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Scuola di prevenzione José Bleger Rimini

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Scuola di prevenzione, psicanalisi operativa e concezione operativa di gruppo.
Aggiornato: 6 giorni 17 ore fa

Buongiorno dottore, come sto questa mattina?

Dom, 22/09/2024 - 16:40

E’ recentemente stato pubblicato il nuovo libro di Stefano Bonifazi dal titolo Buongiorno dottore, come sto questa mattina?, nel quale l’autore riflette sull’esperienza professionale svolta all’interno del Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura di Jesi (AN).

(cliccare sull’immagine per aprire la copertina del libro)

 

Pubblichiamo qui la prefazione al testo scritta da Leonardo Montecchi.

 

Il Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura e l’arte del possibile (Esperienze nel Diagnosi e Cura di Jesi)

 

Questo lavoro di Stefano Bonifazi condensa anni di pratica clinica nel Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura. Si tratta di una riflessione che cerca di estrarre i concetti che hanno guidato l’esperienza e quelli che ne sono derivati.

In particolare, Bonifazi si riferisce ad un acrostico, ECRO, che sta a significare Esquema, Conceptual, Referencial y Operativo, cioè Schema Concettuale Referenziale e Operativo. Si tratta del nucleo della Concezione Operativa di Gruppo che Enrique Pichon-Riviére  ha inaugurato a partire dalla sua esperienza nell’Ospedale Psichiatrico di Buenos Aires di cui era direttore.

Infatti, a metà degli anni quaranta, Pichon-Riviére si trovò in una situazione di emergenza: gli infermieri erano entrati in sciopero ed era necessario gestire tutto l’ospedale.

Dice Pichon:

“Alrededor de 1945, circunstancias particulares crearon la necesidad de transformar a los pacientes de mi servicio en operadores, por haber quedado cesante todo el personal de enfermería. Es decir que ante una situación concreta hubo que cubrir en pocos días el hecho de no tener enfermeros, el carecer de toda ayuda institucional.”

“All’incirca nel 1945, circostanze particolari crearono la necessità di trasformare i pazienti del mio servizio in operatori, perchè tutto il personale della infermeria aveva abbandonato il lavoro. Cioè, di fronte ad una situazione concreta si è dovuto risolvere in pochi giorni il fatto che non ci fossero infermieri e la mancanza di qualsiasi aiuto istituzionale.”

(“Historia de la técnica de los grupos operativos”, in Enrique Pichon-Riviere, Obra Completa, Buenos Aires, Paidós, 2023)

Da questa necessità nasce l’idea di organizzare dei gruppi, che poi vennero chiamati operativi, attorno al compito di gestire, in questo caso autogestire, l’ospedale. In quella esperienza Pichon-Riviére si accorse di una serie di ostacoli che definì “resistenze al cambiamento”.

Le resistenze istituzionali sono sempre presenti in ogni tentativo di cambiamento. Nell’esperienza italiana, la chiusura nei manicomi sancita dalla legge 180 si è accompagnata a forti resistenze sia nella mentalità delle comunità attraversate dagli stereotipi sulla follia sanciti dalla precedente legge del 1905, che favoriva l’identificazione fra folle e pericoloso a sé e agli altri, con la conseguente necessità di reclusione nel “manicomio” dove il folle doveva essere reso incapace di nuocere a sé e agli altri. Ma la resistenza non era data solo da questa paura, alimentata da certi media ma anche da resistenze istituzionali. Infatti, gli ospedali psichiatrici si erano istituzionalizzati e cioè avevano subito un’eterogenesi dei fini. Il loro compito non era più la cura dei malati ma l’automantenimento dell’istituzione stessa: posti di lavoro, commmesse di ditte che fornivano biancheria, alimentari ecc., ossia tutte le necessità per le “città dei matti”.

Il collegamento fra l’esperienza ed il pensiero di Pichon-Riviére e la trasformazione istituzionale attuata da Franco Basaglia è costituito da Armando Bauleo. Bauleo fu allievo e collaboratore di Pichon-Riviére, poi fu costretto all’esilio nel 1975. Conosceva e stimava Franco Basaglia ed in Italia cominciò ad intervenire sia nella formazione che nella supervisione istituzionale dei nuovi servizi di salute mentale che erano nati dalla riforma del 1978.

Così cominciò a circolare il concetto di ECRO, che caratterizza anche l’esperienza di Stefano Bonifazi che si richiama direttamente a Bauleo di cui è stato allievo.

Lo schema di riferimento che troverete in queste pagine riguarda l’idea di fondo che la malattia non si identifica con il malato e che il paziente, con le sue problematiche è l’emergente di un gruppo famigliare. Questo schema, come si può notare, non sostiene che i sintomi siano da riferirsi esclusivamente ad una qualche alterazione della biochimica o immunologia ma che, per comprenderli, bisogna fare riferimento anche ai vincoli ed al tipo di comunicazione del paziente e del suo gruppo famigliare. Inoltre, è necessario considerare l’ambito istituzionale, che spesso complica ulteriormente il quadro, e quello comunitario, con la carica di stereotipi e con la conseguente produzione di uno stigma che marchia il paziente e il suo gruppo famigliare.

Lo schema di riferimento che viene applicato soprattutto negli SPDC italiani e non, nonostante la legge 180 e tutte le esperienze e le teorie che lo contraddicono, è uno schema che sovrappone la sofferenza mentale a quello di una malattia o sindrome della clinica biologica. In questo schema il riferimento, non potendo riferirsi all’anatomia patologica, si rivolge alla variazione della neurotrasmissione sinaptica, quasi sempre dedotta in base a sillogismi del tipo:

Premessa maggiore: In tutte le depressioni notiamo un calo di serotonina.

Premessa minore: Tizio è depresso

Conclusione: Tizio ha poca serotonina.

Questo sillogismo porta a somministrare un farmaco inibitore della ricaptazione della serotonina ed a pensare che il sintomo sia da riferirsi ad un deficit biologico.

Questi sillogismi sono divenuti algoritmi e caratterizzano la clinica neo-krepeliniana dominante nella psichiatria contemporanea.

Per questo schema, la psicoterapia, i gruppi terapeutici, le terapie famigliari, gli interventi educativi e sociali e tutte le forme di terapia sociale e comunitaria sono, se va bene, coadiuvanti della via regia della cura che è rappresentata dal trattamento farmacologico. Non è possibile nessun riferimento al vincolo pazienti/equipe curante se non come organizzazione del flusso lavorativo scomposto in protocolli per ottenere un risultato standard, azzerando le differenze soggettive, anzi oggettivizzando tutto, per così dire, in modo che si possa intravvedere la sostituzione dell’equipe curante con forme di intelligenza artificiale. Ciò  farebbe  scomparire gli effetti emotivi (quelli che, da almeno cento anni, si chiamano transfert e controtransfert) visti come bias dannosi alla corretta terapia.

Come si intuisce, lo Schema di Riferimento del lavoro di Stefano Bonifazi non è questo. Naturalmente, non si nega l’aspetto biologico e la cura farmacologica, ma la si riporta alla funzione che deve avere in un quadro più vasto. Che è rappresentato da un’istituzione caratterizzata dal vincolo fra l’equipe curante, i gruppi terapeutici dei pazienti e il gruppo multifamigliare.

In particolare, mi voglio soffermare sull’esperienza del gruppo terapeutico che è stata oggetto di analisi e discussione in un gruppo di ricerca della scuola “Josè Bleger”.

Per quanto riguarda il gruppo terapeutico, la ricerca è partita da quel “fatto sorprendente” che Massimo Bonfantini, nei nostri seminari sulla metodologia della ricerca, riferendosi a Charles S. Peirce, ci aveva indicato come il necessario punto di partenza.

La ricerca riguardava gli effetti di un gruppo operativo in un’istituzione totale come un Servizio Psichiatrico Di Diagnosi e Cura (SPDC).

Dopo una ricognizione negli SPDC delle Marche e della Romagna, ci siamo resi conto che erano pochi i servizi in cui si teneva strutturalmente una qualche forma di gruppo e, là dove si teneva, era considerato, come si è detto, come un coadiuvante della terapia farmacologica.

Ma l’esperienza di Bonifazi nel Servizio di Jesi ci ha sorpreso in primo luogo perchè aveva notato degli atteggiamenti tipici. La sorpresa è stata che nonostante la prossimità, le interazioni fra i degenti erano scarse. Così Bonifazi descrive queste forme stereotipate:

– Le abbiamo chiamate scherzosamente: le solitarie pecore del presepe, il gioco ai quattro cantoni, i pesci nell’acquario, il gioco del silenzio.

– Il fenomeno delle “pecore solitarie” perché così è la loro disposizione nei presepi dove, spesso, ognuna sta per conto suo (nei pascoli formano greggi); allo stesso modo, i pazienti se ne andavano sempre da soli quando uscivano, uno ad uno, per recarsi al bar o a prendere una boccata d’aria fuori.

– Il gioco ai “quattro cantoni” descriveva la prossemica in sala fumo, uno per angolo, come a stabilire la maggior distanza possibile tra loro, quando di posacenere da pavimento ve ne era uno soltanto.

– I “pesci nell’acquario” perché, nei momenti inattivi delle attività pomeridiane, i degenti passavano il tempo guardando a lungo gli infermieri nella guardiola, come fossero pesci da ammirare, senza comunicare né interagire, senza parlare tra loro; per non confrontarsi né conoscersi, occupavano il tempo ammirando i pesci che si lasciavano osservare indifferenti, infastiditi quando qualcuno bussava sul vetro con una scusa o un’altra. Questo è accaduto per anni e tende a ricorrere oggi, dopo la sospensione delle attività gruppali che ha prodotto l’implosione della socialità tra i ricoverati.

Queste stereotipie erano colte come forme del gruppo dei ricoverati, non come un atteggiamento del singolo. Se non si ha uno schema di riferimento gruppale, non si vedono: si vede il singolo che sta per conto suo e non “le pecore del presepe”; si vede un solitario in un angolo, non “Il gioco dei quattro cantoni”; e, naturalmente, il singolo che guarda il pesce, non “i pesci nell’acquario”, che già denota l’aspetto che assume il transfert istituzionale in un SPDC.

L’introduzione del gruppo terapeutico sotto varie forme, compresa la realizzazione di un gruppo multifamigliare con i degenti e i loro famigliari, supervisionato dal professor Alfredo Canevaro, ha prodotto la rottura di questi stereotipi, in primo luogo ha favorito e legittimato una comunicazione orizzontale fra i degenti che prima del gruppo si rivolgevano molto agli operatori con vario tipo di richieste e molto poco fra loro. Il gruppo, anche se praticato per pochi incontri, dato che la degenza media è breve, meno di 15 giorni, favorisce l’identificazione reciproca e diminuisce l’ansia; inoltre, ha reso possibile anche la realizzazione di “gruppi autogestiti” che, come sempre, valorizzano la partecipazione soggettiva al cambiamento. Complessivamente, il compito che è emerso come fondante questo gruppo nel SPDC riguarda un primo terntativo di elaborare il motivo della crisi, il cercare un senso al ricovero fra i degenti e con i loro famigliari. Insomma, come dice bene in questo lavoro Bonifazi, un tentativo di passare dal processo primario ad un processo secondario, un provare a dare un significato a ciò che è successo e a farlo uscire dalla dimensione di evacuazione emozionale o di agiti senza un apparente senso.

Insomm,a si tratterebbe di considerare il SPDC come un dispositivo costituito da vari setting che possa essere percepito come un contenitore, un apparato formato da vincoli multipli fra degenti, operatori, famigliari e mondo esterno che riduca l’angoscia, il senso di persecuzione, la paura dell’abbandono e della dissoluzione nel nulla, e permetta di intravedere una via di uscita da questo labirinto.

Bonifazi ci mostra tutta la difficoltà e le resistenze nel condurre questa importante ricerca-azione che non è ancora conclusa e di cui questo testo non è solo una testimonianza, ma un manuale per la disseminazione in altri luoghi ed in altri tempi di esperienze simili. Le resistenze riguardano i ruoli, sulla differenza fra coordinatore e conduttore, differenza molto discussa nel gruppo di ricerca della scuola “José Bleger”. Il mio punto di vista è che all’interno di un’istituzione, e soprattutto un’istituzione totale come il SPDC, si è sempre implicati con l’istituzione stessa; si può cercare di ridurre l’implicazione, ma disimplicarsi totalmente significa abbandonare l’istituzione stessa e negare il proprio ruolo. Io sono convinto che si debba avviare una dinamica fra un aspetto istituito, le leggi, i regolamenti, le consuetudini, la mentalità ed il senso comune, comprese le routine quotidiane, e un aspetto istituente: l’esigenza di cambiamento, diversi schemi di riferimento, l’importanza dei vincoli e del mondo fuori dell’istituito, la capacità  di lasciarsi attraversare da problematiche non strettamente pertinenti il campo di lavoro.

L’istituzione è il risultato della dinamica fra questi aspetti, è un processo in continuo divenire. Solo quando l’istituito pone se stesso come l’ISTITUZIONE e schiaccia ogni pensiero e pratica differente da quella ordinaria marchiandola come antiscientifica, non basata sull’evidenza, sentimentale o retrograda, e sclerotizza le proprie pratiche trasformandole in procedure tecniche, allora diventa evidente come il processo istituzionale si sia fermato, e il compito sia mutato dalla cura dei pazienti al mantenimento dell’istituito stesso. In questo caso, non c’è più cura, perchè non c’è più l’altro, ma l’oggetto di varie procedure che mirano tutte all’automantenimento dell’istituito. Siamo, in questo caso, nell’istituzionalizzazione che bisogna distruggere se si vuole ripristinare il processo istituzionale che è stato soppresso.

Questo è quello che è stato fatto in in Italia con la distruzione dei manicomi e la ripresa della dinamica istituzionale nel campo della salute mentale.

Tuttavia, l’istituzionalizzazione della psichiatria è sempre all’orizzonte, è dunque necessario tenere aperta la dinamica istituzionale anche in questo campo tenendo come orizzonte la salute mentale globale.

Il lavoro di Stefano Bonifazi, che sono contento ed onorato di presentare, va in questa direzione. Che possa servire per molteplici esperienze di ricerca e azione.

Leonardo Montecchi

Categorie: siti che curo

Il Limbo dell’Intercettazione Precoce

Lun, 16/05/2022 - 21:52

 

di Marella Tarini

Le riflessioni seguenti prendono corpo in seguito alla esecuzione di un percorso di supervisione effettuato afavore di un gruppo di psicoterapeuti appartenenti ad un’organizzazione di Privato Sociale, incaricato di svolgere, per conto di un Ambito Territoriale Sociale, azioni di intercettazione precoce del disagio psico-relazionale, specialmente, ma non esclusivamente, a favore della popolazione giovanile.
La creazione di strutture mobili operative alle quali è attribuito il compito di captare i bisogni emergenti nella comunità di un territorio è esperienza abbastanza recente nel panorama delle risorse sanitarie messe in campo per tentare di dare risposte alle complessità che si manifestano e che possono essere interpretate come portatrici di potenziali disfunzioni individuali e collettive.

Tali complessità spesso sono caratterizzate da situazioni di alterazione degli equilibri pregressi presenti nelle relazioni familiari o istituzionali, come per esempio nell’ambito della Scuola, che non si strutturano immediatamente come manifestazioni patologiche già configurate in complessi sintomatologici chiaramente identificabili, ma più spesso si presentano con aspetti sfumati e indefiniti, che ingenerano comunque preoccupazione o difficoltà gestionali a carico degli attori coinvolti.

L’apparato sanitario istituzionale, in maniera particolare quello pubblico, si è mostrato inadatto a farsi carico degli interventi possibili e plausibili a questo riguardo. Questa incapacità o difficoltà si è declinata ed è risultata evidente in special modo negli ultimi anni, per una serie di motivi. Uno di questi motivi è la abdicazione del settore pubblico della Sanità alle politiche attive di promozione di salute sul territorio, se si esclude, in parte, l’ambito di intervento del settore delle dipendenze patologiche, che è incaricato,
con finanziamenti appositamente dedicati, della attuazione di percorsi e progetti preventivi comunitari con il mandato esplicito di ridurre l’ipotetico impatto determinato dalla estensione generalizzata dell’uso di sostanze esogene o di comportamenti definibili come “dipendenti”, come per esempio il gioco d’azzardo patologico o la dipendenza digitale.

Un altro motivo, complementare al precedente, è la obiettiva moltiplicazione a livello comunitario di situazioni di sofferenza relazionale, caratterizzate da una disfunzione ed un impoverimento della comunicazione intergenerazionale che ricade sul funzionamento di tutte le istituzioni sociali e che si aggancia al processo di profonda crisi nella definizione dei ruoli presenti nelle interazioni. A questa massiccia moltiplicazione di aspetti potenzialmente generatori di disagio, che potrebbe essere colto ed affrontato positivamente per aprire un processo indirizzato ad una produttiva elaborazione evolutiva, le istituzioni sanitarie hanno risposto con tutta la loro inadeguatezza quantitativa, dato l’impoverimento progressivo di risorse determinato dalle scelte politiche e finanziarie che hanno prodotto costanti tagli lineari; ma anche con una inadeguatezza qualitativa, in parte conseguente alla riduzione di investimenti appena citata ed in parte specifica in sé: la enfasi messa in campo a sostenere approcci di carattere fortemente riduzionista, meccanicista e positivista ha fatto scemare la capacità di accogliere le complessità e le forme “indefinite”, che invece si manifestano sempre più frequentemente, con il risultato che quando queste si presentino non sia possibile identificare il Servizio o la Struttura che possa iniziare a farsene carico.

Un esempio eclatante è quello delle problematiche che insorgono in età adolescenziale ed in special modo minorile: se la disfunzione che si comincia ad evidenziare ha delle caratteristiche che potrebbero essere potenzialmente di competenza psichiatrica, almeno per l’espletamento di una fase conoscitiva preliminare, il problema non è accolto dai Servizi preposti, perché normativamente e burocraticamente essi non sarebbero destinati ad accogliere soggetti che non abbiano compiuto la maggiore età; allora viene suggerito l’invio ai Servizi di Pediatria, che però non ritengono di essere competenti a valutare il tipo di tematiche di cui si sta parlando, perché le si ritiene aderenti ad un campo specialistico peculiare che non attiene al loro mandato; non va meglio se si ricorre all’ intervento dei Consultori, che, ridotti all’osso per ciò che riguarda l’attribuzione di personale e di operatori, dichiarano di rispondere, e tra l’altro con estrema obiettiva difficoltà, solo alle situazioni caratterizzate da implicazioni giudiziali e quindi inoltrate dal Tribunale.

E siamo solo al momento della apertura di un eventuale processo di valutazione diagnostica…
Risultato: ciò che sta emergendo non trova il luogo dove poter essere depositato, entra in un’esperienza di rimbalzo da un campo operativo all’altro, viene lasciato di fatto a se stesso in una dimensione di moltiplicazione della ansia confusionale e la convulsa ed impropria risposta istituzionale, anziché contenere il processo, contribuisce ad acuire il disagio e la paura, favorendo di fatto un incremento degli aspetti sofferenti che sono in campo e lo scivolamento verso sintomi più organizzati e verso la costruzione di patologie.

Dobbiamo aggiungere gli aspetti generati dalle vicende degli ultimi due anni, caratterizzati da restrizioni relazionali e obblighi di distanziamento che hanno implicato anche i Servizi, richiamati ad assolvere solo le funzioni considerate imprescindibili e ai quali è stato impedito, per lo meno per larga parte del 2020, di accogliere di persona presso le Strutture gli utenti che non presentassero caratteristiche di urgenza: quindi, la disponibilità degli assetti sanitari si è mostrata in forma ancora più coartata, mentre le situazioni di disagio comunitario si sono acuite, anche per via della riduzione drastica della fruibilità di articolati spazi fisici di condivisione e per via del confinamento prolungato all’interno delle abitazioni: le relazioni sono state limitate per lungo tempo all’ambito strettamente familiare, con la eliminazione delle esperienze spaziali alternative che potessero permettere momenti di espressione della propria autonomia: pensiamo in questo senso alle scuole a lungo chiuse e alle lezioni svolte in didattica a distanza e ai periodi di quarantena ed isolamento che molti nuclei familiari hanno dovuto osservare anche ripetutamente, per via del contagio di alcuni dei membri, verificatosi anche a rotazione.

In questo contesto pre e post emergenza epidemica, caratterizzato dalla mancata o impossibile o disorganizzata risposta della sanità pubblica e dalla concomitante esacerbazione dei quadri di sofferenza della popolazione, si sono moltiplicate e radicate le esperienze di costruzione di “Sportelli” di Ascolto” in spazi extraistituzionali, presso i quali potesse essere portato e rappresentato il disturbo o il disagio, spesso complesso e sfumato, poliedrico e sfaccettato, difficilmente definibile a priori, chiamando in campo, per la esecuzione delle attività di cosiddetta intercettazione precoce, Strutture del Privato Sociale incaricate all’uopo da istituzioni Pubbliche che potevano contare su finanziamenti dedicati. Tali sportelli si sono configurati in forma telematica durante il periodo in cui l’interazione in presenza era impedita e poi di nuovo con una forma che consentisse l’incontro diretto. Tra le forme di esecuzione di questa tipologia di attività dobbiamo annoverare anche la funzione espletata presso gli Istituti Scolastici, particolarmente, ma non solo, all’interno dei Centri di Informazione e Consulenza.

E’ in questo quadro che, nel 2021, il gruppo di psicoterapeuti descritto in premessa e dedicato alla funzione di “intercettazione precoce del disagio” per conto di un Ambito Territoriale Sociale, ha chiesto di avviare un percorso di supervisione. La richiesta era motivata dal fatto che il gruppo si sentiva dichiaratamente lui stesso “a disagio”, incapace di trovare una serena collocazione rispetto al mandato che aveva ricevuto, stretto tra le imprevedibili richieste di intervento che gli giungevano, l’indefinitezza concreta della estensione e della qualità delle azioni che gli erano state assegnate e la difficoltà a raccordarsi con i Servizi deputati alla eventuale successiva presa in carico delle problematiche emergenti.

Come già detto, il gruppo faceva parte di una associazione di Privato Sociale, e l’incarico di eseguire le azioni di intercettazione precoce del disagio emergente sul territorio di competenza, assegnato dall’Ambito tramite l’espletamento di una gara d’appalto, è stato reso possibile per via dell’investimento di un finanziamento pubblico finalizzato, composto da vari canali di emissione. Nei termini della gara e del contratto conseguente era definito anche il monte ore assegnato.

L’équipe era costituita inizialmente da tre partecipanti, tutte di sesso femminile. Durante lo svolgimento del processo, che è durato dal marzo 2021 al marzo 2022, una operatrice ha sospeso la sua attività per qualche mese a causa di alcune complicazioni familiari ed è stata sostituita da una collega. Al rientro in attività della operatrice che aveva dovuto effettuare il periodo di sospensione, anche la collega che l’aveva sostituita è rimasta a lavorare all’interno della équipe, che quindi ha terminato il percorso composta da quattro partecipanti.

Il mandato assegnato riguardava la effettuazione di un servizio di prima accoglienza di situazioni di disfunzione che potevano essere portate o dai singoli direttamente interessati presso la sede della équipe negli orari a disposizione del pubblico, o essere segnalate da attori istituzionali, prevalentemente appartenenti agli Istituti scolastici: in questo caso la richiesta di intervento giungeva da insegnanti o direttori di Istituto, che ritenevano di rilevare in alcuni studenti segnali di deviazione da presunte adeguatezze comportamentali, e riguardava l’esecuzione di azioni a questi rivolte all’interno delle istituzioni medesime, o durante gli orari di funzionamento dei CIC con modalità di incontro individuale o all’interno delle classi, con interventi di incontro collettivo.

La supervisione è stata effettuata utilizzando i criteri della Concezione Operativa di Gruppo, ed è stata strutturata dedicando al processo gruppale un’ora e mezza di ogni incontro, con un lavoro incentrato sulla elaborazione del compito manifesto che l’équipe è stata sollecitata a definire fin dall’inizio, e la successiva ora alla discussione di un concreto caso clinico.
Il compito manifesto che l’équipe ha individuato e rispetto al quale denunciava alcune difficoltà ad aderire, era quello del mandato esplicito che le era stato assegnato, e cioè: ”Intercettare precocemente bisogni emergenti per definire invii idonei.”

Nella prima parte del lavoro con il gruppo – équipe, è emersa una notevole quantità di ansia confusionale che si esprimeva concretamente nella difficoltà ad agire con pertinenza. Non era chiaro, per esempio, quali fossero e se ci fossero i criteri per la definizione di congruità delle richieste di intervento che pervenivano; non era chiaro nemmeno quali fossero e se ci fossero i criteri per definire la congruità della tipologia di risposte da dare. Poco chiaro anche in che tempi l’équipe riteneva giusto dare risposte e se dovesse o meno rispondere con modalità di urgenza, così come veniva a volte richiesto dalle istituzioni che inoltravano le domande di intervento.

L’ansia confusionale era anche alimentata dal fattore obiettivo costituito dal fatto che era molto difficile organizzare gli invii in sicurezza, in quanto non erano state elaborate vie condivise ben definite con i Servizi che sarebbero stati deputati alla eventuale presa in carico delle situazioni che venivano considerate meritevoli di intervento clinico.

Un altro fattore che mostrava l’incertezza rispetto alla pertinenza al compito era rappresentato dal non aver stabilito fino a che punto dovesse estendersi l’azione professionale della équipe a fronte delle situazioni che si presentavano e fino a che punto fosse opportuno consentire la strutturazione del vincolo relazionale con gli utenti, data la prospettiva del loro invio, più o meno prossimo, ad altre Strutture.

Questi elementi di incertezza e di confusione erano interni al gruppo e collusivamente alimentati dall’atteggiamento dei richiedenti e delle istituzioni committenti, che implicitamente si aspettavano da questa équipe che vicariasse i ritardi o i rimandi o l’assenza operativa dei Servizi preposti alla eventuale presa in carico, fattori determinati dagli elementi di disorganizzazione e di disfunzione a carico della Sanità Pubblica che sono stati descritti precedentemente.
Il clima era ansioso e sfiduciato.
Il gruppo si attendeva comunque di conseguire migliori capacità di comunicazione interna ed esterna ed era disposto ad elaborare una miglior organizzazione propria per chiarificare e consolidare i livelli di cooperazione. Si notava comunque un buon livello di appartenenza di ciascun membro alla esperienza della équipe e una manifesta disposizione all’apprendimento.

Durante il processo sono emerse anche paure dell’attacco esterno: la fantasia circolante era che potenzialmente i richiedenti avrebbero potuto esprimere parere negativo sull’operato del gruppo se questo non avesse soddisfatto tutte le modalità con le quali venivano articolate le domande di intervento, anche se queste in diverse occasioni erano apparse francamente per qualche verso incongrue, e che la valutazione negativa sarebbe potenzialmente stata poi assunta anche dai committenti e dai livelli gerarchicamente superiori della cooperativa di appartenenza. Questo tipo di paura faceva sentire il rischio che gli incarichi non sarebbero stati rinnovati. Questa specifica ansia dimostrava come fosse mancato un livello di chiara comunicazione preliminare condivisa rispetto a ciò che l’esterno potesse o dovesse aspettarsi dal lavoro dei professionisti, mancanza che era stata alimentata da un’omissione collusiva, partecipata anche dal gruppo di operatori.

Queste configurazioni portavano le operatrici, come loro stesse facevano consapevolmente emergere in un dato momento, a sentire che non potevano e non sapevano dire di no quando sarebbe stato opportuno, non sapevano e non potevano definire con maggior autorevolezza il confine del proprio operato ed il valore di questo quando segnato da un adeguato limite esecutivo , valore che percepivano costantemente caratterizzato da una mancanza di riconoscimento da parte dei colleghi dei servizi pubblici di riferimento, da parte degli stessi committenti e da parte dei destinatari istituzionali dell’intervento, dai quali si sentivano trattate “ ad uso e consumo”.

In qualche modo il lavoro di questa équipe era quindi caratterizzato da alcune stereotipie, che la facevano permanere nella confusività e che erano perciò sentite come disfunzionali, ma che era difficile risolvere. Gli utenti “intercettati”rimanevano a contatto a lungo con le operatrici, come in attesa prolungata in un limbo, senza che potesse essere fluidamente e serenamente attivata una via di conduzione ai potenziali Servizi di arrivo.

Continuando lo svolgimento del lavoro, è emerso dal latente che il problema centrale del gruppo era la difficoltà ad abbandonare una fantasia sottostante e condivisa silenziosamente, secondo la quale la cooperazione di queste professioniste avrebbe potuto configurare la creazione di una sorta di Servizio Specialistico per strutturare azioni di alto valore professionale a favore delle fasce fragili della popolazione, in special modo quella giovanile, portatrici di aspetti complessi affascinanti sul piano clinico, azioni che avrebbero potuto vicariare l’assenza e la latitanza delle Strutture che sarebbero preposte ufficialmente alla presa in carico, e che avrebbero permesso di scavalcare tutte le difficoltà legate alla partecipazione al complesso lavoro di tessitura ed organizzazione di una Rete composta da tutti gli attori deputati agli interventi.

Ancora, è emersa la fantasia che una presenza continuativa, permanente e professionalizzata presso le Scuole, quale quella che le operatrici erano indubbiamente in grado di esprimere, avrebbe potuto contenere e migliorare le disfunzioni evidenti in quelle Istituzioni didattico-educative, presso le quali a volte si consumano inconsapevoli processi di organizzazione di quadri patologici, più che di sostegno pedagogico– evolutivo.

