto con il profondo nucleo biologico dell’uomo; esso viene sorretto da un secondo strato caratteriale intermedio, che si compone senza eccezioni di impulsi crudeli, sadici, sessualmente lascivi, rapaci ed invidiosi. Questo strato costituisce l’inconscio o il rimosso di Freud; in termini sessuo-economici, la somma di tutte le pulsioni secondarie. La bio-fisica orgonica riuscì a scoprire che l’inconscio di Freud, l’aspetto antisociale dell’uomo, non era altro che il risultato secondario della repressione di pulsioni biologiche primarie.
L’Orgonomia è la scienza che studia l’energia cosmica primordiale, pre-atomica, essa si differenzia da tutte le altre energie conosciute, che derivano dalla materia, elettrica, magnetica, nucleare. Queste deriverebbero dalla funzione dell’energia orgonica definita Superimposizione, unione di correnti energetiche da cui si genera la materia e quindi la vita. Una seconda funzione sarebbe quella della Pulsazione, immediatamente riscontrabile in numerosi organismi viventi, e la Convulsione Orgastica, grazie alla quale l’accumulo di energia in eccesso nell’organismo, ottenuta dalle funzioni vitali, concentrata nei genitali, ottiene funzione di scarica attraverso l’eccitazione sessuale soddisfatta nella raggiungimento dell’orgasmo, dando vita ad un naturale processo di riequilibrio psico-fisico-biologico.
Tale energia orgonica, secondo le ricerche effettuate da Reich e dai suoi collaboratori, tutti rigorosamente preparati sul piano tecnico-scientifico, sarebbe dimostrabile obiettivamente in vari modi, termicamente, elettroscopicamente, visivamente, con il contatore Geiger.Mueller.
Le branche principali della scienza orgonomica attraversano i settori della fisica, della biologia, della medicina e della sociologia.
Quest’ultimo campo di interesse è quello che caratterizza gli studi sulla psicologia di massa che tenteremo di affrontare.

“Se ci addentriamo oltre questo secondo strato di pervertimento fino al fondamento dell’animale uomo, scopriamo regolarmente il terzo strato (e più profondo) che chiamiamo nucleo biologico. In fondo, in questo nucleo, l’uomo è, in circostanze sociali favorevoli, un animale onesto, cooperativo,capace di amare o, se vi è motivo, di odiare razionalmente. In nessun caso è possibile penetrare la liberazione caratteriale dell’uomo attuale fino a questo profondissimo e tanto promettente strato senza aver prima eliminato la falsa educazione apparentemente sociale. Quando cade la maschera dell’educazione, non appare immediatamente la socialità naturale, ma soltanto lo strato caratteriale sadico-pervertito. Questa disgraziata strutturazione è responsabile del fatto che ogni impulso naturale, sociale o libidinoso, che esce dal nucleo biologico per tramutarsi in azione , debba passare attraverso lo strato delle pulsioni secondarie pervertite, subendo una deviazione in questa fase. Questa deviazione trasforma il carattere originariamente sociale degli impulsi naturali in pervertimento e costringe ad imporre un freno a qualsiasi autentica espressione vitale. Trasponiamo la nostra struttura umana nel campo sociale e politico. Non è difficile vedere che i diversi raggruppamenti politici ed ideologici della società umana corrispondono ai diversi strati della struttura caratteriale. Ovviamente non cadiamo nell’errore della filosofia idealistica secondo cui la struttura umana è sempre esistita sotto questa forma e continuerà ad essere invariabile per l’eternità. Dopo che circostanze e mutamenti sociali hanno trasformato le esigenze biologiche originarie dell’uomo in struttura caratteriale, la struttura caratteriale riproduce sotto forma di ideologie la struttura sociale della società.
Da quando la primitiva organizzazione democratico-lavorativa è definitivamente tramontata, il nucleo biologico non ha più trovato un’espressione sul piano sociale. Ciò che è naturale ed elevato nell’uomo, ciò che lo lega al suo cosmo, ha trovato soltanto nell’arte, soprattutto nella musica e nella pittura un’autentica espressione, ma è fruibile solo ad una comunità ristretta, non può modificare la comunità di tutti gli uomini.
Negli ideali etici del liberalismo si possono riconoscere i tratti dello strato caratteriale superficiale, caratterizzato dall’autocontrollo e dalla tolleranza, in quanto egli deplora il pervertimento caratteriale umano con norme etiche, ma non ha nulla a che fare con la naturale socialità, come le catastrofi del XX secolo ci insegnano, in quanto non ha impedito l’emergere delle più bieche espressioni del pervertimento umano.
Tutto ciò che è veramente rivoluzionario, arte e scienza, nasce dal nucleo biologico, ma anche questa potenzialità è stata evidentemente finora incapace di attuarsi nelle masse umane.
Le cose stanno diversamente per quanto riguarda il fascismo. Sostanzialmente il fascismo non rappresenta né lo strato superficiale né quello più profondo, ma il secondo strato caratteriale intermedio delle pulsioni secondarie (…) le mie esperienze mediche fatte con molte persone appartenenti ai più disparati strati sociali , razze, nazioni, religioni, mi avevano insegnato che il fascismo non è altro che l’espressione politicamente organizzata della struttura caratteriale umana media, di una struttura che non è vincolata ne a determinate razze o nazioni ne a determinati partiri, ma che è generale e internazionale. Secondo il significato caratteriale il fascismo è l’atteggiamento emotivo fondamentale dell’uomo autoritariamente represso dalla civiltà delle macchine e dalla sua concezione meccanicistico-mistica della vita. Il carattere meccanicistico-mistico degli uomini del nostro tempo crea il fascismo e non viceversa. Non si tratta della dittatura di una piccola cricca reazionaria, come spessissimo si è valutato e si valuta tutt’oggi. Il fascismo come movimento politico si differenzia da altri partiti reazionari per il fatto che viene sostenuto e diffuso dalle masse umane (…) non è,come si crede generalmente, un movimento puramente reazionario, ma costituisce un amalgama tra emozioni ribelli e idee sociali reazionarie (…) non vi è dubbio che esso può fare la sua comparsa ammantato di sentimenti rivoluzionari, ma non si chiamerà rivoluzionario quel medico che combatte con sfrenate imprecazioni una malattia, ma al contrario quello che con calma, coraggiosamente e coscienziosamente, cerca e combatte la causa della malattia. La ribellione fascista nasce sempre laddove una emozione rivoluzionaria viene trasformata in illusione per paura della verità. Il fascismo, nella sua forma più pura, è la somma di tutte le reazioni irrazionali del carattere umano medio. Il sociologo ottuso (…) considera la teoria fascista della razza soltanto un interesse imperialistico (…) un pregiudizio (…) l’intensità e la vasta diffusione di questi pregiudizi razziali sono la prova che essi affondano le radici nella parte irrazionale del carattere umano. La teoria della razza non è una creazione del fascismo. Al contrario: il fascismo è una creazione dell’odio razziale e la sua espressione politicamente organizzata. Di conseguenza esiste un fascismo tedesco, italiano, spagnolo, anglosassone, ebreo ed arabo. L’ideologia razziale è una tipica espressione caratteriale biopatica dell’uomo orgasticamente impotente.
Si definisce biopatia ogni processo patologico derivante da un disturbo della naturale pulsazione biologica e che, invariabilmente, porta alla stasi energetica. Avremo biopatie psichiche, nevrosi e psicosi, e somatiche, ansia, ipertensione, allergie, malattie degenerative, diabete, malattie endocrine, cancro, ecc.
Il carattere sadico-pervertito dell’ideologia razziale tradisce la sua natura anche nel suo atteggiamento di fronte alla religione. Si dice che il fascismo sarebbe un ritorno al paganesimo e il nemico mortale della religione. Ben lungi da ciò, il fascismo appoggia quella religiosità che nasce dal pervertimento sessuale, e trasforma il carattere masochista della religione della sofferenza dell’antico patriarcato in una religione sadica. Di conseguenza traspone la religione dall’aldilà della filosofia della sofferenza nell’aldiquà dell’omicidio sadico. La mentalità fascista è la mentalità dell’uomo della strada mediocre soggiogato, smanio di sottomettersi ad un’autorità e allo stesso tempo ribelle. Non è casuale che tutti i dittatori fascisti escano dalla sfera sociale del piccolo uomo della strada reazionario (quando non sono generali dell’esercito assurti al potere per mezzo di colpi di stato ndr). Il grande industriale e il militarista feudale approfittano di questa circostanza sociale per i propri scopi (…) la civiltà meccanicistica ed autoritaria raccoglie, sotto forma di fascismo, solo dal piccolo borghese represso ciò che da secoli ha seminato, come mistica mentalità del caporale di giornata e  come automatismo fra le masse degli uomini mediocri e repressi. Questo piccolo borghese ha copiato fin troppo bene il comportamento del grande e lo riproduce in modo deformato e ingigantito. Il fascista è il sergente del gigantesco esercito della nostra civiltà profondamente malata e altamente industrializzata.