La permanenza di questa fantasia faceva agire l’équipe in un modo che impediva a se stessa per prima il riconoscimento e la definizione dei limiti del mandato assegnato, con la conseguente tendenza a rispondere a tutte le richieste che pervenivano per evitare ogni insoddisfazione o frustrazione di terzi, a far permanere gli utenti nel vincolo che si strutturava negli incontri, a dilazionare le decisioni e le operazioni relative agli invii ai Servizi preposti, considerati a priori inadeguati e inadempienti, e a pensare potenzialmente risolutivo l’intervento individuale presso le Istituzioni scolastiche.

Quando questa posizione è emersa dal latente è finalmente stato possibile cominciare ad elaborarne il ridimensionamento, certamente con resistenza e con sofferenza, per via dell’inevitabile passaggio verso un sentimento depressivo per la perdita di questa proiezione ideale. A questo punto, le aspirazioni, basate sulla autopercezione di un’obiettiva e fondata preparazione, esperienza e capacità professionale, hanno avuto accesso ad un percorso di adeguamento al campo reale e ai confini determinati dal compito manifesto ed assegnato: il gruppo ha potuto concepire come sia necessario un alto livello di preparazione professionale per svolgere un compito di accoglienza primaria così complesso e delicato; inoltre ha potuto obiettivamente valutare quanta capacità espressa sul campo occorra per essere protagonisti propositivi di un’azione nel contesto, quale quella che organizza la compartecipazione al processo della messa in Rete di Strutture e Servizi che inevitabilmente devono collaborare; ha poi potuto riconoscere a se stesso il possesso di queste qualità, ancorché calibrate ora all’interno dei limiti del compito manifesto e del mandato assegnato.

La rinuncia alla fantasia, la distruzione dell’oggetto ideale, è costata un passaggio per una fase depressiva, ma ha permesso la “ricreazione dell’oggetto per la predisposizione di un progetto”( cit. da “ Il Processo gruppale”, E. Pichon Rivière).
Infatti, da quel momento, il gruppo ha cominciato a ridefinirsi nei suoi rapporti esterni ed interni.

Rispetto all’esterno:
1) ha deciso di aprire un processo di contrattazione con la committenza e con le gerarchie della cooperativa affinché la quantità di lavoro da svolgere possa essere chiaramente calibrata rispetto alle ore assegnate;
2) ha promosso incontri con la coordinazione dell’Ambito per l’esplicitazione delle complessità rilevate e per sollecitare la costanza dei lavori di un già esistente Tavolo Tecnico Territoriale, che è stato costituito al fine di mettere in rete i Servizi pubblici e di privato sociale presenti sul territorio per ottimizzare la collaborazione e il chiarimento sugli specifici mandati istituzionali, in termini di attribuzione di competenze diagnostiche e terapeutiche;
3) ha partecipato attivamente e propositivamente ai lavori del Tavolo medesimo, potendo esplicitare e chiarire quale è il mandato assegnato al gruppo e quali sono le sue conseguenti necessità di raccordo;
4) ha deciso di presentarsi agli Istituti scolastici per la progettazione della interazione relativa al prossimo anno scolastico con una propria proposta progettuale, che prevede il superamento del semplice sistema delle azioni garantite a chiamata e dà piuttosto l’indicazione di istituire percorsi di supporto cadenzato al gruppo dei docenti: questa idea progettuale è scaturita dalla considerazione che il disagio che può emergere all’interno di una scuola a carico di un individuo e che può essere rilevato da qualche membro del corpo docente, non è mai definitiva e sola espressione di una qualche inadeguatezza del soggetto designato, ma esprime tutta la complessità della Istituzione didattico – educativa, include l’implicazione di chi rileva e segnala il disagio medesimo, e disvela la necessità di elaborare presso il corpo docente e gli uffici direttivi l’importanza della integrazione delle funzioni e delle abilità pedagogiche con quelle didattiche.

Rispetto alle dinamiche interne:
1) è emersa la idea di costruire una scheda di rilevazione degli interventi effettuati, con particolare riguardo a quelli individuali, con indicazione dell’esito di ogni singolo procedimento e con l’evidenziazione dei termini di esecuzione dell’invio finale.

2) il gruppo ha valutato l’opportunità di definire il numero massimo di incontri che possono essere destinati ad ogni utente accolto, al fine di poter avere una definizione diagnostica preliminare che permetta l’eventuale invio congruo al servizio istituzionalmente dedicato e con lo scopo di scongiurare la permanenza ad libitum presso l’équipe di situazioni che presentano evidenti risvolti clinici. E’ difatti apparsa impropria ed inopportuna la creazione di un vincolo troppo strutturato tra i singoli utenti che si avvalgono dell’intervento di intercettazione ed i componenti dell’équipe, data la necessità riconosciuta di ottemperare in tempi brevi alla parte di compito che prevede invii idonei ai Servizi che saranno deputati alla presa in carico.

3) Il gruppo ha inoltre valutato l’opportunità di svolgere alcune azioni di intercettazione precoce, azione che prevede la configurazione di una plausibile ipotesi diagnostica, in collaborazione fra più figure, specialmente quando si consideri utile e/o necessario coinvolgere nel processo i membri della famiglia di appartenenza, in un’ottica di cooperazione e di collaborazione.

4) è emerso il desiderio di approfondire le tematiche inerenti i processi di Analisi Istituzionale, per garantire un maggior apprendimento in una materia che ha suscitato curiosità , soprattutto in relazione all’adeguamento degli interventi da progettare a favore delle istituzioni scolastiche.

Il processo ha quindi consentito di raggiungere migliori livelli di pertinenza, di consolidare l’appartenenza dei membri al sistema della équipe, di riconoscere e di mettere in campo la capacità di collaborazione e di cooperazione. Il clima dell’ultimo incontro era frizzante e propositivo, carico di energia progettuale.
Grazie al superamento delle stereotipie generate dal materiale latente che non era stato elaborato, la comunicazione ha vissuto un processo di chiarificazione e di liberazione. I membri possono dire l’un l’altro se e come se la sentono di intervenire in un determinato contesto, se ritengono di avere o meno bisogno di sostegno da parte dei colleghi e hanno deciso di definire un tempo cadenzato per effettuare periodiche riunioni di équipe al fine di condividere aspetti operativi relativi ad aspetti clinici ed organizzativi.

Ma il chiarimento interno rispetto al compito manifesto e la conseguente maggior sicurezza acquisita ha anche permesso al gruppo di comunicare con presenza, precisione, autorevolezza, adeguatezza e chiarezza le proprie impressioni, valutazioni, proposte e necessità ai committenti, ai livelli gerarchici superiori della cooperativa, al Tavolo Tecnico di Rete Territoriale che vede riuniti e coinvolti gli attori istituzionali demandati a dare risposte diagnostiche e cliniche alle complessità emergenti, dimostrando una più libera e creativa capacità di adattamento attivo alla realtà.

Concludo sottolineando la delicatezza e la complessità della operatività degli Sportelli di Ascolto: sono luoghi dove potenzialmente può essere depositata qualsiasi emergenza situazionale complessa, all’interno dei quali deve essere espletata una dimensione di accoglienza con modalità attentamente calibrate, dove non possono essere emesse risposte subitanee, perché si prevede strutturalmente il coinvolgimento successivo di altri livelli istituzionali di intervento; dove occorre lavorare di fino con le ”insidie” del vincolo con l’utenza che si presenta, dato che il contatto dovrà essere carico di senso ma contemporaneamente a rapido rilascio, dove occorre aver affinato capacità intuitive e competenze professionali significative, adatte a percepire segnali anche sottili che possano instradare i necessari interventi futuri, e dove occorre aver competenza nella costruzione di rapporti interistituzionali fluidi e funzionanti, vista la necessaria interazione con altre Strutture deputate poi alle prese in carico adeguate al problema che si presenta.

Inoltre, come abbiamo visto, occorre avere sufficiente consapevolezza del preciso mandato per non cadere nella trappola collusiva che si genera nel momento in cui le disfunzioni degli altri sistemi tendono a parcheggiare, consegnare o a rimandare lì la risoluzione di problemi complessi.
Credo che sia uno di quei casi in cui bisogna “saper fare” molto, in cui occorrono cioè una particolare competenza ed una consolidata abilità professionale da mettere al servizio del riconoscimento del necessario limite operativo, per di di più nella relazione con situazioni sfumate e complesse: a volte questa operazione risulta più difficile da espletare di quanto non sia l’esecuzione di compiti apparentemente più complicati, che si svolgono all’interno di schemi operativi più definiti e caratterizzati da una maggior estensione temporale.
E presumibilmente, le vicende degli Sportelli di Ascolto saranno situazioni sempre più rappresentate nel panorama futuro degli interventi di Comunità.

 

Bibliografia:
“ Il processo Gruppale”, E. Pichon Rivière, ed. Libreria Editrice Lauretana
“ Psicoigiene e Psicologia Istituzionale”, J. Bleger, ed La Meridiana
“Prevenzione, Psicoanalisi, Salute Mentale”, A. Bauleo, M. De Brasi ed aa., a cura di F. Benedetti e R. Folin

 

Senigallia, 10 maggio 2022

 

Categorie: siti che curo

La procreatività come paradigma per una proposta politica*

Mar, 12/04/2022 - 09:33

di Maria Teresa Fenoglio

Premessa
Le riflessioni che seguono sono il frutto di molti anni di ricerca sulla femminilità, il parto e la sessualità. Il mio impegno nel movimento femminista a partire dai primi anni ’70 ha seguito una parabola che mi ha condotto dalla militanza a sfondo ideologico alla psicoanalisi (della donna in particolare) contestualmente agli studi di psicosociologia e delle difese istituzionali, tra i quali quello condotto in alcuni reparti di maternità torinesi.
Mi rendo tuttavia conto di quanto, a fronte dei cambiamenti sociali e culturali intercorsi, che ci hanno portato al superamento della sessualità “binaria”, e alle nuove realtà affettive e di riproduzione (coppie omosessuali), il discorso che presento possa apparire molto “tradizionale”.
Quindi lo propongo con qualche riserva. Ciononostante continuo a credere che il pensiero
psicoanalitico femminile, che analizza la femminilità e la virilità in noi, mantenga il suo carattere innovativo e che per questo non solo non sia “superato”, ma permanga come risorsa importante per formulare progetti di rinnovamento sociali. Qualcosa tuttavia dovrà essere necessariamente riformulato alla luce delle nuove prospettive.
Inoltre, recentemente, lo scoppio della guerra alle porte di casa e la sconcertante assunzione da parte di molti della “mentalità di guerra”, come al solito voluta e diretta da uomini, può trovare in questo saggio, forse, una fonte utile di riflessione.

Le esperienze portanti
“Lo sviluppo dell’io consiste nel prendere le distanze dal narcisismo primario e di un lungo ed intenso sforzo teso a recuperarlo” (Freud, Introduzione al narcisismo, 1914)
Credo che la tensione vitale al recupero di una soddisfacente integrazione interiore, questa ricerca di una “autenticità del proprio essere” a ricomposizione delle frammentazioni del sé, costituisca la nota comune a tutte le esperienze “portanti”: l’attaccamento amoroso, la creazione artistica, l’investimento affettivo nei figli, l’esperienza del lavoro non alienato. A collegare tra loro le esperienze centrali dell’esistere, amore, arte, procreazione, far crescere, lavoro, c’è infatti un filo ben saldo: restaurare l’integrità narcisistica.
In queste che sono forme basilari del porsi della persona nel mondo è possibile ritrovare la
corrispondenza tra investimento negli oggetti e investimento nel proprio sé: una restaurazione dell’amore felice che nella circolarità dialettica intuita da Freud salda il soggetto all’oggetto attraverso una reciprocità narcisistica. L’essere umano, del resto, procede per investimenti/riconduzione a sé/re-investimenti, secondo una scansione dentro-fuori che costituisce il motore del processo simbolico e creativo dell’essere umano: “Fort—Da!”

Nessuna di tali esperienze dell’essere nel mondo, né l’amore, né l’arte, e neanche le forme meno speciali, la procreazione e il lavoro, sono unicamente “naturali”, cioè innate ed immediate. Si tratta invece di formazioni biologico-culturali, ad opera di soggetti in grado di operare questa saldatura-sintesi tra sé e l’altro da sé: capaci cioè di elaborare simboli ai vari livelli espressivi; là dove infatti l’elaborazione simbolica non verbale trova espressione in immagini mentali (un volto, un luogo, una musica…), quella verbale fa sì che l’individuo comunichi il proprio mondo interno agli altri, in questo modo trasmettendo conoscenza e cultura.

L’elaborazione simbolica è un processo; si rinnova e si ristabilisce ad ogni nuovo incontro, situazione e stimolo. Il simbolo si fa veicolo ed espressione della spinta interiore e allo stesso tempo strumento di decodificazione della realtà. Esprime adattamento, ma è sempre in qualche modo anche soluzione creativa; inoltre non si arresta ad una data età, non “invecchia”.

Noi clinici conosciamo di converso che cosa sia l’arresto del processo di elaborazione ideativa; lo osserviamo infatti in tutte le forme di alienazione: la nevrosi, in quanto blocco delle energie libidiche oggettuali; il lavoro “espropriato”, sia dal lato del profitto che del controllo sul prodotto; infine la procreazione come evento dovuto, o “catena di figliaggio”, ineluttabile destino di un corpo-natura che si è fatto proprietà di altri: del marito, della stirpe, o della consuetudine, con lo scopo di colmare un vuoto.
Gli studi condotti con Clara Capello fin dagli anni ’90, attraverso i quali abbiamo analizzato le istanze di liberazione/ autorealizzazione delle donne (sfociato nel libro “Perché mi curo di te”) ci hanno spinto ad approfondire le teorie del femminile in psicoanalisi e la specifica vocazione delle donne ai lavori di cura, che abbiamo visto non come vocazione nevrotica, ma come estensione del narcisismo di vita. Questa idea di fondo ci è stata ispirata da diverse autrici, come ad esempio Maria Bonaparte, J.Chasseguet-Smirgel, F.Dolto, ed è stata ripresa con molta efficacia da Silvia Vegetti Finzi in quel bel
testo sulla femminilità nascente che è “Il bambino della notte”. Attraverso numerosi casi clinici Vegetti Finzi arriva alla conclusione che la bambina, anziché venir determinata da una supposta invidia del pene, coltiva entro di sé l’idea di un bambino (il bambino della notte) di cui la bambola è un segno esteriore. Il bambino interno corrisponde al narcisismo di vita della bambina e segnala la sua capacità creativa. Anche il maschio così avrebbe la sua dose di “invidia” per la capacità generativa della femmina. La cura dell’altro, quindi, si collocherebbe simbolicamente non nella riparazione di una mancanza, ma nella estensione ad altri di un profondo, non nevrotico, compiacimento di sé.

Nel contesto di questi studi abbiamo ri-formulato l’idea della generatività della mente, prodotta dall’accoppiamento simbolico di elementi maschili e femminili indipendentemente dal genere di appartenenza dei soggetti.
Sullo sfondo di queste riflessioni, quindi, il destino della donna verso la propria liberazione non è visto più unicamente all’insegna della emancipazione dalle determinanti esterne della propria emarginazione, ma dai vincoli creatisi dal blocco alla creatività prodotto dalla colpa e dalla inibizione.
Ogni individuo, uomo o donna che sia, dispone di potenzialità interiori che possono entrare e mettersi in moto in una elaborazione creativa e ideativa, come appiattirsi nella ripetizione difensiva.
Così avviene per la procreazione. Essa può diventare un terreno di nuova consapevolezza, una esperienza ricca di contenuti che entreranno a far parte di nuove formulazioni simboliche, come può venire scissa, negata nelle sue valenze, o sovrainvestita con l’idealizzazione.

La procreazione è stata per molto tempo considerata terreno esclusivo delle donne. Le stesse donne hanno contribuito a farsene padrone. C’è da credere invece che l’uomo l’abbia allontanata da sé, rivolgendosi elettivamente ad altre attività. L’azione del fecondare, che pure è ricco di significato, è stato in qualche modo stornato dal processo della procreazione e dirottato altrove. E’ così che le attività cosiddette “maschili” (lavoro, carriera, realizzazione sociale), finiscono spesso deprivate del valore simbolico connesso con la fecondazione-procreazione, cioè dell’idea simbolica del figlio come prodotto di una relazione generativa, attestandosi invece su simbologie di intrusione possessiva e trionfo.

La scissione tra sessualità, maternità/paternità e procreazione
Leggere nella esperienza della procreazione decifrandola dall’interno significa avere come referente donne e uomini come soggetti unitari, esenti da scissioni in “funzioni”. Se la scissione tra sessualità e procreazione è diventata nel tempo consustanziale all’idea di virilità, con conseguente tendenza alla sacralizzazione della donna sposa e madre e spostamento della libido maschile su amori collaterali, la donna entra nella letteratura medica e in parte in quella psicologica essenzialmente in quanto portatrice di funzioni femminili e materne, nelle quali spesso le donne stesse si identificano.

A venir negata è la matrice erotica della gravidanza e della procreazione a vantaggio, sia per l’uomo che per la donna, della stabilità del vincolo istituzionale.
Se eros e sessualità vengono percepite come elemento di destabilizzazione sociale per entrambi i sessi, la scissione tra questi e la procreazione è particolarmente drammatica nella donna. La supposta identificazione regressiva della buona madre con il figlio impone che quella madre, cioè la madre socialmente interiorizzata, coincida con la madre dei desideri infantili: fonte di donazioni perenni, proprietà assoluta del figlio, oggetto idealizzato e non condiviso. Se infatti, secondo le fantasie dei molti adulti/bambini, la madre mantenesse una vita sessuale da cui trarre piacere, l’adulto/bambino sarebbe esposto a un senso di tradimento e perdita irrimediabili, a sentimenti di impotenza, rabbia e desiderio di ritorsione. Solo la madre idealizzata e onnipotente sembra aver spazio nell’immaginario sociale.

Ma in un senso più esteso, questa dinamica difensiva nega a donne e uomini un più ampio spettro di potenzialità. Sulla base dell’equivalenza fallicità/razionalità/fare, viene negata alla esperienza della procreazione il suo ruolo fondamentale per una crescita integrata dei soggetti.
La negazione della matrice sessuale della procreazione forclude in realtà l’interdipendenza dei due sessi, quella percezione della mancanza che si fa ricerca dell’altro. Il figlio, reale o simbolico, è infatti terzo nel rapporto di scambio tra individui, così come l’accoppiamento può avvenire non solo per via carnale, ma simbolicamente tra parti femminili e maschili dei soggetti.
Più di tutto però Il meccanismo della scissione impedisce che il procreare entri a far parte dei modelli simbolici che decodificano il mondo, lo interpretano e progettano.

 

Procreazione e lavoro non alienato
Così come nell’immaginario sociale sesso e maternità vengono tenuti separati, analogamente a virilità e genitorialità paterna, allo stesso modo la procreazione viene letta come categoria antinomica, o anche solo estranea, a quella del lavoro. Infatti, man mano che la rappresentazione del lavoro si è discostata da quella dall’universo contadino e artigianale, nel quale la simbologia si mostra coerente con il generare, il crescere e l’avere cura, ed ancor più nei tempi presenti, in cui l’oggetto del lavoro è diventato estraneo alle mani (“inafferrabile”) in quanto intangibile, lavoro e generatività si sono collocati in universi non compatibili.

La chiave della formazione di questi universi simbolici che operano in opposizione all’integrazione psichica dell’essere umano favorendone l’alienazione è una specifica rappresentazione interiorizzata della donna, e specularmente quella dell’uomo. Essa si basa sulla dicotomia natura-cultura, sull’onnipotenza estranea al limite e alla cura, e su un codice affettivo di controllo e possesso della figura materna da parte di un adulto/bambino.

A formare tale rappresentazione intervengono:
• l’idea di una gravidanza avulsa dal sesso, coinvolta da molteplici forme di rimozione: del
rapporto sessuale come motore biologico-psichico della gravidanza in atto; di una normale
vita sessuale della donna in gravidanza; della gratificazione narcisistica della gravidanza
stessa. Analisi istituzionali condotte nei reparti di maternità hanno messo in evidenza l’esistenza di numerose difese istituzionali a fronte della intollerabilità di una
contaminazione tra sessualità della donna e maternità, così come della coppia madre-
bambino, oggetto di invidia istituzionale. 1
• L’enfatizzazione/idealizzazione della diade madre-bambino, con conseguente
sottovalutazione di altri importanti elementi e figure che intervengono nella esperienza della gravidanza e del parto: i genitori della coppia, il rapporto con il partner, il ruolo delle
istituzioni.
• La negazione di ogni possibile fruizione narcisistica della procreazione da parte della donna, come se l’oblatività e la negazione di sé connotassero la buona madre.
• La negazione della drammaticità e conflittualità del vissuto profondo della donna e della
coppia, conflitti che investono il contenuto del corpo della donna in gravidanza (ansia
genetica), le mutazioni del suo corpo e le aspettative del mondo sociale circostante,
prossimo o allargato.
• La negazione di ogni vissuto che rimandi alla aggressività della donna, al rifiuto o
ambivalenza verso l’assunzione del ruolo previsto di “buona gravida” e in seguito di “buona madre”.
• La formazione della categoria di “tutela”, all’interno della quale il tutelatore (in veste di
esperto o di istituzione tutelatrice) si pone al tempo stesso come figlio bambino di una madre oblativa e come difensore del corpo materno dagli attacchi del sé bambino.
Ad ultimo:
• La mancata collocazione della procreazione all’interno delle esperienze umane “portanti”, che riguardano tutti gli esseri umani, sia maschi che femmine.

A questa fondazione culturale concorrono donne e uomini. Troppo spesso la donna appare debole nel comprendere la valenza della procreazione, circoscrivendola a evento solo privato e ponendo un limite ad integrarla a tutte le esperienze della vita e della sessualità. Analogamente l’uomo oscilla tra la completa delega alle donne, accompagnata da un senso di inadeguatezza, e una difesa pervicace del proprio ruolo maschile di “prima”, eretto a baluardo contro una dimensione esistenziale sentita come troppo invischiante e avulsa dalla propria identità.

Ciò che può fare della procreazione una esperienza “portante”, cioè in grado di fornire parametri di interpretazione della realtà, è, per entrambi i sessi, riuscire a sentirsi “strumenti attivi”: strumenti di quelle leggi naturali di cui non si avrà mai il completo controllo; strumenti dell’impulso erotico generativo, orientato alla creatività e al piacere e che ci rende protagonisti consapevoli della propria spinta, reale e simbolica, a generare e allevare in quanto attività cardine della propria presenza socio-politica.

Farsi strumenti e al contempo essere attivi pone in relazione due polarità apparentemente
contrarie. La gravidanza e il parto compendiano precisamente queste due istanze: la passività, che si traduce nell’accogliere una nuova forma vitale indipendente, che si può soltanto assecondare con premura; l’attività, che invece è dimensione segnata dal desiderio e dal progetto, dall’allestire uno spazio fisico e dal provvedere concretamente. Non è difficile individuare in questa ricomposta polarità la dinamica della genitorialità, così come della cura delle piante e dei coltivi, dell’operare in squadra, del plasmare la creta e dipingere, della buona politica. Tutte queste attività, come nella procreazione, si reggono grazie alla dialettica tra passività/accettazione (delle leggi della natura; delle diversità tra individui; dei limiti umani e delle forze; del destino) e dell’energia desiderante.

La procreazione è una tra le diverse attività caratterizzate da questa dialettica interna degli opposti, sorta di miscuglio vitale. Certamente è tra quelle più largamente condivise. Ma considerarla una esperienza unica, privilegiata ed irripetibile, enfatizzarla cioè, significa in fondo riproporne la marginalità, non coglierne gli elementi che la unificano ad altre esperienze, non facendola entrare nel grande circolo delle attività umane, del sociale e del politico.
Gli ostacoli che si frappongono a questo allargamento del significato della procreazione non sono solo di ordine esterno all’uomo e alla donna. Tra gli ostacoli di ordine interno, ricordiamo nella donna il timore ad avventurarsi fuori dalla tutela, la difficoltà ad affrontare il percorso verso una identità complessa e da inventare. Nell’uomo la difficoltà a emanciparsi dalle aspettative sociali, da una identità legata a una virilità esibita, dalla paura a confondersi con la donna.

L’esperienza della procreazione contiene tuttavia alcune specificità di particolare valore simbolico.
Nella donna la gravidanza può essere considerata emblematicamente una “esperienza ponte”: a un polo sta la concentricità della donna col proprio oggetto (se stessa/figlio), densa di compiacimento e pienezza dell’essere; all’altro polo, la prefigurazione del figlio come persona separata e come “terzo” del rapporto di coppia, un distacco-mediato dal parto, dal puerperio, dall’allattamento-che porta alla individuazione di due nuovi esseri, la madre e il bambino, e della triade, madre- padre-bambino.
Per la donna gravida il corpo è investito narcisisticamente. Se nel rapporto sessuale l’investimento narcisistico veniva attuato e poi rimandato nel corpo dell’altro (amo il tuo corpo e il corpo che tu ami), nella gravidanza l’esperienza di pienezza è in qualche modo “con-clusa”, e questo, pur indispensabile per l’investimento oggettuale nel figlio, può essere guardato con invidia e con sospetto, invece che protetto e incentivato. A meno che sia vissuto come perdita ineluttabile, il successivo fisiologico distacco madre-bambino consente alla donna di integrare la maternità con tutte le altre esperienze della vita, spostando la ricerca del piacere generativo su altri oggetti.

Esistono analogamente altre “esperienze ponte”, là dove le energie erotiche e narcisistiche si traducono nella creatività e nello scambio dell’incontro. In queste esperienze, tra le quali includo quello del lavoro non alienato, l’oggetto d’amore è nel contempo all’interno e al di fuori dell’io, parte dell’io e che all’io ritorna per arricchirlo.
La soddisfazione erotico/narcisistica della donna rimane tuttavia un tabù sociale. E’ quindi socialmente ammesso che la donna lavori, ma non che ne tragga gioia; e che sia gravida, ma non per se stessa. Il soddisfacimento è letto come intrusione della sessualità in una immagine materna che, come abbiamo visto, si vuole oblativa e munifica.
Ma ancora più scandaloso può apparire lavorare e procreare con soddisfazione e senza conflitti, ove il lavoro assume l’evidenza della piena autonomia, ed è quindi una sfida. Sempre più donne in realtà realizzano questa doppia presenza, ma non è un caso che, come si vede accadere per le figure pubbliche, esse vengano attaccate con invidia. Questa immagine di madre autonoma e forte perseguita la fantasia degli individui. La donna stessa è spesso convinta che se manterrà desideri, aspirazioni, amori “da ragazza”, costituirà una minaccia per i suoi propri figli.

Il filo che congiunge tra loro sessualità, soddisfazione narcisistica, procreazione e lavoro, testimonia una unitarietà felice del soggetto difficile da far accettare. Una società fondata sulla divisione del lavoro e delle competenze, che relega il corpo tra sublimazione e pornografia, non tollera una proposta che, pur andando nella linea della espansione e realizzazione del desiderio, contempla anche l’accettazione del distacco e della sua elaborazione, della realtà della propria morte e non univocità di ciò che poniamo come assoluto: il nostro esistere.
L’evidenza che porta con sé la donna gravida, infatti, è un messaggio inquietante: che nel farsi dell’altro si pone la propria morte e che quindi il voler separare la procreazione da tutte le altre attività della vita può significare porre una distanza tra sé e la coscienza della morte. Grazie a questa separazione il lavoro produttivo può porsi come termine indiscusso di ogni valore, addirittura come “eterno” valore.

Si parla da molti anni, con poco costrutto, del problema del “soffitto di cristallo”, quell’ostacolo invisibile che impedisce alle donne di accedere ai più alti livelli di responsabilità nelle organizzazioni e nelle istituzioni. Ma il sentire incompatibili maternità e lavoro non è solo frutto di condizionamenti culturali o generici sensi di colpa da parte della donna. E’ la risposta inevitabile alla giusta percezione inconscia che procreazione e lavoro, così come si pongono oggi, sono termini antitetici: da una parte la funzione riproduttiva, priva di mete oggettive, che si confronta con il farsi anonimo quotidiano
della vita e della morte. Dall’altro il mondo competitivo del sociale, con il suo valore assoluto e inconfutabile: qualcosa, è vero, di irraggiungibile per le donne, ma anche qualcosa che le donne guardano con un certo senso di superiorità consapevole. Con il tempo le donne si sono rifugiate sempre di più in contesti che permettevano loro di mantenere la qualità della vita e il senso concreto delle cose. Accettare tuttavia questa scissione porta all’autoemarginazione, perché il patrimonio di consapevolezza accumulato nell’operare in sintono con la vita non diventa parola, fatto, codice di trasmissione consensuale agli uomini e alle donne. Non si pone come valore, come termine di
paragone. Non si fa cultura. Così sta avvenendo per la guerra ucraina: le donne fuggono, per proteggere se stesse e i figli. Gli uomini restano per combattere. Sia dal fronte russo che da quello ucraino le donne piangono e si prendono cura, ma non hanno la forza per schierarsi contro la guerra, imprimere un corso alla politica. Ancora oggi questo “non è dato”.

Il lavoro non alienato è lavoro procreativo
Se tutte quelle che abbiamo chiamato “esperienze portanti” hanno come caratteristica quella di prevedere l’integrazione interna dell’individuo, la procreazione contiene in sé valori simbolico/affettivi che la rendono paradigmatica per altre esperienze della vita.
Essa infatti può considerarsi come una “esperienza di formazione”, intesa come processo di crescita a carattere integrato, contraddistinto dalla capacità di decentrarsi da sé e dagli oggetti per pensare e pensarsi in senso evolutivo. Ciò può avvenire sia nel caso che l’oggetto finale della formazione sia il figlio vero e proprio, quanto che sia invece un figlio simbolico, come lo è un prodotto, una idea, un contenuto.

Il lavoro non alienato è quindi lavoro procreativo e prevede che entri a far parte di un percorso di formazione:
Esso infatti:
• pone il proprio prodotto come terzo di una relazione tra il soggetto e gli altri.
• Nasce dalla capacità del soggetto di prefigurare un prodotto finito, una elaborazione, una
idea, che lo rappresenti nel mondo.
• Comporta l’interiorizzazione da parte del soggetto della relatività del proprio esistere
• Comporta la coscienza della propria dipendenza da leggi naturali ed obiettive.
• Comporta la convinzione della necessità della relazione e della collaborazione per la riuscita della attività.
• Affida l’immortalità, o permanenza oltre la morte, ad un progetto largamente condiviso, che può essere continuato ed ultimato da altri
• Contempla il soddisfacimento del fare, di natura narcisistica ed erotica, ponte per la
relazione creativa con gli altri.
• Contiene la possibilità di assistere e nutrire il proprio figlio-prodotto.
• Contempla la separazione e il distacco.

La guerra
Lo scenario drammatico da cui siamo confrontati in questi giorni, quello della riproposizione della guerra e di tutti i consolidati meccanismi che ad essa conducono (individuazione del nemico, desiderio di vendetta, eroismo irresponsabile, sottostanti avidità economiche) hanno come contrappasso il pensiero e le azioni generative/procreative: gli appelli di cittadini di entrambi le parti a fermare il massacro; l’apertura delle case all’accoglienza; l’offerta spontanea di trasporto, conforto e amicizia. L’urgenza a fornire cura. Iniziative come quelle intraprese dalla pagina web a carattere turistico “Host a sister”, si è trasformato in una organizzazione di accoglienza. Un’altra
pagina web estetico/consolatoria con migliaia di iscritti, Out of my Window, è stata invasa da immagini dall’Ucraina. Le femministe e duecento ONG russe, hanno diffuso il loro messaggio contro la guerra, e così artisti, intellettuali, e normali cittadini..
Del resto da tempo, con minore esposizione mediatica, gruppi di volontari di nazionalità diverse si adoperano con ogni mezzo per soccorrere i migranti dei mari e delle rotte balcaniche, rei forse di non essere della nostra stessa “razza”.
Già nelle guerre passate vi sono stati esempi di militanza coraggiosa ma controcorrente alla logica dominante che vuole la storia segnata solo dal conflitto, una storia esclusivamente “fallica”.

Andando controcorrente (la storia la fanno solo le guerre) la storica Anna Bravo ha lasciato uno scritto di grande bellezza, La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato (Laterza 2013), ricostruzione di come individui e nazioni sono riusciti a evitare spargimento di sangue. In modo analogo la nipote di Tito, il medico Svetlana Broz, dando vita a una azione simbolica legata alla generatività, ha percorso i territori della ex Yugoslavia in guerra per raccogliere testimonianze di quanti delle diverse etnie si erano aiutati vicendevolmente : I giusti nel tempo del male. Testimonianze del conflitto bosniaco (Erickson, 2008).

Farsi strumenti attivi
Dopo aver tracciato un possibile quadro del procreare e produrre in modo non alienato e del “generare” un diverso approccio attorno ai conflitti e alla politica, ci domandiamo quali potrebbero essere le fasi intermedie ad una sua realizzazione, che apparentemente ha tutti i limiti di un discorso ideale.
Non credo che la soluzione sia di rimandare il discorso al momento della disalienazione del lavoro o a trattative diplomatiche risolutive, anche perché esse non sono generatrici automatiche di una trasformazione politica.
Potrebbe essere importante invece ricondurre alcune iniziative politiche (manifestazioni per la pace, lotte sindacali, lotte contro la violenza) ad alcuni paradigmi che, discostandosi da quelli tradizionali dell’eroe militante, aggancino, espandendola, la dimensione della generatività e della cura.

Più che a rivolgersi allo scontro “militante”, ma anche ahimè simmetrico con i valori dominanti, occorrerebbe in questa nuova fase rendere propositivi i valori e i contenuti simbolici del procreare.
Le donne hanno utilizzato questa cifra in tutte le guerre: la signora della lampada, i “gruppi di difesa della donna dei volontari per la libertà” sono solo alcuni esempi. Ma questo universo femminile è sempre stato la nota materna a copertura delle violenze della storia, non riuscendo a conquistare la dignità della proposta culturale e politica.
Fare di quella che è sempre stata una sottocultura una cultura consapevole può essere un obiettivo, al fine di contribuire alla creazione di una società disalienata.

Continuare a vedere valori maschili e valori femminili come entità contrapposte è a mio parere un errore. Una società in cui persistono modelli “attivi” (il maschio, il lavoro, la trasformazione, l’intrusione, il sesso, la politica) e modelli “passivi” (la procreazione, la cura), si fonda sul fatto che questa passività-necessità è stata ad oggi attivamente assunta propria dalla donna, cristallizzandosi in precise identità. Si fonda su una scissione data per scontata: da una parte il corpo, il ruolo materno, con cui la donna si identifica. Dall’altro un soggetto superegoico esterno a lei, “scientifico”, risolutorio, severo e castrante: la “vera” politica, le leggi dell’economia e della guerra, il Partito.
Questo genere di passività non tocca in realtà solo le donne, ma si palesa presso tutte le categorie umane meno forti sul piano del potere e sul quello produttivo.

Piuttosto quindi che prefigurare le donne come vittime non consenzienti della società, oggi
ampiamente citate all’interno di quella categoria chiamato “femminicidio”, occorre iniziare a considerarle come artefici concorrenti alla formazione di un nuovo modello di politica.
Nonostante le forti trasformazioni in atto nella identità di genere, nell’animo degli individui permangono i modelli di un tempo che, pur se fonte di alienazione e sofferenze, costituiscono codici condivisi collaudati dalle leggi della sopravvivenza, strumenti di comunicazione e socializzazione. Se vogliamo però prefigurare una società che metta al suo centro la procreazione, nei suoi significati affettivi e simbolici, su questi modelli segnati dalle scissioni occorre intervenire attraverso processi di presa di coscienza collettiva.
Operando sui contenuti e le finalità del lavoro e della convivenza e facendo luce contestualmente sulle implicazioni profonde della generatività/procreazione per tutti gli esseri umani, si potranno credo trovare parametri nuovi, referenti chiave per una proposta politica.

*(Questo articolo ha tratto spunto dalla mia comunicazione dal titolo “Il progetto gestazionale della donna” alla Assemblea nazionale delle donne comuniste, Roma 1983)

 

NOTE
1 Capello C., Vacchino R. (1985) Sessualità femminile e istituzioni sociali. Una prospettiva psicoanalitica, ETS; Capello C., Fenoglio MT (2005, 2010), Perché mi curo di te?, Il lavoro di cura tra affetti e valori, Rosenberg & Sellier.

BIBLIOGRAFIA
• Bonaparte M.(1957, 1972) De la sexualité de la femme, tr. Paolo Maria Ricci e Valeria Giordano, La sessualità della donna, Newton Compton
• Capello C., Vacchino R. (1985) Sessualità femminile e istituzioni sociali. Una prospettiva psicoanalitica, ETS
• C.Capello, M.T.Fenoglio, Perché mi curo di te? Soddisfazioni e fatiche nel lavoro sociale, Rosenberg & Sellier, Torino 2010
• Chasseguet Smirgel J.(1988), Les Deux arbres du jardin, ed. Des Femmes - Antoinette
FouqueDolto F. (1987, 1995)), La libido feminine, Carrere, Il desiderio femminile, Mondadori
• Fenoglio MT
-Il progetto gestazionale della donna, comunicazione alla Conferenza internazionale
“Donna e lavoro”, in “Produrre e riprodurre”, Torino, 1984
- Donne e parto alternativo, in “I Quaderni dell’associazione Livia Laverani Donini, anno
1 No.1,Gennaio Marzo 1985
- Donne e psicoterapia, in “L’Indice”, Gennaio 1990
- La bambina, la sua crescita, la sua educazione, Comunicazione al convegno “Crescere
al femminile”, pubblicazione a cura della circoscrizione VI della città di Torino, 1991
- Le ostetriche al S. Anna: processo di emancipazione, motivazioni alla professione e sistema di valori, in “I Quaderni dell’associazione culturale Livia Laverani Donini”,
anno V, n.8-9, 1992
• Vegetti Finzi S. (1996), Il bambino della notte, Mondadori

 

Considerazioni di Leonardo Montecchi sull’articolo di Maria Teresa Fenoglio “La procreatività come paradigma per una proposta politica”

Mi colpisce innanzi tutto il tema della pro/creazione come ripetizione, nel senso che una certa tradizione la concepisce ( e’ proprio il caso di dire così ) come una sorta di clonazione, ripetizione di un originale da cui non è il caso di discostarsi. Quindi il codice della famiglia paterna, “il nome del padre” alla Lacan, marcherebbe per sempre l’ordine simbolico con il significante principale: il fallo. Sono totalmente d’accordo con te quando individui, citando Silvia Vegetti Finzi nel ” bambino della notte” anziché l’invidia del pene, la mancanza del fallo,l’accesso all’ordine simbolico della donna. Al contrario e’la capacità procreatrice a produrre l’invidia del maschio. Di più con gli studi di Luisa Muraro, come tu sai meglio di me, si definisce l’esistenza di un diverso ordine simbolico: l’ordine simbolico della madre che corrisponde ad un simbolismo legato alla lallazione.

Mi interessa molto il tuo studio perché approfondisce il significato della creatività o dell’inventiva, come la chiamava Massimo Bonfantini. È’ certo, per me, che qualsiasi forma di creatività implica la sessualità, la libido sotto varie forme. Ad esempio l’esistenza di ” muse ispiratrici, maschili o femminili”per la realizzazione di opere figlie di quella relazione.

Anche il passaggio da un aggruppamento:(persone che si trovano assieme per un compito comune)ad un gruppo: (persone che si tengono in mente ed usano il pronome “noi”) e’ caratterizzato da immagini che si riferiscono alla nascita e quindi alla circolazione della libido.

Del resto c’e una relazione molto stretta fra Eros e conoscenza.

Per quanto riguarda la guerra ed il ruolo delle donne mi piacerebbe che si aprisse questo spazio al di là della stupidità che caratterizza tutte le guerre ed in maggior misura questa in cui rischiamo l’estinzione per un errore o peggio per una valutazione stupida.

Certamente nelle donne si manifesta la cura che è l’essere dell’esserci. La cura e’l’antidoto alla stupidità, infatti la stupidità non ha cura di se ne dell’altro.

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Marzo 2020 – Marzo 2022: vicende di un paradgima concettuale e operativo

Dom, 03/04/2022 - 11:58

di Marella Tarini

 Il nostro gruppo di lavoro, un’istituzione pubblica attiva nel settore delle dipendenze patologiche, ha abbracciato da molti anni un’ipotesi che interpreta le disfunzioni di cui si occupa concentrando il suo focus intorno alle dinamiche e ai fenomeni gruppali, istituzionali, comunitari e collettivi.

Il sintomo emerge dai movimenti del gruppo (in primis quello familiare) e della collettività a cui appartiene chi lo manifesta ed è in questi ambiti, quindi, che si ritiene opportuno intervenire; e le risorse per affrontare le problematiche che si configurano e per le quali viene portata la richiesta di intervento si strutturano, a loro volta, attraverso il processo operativo del gruppo- équipe, che è multiprofessionale e transdisciplinare.

Giusto due anni fa il setting necessario agli utenti e agli operatori per l’applicazione di questo paradigma, costituito da incontri cadenzati di soggetti incarnati, con i loro corpi, con la loro configurazione emotiva, il loro mondo interno ed il loro assetto mentale, che si riuniscono in un luogo fisico ben determinato, viene improvvisamente stravolto. E’ attraversato da una potente interferenza trasversale, che lo trafigge violentemente e lo rende inattuabile: l’impossibilità di realizzare e vivere la presenza per via di un rischio infettivo che attraversa la collettività e che è affrontato dalle macroistituzioni con perentorie misure   restrittive, che impongono la soppressione di esperienze collettive, il distanziamento e la copertura facciale.

 Il clima che repentinamente si instaura nel gruppo di lavoro è oscurato da spesse coltri paranoidi che si alternano a   sentimenti depressivi e colpisce la sicurezza ontologica delle relazioni.

La diversità dei pensieri e delle opinioni improvvisamente subisce una trasformazione nella percezione dei partecipanti: da ricchezza che alimenta e fa carburare il processo di costruzione e di trasformazione collettiva, così come era sentita, diventa repentinamente una pericolosa funzione destabilizzante, che potrebbe favorire un temuto scostamento dai dettami comportamentali rigidamente imposti dai gestori della situazione epidemica; si instaura un atteggiamento che porta ad aderire a tali disposizioni ancor prima di averle sottoposte a qualsiasi vaglio critico, ormai non più tollerato.

Nel gruppo di lavoro la tensione progettuale si sterilizza. I percorsi che hanno qualificato per tanto tempo gli interventi si interrompono. La spinta a ricercare collettivamente si arena. Ogni operatore si chiude nel proprio studio più a lungo che può e la gestione di processi di cura si appiattisce sulla esecuzione di atti stereotipati e ripetitivi, quelli ritenuti imprescindibili, inevitabili e non rinviabili, per lo più coincidenti con interventi esclusivamente medicalizzati e farmacologizzati.

Il colpo è molto duro: l’impedimento, la coercizione, la sottrazione di spazi di incontro espressivi e creativi, la frustrazione generata dalla mutilazione del desiderio in alcuni generano rabbia, una rabbia che vorrebbe trovare varchi costruttivi o vorrebbe configurarsi come forza per resistere, per non rinunciare al disegno operativo così a lungo elaborato ed affinato  : ma per lo più  sono la paura e la proiezione paranoidea a prevalere pervadendo l’aria e il tempo scorre ad evitare il contatto e a  garantire la rassicurazione, prodotta da comportamenti ossessivi di esorcizzazione dei rischi.

Un sistema che viene escogitato è quello del collegamento telematico: ogni professionista, che peraltro condivide con gli altri colleghi la fruizione dello stesso edificio, si connette da remoto via computer dalla propria stanza con gli altri, per ritornare a condividere elementi sensibili della relazione di accoglienza e di cura: ma questa modalità introduce un vissuto profondamente diverso, lo si sente  nella pelle e nella percezione interna: finiamo per  parlare di aspetti centrali del rapporto terapeutico, come per esempio del transfert suscitato in una particolare situazione e del controtransfert che si è generato, con una qualità metallica, bidimensionale ed appiattita, in cui la condivisione è inquinata dalla distanza corporea e dall’impoverimento della risonanza reciproca.

Il tempo scorre ancora e gli effetti della trasformazione si radicalizzano.

Mano a mano, però, almeno alcune situazioni di collegamento e di incontro tornano a rappresentarsi come inevitabili e necessarie per qualificare il lavoro. Di buono c’è che “il richiamo della foresta “si è fatto di nuovo sentire: il bisogno – desiderio di ritrovare la dimensione operativa collettiva e di recuperare il senso profondo della azione progettuale condivisa ha trovato il suo spazio per riemergere e cerca modalità per riconfigurare concretamente la meta. Seppur ancora con le protezioni facciali e con l’attenzione a non violare la distanza che ognuno reputa rassicurante, il dispositivo si ripristina: le riunioni d’équipe in presenza ricominciano e  riprendono anche gli incontri cadenzati interistituzionali.

L’offerta terapeutica invece non riesce a recuperare la sua articolazione storica: i gruppi di utenti, quelli per familiari e l’esperienza di gruppo multifamiliare sono stati sospesi dal momento in cui è stato espresso il divieto a riunire persone; lo strumento telematico, in certi casi proposto, non è stato accattivante ed è stato rifiutato. La resistenza a questo tipo di relazione è stata espressa sia dagli utenti che dagli operatori, che hanno considerato questo mezzo non adatto alla esperienza di condivisione intima, profonda e coinvolgente che si aspettano dalla partecipazione ad un gruppo.

Quindi, tutta la riflessione che nel tempo si è sviluppata intorno alle dinamiche del processo gruppale, al loro potenziale trasformativo, alla lettura e alla elaborazione della qualità dei vettori che segnalano l’andamento del percorso,  e tutto il pensiero intorno alla miglior configurazione strutturale del dispositivo, (se sia più utile, per esempio, una dimensione di gruppo aperta o chiusa, o quale sia la risorsa migliorativa di una composizione eterogenea rispetto ad una omogenea nella partecipazione degli integranti), concretamente, per il momento,  sono  annullati.  Ed è questa una grave perdita, è come una sottrazione di storia un tempo condivisa collettivamente, con il pensiero e con i sentimenti. Difficile anche continuare a pensare intorno al concetto, così intrigante, di malattia unica, o riflettere sulle risorse messe in campo dal dispositivo specifico del gruppo multifamiliare, con le sue opportunità di rispecchiamento, di utilizzo della esperienza dei transfert multipli e di sollecitazione potente ad affrontare l’uscita dalle posizioni simbiotiche ed agglutinate, perché non è in corso, di fatto, l’esperienza concreta, quella che restituisce vero apprendimento.

E’ in questo contesto climatico che, alcuni giorni fa, mi sono passati fra le mani alcuni scritti prodotti tempo addietro, ben prima che succedesse tutto questo, relativi a come poter pensare l’intervento intorno ad una particolare modalità di presentarsi della dipendenza patologica, ovvero quella da consumo di etile. Ho avuto un accesso di nostalgia, perché ho ritrovato, messo per iscritto, lo sforzo che si faceva insieme per considerare, con un pensiero che teneva conto della complessità, tanti aspetti relativi alla gestione interpretativa e terapeutica della dipendenza quando si configura come posizione disfunzionale, a partire, in quel caso, dall’evento rappresentato dal paziente etilista. Ho ritrovato l’attenzione a considerare la dimensione collettiva e comunitaria, quella istituzionale e macroistituzionale determinata dalla politica sanitaria, la riflessione sul modo di pensare la patologia, le valutazioni emerse dalle esperienze dei processi e dei dispositivi gruppali, e tanto altro ancora che può essere evinto leggendo tra le righe: e ho pensato che forse questo materiale non dovrebbe andare disperso, perché è testimonianza di un percorso  e di una elaborazione che non è diventata ormai un frutto inaridito, sommerso e spazzato via dal cambiamento degli ultimi tempi, ma piuttosto un ricordo che può avere ancora un senso evolutivo, e forse  lo si può considerare come uno dei tanti luoghi esperienziali da cui ripartire.

Per cui, ho pensato di dare completamento a queste righe, che hanno tentato di rappresentare il momento attuale, con la riproposizione del materiale datato che segue. Alcuni temi sono ripresentati e ribaditi in entrambi gli scritti.

Il primo prodotto è un contributo elaborato per i lavori di un congresso nazionale sul tema della complessità della tematica Alcologica e contiene un’analisi del contesto macroistituzionale e un accenno sulle ipotesi di trattamento a livello istituzionale; risale al 2009 ed è il seguente:


Dipendenza da etile, Istituzioni e Collettività

Negli ultimi anni il tema dell’uso di alcool e della dipendenza da etile si è presentato con forza sempre maggiore, sia per il passaggio all’evidenza di situazioni e comportamenti legati all’abuso che precedentemente abitavano l’ambito del sommerso, sia per l’effettivo aumento di condotte incentrate sul consumo “eccessivo” di alcolici.

Basti pensare al fenomeno rilevabile nei Servizi per il trattamento delle Dipendenze, secondo il quale sempre più frequentemente, accanto all’abuso e alla dipendenza da psicotropi di sintesi, si strutturano comportamenti caratterizzati dall’abuso alcolico, ad accompagnare la dipendenza principale o a sostituirla nelle fasi di remissione; o alle abitudini etiliche che coinvolgono ormai un grande numero di giovani, e sempre più precocemente.

Questi elementi farebbero supporre che la comunità nazionale si sia posta il compito di produrre risposte operative a ciò che dovrebbe essere riconosciuto come un disequilibrio, un problema di salute, individuale e generale, e che abbia quindi disposto risorse trattamentali con la stessa attenzione che si rivolge di solito alle manifestazioni patologiche a determinazione multifattoriale che coinvolgono una collettività.

Ma vediamo che le cose non stanno proprio così: se analizziamo i fatti, possiamo rilevare che forse anche le idee che circolano relativamente all’abuso e alla dipendenza da etile, comprese quelle di certa comunità scientifica, non considerano questa come una disfunzione a genesi multifattoriale, con tutta la complessità dei dispositivi operativi che ne dovrebbero conseguire: se davvero fosse riconosciuta e validata  l’interpretazione che vede il tema etilico come manifestazione patologica a determinazione complessa, vedremmo un sostegno concreto a percorsi che siano di cura, approfonditi e articolati, strutturati in termini integrati e multidisciplinari, adatti a gestire, appunto, tanta complessità.

Mi riferisco a processi che, oltre a preoccuparsi meramente di limitare o rimuovere alcuni sintomi o segni, attivino e facilitino il cambiamento degli individui e dei loro gruppi di appartenenza, favorendo il loro avvio verso una maggior consapevolezza e gestione di sé, magari in seguito alla formulazione di una richiesta autodeterminata di ingresso in trattamento.

Invece, se approfondiamo l’analisi studiando questo stesso periodo di indagine, e guardiamo al versante delle politiche socio-sanitarie che sono messe in essere in Italia, verifichiamo che non c’è sul territorio nazionale un effettivo incremento di servizi o di personale dedicato a questa problematica in espansione: per esempio, dal bollettino nazionale della rilevazione delle attività in tema di etilismo distribuito due anni fa, si evince che nella maggior parte delle regioni italiane si computano addetti al trattamento del fenomeno che, in proporzioni molto elevate,  lo sono solo a tempo parziale; fanno eccezione solo Friuli e Molise.

Nel caso degli addetti esclusivamente dedicati al tema, troviamo che la proporzione più alta spetta agli educatori professionali e agli assistenti sociali.

Il dato nazionale ci dice inoltre che il 51,4% del personale totale assegnato parzialmente o esclusivamente al trattamento dell’abuso e dipendenza da alcool è costituito da operatori sociali, i medici rappresentano il 21,5% e gli psicologi il 16,9%; il restante 10% è costituito da personale amministrativo o di altra qualifica.

Emerge una grande disomogeneità nella distribuzione regionale del personale addetto per qualifica professionale, ma comunque gli operatori sociali rappresentano la professionalità più frequente in ogni regione.

In cambio, come detto, l’utenza ufficiale è in costante crescita, si rileva un incremento di circa il 10% annuo negli ultimi tre anni, con una concentrazione di questo incremento nelle regioni del nord. Il 32% è rappresentato da nuovi utenti, il 68% da soggetti già in carico o rientrati dopo l’interruzione di un piano precedente.

Ciò ci porta a pensare che i dispositivi messi in essere per affrontare l’incremento della richiesta di presa in carico risultano non tanto dall’individuazione di nuovi Servizi o di nuove unità di personale addette, ma da una riorganizzazione di ciò che già esiste per il trattamento di altre situazioni problematiche e/o patologiche.

Ed un dato che risulta chiaro è che le politiche nazionali e/o locali pensano che per l’alcolismo siano da mettere in campo più che altro figure professionali che lavorano sull’emergenza sociale e nel campo della rieducazione.

Ora, è evidente a chi lavora nei Servizi che molto spesso ad una condotta di abuso alcolico si collegano situazioni di difficoltà sociolavorative, ambientali, economiche e comportamentali in senso lato, ma viene da osservare che questo accade con una frequenza che non è né più né meno quella che si registra per altre forme di dipendenza.

Qual è il concetto inespresso dunque che informa in Italia le scelte di politica sanitaria nel caso della dipendenza da etile? (E, verrebbe da estendere, nel caso delle dipendenze e dell’abuso di sostanze esogene?)

Viene da pensare infatti che queste scelte politico-organizzative vedano  le condotte di abuso etilico per la più parte come forme di emergenza sociale e come organizzazione di comportamenti devianti, da trattare perciò prevalentemente con interventi pedagogico-educativi o socioambientali, e non come situazioni che esprimono sofferenza e disfunzione,  non  come forme di disturbo che potrebbe essere affrontato con percorsi di elaborazione, da affidare quindi all’intervento di  professionisti della cura.

Ciò ci rimanda ad una riflessione relativa a come il tema dell’uso-abuso di sostanze, ed in particolare di etile, è stato inquadrato all’interno degli assetti culturali del nostro sistema occidentale: in particolare voglio riferirmi all’ambivalenza con la quale è visto il consumo di alcool; questa sostanza, inutile negarlo, è celebrata come simbolo di benessere sociale, di status, di omologazione significante a codici di gruppo a e valori comunitari, come sostanza centrale, persino, nella esecuzione di alcuni riti. Questa sostanza, potenzialmente così “alterante”, così capace di allentare e sovrastare le capacità di autocontrollo, è, dunque, ad un livello subliminale o implicito, carica di significati positivi, recuperati, promossi e sottolineati anche dai sistemi mediatico e pubblicitario: leggevo proprio ieri su un quotidiano locale che il trend più in auge di alcuni locali modaioli della riviera senigalliese si chiama “ Bevi e Vinci”, e consiste nell’invito a consumare più bevande alcoliche possibili, perché in abbinamento alla singola consumazione c’è la possibilità di vincere materiale informatico di nuovissima generazione o viaggi nei paesi esotici…… naturalmente sembra che l’iniziativa stia avendo un notevole successo, ed è lodata pubblicamente, in quanto in grado di aumentare la partecipazione della gente alle iniziative commerciali che qualificherebbero la città……. .

Nello stesso tempo, però, paradossalmente, questo ordine sociale enfatizza il tema del potere, del controllo, dell’onnipotenza e dell’esercizio della volontà, tematiche narcisistiche diffuse e condivise.

Nella nostra cultura, cioè, viene messa molta enfasi sul potere decisionale degli esecutivi, delle piramidi gerarchiche e infine dell’individuo e si assume che tutti gli aspetti della vita si svolgano per via dell’esercizio di questo potere, che diventa il principio organizzatore delle esistenze e degli eventi, anche collettivi. 

E per ciò che riguarda l’individuo, il senso comune acritico non accoglie l’idea che questi possa prescindere dal controllo preordinato su una situazione, che si possa fare esperienza di una qualche dipendenza, e che a volte si possa rimanere bloccati in questa posizione, quella dipendente.

La nostra cultura nega e svaluta sul piano manifesto la dipendenza, nonostante sia un’esperienza che invece dobbiamo incontrare all’interno dei nostri vincoli e nel normale svolgimento della nostra esistenza.

Lo stesso senso comune non può quindi considerare che, a volte, si possano creare situazioni per cui questa posizione si possa cristallizzare e possa bloccare i processi evolutivi, dato che non riesce ad intenderla nemmeno nella sua configurazione “sana”.

Come sappiamo, però, ciò che è negato o rimosso esiste e si manifesta prima o poi con forza maggiore e davvero si situa fuori dalla portata della gestione consapevole; cosicché questa stessa società onnipotente è in realtà profondamente incline a forme molto vaste e profonde di dipendenza individuale e collettiva, che si possono identificare facilmente, attraverso una lettura minimamente attenta di vari fenomeni diffusi e largamente condivisi, tra i quali l’abuso acritico di sostanze.

Questa scotomizzazione fa sì che generalmente l’emergenza di problemi sociali e sanitari collegati all’ uso di alcolici venga vista specificamente come il risultato del fallimento del sistema volitivo degli individui: secondo questa ottica, sembra che, nel caso in cui l’uso sfoci nell’abuso ed infine nella dipendenza, ciò che debba essere ricodificato sia il sistema della volizione e del controllo, attraverso interventi che a questo, e non ad altro, siano dedicati.

Tra l’altro, questo culto della volizione e del controllo porta inevitabilmente a sancire dall’esterno, con la forza delle norme, i livelli standard dei comportamenti, introducendo i sistemi di codificazione aprioristica di ciò che è appunto “a norma” e di ciò che non lo è, in una sorta di uniformazione dei criteri di accettabilità degli stili dei pensieri e delle azioni: così è anche per l’entità dei consumi di etile, la cui adeguatezza quindi in occidente viene stabilita all’interno di ranges chimico-biologici definiti, che poi possono essere utilizzati anche a scopo legale.

Credo che proprio questa visione, insieme ad altri criteri e motivi di ordine economico e politico, abbia fatto inquadrare il sistema degli interventi secondo la categoria della erogazione di atti rieducativi, che decisamente debbano essere brevi, e il risultato dei quali sia giusto la risoluzione comportamentale del recuperato controllo sugli usi, senza che i motivi dei consumi debbano essere criticati, rielaborati e trasformati, ed abbia escluso le più articolate emissioni di “cure”, quelle che sarebbero da prevedere per una problematica di salute psicofisica individuale e collettiva particolarmente complessa nelle sue determinanti.

Si è affermato cioè un clima professionale, appiattito sulla base di quello economico e politico, che rischia di minare profondamente il potenziale trasformativo di quelle cure incentrate sui percorsi di alleanza terapeutica, di quegli interventi che, per la elaborazione di problematiche complesse come questa che investono la persona ed i suoi gruppi di appartenenza, devono inevitabilmente essere pensati a congruo termine.