Nella sua feroce critica al liberalismo, principio politico reggente le nazioni divenute culle del fascismo organizzato  aggiunge:  Nella ribellione delle masse di animali umani maltrattati contro le insignificanti cortesie del falso liberalismo apparve lo strato caratteriale  delle pulsioni secondarie. Non è possibile rendere inoffensivo l’energumeno fascista (…) se non lo si rintraccia nel proprio essere; se non si combattono le istituzioni sociali che lo covano ogni giorno. Si può battere il fascismo solo se lo si affronta obbiettivamente e praticamente, con una approfondita conoscenza dei processi vitali. Nessuno è capace di imitarlo in fatto di manovre politiche, abilità nel destreggiarsi nei rapporti diplomatici, e organizzazione delle parate. Ma non sa rispondere a questioni vitali pratiche(…) quando un carattere fascista di qualsiasi colorazione si mette a predicare l’onore della nazione (anziché l’onore dell’umanità) o la salvezza della sacra famiglia e della razza (anziché la comunità dell’umanità che lavora); quando monta la superbia e quando dalla sua bocca escono slogans, allora gli si chieda pubblicamente, e con la massima calma e semplicità: che cosa fai per dar da mangiare alla nazione senza assassinare altre nazioni? Che cosa fai come medico contro le malattie croniche, che cosa fai come educatore per favorire la gioia di vivere dei bambini, che cosa fai come economista contro la miseria, che cosa fai come assistente sociale contro il logoramento delle madri con tanti figli, che cosa fai come costruttore per sviluppare l’igiene delle abitazioni? Ora, cerca di non parlare a vanvera e cerca di dare una risposta concreta e pratica, altrimenti tieni il becco chiuso!
Da ciò consegue che il fascismo internazionale non potrà mai essere battuto con manovre politiche. Soccomberà alla naturale organizzazione del lavoro, dell’amore e del sapere su scala internazionale.

Il percorso di Reich, nella divulgazione delle sue idee e ricerche fu ostacolato da molti lati, dalla maggioranza degli psicoanalisti, dal partito comunista tedesco, al quale aderì e partecipò con grande entusiasmo attivando numerose campagne di informazione e prevenzione, come la Lega nazionale per la politica sessuale proletaria (SexPol), dagli apparati burocratico-scientifici dell’Urss, naturalmente dalla Germania nazista, dai governi danesi e svedesi e, infine, dalla Food and Drug administration e dalla FBI americane, fino alla sua morte avvenuta in carcere dopo che molti dei suoi macchinari di ricerca e dei suoi scritti furono sequestrati.
Il suo impegno nel campo assolutamente minoritario della sessuologia scientifica si connesse spontaneamente con il pensiero freudiano e l’atmosfera rivoluzionaria degli anni 20 in Austria e Germania lo avvicinò alle formazioni politiche della sinistra socialista e comunista. Ma l’autonomia di pensiero e una forte idiosincrasia per il compromesso caratterizzarono la sua personalità fino alla fine, ad un costo considerevole.
Scrive ancora Reich: intorno al 1930 non avevo alcuna idea dei rapporti naturali democratico-lavorativi (…) a quell’epoca lavoravo in organizzazioni culturali liberali, socialiste e comuniste ed ero costretto, normalmente, ad impiegare i concetti marxisti-sociologici durante le mie spiegazioni sessuo-economiche (…) e non riuscivo a capire per quale motivo i membri del partito combattessero con estrema violenza gli effetti sociali del mio lavoro medico proprio quando masse di impiegati, operai dell’industria, piccoli commercianti, studenti, affollavano le organizzazioni orientate sessuo-economicamente, ansiose di conoscere il funzionamento dei processi vitali.