Infatti, questo sistema degli interventi “secchi e brevi”, chiamiamoli così, che si è affermato certamente non solo nel campo dell’alcologia, ma che più estesamente ha preso campo in tutto l’ambito, quanto meno, della salute mentale,  ha prodotto un numero inevitabilmente molto elevato di temporanee remissioni dei sintomi più eclatanti, seguite però dalla ripresa a rapida scadenza di tutte le problematiche; e ciò in quanto queste, evidentemente, appoggiano su condizioni di disturbo e sofferenza che non hanno trovato spazio e tempo per essere considerate e trattate.

Inoltre, questa impostazione così efficentista, potremmo dire, fa perdere di vista la complessità legata al fatto che individui o gruppi appartenenti ad altre culture, e mi riferisco ai cosiddetti migranti o immigrati, possono avere configurato un rapporto diverso con l’uso delle sostanze, e dell’etile in  particolare; e questo diverso criterio attraverso il quale questi individui “altri” intendono le sostanze rende gli standard condivisi in questa parte del mondo inadeguati a  leggere il loro comportamento, e a definire quando per questi si possa parlare di sintomo, di deviazione  in atto rispetto ad una condizione di salute , oppure no.

Questo tema dovrebbe trovarci sensibilizzati e pronti, perché il fenomeno migratorio è in evidente e prevedibile incremento nei nostri luoghi.

Anche in questo caso, l’elaborazione di una situazione forse patologica, di una condotta di abuso o di dipendenza, resa ancora più complessa dalla permanenza in situazioni geografiche e culturali che non sono quelle di origine, è pensabile solo all’interno di un percorso articolato che preveda uno spazio ed un tempo sufficienti  per elaborare gli stili della comunicazione e le modalità di costruzione dei vincoli, visto che questi, nella situazione attuale, sono riformulati in un assetto culturale diverso da quello in cui si sono stabiliti  quelli primari.

Persino nel nostro territorio, che ha una lunga storia di attenzione ai percorsi di integrazione fra servizi e fra istituzioni per la presa in carico ed il trattamento di problematiche ad alta complessità e valenza sociosanitaria, fino a pochi anni fa non era individuato il Servizio che a livello Sanitario Zonale doveva provvedere alla presa in carico degli utenti etilisti.

Quasi a confermare implicitamente ed inconsapevolmente un preconcetto che possiamo a tutt’oggi rilevare in media a livello nazionale, gli etilisti erano anche nella nostra zona trattati frammentariamente, spesso con interventi che non riuscivano a costruire una progettualità o un andamento progressivo per fasi articolate, e spesso entravano in azione presidi differenti che non sapevano l’uno degli interventi dell’altro.

Una delle risposte trattamentali che più frequentemente veniva restituita, al di là del momento del ricovero per l’adeguamento di alcuni indici somatici alterati dal consumo cronico della sostanza etilica, era il passaggio di competenze alla assistente sociale dell’area territoriale di riferimento; questa professionista spesso non poteva far altro che intervenire per rendere più snello il ricorso al ricovero successivo, rimedio da attivare in seguito al riproporsi della problematicità e alla eventuale manifestazione di disturbi comportamentali o di disagi nelle relazioni familiari.

Spesso coinvolte erano le forze dell’ordine, che intervenivano per contenere i problemi di ordine pubblico e/o privato che inevitabilmente andavano a configurarsi.

Questa ci è apparsa, ad un’indagine dedicata, un’emergenza sociosanitaria a tutti gli effetti; ci siamo interrogati sul perché fosse presente  questa  carenza e questa disorganizzazione nei dispositivi per il trattamento di questa questione clinica, abbiamo riflettuto ancora una volta su cosa pensiamo che sia una dipendenza da una sostanza, l’alcool, nella fattispecie: abbiamo quindi condiviso un punto di vista secondo il quale l’utilizzo “incontrollabile” di sostanze esogene, tra cui l’etile , è da leggere come sintomo di una perturbazione profonda dell’assetto psichico individuale, ma questa  perturbazione emerge da ciò che si è svolto e si svolge all’interno del gruppo di appartenenza di questo individuo, da qualcosa  che ha impedito l’individuazione libera da sintomi, l’accesso alla soggettività, ed il superamento della posizione dipendente, che, durante la fase simbiotica, fa parte fisiologica del nostro sviluppo evolutivo.

Quindi, i fattori che possono favorire tale perturbazione e tale arresto dello sviluppo sono riscontrabili a vari livelli, quello fisico-biologico, quello psichico, quello relazionale e sociale, in un intreccio di elementi, laddove il piano individuale si interseca con quello familiare, gruppale, istituzionale e comunitario.

L’intervento che abbiamo ritenuto adeguato è pertanto un approccio multidisciplinare e multiprofessionale, volto a limitare certamente i problemi di ordine somatico ed a perseguire un superamento del sintomo, per esempio attraverso i trattamenti farmacologici, ma altresì incentrato sull’attivazione di percorsi psicoterapici che possano favorire la rielaborazione degli accadimenti che hanno determinato il blocco evolutivo.

Per questo motivo, accanto allo strumento del ricovero, per esempio per la disuassefazione, o a quello della prescrizione farmacologia, abbiamo predisposto un dispositivo da utilizzare nella fase ambulatoriale del trattamento, che è quello del gruppo psicoterapeutico, con svolgimento all’interno del campo istituzionale

Il gruppo psicoterapeutico è stato pensato sia per gli utenti portatori del sintomo, sia parallelamente per i familiari di questi utenti, consapevoli che il percorso di cambiamento debba coinvolgere i vari ambiti che pensiamo che siano implicati nel determinare il disturbo, e non solo, quindi, quello individuale.

Tale strumento ci è sembrato adatto a rappresentare, in integrazione con altri trattamenti, un significato di cura alle problematiche presentate da questi individui e da questi gruppi familiari, in quanto attraverso di esso è possibile rielaborare e trasformare le dinamiche che si sono depositate, relative alle relazioni primarie, e che hanno predisposto gli integranti a restare bloccati in una posizione di dipendenza.

Lo strumento del gruppo si avvale della comunicazione fra gli integranti e fra questi ed il coordinatore, ed è proprio attraverso questo mezzo che il gruppo interno che ciascuno porta depositato dentro di sé, ed i vincoli che lo caratterizzano, può essere trasformato, nell’ambito della esperienza del rapporto con gli altri, nel qui ed ora del gruppo attuale. Questa attenzione a strutturare una situazione terapeutica che possa favorire la comunicazione scaturisce dall’idea che certe configurazioni possano cambiare; che ci si possa quanto meno interrogare “sul cambiamento, sugli ostacoli, sugli strumenti per sconfiggere gli stereotipi, e sul progetto” .  

Stiamo propugnando un sistema di interventi che, consapevole dei lunghi tempi che occorre dedicare a questo compito per via delle inevitabili resistenze al cambiamento, crede nella possibilità di superare le cristallizzazioni degli assetti.

E nella possibilità di riconoscere, elaborare e trasformare le stereotipie, che impediscono l’accesso alla soggettività, in modo che si possa imparare a pensare.

Forse sono questi elementi, l’apprendimento a pensare con il proprio pensiero e la capacità di superare le stereotipie, che diventano criteri di salute.

Quanto meno crediamo, e riporto A. Bauleo, nella sua prefazione a “Il processo gruppale” di E. Pichon – Rivière, che “l’obiettivo del gruppo sia segnalare le trappole che la resistenza al cambiamento instaura per impedire di pensarsi diversamente nelle relazioni interpersonali”.

E’ qualcosa di diverso dagli interventi incentrati sul mero superamento o occultamento di un sintomo, che, inevitabilmente, è destinato a trasformarsi in un altro, forse poco collegabile ad un primo sguardo con quello precedente, ma riconoscibile, invece, ad una analisi più attenta, come emergente dalle stesse problematiche di fondo, se non si è almeno tentata una loro rielaborazione. E’ un modo diverso e forse in controtendenza, rispetto alle derive attuali, di intendere la salute, e quindi di operare in suo favore all’interno delle istituzioni.

Il secondo è un prodotto scaturito, tra l’altro, da una analisi sugli esiti di un percorso terapeutico gruppale ed è stato utilizzato per una relazione all’interno di un altro Congresso dedicato alla tematica degli interventi in ambito alcologico, che si è tenuto nel 2011. La riflessione è maggiormente orientata intorno allo studio di sviluppo del dispositivo rappresentato dal Gruppo Operativo Psicoterapico promosso all’interno dell’assetto istituzionale, messo in essere in un’epoca in cui non era ancora stata attivata l’esperienza del gruppo multifamigliare:

 

Dagli assetti istituzionali al gruppo terapeutico Interventi in ambito alcologico nel Dipartimento Dipendenze Patologiche di Senigallia (Zona 4 ASUR Marche)

 

Questo intervento vuole perseguire lo scopo di illustrare come il concetto di integrazione, nel settore dei trattamenti inerenti le problematiche alcologiche, è stato tradotto in dimensioni operative nel DDP di Senigallia.

Questo concetto, l’integrazione, richiama un tema, che è quello degli ambiti, che ci sembra importante ridelineare.

Quando parliamo di ambiti, intendiamo orientare la osservazione della realtà configurandola come se fosse strutturata in campi.

Questi campi sono definiti da confini che possono essere pensati netti ed impermeabili, oppure flessibili e percorribili, attraversabili, tanto da poter pensare che quello che si svolge all’interno di ciascuno di essi entri in costante dialogo e relazione vicendevoli, fino a produrre un unico ultimo effetto strutturale di dimensioni globali.

Nella nostra impostazione concettuale e poi operativa, gli ambiti sono pensati in questo secondo modo, e questo modo di pensarli definisce il nostro lavoro.

A partire da come inquadriamo il problema della dipendenza, per passare a come definiamo la diagnosi di questa specifica sofferenza, fino alla costruzione delle dimensioni trattamentali, senza dimenticare la dimensione e l’organizzazione del presidio a cui apparteniamo, pensiamo i vari ambiti identificabili in questo processo come in costante dialogo reciproco, interagenti fino a configurare un unico quadro complessivo, una intera figura finale.

L’integrazione di cui parliamo è quindi proprio questo processo, per cui gli appartenenti ad ambiti tra loro inizialmente distinti o distinguibili concorrono a creare un quadro ed un effetto di sintesi, nel quale le differenti provenienze convergono e costruiscono una unica complessa realtà operativa.

Questo paradigma, nel nostro modo di pensare, è applicato a partire da ciò che pensiamo che sia una   condizione di dipendenza patologica, e nella fattispecie, quindi, anche una dipendenza da etile.

Al di là della specifica sostanza o situazione da cui un soggetto può patologicamente dipendere, noi abbiamo condiviso il concetto che la sofferenza presentata da un individuo con questo tipo di problema è l’effetto di una serie di eventi che riguardano sì il suo ambito individuale, ma anche gli ambiti familiare, gruppale, istituzionale e collettivo o comunitario.

Come dire che una serie di processi che attraversano tutti questi ambiti si sono “integrati” fino a manifestarsi con l’emergenza di una situazione di dipendenza patologica espressa da quel singolo soggetto.

Questo concetto di integrazione torna anche nel momento in cui definiamo la dipendenza, e quindi anche la dipendenza da etile, come la risultanza multifattoriale dell’intervento di fattori biologici, psichici, relazionali e sociali, che insieme concorrono per la definizione del quadro di sofferenza finale.

Ci sembra importante richiamare questo pensiero sulla dipendenza, perché si delinea come una modalità di inquadrare la questione in controtendenza rispetto ad alcuni punti di vista molto in auge che descrivono invece questo stato patologico come l’effetto di alterazioni biologiche e neurochimiche determinate geneticamente, e quindi ascrivibili al mero ambito individuale del soggetto; questi  punti di vista sembrerebbero, pertanto, non lasciare molto spazio  a possibilità plausibili di cambiamento, e adombrano l’ipotesi che l’intervento terapeutico debba essere unimodale, ed impostato quindi anch’esso su basi esclusivamente chimico – biologiche.

Pensando invece la dipendenza in termini integrati, o secondo l’ottica di una epistemologia convergente, il Dipartimento Dipendenze Patologiche di Senigallia si è configurato sulla base di una integrazione, appunto, multiprofessionale, transdiciplinare e interistituzionale.

La normativa prodotta dalla Regione Marche ha definito i Dipartimenti Dipendenze, che devono assumere in carico anche le situazioni di dipendenza da etile, come quei presidi in cui devono operare congiuntamente operatori di professionalità e discipline differenti, in cui devono essere prese in esame le determinanti e le soluzioni sanitarie e sociali, in cui devono convergere per una operatività comune gli operatori  appartenenti sia  ad istituzioni pubbliche che appartenenti al privato sociale, e nei quali si deve  articolare una costante interazione con Istituzioni di ordine diverso da quello Zonale o sanitario, ma che possono essere a vario titolo implicate nella gestione delle problematiche inerenti la dipendenza patologica o le condotte d’abuso.

Stiamo quindi ora parlando del concetto di integrazione applicato questa volta alla dimensione organizzativa ed operativa del Servizio.

All’interno del DDP la multidisciplinarietà,, la multiprofessionalità e la interistituzionalità  convergono, fin dal momento della formazione che si svolge in  comune, passando per i programmi di prevenzione, per  i momenti poi  della prima accoglienza, della elaborazione degli aspetti diagnostici, e della predisposizione dei protocolli trattamentali individualizzati, convergono, dicevamo, nel punto della effettuazione di progetti di cura che integrano varie possibilità di intervento, di ordine medico – biologico ed infermieristico, psicologico e psicoterapico, e di ordine sociale ed assistenziale.

Tali progetti di cura assumono l’aspetto di interventi che, come si può evincere da quanto più sopra definito, si rivolgono non solo al soggetto che giunge al Servizio presentando il suo problema franco di dipendenza, ma anche agli ambiti con i quali egli è in relazione, in modo specifico l’ambito familiare e quello gruppale.

I programmi multidisciplinari pensati ed eseguibili per le situazioni di dipendenza patologica da etile possono articolarsi secondo le opportunità rappresentate all’interno di una filiera, che è stata costruita nel tempo attraverso l’opera di collegamento, dialogo ed interazione tra la Zona, con i suoi presidi, ed altre realtà presenti sul territorio zonale e regionale.

Tale filiera permette di  spaziare dal protocollo ambulatoriale, al momento del ricovero in clinica o in reparto, al momento dell’invio a strutture semiresidenziali o residenziali ed infine al momento riabilitativo; entrando nel dettaglio, questo ventaglio di opportunità terapeutiche è messo in essere grazie alla esecuzione diretta all’interno della dimensione Dipartimentale, alla quale appartengono, come già detto, anche le realtà del Privato Sociale, attive su questo territorio per l’esecuzione di programmi inerenti le dipendenze patologiche, e anche  per via della interazione con istituzioni sanitarie appartenenti al sistema del Privato convenzionato, tra le quali, in questo specifico settore, svolge un ruolo centrale la Casa di Cura Villa Silvia: gli eventuali momenti del ricovero in regime di degenza per la disintossicazione o per la disuassefazione da etile, laddove ad una valutazione congiunta si considerino necessari, sono svolti infatti, nell’ambito del più vasto programma complessivo elaborato in accordo con il Servizio, o presso il reparto di Neurologia della Zona 4, o presso la Casa di Cura medesima, che predispone questa risorsa in virtù di una specifica convenzione con la stessa Zona. 

Sempre per restare nell’ambito della discussione intorno al tema della integrazione, ci è sembrato interessante riportare la descrizione ed il resoconto sul funzionamento di un dispositivo che è stato costruito nel  nostro Dipartimento e che  appartiene al  modulo trattamentale ambulatoriale, che fa parte   del  possibile programma terapeutico integrato ed individualizzato rivolto agli utenti affetti da dipendenza o abuso di etile, e che è reso possibile per la interazione di professionisti con competenze psicoterapiche  appartenenti, in questo specifico caso, in parte al Servizio Pubblico ed in parte al settore del Privato Sociale.

Questo dispositivo è rappresentato da percorsi di psicoterapia gruppale strutturati ed eseguiti secondo i termini ed il modello teorico della Concezione Operativa di Gruppo.

Un percorso è destinato agli utenti in fase di trattamento integrato ambulatoriale, ed un altro, parallelo, è destinato ai loro congiunti; i gruppi sono coordinati ciascuno da una coppia di operatori, e nel caso del gruppo dei congiunti la coppia è composta da un professionista del Servizio Territoriale Dipendenze Patologiche e da   uno del Centro Diurno Semiresidenziale gestito dal Privato Sociale.

Il gruppo degli utenti si svolge presso i locali del STDP, ed il gruppo dei congiunti presso i locali del Centro Semiresidenziale.

Le sedute sono settimanali, hanno la durata di un’ora e mezzo, ed i pazienti che possono avvantaggiarsi di questo tipo di presidio, che affianca altri potenziali interventi, se ritenuti necessari, di carattere medico e farmacologico, sono selezionati dall’équipe degli operatori all’interno del procedimento diagnostico integrato già sopra descritto.

La possibilità terapeutica viene presentata all’utente, che entra effettivamente nel percorso gruppale se aderisce alla proposta che gli viene presentata.

Si prevede, cioè, una libera adesione del paziente al percorso proposto.

Il percorso gruppale può rappresentare in se stesso il trattamento prescelto all’interno di un programma ambulatoriale, ma può anche essere preliminare o successivo ad una fase di ricovero in regime di degenza, o ad una fase di inserimento in Strutture terapeutiche o riabilitative.

Tali processi di gruppo  si pongono come finalità l’elaborazione di quella posizione psichica e relazionale rappresentata dalla dipendenza, senza che si faccia distinzione o si separino gli utenti sulla base della specifica sostanza di abuso con la quale si è strutturato il loro problema, e neanche separandoli sulla base del fatto che alcuni di loro siano in trattamento farmacologico ed altri no;  piuttosto si è tenuto conto del fatto che per tutti i soggetti con un problema di questo tipo, sia che siano dipendenti da etile, da oppiacei , da stimolanti, da relazioni patologiche con farmaci o con oggetti o situazioni ( internet, gioco d’azzardo), la dimensione del gruppo terapeutico può essere il campo all’interno del quale più che in altri si può catalizzare il processo che può restituire loro un senso di appartenenza coniugato con una maggior percezione della loro individualità, differenziazione ed autonomia, fornendo le basi su cui costruire una maggior capacità di progettare rispetto ai percorsi  della propria esistenza .

Ritenendo, come già detto, che la posizione dipendente si strutturi per via di processi che attraversano anche l’intero ambito familiare, si è attivato, come già riferito, un modulo gruppale con setting analogo anche per i congiunti degli utenti designati, e, anche qui, indipendentemente dalla specifica sostanza che compaia nella manifestazione della situazione patologica.

Sono pertanto raggruppati nel dispositivo i congiunti di utenti dipendenti da qualsivoglia sostanza, compreso l’etile, e anche qui, il compito del gruppo è quello di imparare a pensare quali meccanismi possano avere creato le condizioni per cui un membro del loro sistema familiare abbia manifestato la impossibilità di svincolarsi ed autonomizzarsi nel raggiungimento di una percezione sufficientemente buona della propria individualità, manifestando una posizione che lo fa permanere dipendente nel rapporto con sostanze, nei comportamenti o nelle situazioni.

Questa scelta di configurare dei gruppi “misti” nella composizione dei loro integranti, non separati cioè sulla base della specifica sostanza d’abuso, oltre che trovare i suoi fondamenti nella definizione della dipendenza così come è stata riferita, è stata perseguita tenendo conto di altri due fattori.

Uno è l’evidenza che sempre più frequentemente le condotte caratterizzate  da uso tossico di sostanze   e le situazioni di dipendenza si configurano sulla base di quadri di poliabuso, e che spesso si può registrare una alternanza nella scelta delle sostanze, una loro sostituzione nello svolgimento del tempo,  per cui un soggetto potrà presentare momenti in cui si relaziona maggiormente all’etile, ed altri in cui si dà maggiormente agli stimolanti o agli oppiacei; non solo, ma anche bisogna sottolineare come spesso le condotte di abuso alcolico accompagnino con costanza  l’appetizione verso un’altra  sostanza  prevalente: queste evidenze rendono ormai oltremodo difficile, anche se lo si ritenesse opportuno, selezionare con precisione pazienti con un franco, esclusivo e permanente abuso etilico.

L’altro è la consapevolezza teorica ed il riscontro operativo relativamente al dato che la eterogeneità degli integranti di un gruppo favorisce all’interno di quel medesimo gruppo la circolazione della comunicazione, ed evita che i contenuti si fossilizzino introno a tematiche monotone e ricorrenti che farebbero altrimenti troppo strettamente identificare tra loro integranti molto omogenei l’uno rispetto all’altro, rallentando così il processo di differenziazione e discriminazione.

 Questo è vero sia per quanto riguarda i pazienti direttamente colpiti dallo stato di dipendenza, sia per ciò che attiene ai congiunti, ai familiari.

Fa parte della nostra pregressa esperienza aver visto svolgersi intere sedute in gruppi caratterizzati da una elevata omogeneità durante le quali l’unico argomento sul quale costantemente gli integranti ritornavano e si reiteravano era quello relativo all’aspetto che li accomunava, per esempio l’esperienza con la stessa specifica sostanza d’abuso.

L’eterogeneità fa sì che gli integranti possano riconoscere, mano a mano, per via dello svolgersi del processo gruppale terapeutico, che al di là delle differenze che possono presentare rispetto alla scelta delle sostanze o riguardo ai comportamenti che li hanno bloccati nella condizione dipendente, e che si possono vicendevolmente raccontare, esistono  meccanismi più profondi, non immediatamente visibili, inizialmente latenti, intorno ai quali possono imparare a pensare insieme, e che hanno fatto sì che per ciascuno di loro la separazione e l’individuazione siano state fino a quel momento esperienze insopportabili, o l’attaccamento e il senso di appartenenza siano stati impossibili.

Nell’arco dello svolgimento di tali percorsi, abbiamo potuto notare alcuni dati interessanti e che vorremmo condividere per poter effettuare alcune valutazioni.

Il primo è che c’è tendenzialmente, in alcune persone, una sorta di resistenza preliminare ad intraprendere questi processi di gruppo.

 Sembrerebbe questo essere un po’ più vero in linea generale per i congiunti che per gli utenti designati.

Ciò comporta che ci debba essere un adeguato percorso di motivazione che li accompagni infine in questa decisione, l’ingresso nel gruppo, percorso che in genere è sostenuto dall’operatore che fino al momento della proposta di invio al modulo gruppale tratta la situazione individualmente o all’interno di un setting familiare.

A volte tale percorso di motivazione sembra molto problematico, o non sortisce esito positivo, e ci siamo posti il dubbio che forse possa esserci anche una sorta di resistenza latente negli operatori a svincolarsi essi stessi dai pazienti, con i quali avevano stabilito un vincolo individuale.

Un altro dato è che la frequenza dei familiari al gruppo per loro predisposto si è accompagnata ad un maggior indice di ritenzione in trattamento degli utenti “designati” all’interno dei loro specifici dispositivi di cura. E questo aspetto ci è sembrato particolarmente interessante.

Per ciò che riguarda le risultanze relative  al gruppo degli utenti, abbiamo strutturato  una  valutazione  dell’esperienza raccogliendo dati dall’inizio del  2008 fino all’agosto 2010: si è potuto rilevare che su 33 soggetti che hanno beneficiato del presidio 6 sono stati dimessi per programma di cura completato con esito positivo, 4 hanno finalmente elaborato la decisione di fare ingresso in strutture residenziali, 8 sono rimasti ancora in carico, continuando positivamente il programma di cura e manifestando una ferma intenzione di proseguire il trattamento, 13 pazienti hanno effettuato meno di cinque sedute ed hanno interrotto la frequentazione del gruppo, ma sono rimasti in  carico al Servizio e continuando un programma di cura individuale, 1 ha interrotto i rapporti con la Struttura.

E’ stata rilevata una correlazione positiva tra la maggior frequenza al numero delle sedute e la riduzione del sintomo tossicomanico. Durante il processo infatti 12 pazienti sono risultati costantemente negativi alle sostanze testate tramite analisi di laboratorio e 6 hanno ridotto considerevolmente il ricorso alla sostanza primaria d’abuso.

Tutti i pazienti presentavano al momento della selezione per l’avvio della esperienza gruppale un problema di abuso alcolico, per due di questi l’etile era la sostanza di abuso primaria, per gli altri, in vario modo assuntori, era la sostanza d’abuso secondaria.

Ma al di là dell’esito relativo alla sospensione o alla riduzione dell’uso delle sostanze, ci sembra interessante poter valutare altri aspetti che ci possano dare conto della realizzazione del processo nella direzione di un miglioramento delle condizioni degli integranti.

La Concezione Operativa che utilizziamo nello svolgimento del lavoro gruppale prevede che siano individuati dei vettori di valutazione, che ci servono per dare conto ed interpretare il processo realizzato.

Tali vettori sono la comunicazione, l’apprendimento, la appartenenza, la pertinenza, la cooperazione, il clima creato e la acquisizione della possibilità di progettare.

Un altro elemento che valutiamo è il grado di discriminazione raggiunto dagli integranti l’uno rispetto all’altro.

Durante tutto il processo gruppale si manifestano ovviamente delle resistenze al cambiamento, e un altro dei modi che abbiamo per darci conto se il processo gruppale sta funzionando nel senso di promuovere un maggior grado di salute nei suoi integranti è inoltre quello di valutare se le resistenze al cambiamento siano in via di risoluzione o quanto meno di riduzione.

Il processo gruppale è iniziato con una fase caratterizzata da una grande ansietà, dalla impossibilità per gli integranti di sentire che si potevano costruire vincoli tra loro, e dalle resistenze a potersi pensare differenti da come i luoghi comuni e loro stessi si dipingono in quanto tossicodipendenti; inoltre, inizialmente, si poteva osservare una importante negazione degli aspetti emotivi ed affettivi, che venivano sperimentati come intollerabili. 

Nel corso del tempo gli integranti sono passati attraverso una fase intermedia, nella quale l’emotività ha potuto cominciare ad avere accesso, grazie anche al fatto che lentamente ha iniziato a rendersi possibile l’esperienza di costruzione di vincoli più fiduciosi tra loro, ma era questa  ancora una fase nella quale, come  in un percorso a spirale, il gruppo tornava sui medesimi punti di resistenza e di ansia; erano però decisamente migliorate la comunicazione, che ha integrato gli aspetti affettivi, la pertinenza al compito che il gruppo si è dato, e cioè pensare sulla situazione dipendente e sui problemi da questa creati, e l’apprendimento: infatti i partecipanti  hanno cominciano a poter mettere in relazione i sintomi che hanno sviluppato con alcuni aspetti del loro mondo interno e con i depositi degli accadimenti della loro storia.

Nella fase successiva, l’ultima analizzata, i partecipanti hanno sviluppato una maggior capacità di elaborazione in merito al senso dei vincoli, quelli attuali, nel gruppo, messi a confronto con quelli che hanno caratterizzato la loro storia ed il loro precedente vissuto: hanno potuto cominciare a promuovere per se stessi un senso maggiore e meno ansiogeno di appartenenza.

Nell’ultima seduta del ciclo, che si è interrotto per la pausa estiva, e  che è poi ripreso in ottobre  con l’ingresso di integranti nuovi, il processo, che ha contribuito a produrre alcune risoluzioni e le conseguenti dimissioni di alcuni membri, era così delineato: gli integranti esprimevano un maggior senso di emancipazione, discriminazione ed apprendimento, pur conservando la paura di perdere un sostegno che per alcuni di loro, quelli che sarebbero poi rimasti ancora a proseguire il programma, sembrava ancora fortemente necessario; il miglioramento delle condizioni ha permesso di dimettere alcuni di loro, mentre altri sono rimasti in attesa di poter riprendere il lavoro terapeutico.

Sembra insomma di poter formulare la seguente considerazione: il dispositivo del gruppo misto, che è una parte dei complessi costrutti scaturiti dalle pratiche di integrazione transdisciplinare ed interistituzionale, si dimostra uno strumento efficace nel poter accompagnare, insieme ed in interazione con altri aspetti della terapia, gli utenti e le rispettive famiglie nella esplorazione e nella elaborazione della dipendenza: sembra che questo specifico processo gruppale permetta loro finalmente di poter tollerare un po’ di più la individuazione e la differenziazione, migliorando pertanto il livello e la qualità della  dipendenza nei loro sistemi.

 

Spero che i contributi che ho avuto desiderio di condividere oggi, riemersi dalla storia del Servizio e della équipe, possano fungere da un lato da testimonianza di cosa facevamo e come pensavamo e, dall’altro, da elemento di esperienza intorno alle tematiche descritte, forse non così datate, sul quale poter calibrare il pensiero di oggi per rinnovare la operatività.