Il termine sessuo-economia si riferisce al criterio di regolazione dell’energia biologica, o , ciò che è lo stesso, dell’economia delle energie sessuali dell’individuo. Sessuo-economia significa in modo in cui un individuo impiega la propria energia biologica; quanta se ne ingorga e quanta ne scarica orgasticamente. I fattori che influenzano questo tipo di reolazione sono di carattere sociologico, psicologico e biologico. La scienza della sessuo-economia consiste in quell’insieme di cognizioni che furono dedotte dallo studio di questi fattori. Questo termine fu applicabile all’opera di Reich a partire dal momento in cui rifiutò la filosofia culturale di Freud, rifiutando l’originarietà della pulsione di morte e la centralità conservatoristica del principio di realtà, fino alla scoperta dell’orgone, quando fu sostituita dall’orgonomia, la scienza della energia vitale.

La sociologia sessuo-economica nacque dallo sforzo di conciliare la psicologia del profondo di Freud con la teoria economica di Marx (…) e risolve la contraddizione che fece dimenticare alla psicoanalisi il fattore sociale e al marxismo l’origine animalesca dell’uomo (…) oggi non sono più i partiti comunisti o socialisti, ma in contrasto con essi, molti gruppi apolitici e strati sociali di ogni sfumatura politica che sono sempre più orientati (…) verso un ordinamento sociale sostanzialmente nuovo (devo ammettere di non sapere a quali movimenti alluda Reich ma la somiglianza con il presente è spiccata, soprattutto se pensiamo che l’analisi reichiana della emersione del fascismo europeo parte dalle conseguenze della grande depressione economica del 1929-1933) e i bisnipoti dei proletari del XIX secolo sono diventati lavoratori dell’industria, specializzati, altamente qualificati sul piano tecnico, indispensabili, responsabili e professionalmente consapevoli. La parola coscienza di classe viene sostituita con la parola coscienza professionale o responsabilità sociale. Nel marxismo del XIX secolo la coscienza di classe era limitata ai lavoratori manuali. Ma gli altri lavoratori che svolgono un’attività vitale indispensabile senza la quale la società non potrebbe funzionare venivano contrapposti come intellettuali e piccoli borghesi al proletariato dei lavoratori manuali. Questa contrapposizione schematica e oggi inesatta ha contribuito alla vittoria del fascismo in Germania (…) il lavoro vitalmente necessario, il lavoratore, sono concetti che comprendono tutti i lavoratori che svolgono un lavoro socialmente necessario alla vita. Quindi non solo i lavoratori dell’industria, ma anche i medici, gli educatori, i tecnici, i ricercatori di laboratorio, gli scrittori, gli amministratori delle società, gli agricoltori, gli scienziati. Da qui nasce un abisso che ha contribuito non poco alla frantumazione della società umana lavoratrice e quindi alla vittoria del fascismo, sia nero che rosso.
La sociologia marxista contrapponeva per ignoranza della psicologia di massa il borghese al proletario (…) la struttura caratteriale non si limita al capitalista, ma impregna i lavoratori di tutte le professioni. Vi sono capitalisti liberali e lavoratori reazionari. Non esistono confini caratteriali di classe.