 

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Fondamento teorico dell’intervento nei gruppi multifamiliari, dal vertice della concezione operativa di gruppo

Gio, 24/06/2021 - 08:47

di Loredana Boscolo

 Chioggia – Venezia – 23 aprile 2021

V INCONTRO INTERNAZIONALE DEI GRUPPI PLURIFAMILIARI (23, 24 APRILE)

RILEVANZA E AGGIORNAMENTI SUL DISPOSITIVO MULTIFAMILIARE: SFIDE ALLA CREATIVITÀ

 

Fondamento teorico dell’intervento nei gruppi multifamiliari, dal vertice della concezione operativa di gruppo

 

“La familia funciona cuando proporciona
al marco adecuado por la definición y
conservación de las diferencias humanas”.
Pichón Rivière      

Oggi parliamo d’attualità del dispositivo del gruppo multifamiliare in questo momento storico sociale di pandemia planetaria, di malessere generalizzato, sociale, istituzionale e globale. Viviamo in un mondo in qui sta crollando il sistema capitalistico e neoliberale. Aumentano le disuguaglianze, i disoccupati, i lavori precari, emergono nuove povertà.

La nostra vita quotidiana, le relazioni familiari, i vincoli personali, di amicizia e professionali sono contagiati da questo clima di pandemia. Si mettono a nudo i nostri limiti in relazione al conosciuto, alle nostre fragilità e vulnerabilità; viviamo con un sentimento di incertezza. Dobbiamo fluttuare tra paura e le possibilità, nel presente tra passato e futuro.

La domanda principale oggi sarebbe: che idea abbiamo e come ascoltiamo la famiglia? Che tipo di apparato psichico e sociale utilizziamo nella nostra operatività quotidiana?

Inesorabilmente i vincoli all’interno della famiglia sono cambiati: è aumentata la sofferenza nei vincoli familiari, la violenza domestiche, i femminicidi, gli abusi sessuali sui minori. L’aumento dei divorzi e le diverse ricomposizioni familiari, dove convivono nella stessa famiglia figli di più matrimoni con nuovi partner, diversi dai genitori biologici.

Bambini che hanno due padri o due madri che si prendono cura di loro.

Stiamo assistendo a un fenomeno globale di diminuzione delle natalità. Se da una parte, la liberazione della donna, la diffusione dell’uso di contraccettivi, e la introduzione nel mondo del lavoro ha favorito una nuova soggettività sociale di emancipazione.

Però dall’altra parte, e presente la mancanza di lavoro e la possibilità di acquistare o affittare una casa. Questi cambiamenti nella famiglia contemporanea modificano profondamente le condizioni di esistenza delle persone e dei loro vincoli, producendo conseguenze sia nell’organizzazione psichica e sia nell’organizzazione sociale.

Inserendo in questo quadro generale, il lavoro con il gruppo multifamiliare, diventa uno dei dispositivi più appropriati, urgenti da applicare e implementare nel campo clinico-terapeutico, educativo, e soprattutto a livello preventivo comunitario.

Questo congresso è un’occasione per interrogarci sui diversi modelli e metodologie di intervento con il gruppo multifamiliare.

Le differenze servono per creare dialogo e per aprire la mente.

Svilupperò due nozioni centrali del concetto operativo di gruppo: Compito e Emergente.

Due nozioni teoriche di base per organizzare un’idea minima intorno al gruppo, nozioni trasversali che ci permettono:
1) La comprensione del funzionamento del gruppo multifamiliare.
2) Il lavoro multifamiliare post-gruppo dell’incontro di sviluppo dell’équipe terapeutica.

 

1) La comprensione del funzionamento del gruppo multifamiliare

In relazione al primo punto, articolerò la relazione gruppo multifamiliare e compito. Voglio sottolineare che la nozione di compito non va presa in modo formale, diciamo pure da un punto di vista pedagogico; poiché è il compito che fonda e stabilisce il gruppo.

È l’elemento che dà significato alle dinamiche e alla struttura gruppale.

Possiamo intenderlo come una metafora. Dal punto di vista del nostro schema concettuale di riferimento operativo, partiamo da una triangolazione: gruppo-compito e coordinazione.

Schema minimo (Figura 1, Figura 2) tra cui collochiamo la nostra comprensione dei disturbi dell’apprendimento, della comunicazione, della comparsa dei sintomi e delle disfunzioni familiari. All’interno di questo inquadramento triangolare osserviamo il movimento latente della struttura che produce un certo tipo di emergente.

La concezione operativa di gruppo, si differenzia dalle altre teorie perché per noi tutto inizia dal compito che istituisce il gruppo.

Il passaggio tra aggruppamento e gruppo, è un costante gioco dialettico, sarà il compito che sosterrà e sopporterà il gruppo in questi passaggi. Il gruppo durante tutto il processo oscillerà tra pre-compito e compito. In altre parole, nel momento della pre-compito, nel momento del compito si presenteranno gli aspetti più difensivi, le riproduzioni ideologiche e gli aspetti istituzionali. Nell’entrata nel compito, prevarranno gli aspetti di trasformazione: creativi, immaginativi.

La funzione dello psicoterapeuta, del coordinatore o dei coordinatori, sarebbe quella di: segnalare, costruire la interpretazione, di ciò che accade nel vincolo gruppo-compito: gli ostacoli, le resistenze al cambiamento e facilitare le opportunità di sviluppo, e quando è necessario porre i limiti.

Il coordinatore non è il leader del gruppo. Il leader è il compito.

Questo è un aspetto fondamentale per creare meno dipendenza dal coordinatore o coordinatori.  L’azione terapeutica, sarebbe come restituire al gruppo multifamiliare il deposito che viene assegnato all’equipe dei coordinatori, affinché il gruppo possa elaborare gli aspetti più indiscriminate dei vincoli tra di loro. (Processo gruppale, la teoria delle tre D di Pichón Rivière).

Tra l’altro, si rompono le complicità. Per esempio: il rischio che il coordinatore o i coordinatori si trasformino in un membro della famiglia.

Nel passaggio di aggruppamento multifamiliare a gruppo multifamiliare emergono le difese più arcaiche, le resistenze e le relazioni sincretiche.

Analizzeremo le costruzioni e decostruzioni dei vincoli che gli individui sviluppano attraverso l’identificazione proiettiva-introiettiva, rappresentazioni e fantasmi che ciascuno ha di sé stesso in relazione agli altri membri del gruppo multifamiliare. Cioè, costruiranno una rete immaginaria gruppale.

Questi sono gli elementi che creano un’atmosfera emozionale. Sarebbe la tensione del movimento che si produce tra pre-compito e compito. Un esempio concreto è il momento in cui lavorando con il gruppo multifamiliare c’è sempre qualcuno che entra senza bussare alla porta per prendere qualche oggetto o cercare qualcuno, un altro esempio è quando un componente del gruppo risponde al telefono o manda dei messaggi. Attraverso questi comportamenti vediamo un certo tipo di aggressione e ci chiediamo perché un gruppo multifamiliare permette un certo tipo di aggressione? La nostra ipotesi è che sempre questo ha che vedere con la dinamica gruppale da esso prodotta. Nel momento del pre-compito, si presentano i ruoli formali istituiti dallo status quo: di mamma, papà e figli. Per questo ci piace ed è essenziale differenziare il ruolo dalla funzione. Perché in questa differenziazione transita dal nostro punto di vista, la nozione di vincolo. Una madre o un padre, non sono madre e padre per sempre, lo sono finché svolgeranno questa funzione, ma tale funzione soprattutto nella attualità può essere svolta anche da altri membri della famiglia o dagli amici.

Generalmente, le figure genitoriali o filiali corrispondono al ruolo concreto biologico specifico, al vincolo di sangue. Quando funzionano i ruoli fissi definiti istituzionalmente, prevalgono gli stereotipi del movimento della assunzione e dell’aggiudicazione dei ruoli. Queste sono le situazioni critiche o di criticità perché ci indicano il movimento di come sono stati costruiti i vincoli tra di loro. Siano essi sani o patologici, però soprattutto ci danno l’idea della struttura e delle dinamiche di gruppo.

Quando parliamo di vincoli e funzioni, non parliamo di persone fisiche, ma di ciò che sta nel “mezzo”.

Parliamo del “tra“, cioè quell’area di transito che c’è tra il tu e l’io e viceversa. Quell’area di transito che produce e costruisce il noi gruppale.

Con il gruppo multifamiliare è necessario favorire uno spostamento tra funzione e biologia. Molte volte non è facile pensare alla funzione separandola dalla biologia.

Il nostro ECRO, ci permette di pensare a partire dalle tre funzioni (Vedere figure 1 e 2), di dare un altro significato a questi vincoli, siano essi: inter, intra o trans. Lasciamo il livello biologico per pensare di più sul piano della rappresentazione, del simbolico e di un immaginario diverso. Gli effetti di questi vincoli producono diversi tipi di soggettività sana o patologica, come afferma Bauleo: “Lo sguardo all’interno dei gruppi è uno dei problemi maggiori (perché il terzo è sempre presente) è necessario fare uno sforzo per separare lo sguardo dal ascolto per osservare come sono i vincoli all’interno del gruppo”.

Oltre la nozione di compito, utilizzeremo la nozione di emergente, la quale ci offre la possibilità di allargare il campo di osservazione da una prospettiva individuale ad un vertice gruppale.

L’emergente è quell’elemento che ci può orientare, ci segnala come un meccanismo difensivo rigido patologico ostacola un processo di salute, prima di rimanere incagliati nelle acque stagnanti della malattia.

 

2) Il lavoro multifamiliare post-gruppo di elaborazione dell’équipe terapeutica

In relazione al secondo punto, molto valido è lo spazio di elaborazione del vincolo gruppo multifamiliare e elaborazione post-gruppo dell’équipe. L’interrogativo sarebbe: come si integrano i diversi schemi di riferimento, il pluralismo dei punti di vista di ognuno, come si aggiustano i canali di comunicazione e i conflitti, per affrontare la complessità o meglio detto l’ipercomplessità, senza riduzionismi o banalizzazioni, ossia come si costituisce l’orizzontalità dell’equipe senza che prevalgano gli individualismi o i narcisismi poco funzionali al compito terapeutico o preventivo?

Segnalerei dal mio punto di vista che il processo di integrazione mette sempre in gioco una tensione tra identità e differenti appartenenze personale e istituzionali. Come funzionerebbe la psicoanalisi integrativa? Dice E. Mandelbaum: “lo scopo sarebbe quello di integrare teoria e pratica con gli aspetti affettivi, mentali e cognitivi”.

Credo che per arrivare a questa fondamentale integrazione nel lavoro con il gruppo multifamiliare si debbano affrontare gli elementi collegati alla resistenza del cambiamento. Il processo di integrazione richiede necessariamente l’apprendimento di una metodologia di lavoro gruppale che risponda a due livelli:

A) All’ipercomplessità del campo di intervento.
B) Alla possibilità di riflettere sulla propria implicazione.

 

Lo scopo dell’elaborazione sarebbe quello di costruire un’idea comune, in relazione al vincolo gruppo multifamiliare e processo terapeutico, poiché ritengo molto prezioso e fertile il momento dello spazio di elaborazione. Per questo credo, affinché, funzioni la comunicazione si dovrebbe avere un codice comune tra i membri dell’equipe di comprensione del processo terapeutico.

Nella nostra esperienza di lavoro con il gruppo multifamiliare, noi ricercatori della scuola Bleger di Rimini, usiamo come chiave di lettura la nozione di emergente comprendere il processo gruppale. L’emergente sarebbe la punta dell’iceberg che emerge dal magma e che disvela le parti latenti delle situazioni gruppali familiari. Imponendosi come elemento nuovo e imprevisto, producendo una qualità diversa dalla situazione stessa. La successione e il ritmo degli emergenti ci indicano il camino, rendendo possibile l’osservazione delle vicissitudini, delle fantasie inconsce gruppale, delle identificazioni incrociate o delle coazioni a ripetere.

L’emergente deriva dal latino participio passato: “emergere, accade come un accidente impensabile e inaspettato”.

L’emergente palpa gli aspetti controtransferali e, più in generale l’implicazione di ciascuno dei professionisti: come mi implico e come sono implicato.

D’altra parte, l’emergente dipende anche dal controtransfert istituzionale dell’équipe, dalla propria storia personale articolata con la formazione e con le proprie esperienze vissute.

L’emergente sarebbe il segnale che indica una traccia, che qualcosa è successo, se ignoriamo questi segnali, gli aspetti fisici e psichici continueranno ad esprimere i loro emergenti. Producendo sintomi o altre ripetizioni gruppali.

 

Loredana Boscolo Buleghin
Psicologo Psicoterapeuta
Email: loredana.boscolo@alice.it

 

Bibliografia:

Armando Bauleo, Psicoanalisi e Gruppalità, 2000.

Armando Bauleo, Ideologia, Gruppo e famiglia, Feltrinelli, Milano 1978.

Armando Bauleo e De Brasi MS, Clinica Gruppale – Clinica Istituzionale, Il Poligrafo, Padova 1994.

Bion, W. Esperienze nei Gruppi, Armando Editore, Roma 1971.

José Bleger, Simbiosi e Ambiguità, 1992.

Eduardo Mandelbaum, Teoria e pratica dei gruppi multifamiliari, Edizione Nicop Saggi, 2017.

Pichón Rivière, Il processo gruppale, dalla psicoanalisi alla psicologia sociale, Edizione Lauretana Loretto, 1986.

Pichón Rivière, La teoria del Vincolo, Edizioni Nueva Vision, 1979.

Progetto di Lavoro interdisciplinare e interazione sulla salute della persona, del gruppo familiare della comunità, ricerca finalizzata di sanità pubblica. ULSS17 Monselice, Padova. ULSS14 Chioggia, Venezia, e Regione Veneto giunta Regionale. Edizione Cleup, 2009.

 

 

 

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I gruppi multifamigliari

Sab, 27/02/2021 - 14:56

di Massimo De Berardinis

Prima parte: da raggruppamento a gruppo

Nella relazione che mi accingo ad esporre mi servirò di nozioni ben conosciute nella loro applicazione alla psicoanalisi dei gruppi e di altre, forse meno note, ma altrettanto utili per addentrarci nella comprensione della complessa fenomenologia clinica dei gruppi multifamigliari. In premessa voglio ricordare che le trasformazioni dell’ambito istituzionale possono esercitare effetti, sugli ambiti famigliari ed individuali, di gran lunga maggiori di quelli che le trasformazioni di questi ultimi possono esercitare sull’ambito istituzionale.

Voglio anche ricordare come la cultura accademica ci abbia ripetutamente proposto l’idea che i soggetti nascano isolati e che solo successivamente si riuniscano a formare dei gruppi; al contrario la Concezione Operativa ci ha dimostrato che l’essere umano, prima di diventare soggetto, “appartiene” ad un gruppo, anzi, nello stato di indiscriminazione, che precede la distinzione io-non io, così come ce lo ha iconicamente descritto Bleger, egli è il gruppo! Nell’ottica blegeriana, pertanto, l’istituzione famigliare costituisce, all’inizio della vita psichica del soggetto ed in maggiore o minore misura, anche nel seguito, il ricettacolo delle parti più immature e meno discriminate dei suoi membri.

E’ altresì opportuno ricordarein premessa che nei gruppi primari tutti i membri tendono a funzionare da depositari per ciascuno degli altri, assumendo ed attuando, in modo complementare, i ruoli depositati. Può perciò accadere che quando questi gruppi attraversano fasi di instabilità, il membro che si è fatto maggiormente carico delle ansie e dei conflitti famigliari, possa veder crollare le proprie difese e divenire il depositario del ruolo di malato (il cosiddetto capro espiatorio).

I gruppi primari che ci vengono inviati per il trattamento multifamigliare presentano tutti, in misura più o meno pronunciata, questo tipo di problematiche. Ora, prima di addentrarmi in altre considerazioni, vorrei presentare brevemente qualche esempio sulle modalità di comportamento che gli integranti di questi gruppi tendono ad assumere in occasione dei primi incontri multifamigliari. Sebbene le famiglie vengano inviate con l’indicazione al trattamento di tutto il gruppo, pur tuttavia, già dal primo incontro di contrattazione, possiamo osservare come i membri, “cosiddetti sani”, tentino sempre una ridefinizione dell’invio cercando di apparire come accompagnatori dei “cosiddetti malati” e si comportino come certi genitori, con figli un po’ turbolenti, nei primi giorni di inserimento alla scuola materna!

Essi parlano di fronte ai loro congiunti come se non ci fossero o non capissero…strizzano l’occhio ai curanti…ammiccano e tentano, in ogni modo, di far intendere che i malati non sono loro ma “quelli lì”.E’ interessante notare come i pazienti accettino passivamente questo ruolo, lasciandosi trattare, senza reagire, come se fossero dei “bimbi un po’ tonti”.

Quando la situazione si presenta, sin dall’inizio, con aspetti così fortemente resistenziali, può essere opportuno evitare inutili contrapposizioni rimandando le famiglie agli invianti per una ridefinizione delle indicazioni di cura. Ma anche quando la fase contrattuale viene conclusa, almeno sul piano manifesto, con la definizione del compito di lavorare sulle difficoltà che, a vario titolo, tutti i membri delle famiglie si trovano ad affrontare in quella fase della loro vita, la situazione resistenziale tende ugualmente a riproporsi seppur con caratteristiche diverse.

Inizialmente le famiglie si dispongono in cerchio, senza mescolarsi, anche se poi ciascun gruppo tende rapidamente a scindersi in due sottogruppi: quello dei sani e quello dei malati.Solitamente i primi a prendere la parola sono i cosiddetti membri sani attraverso la descrizione delle “mancanze” di cui si renderebbero “colpevoli” i cosiddetti membri malati; essi parlano degli sforzi compiuti, delle terapie inutilmente tentate, del sentimento di impotenza che li attanaglia… per poi concludere con la richiesta rituale, di “fare qualcosa per guarirli”!

Dopo queste “presentazioni” iniziali, la“geografia”del gruppo va incontro a dei rimaneggiamenti caratterizzati dai movimenti dei membri sani che, spinti da un bisogno di “solidarietà”, si spostano per costituire piccoli sottogruppi, di due, tre persone, molto attivi nel dimostrarsi comprensione affettiva; i malati, invece, tendono arestare ancorati ai loro posti, accanto alle figure famigliari maggiormente protettive.Spesso si assiste anche al fatto che i fratelli e le sorelle dei “pazienti designati”, diano vita ad un ulteriore sottogruppo, spazialmente disperso, ma riconoscibile per la comunanza del tono polemico e rivendicativo verso il Servizio di Salute Mentale, il Servizio Sanitario, il Governo… il mondo intero… considerati “responsabili”di non aver fatto e di non fare abbastanza per i loro congiunti.

Per un tempo di durata variabile la dinamica del gruppo si mantiene incentrata sulla scissione tra sani e malati ed ogni momento “è buono”perchè i membri sani tornino a stigmatizzare il comportamento dei malati “… Il mio fa così Anche il suo?… Pensi che una volta… Sapesse… Ma no!… Davvero?… Proprio come il mio!… Dottore… Come si può fare?”… E via di questo passo!!

Il sottogruppo “depositato”, quello dei pazienti, solitamente resta silenzioso, lascia dire,al più, attraverso l’esibizione di marcati sintomi psicopatologici, provvede, paradossalmente, a confermare la divisione tra sani e malati. Quello che ho appena descritto è solo uno dei possibili esempi di come gli integranti del gruppo, del tutto inconsapevolmente, si adoperino per restare in fase di pre-compito, cioè oppongano “resistenza” all’ingresso nella fase di compito… in questo caso…. aggrappandosi ognuno ai propri “ruoli storici”!

In queste circostanze la funzione del coordinatore sarà essenzialmente rivolta a rinforzare il setting e a segnalare ed interpretare le ansie di base che si frappongono all’ingresso del gruppo nella fase di compito. La fase di pre-compito tenderà a ripresentarsi tutte le volte che il gruppo si troverà di fronte ad un cambiamento; se la coordinazione riuscirà a non cedere né alle lusinghe collusive dei sani né alle richieste di dipendenza dei malati, il gruppo si avvierà nel difficile percorso di cura che, si auspica, possa favorire la crescita di ciascuno dei suoi membri. Tutti i gruppi, come dice Pichon Rivière, hanno un andamento pendolare, a spirale, che li porta ad oscillare tra le fasi di pre-compito e quelle di compito. Il pre-compito è, per eccellenza, il momento nel quale emergono maggiormente le resistenze al cambiamento; è la fase nella quale il gruppo tenta di affrontare problemi nuovi con modalità vecchie.

L’emergere delle angoscie di base, propriamente paranoidi, depressive e confusionali, mobilitate dai timori di perdita dei vecchi riferimenti e dalla minacciosità del nuovo, determina la comparsa di tecniche di difesa che hanno lo scopo di eludere le ansie e rinviare il compito, come, per esempio, abbiamo potuto vedere nell’esempio citato, quando tutti gli integranti resistono al nuovo, attraverso il mantenimento dei loro vecchi ruoli di sani e di malati. E’ fondamentale che, in questi frangenti, il coordinatore non faccia propria la difficoltà del gruppo ricorrendo alla rassicurazione, cioè non confonda il proprio compito con quello del gruppo, perché se così facesse finirebbe col trasformare il lavoro terapeutico in lavoro di supporto. Ma che differenza c’è tra i gruppi multifamigliari e gli altri tipi di gruppo?

– Nella terapia, cosiddetta individuale, la relazione terapeutica è caratterizzata dall’incontro tra due corpi fisici ed dall’irrompere, nello spazio terapeutico, di molteplici “personaggi” che popolano il gruppo interno del paziente e il gruppo interno del terapeuta. In questo “particolare tipo di gruppo” l’analisi del transfert e del controtransfert costituisce l’asse portante del lavoro terapeutico.

– Nei gruppi operativi (gruppi secondari, dove sono i soggetti a costituire il gruppo) i corpi fisici sono numerosi ed ancor di più i personaggi dei gruppi interni che affollano le sedute. Qui l’analisi del transfert individuale è subordinato all’analisi della relazione gruppo –compito. I processi di proiezione-introiezione e di aggiudicazione-accettazione orifiuto dei ruoli costituiscono il “moltiplicatore terapeutico” grazie al quale è possibile addivenire, a livello individuale, alla ridefinizione dei modelli relazionali primari internalizzati.

– Nella terapia dei gruppi famigliari (cioè dei gruppi primari, dove è il gruppo a costituire i soggetti e non viceversa) occorre innanzitutto tener presente che il paziente è il portavoce, l’emergente della malattia famigliare;pertanto il trattamento sarà primariamente rivolto alla rottura dello stereotipo dell’aggiudicazione e dell’assunzione del “ruolo di malato”; quindi si procederà alla individuazione ed all’elaborazione del nucleo depressivo di base; è da questo, infatti, che discendono tutte le strutturazioni patologiche che rivelano il fallimento dei tentativi messi in atto per elaborarlo.
Infine ci si occuperà della prevenzione del ripetersi dello stato di malattia famigliare, favorendo il riadattamento delle strutture individuali e gruppali.

– I cosiddetti gruppi multifamigliari, di cui ci occupiamo in questarelazione, sono invece costituiti da un insieme di sottogruppi strutturati (ma non qualsiasi, poiché si tratta di gruppi primari) che da vita ad una realtà molto particolare, che potrebbe essere definita di “oscillazione dinamica”tra la possibilità di trasformarsi in un gruppo di individui, discriminati e differenziati, e quella di restare un “raggruppamento di gruppi primari”.

Già sappiamo che la struttura istituzionale dei gruppi primari svolge la funzione di contenere, accogliere e bloccare le parti indiscriminate della personalità dei suoi membri e che ogni modifica di questa struttura può liberare l’angoscia in essa depositata; sappiamo anche che in assenza di un’idonea elaborazione l’angoscia può prendere la via del sintomo. Eppure la nostra aspettativa di cura è proprio quella di vedere modificata la stereotipia dei vincoli famigliari; che cioè il lavoro terapeutico possa determinare un allentamento della fissità degli “istituiti famigliari”a vantaggio di nuovi possibili “istituenti”.Come possiamo adoperarci, allora, affinchè l’attivazione, non occasionale, della potente macchina istituzionale produca trasformazioni senza determinare dei “terremoti catastrofici” negli integranti del gruppo?

Nella mia esperienza ho potuto constatare che per favorire il conseguimento di questo obiettivo occorre che si produca un “travaso”, al gruppo multifamigliare, della funzione istituzionale inizialmente assolta dai gruppi primari; perché questa operazione si realizzi è necessario che il gruppo multifamigliare assuma “carattere istituzionale”, cosa che può avvenire tramite l’adozione ed il mantenimento di un setting definito.

La dimostrazione dell’avvenuto travaso si renderà evidente, alla coordinazione, attraverso il rilievo di un aumento dei tentativi, operati dai singoli integranti, di prendere distanza dai gruppi primari, alla ricerca di una maggiore autonomia. Per altroverso il favorevole ingresso nella fase di compito, reso possibile dal setting e dal lavoro interpretativo della coordinazione, verrà segnalato dal manifestarsi di una posizione depressiva legata alla percezione della perdita della dipendenza dal gruppofamigliare, ma anche da un’attenuazione della posizione paranoidea di fronte alla minacciosità del nuovo. Da questo momento in avanti il compito del gruppo sarà quello di affrontare ed elaborare le ansie derivanti dalla rottura dello stereotipo, dalla trasformazione dei vincoli con i gruppi primari, dal procedere dall’indiscriminazione verso la discriminazione… in breve, dal passaggio da “raggruppamento di gruppi” a “gruppo di integranti”.

Nel lavoro di segnalazione e di interpretazione, che entrerà in gioco ogni qualvolta si profilerà un ostacolo sulla strada verso il conseguimento del compito, sarà posta una particolare attenzione a due aspetti fondamentali:

– al già ricordato va e vieni da raggruppamento a gruppo e viceversa (oscillazioni pre-compito -compito).

– ai fenomeni transferali che interessano la coordinazione, gli integranti, il compito e l’extragruppo.

Se del primo punto ho già parlato, il secondo merita ancora qualche approfondimento.

Partendo dalla teoria delle relazioni oggettuali vediamo come queste relazioni, una volta interiorizzate, vengano poi organizzate (a seconda delle modalità conle quali le sperimenta emozionalmente l’io del soggetto in via di sviluppo) in forma di rappresentazioni del mondo esterno. Queste rappresentazioni non riproducono mai il mondo dei rapporti reali (non sono cioè una copia fedele del mondo esterno) nonostante che nel corso degli anni, sotto l’effetto dell’evoluzione dell’io e delle successive relazioni oggettuali, esse vengano ripetutamente rimaneggiate nella direzione di una maggiore approssimazione alla realtà.

Diversamente dalla teoria delle relazioni oggettuali che si occupa delle vicissitudini degli oggetti internalizzati, la teoria del vincolo, elaborata da Pichon Rivière (che si fonda sull’idea il soggetto si produce in una prassi relazionale e che non c’è nulla in lui che non sia il risultato dellainterazione tra individuo, gruppo e società), si occupa sia del vincolo interno con l’immagine dell’oggetto che del vincolo esterno con l’oggetto reale.

Il vincolo interno, cioè la forma con la quale l’io si pone in relazione con la rappresentazione dell’oggetto internalizzato, condiziona anche l’espressività esterna; ne discende che, secondo questo modello, la terapia psicoanalitica si configura a partire dal tipo di relazione che il paziente stabilisce con il terapeuta; infatti, la natura transferenziale di questa relazione permette di indagare il vincolo che il paziente ha con i suoi oggetti interni. Pichon Rivière dice che l’esperienza terapeutica implica il “confronto”, cioè che nella misura in cui il paziente, a seconda dei vincoli internalizzati, assegnerà al terapeuta diversi ruoli, si renderà manifesta la sua “distorsione”nella lettura della realtà.

E’ di fondamentale importanza, sul piano terapeutico, che i ruoli assegnati non vengano agiti bensì “ritradotti”(interpretati) in una concettualizzazione o ipotesi sull’accaduto inconscio del paziente, al fine di cooperare, con lui, alla modifica delle sue percezioni del mondo e nella ricerca di nuove forme di adattamento attivo alla realtà. Nel lavoro di gruppo l’azione interpretativa esplicita gli emergenti espressi tramite il portavoce (verticalità), in rapporto con tutti i membri (orizzontalità), nel qui ed ora con il coordinatore, in relazione al compito.

Nei gruppi multifamigliari, come nei gruppi operativi, a seguito dei transfers multipli che comportano processi di aggiudicazione e di accettazione o rifiuto di ruoli, questa funzione interpretativa (di confronto) non viene svolta solamente dal coordinatore, ma anche da tutto il gruppo, con aumento esponenziale delle potenzialità terapeutiche.

 

Seconda parte: gruppi terapeutici e gruppi di supporto

Purtroppo, nelle nostre realtà, le psicoterapie multifamigliari sono quasi del tutto sconosciute e pertanto non vi sono richieste spontanee da parte di pazienti o famigliari. Questo significa che i Servizi devono promuovere un’offerta che favorisca l’emergere di una domanda di cura orientata in questa direzione. Per questi motivi, nella mia pratica, ho fatto ricorso all’invito di sei, sette famiglie alla volta, con la finalità manifesta di discutere delle proposte terapeutiche del Servizio e, specificatamente, della proposta di terapia multifamigliare; ovviamente stiamo parlando di famiglie che hanno uno o più membri incura al Servizio di Salute Mentale.

Il percorso consta di tre incontri, a cadenza ravvicinata (solitamente ogni settimana o quindici giorni), della durata di due ore ciascuno. Al primo incontro vengono esposti i temi oggetto di discussione ed il coordinatore, coadiuvato da uno o due osservatori “silenziosi”, presenta la coordinazione e definisce il setting di lavoro. Questo consente di caratterizzare il pur breve percorso sia come momento informativo che come momento esperienziale.