Da queste affermazioni, biologicamente fondate sulla teoria orgonica e sulle sue numerose applicazioni e ricerche scientifiche, prosegue il discorso reichiano che affronta analiticamente le questioni inerenti le cause della diffusione di NEVROSI DI MASSA o PESTE PSICHICA:
1. L’ideologia come forza materiale: perchè i diseredati agiscono contro se stessi?;
2. L’autoritarismo come modello familiare preparatorio all’assoggettamento ad un capo;
3. la funzione della teoria della superiorità razziale in ottica misticheggiante di rifiuto della sessualità naturale;
4. la spinta reazionaria e antisessuale della influenza della chiesa, la sua ambiguità anticapitalistica e la sua natura irrazionale dogmatica dove l’estasi spirituale soddisfa parzialmente la spinta sessuale;
5. l’autogoverno e l’estinzione dello stato,il superamento della illibertà della massa che necessita sempre di assoggettarsi ad un capo;
6. democrazia del lavoro vitalmente necessario, legato al piacere, alla responsabilità, alla interdipendenza tra i lavoratori, stimolo delle funzioni razionali dell’esistenza, già presenti nella natura umana;
7. restituzione del significato autentico della parola libertà, intesa come liberazione di ciò che è vivo, contro il meccanicismo coercitivo che ci allontana dalla natura, attraverso il pensiero funzionale, che prevede che la conoscenza passi attraverso una costante analisi critica, volta alla riformulazione continua delle informazioni raccolte e dei concetti sviluppati, in costante rapporto dialettico con l’esperienza;
8. il rapporto tra lavoro e politica, l’inconciliabilità tra questi due elementi;

Opere
In Italiano:
Passioni di gioventù: un’autobiografia 1897-1922 (1919-1925) (tr. Barbara Bergonzi, SugarCo, Milano 1990)
Conflitti libidici e fantasie deliranti: il «Peer Gynt» di Ibsen (1920) (tr. Ettore Zelioli, SugarCo, Milano 1975 ISBN 88-7198-299-1)
Il coito e i sessi (1922) (tr. Ettore Zelioli, SugarCo, Milano 1981 ISBN 88-7198-300-9)
Scritti giovanili volume I (1920-1925) (tr. Ettore Zelioli, SugarCo, Milano 1977 ISBN 88-7198-296-7)
Scritti giovanili volume II (1920-1925) (tr. Ettore Zelioli, SugarCo, Milano 1977 ISBN 88-7198-297-5)
Il carattere pulsionale (1925) (tr. Ettore Zelioli, SugarCo, Milano 1982 ISBN 88-7198-302-5)
Il tic come equivalente della masturbazione (1925) (tr. SugarCo, Milano 1981 ISBN 88-7198-301-7)
Genitalità (o scritti giovanili vol. n. III) (tr. Giovanna Agabio, SugarCo, Milano 1980 ISBN 88-7198-167-7)
Analisi del carattere (1933) (tr. Furio Belfiore e Anneliese Wolf, SugarCo, Milano 1973 ISBN 88-7198-209-6)
Psicologia di massa del fascismo (1933) (tr. Furio Belfiore e Anneliese Wolf, SugarCo, Milano 1971; Mondadori, Milano 1974 ISBN 88-06-16376-0 ISBN 88-7198-148-0)
La rivoluzione sessuale (1930-1934) (tr. Vittorio Di Giuro, Feltrinelli, Milano 1963; tr. Enrica Albites-Coen e Roberto Massari, Emme emme, Roma 1992 ISBN 88-07-80440-9 ISBN 888537835)
L’irruzione della morale sessuale coercitiva (1934-1935) (tr. Maria Luraschi, SugarCo, Milano 1972 ISBN 88-7198-228-2)
Sessualità e angoscia: un’indagine bioelettrica (1935-1936) (tr. SugarCo, Milano 1983 ISBN 88-7198-213-4)
Esperimenti bionici sull’origine della vita (1936) (tr. Giovanna Agabio, SugarCo, Milano 1981 ISBN 88-7198-176-6)
La scoperta dell’orgone, volume n. I – La funzione dell’orgasmo (1942) (tr. Furio Belfiore, SugarCo, Milano 1975 ISBN 88-515-2222-7)
La scoperta dell’orgone, volume n. II – La biopatia del cancro (1948) (tr. Adriano Caiani, SugarCo, Milano 1976 ISBN 88-7198-317-3)
Ascolta, piccolo uomo (1948) (tr. Maria Luraschi, SugarCo, Milano 1973 ISBN 88-7198-298-3)
Etere, Dio e diavolo (1949) (tr. Maria Luraschi e Maria Agrati, SugarCo, Milano 1974 ISBN 88-7198-287-8)