Solitamente, già da questi primi incontri, si può notare che i famigliari tendono a presentarsi come “…noi siamo i genitori di Tizio,…io sono la moglie di Caio, …noi siamo le figlie di Sempronio…” dove Tizio, Caio e Sempronio, ovviamente, sono i pazienti… Gli integranti, cioè, non si presentano come se stessi bensì “in funzione”del gruppo famigliare di appartenenza e del rapporto che hanno con il “paziente designato”, lasciando intravvedere, già da subito, quella tramatura vincolare che caratterizza i gruppi primari e che sarà oggetto del lavoro terapeutico multifamigliare. Al termine dei tre incontri le famiglie interessate possono “iscriversi”per la partecipazione ad un percorso psicoterapeutico multifamigliare.

L’altra maniera in cui è possibile costituire gruppi multifamigliari è rappresentata dall’invio di famiglie da parte degli operatori dei Servizi. Ma in questo caso come vengono scelte le famiglie?

Nei Servizi dove io ho lavorato i candidati al trattamento multifamigliare sono rappresentati soprattutto da quei gruppi famigliari i cui congiunti sono pazienti che “non migliorano”, che “deludono” ed “esasperano” i terapeuti… non di rado inducendo in essi inconsapevoli agiti controtransferali. Così, come spesso accade nelle istituzioni sanitarie, “il nuovo trattamento”non viene riservato ai casi che potrebbero giovarsene maggiormente, bensì ai casi nei quali è già stato provato di tutto… ma senza alcun risultato!

Sono possibili due tipi di invio: il primo è caratterizzato da una presa in cura “a tutto tondo”, che include anche il trattamento psicofarmacologico; il secondo prevede invece che il paziente mantenga uno spazio terapeutico individuale (quasi sempre di natura psicofarmacologica) parallelo all’iter multifamigliare.

Con queste famiglie (invitate e/o inviate) si costituiscono dei raggruppamenti di venti, venticinque membri che vengono poi convocati per la definizione del contratto terapeutico. La fase di contrattazione può richiedere uno o più incontri e serve a definire il setting di lavoro.

Spazio-tempo: il luogo ove si terranno gli incontri, con quale durata (solitamente due ore), con quale cadenza (settimanale o quindicinale) e per quanto tempo (solitamente un anno e mezzo o due).

Ruoli: presentazione della coordinazione (solitamente due, tre operatori con ruoli definiti di coordinatore, co-coordinatore, osservatore) e degli integranti del gruppo.

Compito: variamente articolato ma sostanzialmente incentrato sul miglioramento dello stato di benessere di tutti i membri del gruppo.

E’ importante sottolineare come il contratto terapeutico venga stipulato in gruppo, con ciascuno degli integranti e non con le “entità” famigliari. I gruppi così costituiti tendono ad assumere rapidamente una configurazione simile a quella di un risuonatore, che riverbera, a volte in maniera quasi “contundente”, transfers, controtransfers, introiezioni e proiezioni multiple. In questo “spazio”, assai particolare, con l’aiuto del coordinatore, il gruppo muove i suoi primi passi partendo dalla situazione presente (perché siete qui?)… per dirigersi verso il passato (che cosa vi è successo?)… e da qui verso il futuro (cosa pensate di fare per affrontare le vostre problematiche?)… poi di nuovo al presente… di nuovo al passato… di nuovo al futuro… In questo andare e venire il gruppo “racconta” le sue storie dove gli integranti “agiscono” ripetitivamente i loro ruoli famigliari… ruoli stereotipati…surrogati d’identità… connaturati alla struttura istituzionale dei gruppi primari.

Con il procedere degli incontri le strutture famigliari, inizialmente rigide e chiuse, iniziano a farsi un po’ più flessibili, permeabili e a rimodellarsi. Come in una grande rappresentazione teatrale, il gruppo mette in scena sé stesso… gli attori (pazienti, famigliari e terapeuti) inizialmente incarnano il passato… dopo un pò si accostano al presente e infine… lentamente… si aprono al futuro; … stereotipia dei vincoli e possibilità di cambiamento coesistono ed interagiscono dinamicamente tra loro per tutta la durata del gruppo dando vita, per tutti, ad un processo di possibile trasformazione terapeutica.

Nell’approfondire ora la riflessione sul funzionamento dei gruppi multifamigliari torniamo sulla dimensione istituzionale; questi gruppi sono infatti caratterizzati dalla specificità di essere spazi di coesistenza ed interazione tra diverse strutturazioni istituzionali:

– Quella dei gruppi primari (le famiglie) che si esprime attraverso una vera e propria “drammatizzazione vivente” dei vincoli istituzionali storicamente determinati.

– Quella dei gruppi interni (individuali) espressa, da parte di ciascun membro del gruppo famigliare, tramite “l’attualizzazione transferale delmodello primario internalizzato”.

– Quella del gruppo multifamigliare, “gruppo di gruppi”, nuovo contenitore delle parti immature della personalità di tutti gli integranti; qui chiamato ad esprimere, tramite il setting, la condizione dell’invarianza o non processo,necessaria per consentire lo svolgersi del processo terapeutico.

A questi tre livelli ne andrebbe aggiunto almeno un quarto, costituito dalla istituzione sanitaria, che però, in questa occasione, lasceremo da parte per non appesantire troppo la trattazione. Dalla interazione tra le strutture che abbiamo descritto prenderanno avvio delle linee processuali che potranno convergere in maniera terapeuticamente sinergica oppure no. Nella mia esperienza ho potuto verificare che all’andamento di questi processi non risulta per nulla estraneo il tipo di approccio metodologico e tecnico tenuto dalla coordinazione.

Fornisco alcune brevi esemplificazioni in merito. Se il sig. Tizio, padre del paziente Caio, si relaziona, all’interno del gruppo multifamigliare, in maniera prevalente od esclusiva, in funzione di questo suo ruolo paterno che noi accettiamo ed avalliamo lavorando con questo “status”, di fatto stiamo lavorando con la struttura dei gruppi primari (vincolo esterno) e non con il gruppo multifamigliare. Diversamente, se la nostra attenzione sarà rivolta, in modo prevalente o esclusivo, all’analisi delle manifestazioni di transfer espresse da ciascun integrante, questo ci porterà a lavorare essenzialmente con la struttura dei gruppi interni (vincolo interno) dei singoli integranti (come se si trattasse di una specie di “terapia rotatoria individuale” in gruppo) e non con il gruppo multifamigliare.

Se invece ci approcceremo al gruppo multifamigliare ponendo come “tra parentesi” la struttura dei gruppi famigliari e quella dei gruppi interni individuali, ma focalizzando la nostra attenzione soprattutto sulla relazione gruppo-compito (cioè nell’aiutare gli integranti ad affrontare gli ostacoli che si frappongono al conseguimento del compito), il nostro lavoro favorirà, da subito, il processo di trasformazione da raggruppamento a gruppo, cioè il passaggio dalla fase di pre-compito a quella di compito; questo eserciterà un effetto trasformativo contemporaneo e sinergico anche sulle strutture dei gruppi famigliari e dei gruppi interni individuali. Poiché però queste considerazioni si fondano direttamente sulle mie esperienze cliniche, occorre che vi faccia un breve riferimento.

Devo ritornare a molti anni addietro, più di trenta, aquando iniziai a riportare a livello ambulatoriale le mie esperienze sui gruppi multifamigliari; esperienze maturate soprattutto in situazioni di acuzie, cioè con le famiglie di pazienti ricoverati nella Clinica Psichiatrica dell’Università di Modena. In quella fase il mio stile di coordinazione, si direbbe meglio di conduzione, era, per così dire, molto “sperimentale”; ciò non di meno le cose procedevano, almeno inizialmente, in modo assai positivo e tutti gli integranti sembravano trarre significativi giovamenti dall’esperienza… cosa che ritardò non poco la mia comprensione dei fenomeni che avvenivano all’interno dei gruppi multifamigliari…

I problemi cominciarono ad evidenziarsi solo più tardi… all’avvicinarsi del momento della chiusura dei gruppi. Accadeva infatti che, con l’approssimarsi della fine dei contratti terapeutici, le strutturazioni istituzionali originarie (interne ed esterne) riprendessero il sopravvento. I pazienti regredivano in maniera esageratamente vistosa, riassumendo le modalità relazionali e sintomatiche precedenti all’ingresso nel gruppo…. Sembrava di assistere al riavvolgimento del nastro di una pellicola! La situazione era paradossale… il lavoro con i gruppi multifamigliari produceva miglioramenti rapidi ed evidenti… ma, per mantenerli, sembrava che i gruppi non dovessero terminare mai…

Feci altri tentativi con esiti incerti… finchè la riflessione clinica e soprattutto la formazione nella Concezione Operativa di Gruppo non mi fornirono gli strumenti per superare quella situazione di “gruppo-protesi”, che, tra l’altro, per la sua sussistenza, si avvaleva proprio del mio “supporto” involontario. Al fine di fornire una migliore comprensione dei fenomeni sopra riportati, descriverò di seguito alcuni degli errori cheavevano maggiormente contribuito a determinarli:

– Concentravo la mia attenzione quasi esclusivamente sul funzionamento dei singoli integranti e dei gruppi famigliari.

– Pensavo i componenti del gruppo soprattutto a partire dal ruolo che rivestivano all’interno di ciascuna famiglia.

– Sottovalutavo l’importanza della definizione del setting.

– Tendevo a sovrapporre il ruolo di coordinatore con quello di leader.

– Ricorrevo, nei momenti di difficoltà del gruppo, ad interventi di natura prevalentemente rassicuratoria.

– Non differenziavo a sufficienza il compito della coordinazione da quello del gruppo.

Preso nel ruolo di “leader buono, potente, e salvifico”, incentivavo la dipendenza sulla mia persona e sul gruppo, senza però riuscire poi a favorirne l’elaborazione. Il clima così generato facilitava l’emergere di fenomeni catartici che sembravano soddisfare, nell’immediato, le esigenze dei partecipanti, ma poi non evolvevano in cambiamenti duraturi. In questo modo il gruppo diveniva un luogo di attenuazione delle ansie, ma, contemporaneamente, anche di rinforzo delle stereotipie di funzionamento famigliare ed individuale. Di fatto, favorendo la stabilizzazione dei gruppi in “fase di pre-compito”, mi ero inconsapevolmente trasformato, come dice Pichon-Rivière, nel “leader della resistenza invece che del cambiamento”.

Questa condizione di “certo benessere”, conseguita dal gruppo, per potersi mantenere nel tempo necessitava, però, della persistenza di una gruppalità di tipo supportivo; naturale quindi che l’approssimarsi della chiusura del gruppo mettesse in discussione quell’equilibrio facendo “retrocedere” gli integranti allo “statu quo ante”.

 

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Alla ricerca di una formazione per l’impresa sociale: il contributo dell’analisi istituzionale e dell’interazionismo simbolico

Sab, 31/10/2020 - 15:06

di Gianni De Giuli

Il 22 settembre 2020 ho partecipato all’incontro “Istituzioni e pandemia: elementi di analisi istituzionale e gruppo operativo”, a cura del Gruppo internazionale di ricerca su Pandemia ed Istituzioni. In quella sede c’è stata, da parte di alcuni partecipanti – istituzionalisti francesi e svizzeri – un ricordo molto sentito di Georges Lapassade e dei temi concernenti l’Analisi istituzionale.  Si tratta di contenuti e pratiche che nel corso degli anni 90 avevo appreso e sviluppato direttamente con Lapassade nel corso dei suoi lunghi soggiorni in Italia.

Nelle giornate successive all’incontro, discutendone con Leonardo Montecchi e Luciana Bianchera, ho ripensato al resoconto di un’esperienza formativa che avevo realizzato con Lapassade nel ‘96. Ne era nato un articolo che era stato pubblicato su Pratiques de Formation, la rivista degli istituzionalisti francesi presso l’Università di Parigi 8 e successivamente in Italia su Psicologia e Lavoro. Leonardo e Luciana non lo conoscevano e dopo averlo letto mi hanno chiesto di ripubblicarlo, trovandolo evidentemente ancora stimolante.

Nel farlo ho pensato di levare la parte introduttiva, ormai datata, centrata sul dibattito, in quegli anni molto vivo, sul ruolo del terzo settore nella ridefinizione di welfare e protagonismo delle organizzazioni sociali, mantenendo invece il resto dell’articolo che presenta direttamente l’analisi istituzionale in azione: un incontro di formazione condotto con il metodo dell’intervento socioanalitico.

Lapassade all’epoca non praticava quasi più la socioanalisi, raccontava che nel declino storico che il “movimento dei gruppi” stava attraversando anche la socioanalisi aveva perso la sua spinta propulsiva. Inoltre, come viene evidenziato sin dal titolo dell’articolo, altre correnti teoriche e metodologiche – in primis etnometodologia e interazionismo simbolico – dovevano affiancarsi alla tradizionale AI, non solo nello spiegare i processi sociali a livello microsociologico ma direttamente nella pratica della formazione. Ed era stata proprio la curiosità di sperimentare nuovi dispositivi formativi che avevano spinto Georges ad affiancarmi nella conduzione dei due seminari di cui tratta l’articolo.

Lapassade, che ne era stato il fondatore, era allora interessato a vedere come superare l’analisi istituzionale, integrandola con nuove conoscenze e metodologie.

Rileggendo oggi l’articolo è bello riconoscere come i concetti e il metodo dell’AI mantengono tutta loro capacità di indicare possibili alternative in primo luogo nella formazione di gruppi, organizzazioni e istituzioni.

 

Alla ricerca di una formazione per l’impresa sociale:
il contributo dell’analisi istituzionale e dell’interazionismo simbolico

Modelli formativi e organizzazioni

Nella formazione degli adulti che operano, a vari livelli, nelle organizzazioni del lavoro, i metodi prevalenti provengono dalla psicosociologia dei gruppi. Essi traggono le proprie origini teoriche dalla dinamica di gruppo lewiniana e, per ciò che riguarda le tecniche, dal dispositivo del T group, che possiamo sinteticamente descrivere come un seminario di sensibilizzazione alle relazioni di gruppo che si sviluppa attraverso l’autoanalisi permanente nel “qui e ora” (hic et nunc) del vissuto dei partecipanti e in cui il compito del conduttore è quello di facilitare l’autoanalisi utilizzando uno stile non direttivo. Il conduttore quindi non “fa lezione” sulla dinamica di gruppo, ma anima il seminario con brevi interventi che descrivono i processi in corso nella costruzione progressiva della situazione di gruppo.
Su queste basi è stato elaborato un quadro teorico e pratico per la formazione, che si è sviluppato soprattutto nell’ambito aziendale e manageriale a partire dagli anni ‘60 e che è stato progressivamente esteso anche ad altri contesti organizzativi.
Così anche nel cosiddetto terzo settore i metodi della formazione fanno spesso riferimento a quel modello consolidato.


Ci si chiede allora se si debba trasferire un metodo di formazione utilizzato con successo per il management aziendale sul terreno della formazione di dirigenti di cooperative sociali. Si deve definire una cooperativa come un’azienda? Si deve analizzare come tale nel suo funzionamento? Altrimenti quale formazione potrebbe convenire alle cooperative? E’ possibile proporre un modello alternativo?
Queste domande, che mi pongo da tempo, sono state al centro di un’ esperienza formativa realizzata con Georges Lapassade, che in questo articolo voglio descrivere e commentare. Alla descrizione si aggiungono le riflessioni che abbiamo sviluppato successivamente, ripensando all’intervento formativo, e che ci consentono di individuare alcune prospettive di ricerca per una diversa pratica della formazione.

Nei due seminari da noi animati, l’impostazione socioanalitica e i temi della pedagogia istituzionale che Lapassade ha cominciato ad elaborare fin dagli anni ‘60, proprio a partire da una critica del T group, sono stati ulteriormente rielaborati e contaminati con concetti e categorie analitiche che provengono dalla corrente sociologica dell’interazionismo simbolico. I seminari hanno dunque rappresentato un momento di ricerca e sperimentazione e alcuni elementi teorici possono essere estrapolati dalla descrizione delle due esperienze, pur essendo lontani da una formulazione teorica definitiva e limitandoci a riconoscere i possibili sviluppi per la formazione a partire dalla connessione di due approcci che hanno un comune taglio microsociologico.

L’analisi istituzionale in un gruppo in formazione

I seminari erano rivolti a dirigenti di cooperative sociali ed erano centrati sui temi del lavoro di gruppo e sul rapporto tra organizzazione e partecipazione nelle cooperative.
Il committente era un consorzio nazionale (CN) di cooperative che raccoglie al proprio interno numerosi consorzi locali  (CL) costituiti a loro volta dalle coop cui appartenevano, appunto in qualità di dirigenti, i partecipanti ai nostri seminari.
Era la prima volta che il CN organizzava un’ attività formativa specifica per i dirigenti del Sud: un percorso articolato in dieci seminari con l’obiettivo di sviluppare le competenze individuali e collettive per lo sviluppo delle organizzazioni.

Durante il primo seminario da noi condotto, il tema del gruppo è stato trattato secondo il dispositivo socioanalitico:
– Un dispositivo formativo che si sviluppa a partire dall’analisi permanente di ciò che il gruppo produce ma dove, a differenza del T group da cui proviene, non c’è la chiusura del gruppo nell’interazione interna, separato dalle condizioni e dall’organizzazione che ne hanno reso possibile la costituzione e ne hanno predefinito alcune regole di funzionamento.

Ciò significa che il gruppo non è un qualsiasi gruppo che diviene il laboratorio privilegiato per imparare il funzionamento dei gruppi, essendo attraversato dai classici fenomeni e processi (coesione, comunicazione, leadership, decisione etc.) che il T group permette di vivere e autoanalizzare permanentemente nell’hic et nunc. E’ invece un gruppo (“istituito”) di dirigenti di cooperative che fa parte di un’organizzazione nazionale (“istituente”) che ha promosso e realizzato quel corso di formazione. Questo approccio permette pertanto di riconoscere la base invisibile ma presente (“istituzione”) su cui poggia il gruppo in formazione, base che ne regola il funzionamento attraverso un quadro di norme, interazioni, gerarchia e status dei diversi attori che insieme concorrono a realizzare l’intervento formativo.

All’inizio questo orientamento “istituzionalista” ha trovato la sua prima formulazione già nel 1962 nella proposta di gestione collettiva dell’orario di formazione di un T Group. L’eterogestione dell’orario della formazione (orario deciso altrove e mandato ai partecipanti) era in contraddizione con la pretesa di non direttività dei formatori all’interno del gruppo, per superare questa contraddizione si proponeva di gestire l’orario.
Si chiamava allora Analisi Istituzionale:
– l’analisi dell’orario come istituzione interna
– e anche l’analisi della manifestazione di un’istituzione esterna (l’organismo di formazione presente / assente nella situazione, che aveva previsto l’orario di cui il conduttore mandato dall’organizzazione si faceva garante)
Ma nell’ hic et nunc del nostro seminario, ciò che ha rivelato il manifestarsi dell’istituzione esterna è apparso in tutta evidenza con il problema della sede del seminario.
E’ successo infatti, ad un certo punto dei lavori, che una partecipante ha affermato di non gradire la sede dell’incontro successivo, già prevista dall’organizzazione, ed ha proposto che il gruppo la cambiasse.

Trattando questo tema, volendo decidere, loro, la sede della loro formazione, i partecipanti hanno prodotto ciò che nel linguaggio socioanalitico è chiamato un effetto analizzatore.
– L’analizzatore è un evento o un fenomeno che rivela ciò che l’organizzazione determina, che permette ai partecipanti di riflettere e analizzare il significato dell’organizzazione, il suo funzionamento, i rapporti di potere che vi si sviluppano.
E’ stata la discussione sulla sede del seminario successivo, che ha consentito di spostare e sviluppare l’analisi sul rapporto tra organizzazione della formazione (CN e CL) e partecipanti all’evento formativo, tra istituente ed istituiti.
Paradossalmente il corsista che più si opponeva all’idea che fossero i corsisti stessi a decidere la sede del seminario successivo, considerandola una scelta non di loro competenza – perchè da sempre e inequivocabilmente competenza dell’organizzazione – era colui che in veste di dirigente del CL aveva scelto la sede del seminario che stavamo svolgendo.

E’ accaduto qui qualcosa che ha avuto un forte effetto sui i partecipanti: l’organizzazione istituente del percorso formativo (CN in accordo con i diversi CL), che inizialmente veniva percepita come “intoccabile”, totalmente distante, burocrazia plenipotenziaria e non influenzabile dalle richieste dei corsisti, assumeva progressivamente, nel lavoro di analisi, i tratti di un organismo costituito da persone che in alcuni casi erano le stesse che, lì in quel momento, stavano discutendo.
L’analizzatore ha permesso di rivelare il valore di feticcio che viene attribuito alle organizzazioni anche in un settore come quello delle cooperative sociali dove le stesse sono create e controllate dai soci lavoratori, i quali vorrebbero, in questo modo, esprimere forme di autogestione e di superamento della burocrazia.

Ciò che l’analisi mostrava era che in realtà i partecipanti del corso – dirigenti di cooperative e in alcuni casi anche dei consorzi locali che organizzavano quel corso – non si sentivano in potere di decidere nemmeno rispetto al luogo e alla struttura residenziale del corso, che pure pagavano personalmente o attraverso le proprie cooperative.
Il seminario si era chiuso con l’istituzione di un comitato di corsisti a base regionale il cui unico compito era di negoziare con il proprio consorzio locale lo spostamento della sede prevista per l’incontro del mese successivo.
Questa contestazione della sede e la ricerca di una soluzione alternativa deve essere vista come un’espressione di un desiderio collettivo tra i corsisti di gestire almeno un aspetto della loro formazione: non necessariamente i contenuti e i metodi ma almeno la sua base materiale. In questo senso un orientamento di tipo “autogestionario” è stato scelto in quel momento dall’Assemblea dei corsisti.

D’altra parte con questa messa in crisi della sede prevista per il successivo seminario, la formazione acquistava il carattere di un intervento sulla struttura e si passava ad un livello di analisi istituzionale nel senso di analisi dell’istituzione che dall’esterno organizza il dispositivo della formazione. Si produceva, in questo modo ed in anticipo, del materiale per il successivo seminario il cui tema era “Organizzazione e Partecipazione nel sistema cooperativo”.
Il dispositivo costruito nel seminario non ha però funzionato, il comitato si è più o meno autodissolto dopo un tentativo fallito di cambiare la sede.

L’organizzazione dell’autoformazione

A distanza di tre settimane, nel secondo seminario, il primo problema esaminato è quello del comitato e del suo fallimento: il Consorzio locale aveva infatti dichiarato che la richiesta di cambiamento non era di competenza del comitato dei corsisti. Pertanto ci eravamo tutti ritrovati nella città e nell’albergo previsti in origine dal CL e tanto contestata nel seminario precedente.

L’analisi collettiva di questa sconfitta ha evidenziato che:
a) la coordinatrice del comitato per motivi personali ha rinunciato al suo ruolo tentando di trasmettere la sua responsabilità ad un altro membro dello dello stesso comitato che però ha rifiutato affermando di non essere interessato.
b) i membri del comitato non sapevano che il giusto interlocutore per la loro richiesta era il responsabile della formazione (RF) del Consorzio nazionale, credevano che la decisione dipendesse solo dal Consorzio locale e non conoscevano il funzionamento reale della loro organizzazione nazionale. Questa mancanza di conoscenza costituiva un’eccellente materia per aprire un seminario il cui tema era la partecipazione nell’organizzazione.
c) il presidente del Consorzio locale non aveva nemmeno lui tentato di chiarire la situazione organizzativa, comportandosi come il giusto interlocutore a due livelli:
– la sua risposta al comitato:- Non è vostra competenza cambiare sede – poteva significare – E’ mia competenza e non sono disposto a negoziare con voi -.
– ricevendo un fax da un membro del comitato, contenente una proposta di sede alternativa, lo aveva “sequestrato” senza trasmetterlo al responsabile nazionale.
L’analisi ha inoltre indicato che questo pasticcio a livello organizzativo aveva avuto ripercussioni ad altri livelli istituzionali: la direzione del Consorzio nazionale aveva nel frattempo ricevuto un fax del Consorzio locale, poco chiaro, in cui si alludeva ad una “riprogettazione delle modalità organizzative” da parte dei partecipanti, e ciò aveva  provocato una preoccupazione di tipo organizzativo ai vertici del CN.

Questo breve riassunto della prima attività del seminario è un’ ulteriore illustrazione del metodo di lavoro utilizzato: in questo dispositivo non si fa lezione sull’organizzazione, nemmeno simulazioni o altri esercitazioni formative. La formazione si sviluppa a partire dal vissuto del gruppo in relazione con le istituzioni interne ed esterne al seminario (analisi istituzionale e dispositivo socioanalitico).

Un altro aspetto del dispositivo di formazione è che continuamente il gruppo gestisce l’orario del suo lavoro, dopo che l’orario prestabilito del seminario é stato abbandonato perchè poco rispondente ai bisogni dei partecipanti.
Esiste invece un consenso sull’elaborazione progressiva e permanente delle attività e dell’orario, con la sola eccezione delle ore di pranzo e cena, regolate dal personale dell’albergo in cui siamo ospitati.
Durante la seconda giornata Lapassade propone la formazione di un nuovo comitato per gestire con l’Assemblea dei partecipanti i prosssimi seminari nei contenuti e negli aspetti logistici.
Ciò significa che la pratica formativa sull’organizzazione può consistere nella attività organizzativa: sono i corsisti riuniti in Assemblea ad organizzare la propria formazione, utilizzando i formatori come risorse a loro disposizione.
Questo modo di fare, derivato dal T. group si oppone ad un’altra concezione della formazione nella quale i contenuti sono trasmessi dagli insegnanti senza negoziazione del corso con i corsisti.

A questo punto è forse necessario sottolineare che il corso proposto agli stessi corsisti si articola in 10 sessioni già predefinite.
Lapassade precisa che la sua è una proposta pedagogica di un dispositivo di autoformazione per i corsisti che implica la gestione da parte loro anche dei contenuti o almeno la loro negoziazione con il responsabile del corso.
L’ Assemblea comincia discutere la proposta, ma quando dopo una pausa lo staff ritorna in Assemblea scopre che la stessa sta già funzionando senza la presenza dei formatori nel ruolo di animatori. Gli stessi decidono allora di restare fuori e di ritornare solo su invito esplicito dell’Assemblea generale.
Così inizia una fase autogestita del seminario: i lavori proseguono in piccoli gruppi costituiti dall’Assemblea generale senza l’intervento dello staff.
Le proposte che più tardi vengono presentate in Assemblea con lo staff dei formatori sono:

-1°gruppo: ritiene molto utile il metodo dei due seminari basati sull’esperienza vissuta, ma propone di proseguire con il metodo che era stato utilizzato nel seminario di apertura del corso con il responsabile della formazione e che prevedeva il coinvolgimento dei partecipanti attraverso esercitazioni e discussioni di gruppo. Tale metodo (che chiameremo “metodo RF”) è considerato innovativo e coerente con i contenuti dei futuri seminari. Viene accettata l’idea di un comitato che si occupi dei bisogni del gruppo e dei singoli e sia propositivo per la logistica mentre sui contenuti si limiti a possibili integrazioni. Un membro del comitato si dissocia ritenendo il “metodo RF” troppo vicino ad una formazione aziendale.

- 2°gruppo: è favorevole all’autogestione ma senza rottura con chi ha proposto il programma del corso. Si ritiene importante privilegiare le specificità del Sud e trovare un accordo con l’organizzazione anche in merito ai formatori. Considera positiva l’idea di un comitato composto da persone competenti sulla cooperazione sociale al Sud. Viene anche proposta la creazione di un bollettino autofinanziato dalle cooperative per far circolare ed elaborare materiale relativo alle esigenze formative e scambiare più informazioni con il consorzio nazionale. L’idea è quella di un comitato “molto operativo”, a rappresentanza regionale.

- 3°gruppo: D’accordo con il comitato eletto con il criterio della rappresentanza regionale. D’accordo sull’autogestione per discutere su tutto ma non viene ritenuto necessario un cambiamento dei contenuti.

- 4° gruppo: si presenta spaccato: tre corsisti preferiscono il metodo dell’autogestione, gli altri tre il “metodo RF”, per cui propongono un’integrazione dei due metodi, sono anche per un comitato a rotazione e su base regionale

- 5° gruppo: Intende l’autogestione come possibilità di introdurre dei cambiamenti nel percorso formativo. Il comitato deve essere una sorta di CdA dell’Assemblea dei corsisti.

Dai resoconti dei lavori dei gruppi possiamo rilevare nei corsisti una sorta di disorientamento, una dissonanza cognitiva che si risolve nel tentativo di tenere insieme due modelli alternativi di formazione
L’autogestione proposta dai gruppi non appare come un prendere direttamente nelle proprie mani il futuro del percorso formativo, ma ciò deriverebbe, secondo gli stessi corsisti, dall’impossibilità di autogestire contenuti che non si conoscono.
In sostanza la proposta dell’autogestione, così come emerge dalla successiva discussione, non sembra ancora realizzabile.

Praticare un percorso autogestito significa, innanzitutto, passare da una definizione della formazione come prodotto già realizzato e offerto da un’esperto, alla formazione come attività istituente di un gruppo di persone che, facendo lo stesso lavoro, con le medesime funzioni (dirigenti di cooperativa), può individuare i propri bisogni, definire degli obiettivi e organizzare un percorso di formazione utilizzando i docenti nelle modalità e con le funzioni ritenute più appropriate.
Ma nel seminario emerge tutta la difficoltà dei corsisti nel passare da una posizione di “istituiti” ad una di “istituenti”. La formazione è percepita come un’attività a loro esterna i cui contenuti sono sconosciuti, decisi altrove, da formatori che hanno già predefinito i bisogni formativi di quei dirigenti.

Le resistenze alla proposta dell’autogestione portano lo staff a precisare, in modo meno ambizioso, l’idea dell’autoformazione: essa si limiterebbe, in una prima fase, ad una negoziazione dei contenuti del seminario successivo.
Il lavoro è facilitato dal fatto che sono presenti, come membri dello staff, gli interlocutori necessari: il responsabile nazionale della formazione e un altro formatore, previsto come conduttore principale del futuro stage.
Essi potrebbero presentare il programma per poi negoziarne i contenuti, come già proposto la sera prima, ma ancora si riscontra la mancanza di interesse dell’Assemblea.

Le definizioni della situazione

Viene allora riformulata e restituita nell’Assemblea un’ipotesi avanzata dallo staff durante una riunione: l’autogestione potrebbe essere solo un desiderio dello staff, mentre i corsisti partecipano al percorso formativo forse più per incontrare i colleghi e per poter dire di aver fatto il corso, per la propria carriera ed il proprio status (ricordiamo che si tratta del primo percorso formativo per dirigenti di cooperative sociali fatto al sud) indipendentemente dall’interesse per i metodi ed i contenuti.
Saremmo dunque di fronte a obiettivi diversi, che, utilizzando un concetto dell’interazionismo simbolico, portano a diverse “definizioni della situazione”. Ciò significa che i vari partecipanti alla situazione formativa attribuiscono ad essa sensi diversi, la valutano diversamente e si predispongono di conseguenza ad agire diversamente.

Se su tali definizioni non avviene un continuo processo di negoziazione, è reso impossibile non solo un accordo sull’autogestione, ma anche sul modo stesso di procedere nel seminario.
Esempi di ciò ci provengono da due eventi che si succedono nell’ultima parte del seminario.

Il primo caso si riferisce a ciò che accade quando lo staff propone di preparare il primo numero del bollettino proposto da uno dei gruppi la sera precedente, come primo strumento dell’autoformazione. Questa proposta viene accettata, si formano piccoli gruppi che dopo aver lavorato attivamente, ritornano in Assemblea con i loro prodotti scritti.
I risultati sono però poco convincenti, non si avverte un interesse reale attorno al progetto di un bollettino interno al percorso formativo.
Una corsista sostiene che “siamo stati tutti d’accordo sul giornale ma visto come un’esercitazione del seminario e non come bollettino reale”.

Il secondo esempio ci viene dall’ultima seduta dell’Assemblea.
All’inizio due membri dello staff fanno due lunghi interventi di rilettura e analisi del seminario che si propongono come conclusione dello stage, non lasciando spazio alla possibile valutazione dei corsisti che invece ascoltano in un silenzio quasi religioso.
Un altro formatore interpreta questi interventi rifacendosi al concetto goffmaniano del sè, inteso non come originato dalla persona del soggetto ma come prodotto di una messa in scena sociale le cui regole e caratteristiche strutturali determinano le diverse parti recitate dal soggetto stesso. Questo modo di parlare, potrebbe esprimere il bisogno dello staff di presentare sè stesso nei ruoli e nella dignità dello psicosociologo e del sociologo formatore che esibiscono la loro competenza sviluppando un discorso intelligente ed articolato e non solo un’agitazione e un ipeattivismo permanente chiamato formazione.
Questa occupazione del tempo alla conclusione del seminario significherebbe che taluni membri dello staff non accorderebbero molta serietà al progetto di istituire un nuovo comitato rappresentativo dell’Assemblea, compito che invece viene ritenuto importante da questo membro dello staff.

Si decide allora di verificare quanti corsisti sono favorevoli al comitato:
– 10 sono contrari e formulano i motivi della loro opposizione
– 15 sono a favore ma non dicono perché
– mancano 9 partecipanti, non presenti all’ultimo giornata.
I quindici escono dalla sala della riunione e costituiscono il comitato.
Dopo aver eletto un coordinatore, il comitato si è assunto da subito il compito di formulare delle proposte per la continuazione del corso, i contenuti da trattare e le modalità organizzative.
Così si è chiuso il seminario, sciogliendo l’Assemblea Generale.

Un dispositivo per l’autogestione della formazione

Nelle giornate successive al seminario abbiamo lavorato ad un’analisi dell’esperienza. Sono emerse alcune indicazioni che ci consentono di guardare da altri punti di vista al problema della formazione in generale e alle questioni poste dai seminari.

La mia domanda principale era relativa alla difficoltà dei corsisti di accettare la proposta dell’autoformazione che veniva dallo staff dei formatori. Perchè tante resistenze all’ipotesi dell’ autogestione del percorso formativo da parte di persone che nelle loro cooperative si autogesticono quotidianamente il proprio lavoro?

Una risposta la possiamo ricavare ricorrendo nuovamente al concetto di definizione della situazione, partendo da un’osservazione formulata nel 1932 da Willard Waller, il primo a proporre una descrizione della relazione pedagogica nel linguaggio dell’interazionismo simbolico.
Waller, al contrario di Durkheim, sosteneva che la situazione pedagogica era inevitabilmente conflittuale in conseguenza del fatto che i maestri e gli studenti non hanno la stessa definizione della situazione:
– i maestri definiscono la situazione come la vuole la società che rappresentano, considerando che loro sono nella scuola per insegnare, trasmettere delle conoscenze e che gli studenti sono lì per imparare;
– gli studenti invece possono avere altri obiettivi come quello di incontrare amici, divertirsi, fare del baccano, giocare e forse anche apprendere qualcosa.
Durante il seminario era stata formulata l’ipotesi che i corsisti forse partecipavano al corso con altri obiettivi, diversi da quelli dell’apprendimento: ritrovarsi insieme, fare un po’ di vacanza, poter dire di aver preso parte a questo corso, etc..
Questo tipo di osservazione non è stata però sufficientemente tematizzata con i corsisti, anche se i formatori ne hanno parlato tra di loro.

Un’altra referenza è quella di Goffman sulle istituzioni totali quando dice che se nel carcere i prigionieri frequentano regolarmente la biblioteca il direttore sarà portato a considerare che questo significa un progresso. Ma il vero motivo del recluso può essere un altro, per esempio farsi notare positivamente per avere una riduzione della pena e non per arricchire la sua conoscenza.

Ritornando alla nostra situazione di formazione possiamo dire che ci sono diverse definizioni della situazione che si confrontano e che sono formulate in termini di obiettivi divergenti:
a) gli obiettivi del Consorzio nazionale, che ha sempre promosso e organizzato corsi per i dirigenti delle coop, ma mai si è interessato all’autogestione
b) gli obiettivi dei Consorzi locali più legati alla gestione e al controllo della base materiale della formazione, su cui si giocano i rapporti di potere interni ed esterni.
c) gli obiettivi della direzione della formazione dove prevale il bisogno di mantenere gli equilibri esistenti che l’autogestione potrebbe invece mettere in pericolo
d) gli obiettivi dei formatori, interessati a produrre nuovi modelli e nuove sintesi
e) i vari obiettivi dei corsisti

E’ nella relazione tra le diverse definizioni della situazione che avviene il massimo conflitto istituzionale ed è lì che va sviluppata l’analisi.
Su questo piano credo sia possibile progettare un dispositivo di formazione che si ponga sin dall’inizio l’obiettivo di costruire collettivamente una comune definizione della situazione formativa. L’autogestione diviene allora la pratica istituente che si sviluppa a partire da questo lavoro di negoziazione, costruzione e condivisione degli obiettivi, dei metodi, dei contenuti e delle finalità generali della formazione.

Possiamo così riprendere il discorso iniziale e riformulare le domande relative ad un modello formativo alternativo a quello psicosociologico tradizionale: in che modo è possibile fare una formazione utile per organizzazioni che vogliono praticare una visione autogestionaria e solidaristica dei rapporti sociali, se non praticando anche nella formazione modelli autogestiti che superino la tradizionale opposizione tra istituenti e istituiti, tra conduttori e condotti, tra chi detiene un sapere e chi è convinto che solo gli esperti possano conoscere i suoi bisogni formativi ?

Per un modello alternativo di formazione proponiamo un dispositivo di formazione che può contenere al proprio interno due obiettivi opposti:
– quello tradizionale della trasmissione di conoscenze
– quello di un apprendimento fondato sull’esperienza dell’hic et nunc.
La scelta tra i due può essere legata ai contenuti:
– alcuni contenuti, ad esempio quelli legati ai saperi tecnici possono essere trattati attraverso la trasmissione di conoscenze;
– altri posono essere accquisiti sulla base dell’hic et nunc, per esempio, rifacendoci all’esperienza descritta, le competenze nel chiarimento dei rapporti con la gerarchia, la capacità di identificare i giusti interlocutori per problemi specifici, l’animazione di una riunione o di un’assemblea alla ricerca di una maggior partecipazione alle decisioni.

E’ nella gestione dei contenuti che si verifica il ribaltamento del modello tradizionale: i corsisti si possono organizzare per ricercare e decidere quali sono i loro bisogni formativi, anche ricorrendo agli esperti, ma utilizzandoli come consulenti e gestendoli di volta in volta.

La formazione si avvicina così al modello della nuova ricerca-azione di Carr e Kemmis in cui sono gli stessi praticanti (i corsisti) a condurre la ricerca a partire dalla loro pratica formativa, a differenza della ricerca-azione classica, lewiniana, dove sono gli esperti esterni che gestiscono e pianificano la ricerca.
In questo dispositivo il ruolo della direzione della formazione è legato alla proposta delle risorse, al materiale di formazione da negoziare con i corsisti, che devono anche negoziare le basi materiali della formazione, il suo progresso, date, orari.
Tutto ciò consente a dirigenti di cooperative sociali di autopromuoversi come soggetti dell’apprendimento, sperimentando anche nel campo dell’organizzazione del sapere modelli autogestionari coerentemente con la visione autogestionaria dei rapporti sociali di cui le imprese sociali possono farsi portatrici.

Bibliografia

 – W. Carr, S. Kemmis,  Becoming Critical: Education Knowledge and Action Research, Falmer Press, 1986
O. Cotinaud, Dinamica di gruppo e analisi delle istituzioni, Roma, Borla, 1976
– E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, Il Mulino, 1969
– E. Goffman, Asylums, Torino, Einaudi, 2003
– G. Lapassade, L’analisi istituzionale, Milano, Isedi 1974
– G. Lapassade, L’autogestione pedagogica, Milano, F. Angeli, 1973
– G. Lapassade, In campo, Lecce, Pensa Multimedia, 1996
– G. Lapassade, Baccano, Lecce, Pensa Multimedia, 1996
– G. Lapassade, L’istituente ordinario, Lecce, Pensa Multimedia, 1997

Categorie: siti che curo

Creare moltiplicare luoghi di respiro collettivo

Lun, 19/10/2020 - 10:12
Per l’Assemblea Internazionale del 25 ottobre:  CREARE MOLTIPLICARE LUOGHI DI RESPIRO COLLETTIVO

La pandemia agisce come disvelamento: mettendoci in condizione di comprendere che da tempo viviamo entro la carcassa del capitalismo neoliberale, che non smette, per quanto defunto, di imporre le sue regole: privatizzazione, competizione, primato del profitto sull’interesse sociale, devastazione dell’ambiente, iper-sfruttamento delle energie mentali, burnout.

Ma non basta comprendere che siamo in una trappola per uscirne. Uscire dalla trappola tecno-finanziaria richiede infatti una strategia politica e soprattutto una solidarietà sociale fondata su un processo di soggettivazione che al momento, nella tempesta pandemica, appare esitante e depresso. L’apocalisse pandemica ha reso evidente che la società non può sopravvivere senza liberarsi dalla regola neoliberale, ma ha indebolito, e forse paralizzato le energie psichiche necessarie per attivare un processo di soggettivazione solidale.

Entro questo contesto un gruppo di ricercatori che operano prevalentemente nel campo della psicoterapia mette all’ordine del giorno la necessità di creare e moltiplicare luoghi di riflessione psicoterapeutica comune, luoghi di respiro che si sottraggano al soffocamento sistemico, per cercare al tempo stesso la via per l’emancipazione dal dominio tecno-finanziario.

Il 25 ottobre in Cile si tiene il referendum che deve decidere se rimanere per sempre dentro la gabbia della costituzione fascista e ultra-liberale promulgata negli anni di Pinochet e di Kissinger, o se usare la forza costituente della lotta e del voto per uscirne, aprendo la strada a un modello sociale egualitario, e frugale, cioè fondato sull’utile collettivo e non sull’astrazione finanziaria e il consumismo indotto dalla pubblicità.

Il Cile è il luogo in cui la dittatura liberista cominciò con un colpo di stato fascista e con un massacro. Il Cile può essere il luogo da cui inizia il processo di smantellamento della dittatura liberista. Ma il voto sarà solo la condizione formale cui deve seguire un processo di soggettivazione solidale e autonoma.
Della lotta politica in corso in diversi paesi latino-americani, Bolivia, Colombia, Argentina, oltre al Cile, possiamo essere soltanto spettatori. Ma possiamo e dobbiamo essere attori dell’opera di ricomposizione della soggettività sociale che precarietà e accelerazione competizione hanno aggredito e infettato profondamente, e che ora, per effetto della pandemia, dell’isolamento, della paura, del distanziamento sembra sprofondare in una sorta di depressione di lungo periodo.

La pandemia agisce come un catalizzatore di processi catastrofici da lungo tempo in corso: la stagnazione economica, la precarietà dilagante del lavoro, la devastazione ambientale, il burnout da super-lavoro dell’attenzione, la depressione, il panico. Poiché questi processi precipitano tutti insieme, l’orizzonte che si intravvede oltre l’apocalisse pandemica, è quella dell’estinzione del genere umano, mentre la disgregazione della civiltà è ormai ad un punto piuttosto avanzato, e la guerra, la fame, la violenza razzista si diffondono.

Ma non è possibile ragionare proficuamente delle possibilità di sventare la prospettiva estrema dell’estinzione se la mente collettiva è invasa dai fantasmi della paura, dell’angoscia, se il corpo dell’altro è percepito come un pericolo e l’erotismo è bandito dalla vita sociale.
Nuovi profili di sofferenza psichica vanno emergendo: l’erotismo entra in una zona oscura di sensibilizzazione fobica al corpo dell’altro, a causa del trauma del distanziamento e dell’invasione di flussi di perturbante entro lo spazio della vita quotidiana.
Il nostro specifico compito e la nostra intenzione è cartografare il continente emergente dell’inconscio in oscillante ambigua mutazione, per creare moltiplicare luoghi di respiro e collettivi di enunciazione (auto)terapeutica.

E’ possibile vita felice nell’orizzonte dell’estinzione?
Può parere una domanda paradossale, ma è invece cruciale, perché solo se riusciamo a rispondere sì a questa domanda, solo se riusciamo a creare spazi di respiro tranquillo e di relazione felice nel corso della tempesta epidemica e sociale, possiamo trovare la via di fuga da quello stesso orizzonte.
Solo affrontando in modo collettivo la coscienza dell’impermanenza di ogni essere, del nostro esistere singolare e del genere umano come insieme bio-storico, possiamo dissipare il panico, e attivare le dinamiche della creatività e dell’invenzione.
Per questo riteniamo che sia urgente la formazione e proliferazione di luoghi di respiro collettivo, di meditazione sull’impermanenza e di sperimentazione di nuove forme di vita sociale.

Per il gruppo di ricerca
Franco Berardi

16 ottobre 2020

Per aderire, mandare una mail a Leonardo Montecchi: lmontecc@me.com

L’Assemblea Internazionale è aperta a tutti e ci colleghiamo attraverso la piattaforma Zoom
il 25 ottobre dalle 16 alle 19 ( ora di Roma)

Per collegarsi su Zoom:
id 86989033390
password 004481

A presto

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E.C.R.O. (Schema concettuale di riferimento operativo): strumento che definisce il colloquio gruppale

Lun, 12/10/2020 - 11:41

di Annalisa Valeri

(La lezione si tiene all’interno di un corso di formazione sulla Concezione Operativa di Gruppo ed è la seconda di un ciclo. Dopo l’informazione gli ascoltatori si riuniscono in un gruppo, coordinato e osservato da docenti della Scuola Bleger)

Partiamo da alcuni concetti che definiscono che cos’è un gruppo.
Pichon Rivière definisce un gruppo operativo come quell’insieme di persone riunite dentro una cornice di variabili costanti, che si integrano fra di loro attraverso una mutua rappresentazione interna e che si prefiggono un compito. Il compito è l’elemento di urgenza, di necessità che convoca le persone a raggrupparsi e ad iniziare un lavoro comune.
Per farlo il gruppo ha bisogno di una cornice stabile, all’interno della quale sviluppare il proprio processo gruppale. Alcuni elementi costituiscono un contenitore solido e stabile nel quale le persone possono trovarsi, vale a dire uno spazio, un tempo, dei ruoli e un compito.

Questo è il setting, condizione necessaria perché possa avvenire il lavoro del gruppo.Ha la stessa importanza dell’allestimento di una sala operatoria, con la sterilizzazione degli strumenti, la preparazione di un posto protetto, all’interno del quale possa avvenire, in condizioni di sicurezza, l’intervento. La cornice di variabili costanti è proprio questo. All’interno dell’esperienza on line che stiamo vivendo è già avvenuta un’importante modifica rispetto allo spazio. Non siamo più in un luogo fisico tutti insieme. Ognuno accede a questo spazio da un ingresso differente e personale. Che spazio è questo in cui ci stiamo riunendo? Dove siamo? Che caratteristiche ha questo cyber spazio in cui siamo? Qualcuno di voi può avere un gatto sulle ginocchia, un bimbo che si intrufola per curiosità e viene a vedere lo schermo, un campanello che suona. Sono tutti elementi che rendono differente lo spazio, lo hanno trasformato. Il nostro insieme di variabili costanti ha subito un cambiamento che non abbiamo scelto, ma di cui dobbiamo tenere conto. Nel senso che influenzerà il processo gruppale, entrerà a farne parte. Anche il tempo subisce un cambiamento. Il tempo cronologico dell’orologio assume un significato diverso quando lo si sperimenta on line. Potrebbe sembrare più lungo o più intenso. Il ruolo che avranno i coordinatori subirà delle modifiche: come si interpreta, cosa si osserva in una modalità on line? Come passano le informazioni e le emozioni con questo strumento? Stiamo sperimentando e siamo tutti, voi inclusi, ricercatori.

Ma veniamo al tema dell’informazione di oggi. Nella definizione di gruppo oltre che del setting si parla di mutua rappresentazione interna. Questo sarà il tema su cui ci soffermeremo, che costituisce uno strumento di lavoro per il gruppo. E’ un prodotto del gruppo e lo strumento attraverso cui il gruppo può affrontare la realtà, occuparsi del suo compito concreto, comunicare.

L’ECRO o mutua rappresentazione interna, è uno strumento che serve all’apprendimento.
Torniamo per un attimo al racconto dell’avvio della Concezione Operativa, che è avvenuta all’interno di un’esperienza concreta all’Ospedale Las Mercedes di Buenos Aires. Questa situazione di necessità, che ha spinto Pichon Rivière a formare i primi gruppi, ci serve per chiarire l’idea dell’apprendimento e della conoscenza all’interno della Concezione Operativa. Il tipo di apprendimento che vuole sviluppare la Concezione Operativa nasce dalla prassi, dall’esperienza concreta.

L’esperienza dei gruppi all’interno dell’Ospedale Las Mercedes, ad esempio, ha permesso una prima elaborazione teorica di che cosa sono i gruppi, qual è il loro compito, elaborazione che deve trovare riscontri nella pratica, per poi poter essere ulteriormente modificata e arricchita a livello teorico.
L’idea dell’apprendimento e della conoscenza è quindi un percorso a spirale, che nasce dalla pratica, diventa teoria e ritorna nella pratica, in un processo senza fine. Questo è il modello di apprendimento che vi proponiamo sia teoricamente che praticamente, attraverso l’esperienza che farete.
L’idea dell’apprendimento da cui prende le distanze la Concezione Operativa è quella relativa ad una trasmissione di contenuti che dovrebbero semplicemente passare dall’insegnante, nella figura di supposto sapere, all’allievo che dovrebbe incamerare abilità, informazioni, valori ed adattarsi passivamente alla struttura sociale di cui
fa parte.

Pichon Riviere definisce la salute mentale e la malattia in termini relativi e situazionali ed in relazione ad un adattamento passivo o attivo della realtà. Il soggetto sano è colui che prende l’informazione, la destruttura, aggiunge, la trasforma e la usa poi nella realtà per modificarla. Se la persona apprende dovrebbe essere in grado di applicare le proprie
conoscenze alla realtà concreta, di cambiarla e allo stesso modo di poter cambiare internamente. L’insegnamento deve quindi permettere che si elaborino contraddizioni e conflitti presenti durante il processo di apprendimento per poter applicare le conoscenze alla pratica.

La conoscenza non avviene con un’idea cumulativa delle informazioni.
Questo significa che per esempio l’informazione che state sentendo non può essere pensata come un “libro” da aggiungere alla vostra biblioteca di informazioni, se per biblioteca intendiamo l’insieme di conoscenze che ci caratterizzano. Non possiamo semplicemente aggiungere un elemento e tenere tutti gli altri elementi di conoscenza immobili. Perché avvenga un reale apprendimento dobbiamo rifarci ad un’idea geometrica. Perché un’informazione venga realmente appresa occorre farle spazio,
modificare tutto l’insieme di informazioni che abbiamo, buttare alcune cose, tenerne delle altre, modificare i rapporti fra l’una e l’altra, come un mobile che vogliamo disporre in modo armonico all’interno di uno spazio già pieno. Questo ci porta alla consapevolezza che questo processo non è semplice, non è neutro, suscita difficoltà, emozioni, resistenze.

Nella Concezione Operativa l’idea è che la conoscenza avviene attraverso un’interdisciplinarietà, un’Epistemologia Convergente. Alcuni concetti di una scienza possono servire all’apprendimento di un’altra scienza, con un’idea di travaso fra una disciplina ed un’altra. Ogni disciplina cioè ha dei nuclei di base che possono essere utili anche nelle altre scienze. Ecco perché le scienze così riunite, possono apportare elementi per la creazione di uno strumento unico concettuale e operativo con cui affrontare la realtà.

Il gruppo che andrete a fare ed in generale i gruppi di apprendimento si situano intorno all’informazione, lo affrontano da vari punti di vista.
L’informazione che vi sto portando costituisce una situazione intorno alla quale ognuno di voi potrà contribuire da una visuale differente. La Concezione Operativa prevede che il lavoro gruppale sarà tanto più ricco quanto più, rispetto all’omogeneità del compito, ci sia un’eterogeneità dei partecipanti. Ognuno potrà portare visuali differenti che arricchiscono
il lavoro sul compito. L’apprendimento in gruppo è qualcosa di diverso rispetto all’apprendimento individuale. Teniamo presente questo concetto rispetto all’Ecro, di cui andiamo a parlare ora.

La parola E.C.R.O significa Esquema Conceptual Referencial y Operativo, in italiano Schema Concettuale di Riferimento operativo, ed è l’insieme di tutte le conoscenze, esperienze, sentimenti con cui guardiamo il mondo, pensiamo ed agiamo. E’ cioè una griglia con cui interpretiamo la realtà che si crea nel corso del tempo. E’ uno schema cognitivo ed affettivo, contiene informazioni ma anche emozioni e sentimenti. Ha a che fare con la nostra identità.

Ognuno di noi struttura nel tempo un proprio schema di riferimento che nasce dalle esperienze all’interno della famiglia, del proprio tessuto sociale, dalle informazioni che si apprendono nel corso del tempo e che vanno a strutturare una griglia, un filtro con cui si interpreta la realtà e si comunica con gli altri. L’humus da cui nasce è la famiglia, il primo ambito di esperienza della persona. Nel corso del tempo questo schema cambia, attraverso altre esperienze, conoscenze apprese, situazioni vissute. Dalla famiglia per esempio, lo schema può modificarsi con la partecipazione ad un gruppo di amici, da cui si apprendono cose diverse, parole che si condividono solo all’interno del gruppo e che rappresentano aneddoti, valori, ricordi. Tutte queste cose vanno ad arricchire e modificare il nostro
schema di riferimento, l’ECRO.

Un altro concetto utilizzato dalla Concezione Operativa è quella di gruppo interno. Un gruppo è composto da personaggi, ma anche da oggetti parziali, situazioni ed emozioni. La persona dall’infanzia internalizza personaggi della sua vita, emozioni, vincoli e inizia a dialogare con il proprio gruppo interno, che nel corso del tempo può ampliarsi, modificarsi. Alcune voci saranno molto forti e influenzeranno prepotentemente i nostri pensieri e comportamenti, altre entreranno nel corso del tempo, mitigheranno alcuni dialoghi, li trasformeranno. In una terapia familiare che ho seguito si parlava di un nonno che si era innamorato di una ragazza benestante del paese e del fatto che il padre della ragazza aveva espresso il proprio rifiuto dicendo che il nonno non era abbastanza ricco e abbastanza colto. Per tutta la vita il nonno aveva continuato a cercare di affermarsi economicamente, aveva spinto fortemente perché le figlie andassero a scuola. Nel gruppo interno di quest’uomo la voce del padre della ragazza era stata estremamente influente e l’uomo si era trovato a dialogare con questa voce un po’ persecutoria per tutta la vita.
Un individuo è sano se mantiene un intergioco costante fra la realtà che vive ed il proprio schema di riferimento, il quale deve modificarsi, in modo complessivo, in base all’esperienza pratica e fornire la possibilità di interpretare la realtà ad un livello più elevato, in un processo a spirale.

Per capire questo vi riporto l’esempio di Keplero (1600), il quale trova dei dati che non confermano la teoria delle orbite circolari dei pianeti del sistema solare. Questa informazione, proveniente dalla realtà, è in contrasto con lo schema di riferimento. Allora, avviene un apprendimento se la persona è in grado di modificare in modo complessivo il proprio schema di riferimento (come per far entrare il mobile di cui parlavamo prima nella stanza ammobiliata). Se questo non succede l’informazione può anche essere incamerata, ma verrà trattata come una bizzarria, una stranezza all’interno di uno schema di riferimento rigido.

Un altro esempio può essere rappresentato dalla dott.ssa Malara che scopre il paziente 1 ammalato di Covid a Cremona. Lo schema di riferimento medico non prevedeva la presenza del Covid in Italia. Ma i dati davano un quadro del paziente che non si spiegava con le conoscenze ed i protocolli istituiti. Allora, la presenza di un elemento nella realtà che non corrispondeva allo schema di riferimento, ha prodotto una pressione che poi ha portato la dott.ssa a forzare il protocollo e scoprire il paziente 1. Non è stato un processo semplice, la dott.ssa ha incontrato resistenze e critiche, ha dovuto assumersi la responsabilità di fare il tampone e permettere la modifica dello schema di riferimento (e anche di salvare la vita del paziente 1).

Se lo schema si sclerotizza la persona si “ammala”, non è più in grado di apprendere dall’esperienza e proietta sul mondo reale il proprio mondo interno in maniera rigida e ripetitiva. Si potrebbe anche dire che se il gruppo interno non riesce più a modificarsi, aggiungere voci e cambiare, la persona non apprenderà più dall’esperienza e riprodurrà in modo stereotipato il proprio mondo interno.
Pichon Riviere dice che per esempio i disturbi di personalità sono tutti disturbi dell’apprendimento.

Anche in questo caso facciamo un esempio. Se nella vita in famiglia una persona vive un vincolo di sfiducia nei confronti delle figure genitoriali questo entra a far parte del suo schema di riferimento. Se nel corso della vita questo schema si irrigidisce, le persone che incontra e che potrebbero modificare l’esperienza vissuta vengono vissute in maniera
distorta, la comunicazione male interpretata e alla fine si riconferma continuamente lo schema di riferimento iniziale. Questo produce un non apprendimento e, a seconda del grado di rigidità, problematiche alla persona in questione che potrebbe continuare a creare relazioni caratterizzate da sfiducia, delusione e allontanamento, appena l’altro commette degli errori.

L’ECRO ha aspetti manifesti, di cui il soggetto è consapevole ed aspetti latenti che agiscono, ma di cui la persona non è consapevole.
Quando entriamo in un gruppo ognuno di noi porta il proprio Ecro, una personale modalità di interpretare il mondo, che nasce dalle esperienze vissute, dalla partecipazione ad altri gruppi a cui abbiamo aderito.
Potremmo dire anche che entriamo con il nostro gruppo interno. La nostra aspettativa è che si sperimenti una situazione più o meno simile a quelle che conosciamo. Ma, se un gruppo inizia a funzionare, le aspettative iniziali non vengono soddisfatte. Il gruppo, nel qui e ora, inizia a funzionare in una direzione differente rispetto a quella pensata da
ognuno dei membri.

Il proprio schema di riferimento, nell’interazione con gli altri integranti che hanno un altro schema di riferimento e nel lavoro sul compito subisce una pressione, una tensione a modificarsi. Il gruppo interno inizia a incontrarsi, scontrarsi con il gruppo esterno.
Potremmo fare l’esempio della persona che ha interiorizzato figure genitoriali di cui non ci si può fidare, che fanno parte del suo Ecro. Nel corso della discussione di gruppo la persona può trovarsi davanti ad un altro membro che le ricorda la madre ed iniziare a provare sentimenti che prova per la madre (rabbia, desiderio di essere ascoltato). Proietta nel proprio comportamento il vincolo che ha con la madre, ma dall’altra parte l’integrante risponde in maniera diversa. Se per esempio la madre si allontana tutte le volte che c’è una discussione, potrebbe succedere invece che l’integrante risponda, stia nella discussione. Questo evento sorprendente produce una pressione nel proprio Ecro, una tensione al
cambiamento.