Bambini del futuro: sulla prevenzione delle patologie sessuali (1950) (tr. Annelise Wolf e Sibilla Belfiore, SugarCo, Milano 1987 ISBN 88-7198-286-X)
L’assassinio di Cristo: la peste emozionale dell’umanità (1951) (tr. Marco Amante, SugarCo, Milano 1972 ISBN 88-7198-107-3)
Superimposizione cosmica (1951) (tr. Maria Gallone e Maria Luraschi, SugarCo, Milano 1975 ISBN 88-7198-219-3)
Reich parla di Freud (1952) (a cura di Mary Higgins e Chester M. Raphael, tr. Furio Belfiore e Anneliese Wolf, SugarCo, Milano 1970 ISBN 88-7198-194-4)
Individuo e Stato (1953) (tr. Alberto Tessore e Silvana Ziviani, SugarCo, Milano 1978 ISBN 88-7198-232-0)
La teoria dell’orgasmo e altri scritti (tr. Luigi De Marchi e Mary Boyd Higgins, Lerici, Milano 1961; tr. Furio Belfiore, SugarCo, Milano 1969)
La lotta sessuale dei giovani (tr. Nicola Paoli, Samonà e Savelli, Roma 1972)
In tedesco:
Der triebhafte Charakter : eine psychoanalytische Studie zur Pathologie des Ich, 1925
Die Funktion des Orgasmus : zur Psychopathologie und zur Soziologie des Geschlechtslebens, 1927
Ueber den Oedipuskomplex : drei psychoanalytische Studien with Felix Boehm and Otto Fenichel, 1931
Character analysis or in the original: Charakteranalyse : Technik und Grundlagen für studierende und praktizierende Analytiker, 1933
Massenpsychologie des Faschismus, 1933, original German edition, banned by the Nazis and the Communists.
The Mass Psychology of Fascism, 1946 revised and enlarged U.S. edition
Die Sexualitaet im Kulturkampf, 1936 U.S. edition 1945 The Sexual Revolution
Dialektischer Materialismus und Psychoanalyse, 1929
Der Einbruch der Sexualmoral, 1932
Die Sexualitaet im Kulturkampf, 1936
Die Bione, 1938
In inglese
American Odyssey: Letters and Journals 1940-1947
Beyond Psychology: Letters and Journals 1934-1939
The Bioelectrical Investigation of Sexuality and Anxiety
The Bion Experiments: On the Origins of Life
Function of the Orgasm (Discovery of the Orgone, Vol.1)
The Cancer Biopathy (Discovery of the Orgone, Vol.2)
Character Analysis – Analisi del carattere (1933)
Children of the Future: On the Prevention of Sexual Pathology
The Oranur Experiment, First Report (1947-1951)
Contact With Space: Oranur Second Report, 1951-56, Core Pilot Press, 1957
Cosmic Superimposition: Man’s Orgonotic Roots in Nature
Early Writings
Ether, God and Devil (1951)
Genitality in the Theory and Therapy of Neuroses
The Invasion of Compulsory Sex-Morality – ‘L’irruzione della morale sessuale coercitiva (1932)
Listen, Little Man! – La lotta sessuale dei giovani (1932)
Mass Psychology of Fascism – La psicologia di massa del fascismo (1933)
The Murder of Christ (Emotional Plague of Mankind, Vol.2)
The Oranur Experiment
The Orgone Energy Accumulator, Its Scientific and Medical Use
Passion of Youth: An Autobiography, 1897-1922
People in Trouble: Emotional Plague of Mankind, Vol.1)
Record of a Friendship: The Correspondence of Wilhelm Reich and A.S. Neill (1936-1957)
Reich Speaks of Freud
Selected Writings: An Introduction to Orgonomy
The Sexual Revolution – La rivoluzione sessuale (1936)
Bibliografia
Albini, C. (1997) Creazione e castigo. La grande congiura contro W. Reich, Tre Editori, ISBN 978-88-86755-09-2
Dadoun, R. (2007) Cento fiori per Wilhelm Reich, Spirali, ISBN 978-88-7770-771-0
De Marchi, L.; Valenzi, V. (2007) Wilhelm Reich. Una fornidabile avventura scientifica ed umana, Macro Edizioni, ISBN 978-88-7507-859-1
Totton, N.; Edmondson, E. (2007) Nuovi sviluppi della terapia di Wilhelm Reich, Red, ISBN 978-88-7447-534-6
Zabini, A. (1996) W. Reich e il segreto dei dischi volanti, Tre Editori, ISBN 978-88-86755-02-3

 

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