Questo processo, come dicevamo, non è affatto semplice, non è neutro.
Sviluppa ansie che vengono vissute concretamente all’interno del gruppo.
Se ne parlava già nella informazione precedente, quello che accade è che l’informazione e l’esperienza di gruppo entrano nello schema di riferimento e premono perché alcune idee, concetti si modifichino.
Si può allora sentire un’ansia legata alla confusione (la sensazione di non capire cosa si sta facendo, cosa c’entra l’informazione con quello che si è e che si deve fare, la difficoltà a comprendere che suscita fastidio) oppure più avanti un’ansietà persecutoria (cioè la sensazione di essere sprovvisti di strumenti per affrontare la situazione, la sensazione che non si riuscirà ad affrontarla bene, la diffidenza, la rabbia) e un’ansia depressiva (la difficoltà, il fastidio al pensiero di dover abbandonare delle certezze, strumenti, conoscenze). Queste sensazioni fanno parte dello svilupparsi del processo gruppale, sono necessarie se si vuole produrre apprendimento, cambiamento. La quota di ansia deve essere tenuta dal coordinatore ad un livello ottimale, nel senso che non deve arrivare a
livelli troppo alti disorganizzando il gruppo o attivando blocchi e stereotipie massicce ma non deve essere neanche nulla, segno di un mancato coinvolgimento affettivo, perché non si produrrebbe nessuna variazione, nessun apprendimento.

Ecco allora che una conoscenza, un’esperienza perché produca apprendimento deve mobilizzare, cambiare in modo più globale lo schema con cui interpretiamo il mondo. La difficoltà a mobilizzare il proprio schema di riferimento è spesso legato alla connotazione affettiva, legate all’identità, che hanno per noi alcune informazioni, conoscenze, esperienze: ci teniamo ancorati a certe idee senza permettere che ne entrino di nuove perché le precedenti sono estremamente significative.
Allo stesso tempo però nel gruppo si sperimentano anche altre emozioni, relative ad un vissuto di appartenenza, di affiliazione con gli altri, di collaborazione, di piacere per la condivisione delle conoscenze e delle esperienze degli integranti che può facilitare la strutturazione di un tessuto comune di cui ci si riconosce parte.

Il gruppo lavora se riesce a superare le situazioni dilemmatiche e procedere oltre, con una modalità dialettica. Per farlo è necessario che ognuno perda pezzi di certezza, che sperimenti contraddizioni che creano varchi. In questo modo il gruppo inizia a costruire il proprio schema di riferimento comune, la mutua rappresentazione interna. All’interno di
questo nuovo ECRO ci saranno esperienze vissute nel gruppo, conoscenze, emozioni, sentimenti, di vissuti, di vincoli. E’ ciò che definisce, come è stato detto nella lezione precedente, un noi che ogni persona si porta dentro e con cui affronta la realtà. Possiamo anche dire che l’ECRO corrisponde al gruppo interno, con il quale dialoghiamo
continuamente nel corso della vita.

E’ chiaro allora che maggiore è l’eterogeneità del gruppo, la ricchezza delle conoscenze portate, maggiore sarà, se si riesce a lavorare in modo coeso sul compito, l’articolazione e la varietà dello schema di riferimento gruppale.
Tutto ciò è necessario perché il gruppo possa comunicare con un linguaggio comune. Le persone potranno comunicare se danno lo stesso significato alle parole, ai concetti di cui hanno appreso il senso durante il processo gruppale, riuscendo a non sviluppare malintesi, distorsioni nella comunicazione.

Il gruppo è un altrove. Perché si crei un altrove è necessario uno straniamento, uno spaesamento che per esempio si crea costruendo uno spazio ad hoc per il gruppo, come dicevamo all’inizio relativamente al setting. Lo spazio deve essere qualcosa di un po’ diverso da quella che è la quotidianità, un altrove dove arriva l’informazione ed il gruppo la può “mangiare”, “digerirsela”. Questo altrove è uno spazio reale ma anche uno spazio interno, una zona intermedia libera e protetta (dal setting) in cui il gruppo può giocare con l’informazione, associare, portare liberamente idee, lasciarsi andare e contribuire ad un processo che nessuno, nemmeno il coordinatore, sa dove arriverà.

A mobilizzare gli schemi di riferimento del gruppo saranno le problematiche affrontate che mettono in discussione, creano conflitti, dubbi, apportano conoscenze. Ogni individuo, come abbiamo detto sopra, entra nel gruppo con la propria storia, il proprio schema. A livello grafico potremmo parlare di una dimensione verticale. La dimensione verticale di ciascun integrante si interseca con la realtà del gruppo, quello che avviene nel presente e che viene definita la dimensione orizzontale del gruppo. Oltre a queste due dimensioni c’è quella trasversale, rappresentata dagli avvenimenti istituzionali, storici, politici che accadono e che influenzano in modo significativo le altre due dimensioni e lo schema di riferimento del gruppo.

Possiamo per esempio dire che gli avvenimenti che abbiamo vissuto in questi tre mesi costituiscono parte della dimensione trasversale che influenzano il processo gruppale, lo schema di riferimento comune sia a livello cosciente che latente. La dimensione trasversale è importante, influenza profondamente le altre due, a volte consapevolmente, a volte in modo inconsapevole. Tenere conto degli aspetti istituzionali, sociali, globali è fondamentale per comprendere il processo gruppale e le influenze sullo schema di riferimento. Questo gruppo ad esempio non è quello di prima del Covid, le esperienze, conoscenze che ci hanno attraversato in questi mesi cambiano necessariamente l’ECRO.

Pensate, per esempio, che ansie avete provato rispetto all’utilizzo della modalità on line. Alcuni di voi magari erano già abituati, per altri sarà stato una novità assoluta che può aver prodotto rabbia, diffidenza, tristezza per le parti perse relativamente alle modalità dal vivo, confusione. Possiamo rifiutare completamente queste conoscenze che derivano dalla realtà odierna ed sperare di tornare a prima del Covid, oppure si può provare a integrare alcuni aspetti nuovi con le conoscenze che già avevamo, cercando di creare un nuovo schema che comprenda i nuovi concetti emersi.

Nel lavoro di gruppo emergono STEREOTIPI che sono delle modalità rigide di pensiero, modalità apprese che però sono diventate impermeabili all’esperienza e si riproducono sempre uguali. Possiamo dire che esistono stereotipi individuali, vali a dire quelli che ci portiamo dalla nostra esperienza di vita e con i quali entriamo in gruppo e stereotipi gruppali che devono essere superati se vogliamo produrre pensiero nuovo.

Vi faccio un esempio, per chiarire. In un lavoro fatto anni fa insieme al Dott. Montecchi all’interno di una comunità terapeutica per tossicodipendenti, abbiamo analizzato il materiale del gruppo per un periodo di un anno ed abbiamo ipotizzato che il lavoro sulla cura della propria tossicodipendenza si scontrava con la presenza di ostacoli importanti, in parte consapevoli ed in parte inconsapevoli. Un primo stereotipo era l’idea che ci fosse un destino per cui erano caduti nella tossicodipendenza, che ci fosse una forza più grande di loro che aveva prodotto la situazione in cui erano. Questo ostacolo era particolarmente ostico, perché allora riunirsi in gruppo, lavorare all’interno della comunità, sforzarsi di cambiare non aveva senso e lo stereotipo poteva costituire un alibi perfetto per lasciarsi andare e non produrre cambiamento. Un altro stereotipo era che sarebbero guariti se avessero incontrato l’amore. Essendo una comunità mista c’era la possibilità di innamorarsi, costituendo delle coppie. Questa modalità di pensiero, per cui la tossicodipendenza era dovuta ad una mancanza di affetto e che si sarebbe risolta incontrando la persona giusta, produceva in alcuni casi una resistenza al lavoro gruppale prima o una volta fidanzati, una chiusura in una dimensione a due che non permetteva apprendimento gruppale.

Il processo gruppale funziona se gli stereotipi possono diventare consapevoli e possono essere messi in discussione, schiudersi come uova e lasciare libero il pensiero. La forza del lavoro gruppale può permettere questa rottura. Lo descriviamo facendo riferimento a forze, pressioni, tensioni per ribadire l’idea che non è un processo innocuo, ma che, quando funziona produce un pensiero nuovo. Parliamo di un pensiero creativo, perturbante. Il concetto di perturbante, che viene da Freud, indica la possibilità di vedere qualcosa di non familiare, di estraneo nel conosciuto. Quello che può succedere nel processo gruppale è di rivedere con occhi nuovi concetti, conoscenze, esperienze conosciute. Il lavoro del gruppo produce un nuovo ordine simbolico, che può prendere le distanze dall’ordine simbolico dominante che ci attraversa culturalmente. Ci si riesce a distaccare dalle ripetizioni, quando le ripetizioni del fare si possono distanziare e ci appaiono perturbanti. Questo accade perché ci vediamo come da fuori ed assumiamo in questo la tematica del doppio. Proprio ieri in un gruppo un integrante diceva : “nel lockdown mi sono fermata, ho guardato quello che facevo e l’ho trovato assurdo”. Anche il lockdown è un altrove e allo stesso modo l’altrove del gruppo può portare alla presa di coscienza di certe routines, ripetizioni per poter produrre un immaginario gruppale nuovo.

Lo schema di riferimento deve essere uno strumento di lavoro, che si può applicare nel pratico e nell’operativo dal gruppo, che puè permettere alle persone di comunicare ed evitare malintesi. Vi porto un altro esempio, che proviene sempre dalla clinica. Un paziente psicotico che avevamo nel gruppo spesso parlava “del fenomeno” come la causa dei suoi mali. Nel lavoro gruppale il gruppo ha compreso quello che prima era un concetto
bizzarro e per certi versi incomprensibile: il “fenomeno” rappresentava una sorta di Dio, ma un Dio minore che invece di sostenere ed aiutare aveva prodotto una serie di sciagure, fra cui la morte del padre del paziente. A poco a poco il concetto di “fenomeno” ha iniziato a far parte dello schema di riferimento del gruppo, che lo utilizzava all’interno delle discussioni, appropriandosene. La modalità di comunicazione incomprensibile aveva lasciato il passo alla socializzazione del concetto che ha aperto il pensiero e che per il gruppo, e solo per quel gruppo con quello specifico processo gruppale, costituiva una parola di senso dell’ECRO gruppale.

Se il gruppo si apre al pensiero anche i ruoli si modificano nel senso che si mobilizzano, si arricchiscono le possibilità personali e producono comportamenti differenti. Nella lezione precedente vi era stato detto che spesso si entra in un gruppo di apprendimento con i propri ruoli istituzionali. Nel corso del lavoro di gruppo però le cose cambiano, emergono aspetti differenti, che connettono il cognitivo con l’affettivo, che dischiudono a modalità diverse di essere. Vi porto un’esperienza in un gruppo di apprendimento della non riuscita di questo processo. Un medico con molti anni di esperienza ha preso parte ad un corso di
formazione. Arrivava al corso sempre in giacca e portava la sua parte istituzionale, i casi clinici, la sua professionalità. Nel corso del tempo non è cambiato questo modo di porsi, non sono emerse altre parti della personalità, altri modi di essere. A livello simbolico notavamo che, mentre gli altri integranti si lasciavano andare, si rilassavano, mettevano a nudo alcune parti di sé, il medico teneva sempre la giacca, anche in estate. Questa ci è sembrata una forte resistenza alla possibilità di sperimentare parti differenti e di arricchire il proprio pensiero. La possibilità di passare da medico ad alunno, che avrebbe permesso il riaffiorare di ricordi del passato, di rivisitare il ruolo di alunno, di pensare ad altri aspetti non è potuto avvenire.

Un’altra situazione è rappresentata da gruppi di genitori e figli, nei quali per esempio all’inizio del processo un genitore si presenta come “sono il padre di Giulia”. Queste appartenenze generazionali danno il via all’emergere di stereotipi su noi-genitori e voi-figli, che è un momento naturale del gruppo ma che deve essere superato se vogliamo dar vita a qualcosa di nuovo. Quando un genitore inizia a pensare di essere stato anche figlio, come il ragazzo di fronte che sta parlando o fratello o amico, può mobilizzare alcune parti del suo Ecro e produrre pensiero nuovo, uscendo da una situazione stereotipata.

Per concludere, l’Ecro è uno strumento che il gruppo ha per poter lavorare poi nella pratica e produrre cambiamento. Questo è l’adattamento attivo alla realtà, la possibilità di intervenire sul reale, di non doverlo riprodurre tale e quale, di apportare qualcosa di nuovo. In questo senso il gruppo è una creatura viva, un soggetto e non un oggetto.
Nell’esperienza che stiamo facendo ora insieme per esempio la situazione di apprendimento è reciproca. Mentre voi ascoltate l’informazione e la elaborate nel corso del gruppo, noi apprendiamo dal vostro lavoro e ciò che producete può riversarsi sul dispositivo e produrre delle modifiche. E’ un processo circolare, o per meglio dire a spirale. Il gruppo in alcuni casi può costituire un aspetto istituente dell’istituzione, un motore di
cambiamento dell’istituzione stessa. Può essere una forza istituente che modifica l’istituito. Il gruppo apprende ed insegna, opera concreti cambiamenti nel reale.

Bibliografia
Bauleo, “Ideologia, gruppo e famiglia”
Bauleo e De Brasi, “Clinica gruppale, clinica istituzionale”, Il poligrafo
Marzotto, “I fondamenti della Concezione Operativa di Gruppo”, CLUEB Bologna
Montecchi, “Trasmissione e formazione”, on line
Montecchi, “Il gruppo operativo come produttore di ordine simbolico”, on line
Montecchi e Valeri, “Gruppi e istituzioni”, Areas 3 on line
Pichon Riviere, “Il processo gruppale”, Lauretana

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Istituzioni e pandemia: elementi di analisi istituzionale e gruppo operativo

Lun, 31/08/2020 - 17:25

Il Consorzio Sol.Co Mantova e la Scuola di Prevenzione “José Bleger” sono lieti di invitarvi al webinar:

Istituzioni e pandemia: elementi di

analisi istituzionale e gruppo

operativo

martedì 22 settembre 2020, dalle ore 16.00 alle ore 19.00

L’incontro intende affrontare gli elementi di base dell’analisi istituzionale e, attraverso alcuni cenni storici, riportarci all’attualità di questo dispositivo per leggere gli emergenti sociali nel tempo delicato e complesso che stiamo vivendo.

Durante il webinar interverranno esperti internazionali:

Patrick Boumard, docente di Antropologia dell’Educazione all’Université de la Bretagne Occidentale e presidente dell’Associazione Società Europea di Etnografia dell’Educazione (Saint-Senoux – Francia)
Remi Hess, scrittore e sociologo francese, docente di Scienze dell’Educazione all’Università Paris 8 (Reims – Francia)
Salvatore Inglese, etnopsichiatra e ricercatore in ambito antropologico (Catanzaro – Italia)
Leonardo Montecchi, psichiatra, psicoanalista e direttore della Scuola “José Bleger” (Rimini – Italia)
Osvaldo Saidon, psichiatra, psicoanalista, istituzionalista (Buenos Aires – Argentina)
Thomas Von Salis, neuropsichiatra e psicoanalista, studioso di analisi istituzionale (Zurigo – Svizzera)

Con loro dialogheranno Luciana Bianchera (psicopedagogista, formatrice, docente universitario di Psicologia del lavoro e metodi e tecniche dell’intervento educativo, responsabile scientifica di Solco Mantova), Lorenzo Sartini (psicologo, psicoterapeuta, formatore, supervisore e traduttore per l’Italia del testo “Psicologia de la conducta” di José Bleger), Giorgio Cavicchioli (psicologo, psicoterapeuta, formatore e supervisore) e Simona Di Marco (psichiatra, esperta in etnopsichiatria).

L’evento è gratuito ed è da considerarsi parte delle attività di ricerca sulle tematiche della cura delle istituzioni, dei compiti sociali e comunitari.

E’ possibile iscriversi sul sito di Sol.Co. Mantova al seguente link: https://www.solcomantova.it/iscrizione-webinaristituzioni-e-pandemia-elementi-di-analisi-istituzionale-e-gruppo-operativo/

L’incontro si svolgerà a distanza, in modalità sincrona, su piattaforma ZOOM.
Ad avvenuta iscrizione, riceverete automaticamente il link e i codici identificativi per accedere all’incontro.

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La coordinazione del gruppo operativo online

Dom, 28/06/2020 - 08:16

di Laura Buongiorno (Psicologa e psicoterapeuta, Coordinatrice didattica Centro Studi e Ricerche “José Bleger”, Rimini – mail: labuongiorno@gmail.com, cell: 3356914814)

Premessa

L’occasione è stata la chiusura delle scuole per ordine ministeriale da Covid19 che ha interrotto il normale svolgimento delle lezioni con relativo isolamento e distanziamento sociale lasciando tutti per giorni e giorni in attesa incertezza. La crisi pandemica mai vissuta prima nella sua globalizzazione ha sollevato interrogativi sulla possibilità di ripristinare la comunicazione e la relazione interrotte. La parola pazienza evoca astinenza, prudenza, resistenza. Nel corso dei secoli l’Homo sapiens è stato il sovrano della storia. I mo menti critici gli ricordano la sua fragilità. Oggi che è la nostra stessa sopravvivenza a essere minacciata, scopriamo quanto siamo vulnerabili e quanto precario sia l’equilibrio naturale da cui dipendiamo. Osservando il rapporto tra l’uomo e il virus che oggi stiamo affrontando direi che noi siamo palesemente imperfetti. Però, proprio perché così imperfetti, noi abbiamo dei margini di creatività, di previsione. La sfida è sapersi coordinare alla strategia dell’interlocutore, per dialogare e per ribattere: noi Homo sapiens uguali da millenni , dopo aver cambiato il mondo con le tecnologie dell’informazione, ora ci dobbiamo adattare ad un ambiente che noi stessi abbiamo prodotto. Gli e-saltati presentano la svolta digitale come tetrafarmaco per la nuova pe stilenza che solo permette tra una lezione in teledidattica, una riunione in tele lavoro,una pausa di teleaperitivo, di rompere l’isolamento dal social, vera pia ga del morbo, più grave della malattia fisica. Così le ultime resistenze di chi ancora opponeva scetticismo e perplessità ai modelli sociali e culturali imperniati sulla tecnologia sono state travolte dall ormai indiscutibile efficacia di una nuova socialità telematica, di una rinnova ta produttività a distanza. Le esitazioni di chi ancora opponeva il cauto pessimismo della ragione all incondizionato ottimismo della connessione sono spazzate, i dubbi dissipati gli equivoci chiariti.

Intanto dalla fase 2 alla fase3 i tempi corrono veloci e quello che andava be ne l’altro ieri oggi è già superato. La scuola dovrebbe essere un passo avanti invece abbiamo sempre consta tato che rimane indietro diventa obsoleta e inadeguata . Non a caso quando parliamo di istituzione analizziamo l’istituito e consideria mo l’istituente come possibilità di cambiamento. Per questo pensiamo che una scuola debba avere al suo interno un centro di ricerca con docenti ricercatori che attraverso gruppi , come nel caso della Scuola Bleger, lavorino sui vari ambiti (individuale, gruppale, istituzionale, comunitario, globale).

Assistiamo a continui tagli di bilancio a scuola, sanità e cultura. Tutto quello che non produce ricchezza diventa marginale. La scuola italiana non riprende realmente al contrario di altre nazioni europee anche perché le aule delle nostre scuole non rispettano gli spazi necessari per numero di alunni secondo una normativa che non è mai stata applicata neanche in tempi normali per cui oggi la distanza che si richiede sarebbe Impossibile. Per mancanza di strutture adeguate la scuola rimane chiusa.

Secondo Michel Foucault la biopolitica è uno strumento per governare i Paesi. Il rischio biopolitico è che il potere-nazionale, internazionale, medico indu striale, governativo-pretenda di controllare la vita sociale in nome della salute pubblica, adottando misure che mettono in discussione i diritti dei cittadini. Viene richiesto di mantenere la distanza fisica non quella sociale: due concet ti molto diversi perché durante il lockdwn le persone hanno rafforzato le rela azioni sociali attraverso le piattaforme digitali. Insegnare e vivere ai tempi del virus , nei giorni pandemici possiamo fare otti me lezioni in cui la distanza non è più un vuoto da riempire, può essere un valore interessante, un’opportunità. In queste settimane di emergenza sanitaria abbiamo sperimentato la tecnica della didattica a distanza che non ha precedenti come unica forma di didattica attualmente praticabile.

La Scuola Bleger ha avviato le lezioni a distanza. Che cosa si guadagna e che cosa si perde in questo nuovo scenario? È di fatto limitata la condivisione cognitiva ed emotiva degli argomenti della lezione, viene meno quella modalità di interazione con i presenti sui passaggi salienti con l’ausilio del linguaggio del corpo. Ci si domanda quanto queste limitazioni conseguenti all’assenza di uno spa zio-tempo condiviso potranno essere superate con l’esperienza, con l’acqui sezione di nuove strategie cognitive e di efficaci modalità di interazione a di stanza, come pure dallo stesso sviluppo di tecnologie sempre più sofisticate che potranno rendere la lezione quanto mai più vicina a quella in presenza, con uno scenario ad oggi quasi fantascientifico. Questo per dire che ho affrontato la coordinazione del gruppo operativo online senza pregiudizi e anche però senza certezze che sarebbe stato pos sibile. Di seguito presento gli emergenti dei due gruppi coordinati partendo dalla triangolazione “gruppo-compito-coordinatore “ e dal setting (tempo, spazio ruoli, compito) . Nel gruppo operativo online quello che cambia è lo spazio. Il gruppo coordinato online è formato da 8 allievi (4maschi e 4femmine). Un gruppo eterogeneo per età e professioni (psichiatri, sociologi, Psicotera peuti , educatori) . Per non appesantire il lavoro si decide di fare un’ora di informazione e un’ora e mezzo di lavoro di gruppo , al contrario della scuola reale che prevede due informazioni e due gruppi nello stesso pomeriggio.

PRIMO GRUPPO ONLINE 24/4/2020
Secondo anno
Ore 15/16.30
Presenti 8 allievi
Il compito:”parlare dell’informazione e di quello che volete”.
Coordina Laura Buongiorno
Informazione di Leonardo Montecchi su “ L’osservazione”
Il secondo anno di scuola Bleger prevede che gli ultimi due incontri siano sull’osservazione per andare a osservare altri gruppi in altri contesti con relativa supervisione sempre online.

PRIMO EMERGENTE del primo gruppo online
Una persona non riesce ad aprire il microfono e rimane spenta attivo solo il video. Coordinatrice: Sembrerebbe che qualcuno non voglia parlare. Perché? “Mi sono sentito uno dei migranti. Mi hanno mandato da loro per informarli aiutarli. Alla fine ho fumato con loro e sono stato mandato via. Mi sono sentito in colpa”. “Ho sentito la tua impotenza. È una sensazione che ci implica tutti in questa situazione di crisi”. “È venuto a mancare il nostro medico di base: ecco l’impotenza”. “Il senso di impotenza è non poter stare tutti nella stessa stanza”.

SECONDO EMERGENTE (EMERGENTE CENTRALE)
“Siamo stati colonizzati dal virus”. “Il virus cerca di fare morire le relazioni, noi però possiamo reinventarci dopo essere stati bloccati”. “Io a casa non riesco ad attivarmi.” Coordinatrice: sento che c’è una resistenza ad accettare questa nuova situazione. A metà gruppo si apre la comunicazione di chi non riusciva a parlare. “Il silenzio della pandemia è obbligato, il silenzio nel gruppo è volontario.” “Adesso a casa leggo, non sto così male ma ho paura del dopo. Ho ricevuto il kit di pronto soccorso emotivo”.

TERZO EMERGENTE (EMERGENTE FINALE)
“Faccio una grande difficoltà a fare questo gruppo: vi vedo uno alla volta”. “Questo resto a casa io non l’ho vissuto; sono andata sempre a lavorare e poi vado a fare la spesa con la fila per i miei genitori vestita da guerra. Ancora la vestizione e la svestizione sul pianerottolo. La cosa più pesante è la distanza”. “Credo che la cosa sia stata mal condotta. Da quando l’OMS ha ufficializzato la pandemia, questa è diventata la principale notizia dei talkshow”. “Non c’è mai qualcuno che fa autocritica e che ammette di aver sbagliato”. “Io ho un vissuto di rabbia”. “Io mi sento fortunato perché migliaia di persone sono state contagiate e io no”.

COMMENTO
La tecnica nel gruppo online non è solo quella del processo, è anche quella della tecnologia. Da un inizio di difficoltà e di impotenza si passa a una fase di attivazione. Il virus fa morire le relazioni ma ci si può reinventare. Questa modalità è la unica alternativa praticabile per uscire dal l’isolamento.

SECONDO GRUPPO ONLINE
8/maggio 2020
8 allievi presenti (4 maschi e 4 femmine)
Ore 15/16,30
Il compito: “parlare dell’informazione e di quello che volete”
Coordina Laura Buongiorno
Relatore Leonardo Montecchi su “L’osservazione” (ore 14/15)
La relazione è sull’osservazione: come cogliere un emergente. “Lo faremo insieme nella supervisione”. “Gli emergenti necessitano di una interpretazione che non si può dire quale sia quella giusta. Resta il fatto che solo l’interpretazione certa muove il processo del gruppo. Processo a spirale manifesto e latente dall’implicito all’esplicito e viceversa”.

PRIMO EMERGENTE
“Siamo in uno spazio individuale, invece a scuola eravamo in uno spazio comune”. “La sensazione è come se non avessi fatto esperienza”. Coordinatrice: “State dicendo che questo non è un gruppo?”. “L’esperienza non era solo il gruppo: iniziava dal momento in cui partivo al momento in cui tornavo e poi c’era la pausa tra un gruppo e l’altro”. “A me mancano gli aspetti relazionali”. Coordinatrice: “Vi state chiedendo se c’è un piacere da provare qui?”. “Il viaggio era un aspetto piacevole, questa modalità è meglio di niente”.

SECONDO EMERGENTE (EMERGENTE CENTRALE)
“È un film di animazione che prospetta un futuro tragico”. “Questa crisi ci ha costretto a fare altre cose”. “La rabbia è che questo è un surrogato e ha bloccato quello che si stava facendo”.

TERZO EMERGENTE (EMERGENTE FINALE)
“Dalla fantascienza alla Tecnologia… ma ti vorrei dare un abbraccio!”. “Tolstoj dice che non c’è progresso se il progresso non è di tutti”. “Qui è difficile mantenere l’attenzione”. Coordinatrice: “State dicendo che la tecnologia e l’ambiente non possono convivere?”. “L’epistemologia convergente….”. “La tecnologia mi piace ma non può sostituire altro”. Coordinatrice: “Qual è il dentro e il fuori di questa situazione? Come si fa a pensarla? Oggi avete eliminato le interferenze, spento i cellulari, nessuno si è alzato, nessuno mangia… proprio come a scuola…”. “Io sento che anche questo è un gruppo”.

COMMENTO
Questo non è un gruppo che si è arreso, ne’ rassegnato. La protesta è nella manifestazione emotiva di frustrazione e di impotenza. Ma è anche nella responsabilità di avere maturato VINCOLI che alla fine fanno ammettere di essere gruppo: quale gruppo del qui e ora? Alcune considerazioni riguardano il fatto che c’è già una storia del gruppo preso in esame in quanto forse il processo coincide con l’esperienza fatta negli anni passati. Sarebbe interessante confrontarlo con uno che inizia online e termina online. Ogni contesto storico (politico, sociale, economico) deve fare i conti con gli strumenti che ha a disposizione. La resistenza nelle trincee della prima guerra mondiale si è trasformata in una frontale e di sabotaggio nella seconda guerra mondiale. Oggi la catastrofe da coronavirus che stiamo vivendo ancora non ci permette pienamente di capire come affrontarla. Questo non significa che non possa esserci una strategia di resistenza. Infine una rinnovata riflessione sul corpo è imprescindibile. Il gruppo online riapre i giochi, torna a parlare di corpo e di linguaggio per riformulare i termini della discussione, dove anche qui il corpo non possa essere pensato altrimenti che nel suo potere significante. Questo corpo è forma della materia, una forma che si svela e funge nelle trasformazioni che produce. Si propone il tema del corpo per una nuova esigenza di pensiero e per una nuova riflessione.

“No aspiramos a ser excelsos observadores de la realidad, sino professionales capaces de transformarla” (Enrique Pichon Riviere).

 

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Concezione Operativa e Gruppo Multifamiliare l’esperienza del Servizio Territoriale Dipendenze Patologiche di Senigallia

Mer, 27/05/2020 - 22:15

di Francesca Anderlini

Premessa teorica

 Dalle radici della terapia familiare al Gruppo Multifamigliare

Il processo che ha portato allo sviluppo di una teoria della malattia psichica dell’individuo come correlata al contesto di vita, parte da lontano e forse anche da prima del momento che individuiamo qui come uno dei fatti che ne sono stati all’origine.

Ci riferiamo ai medici Lasègue e Falret che, già nel 1877, nella descrizione della sindrome della “folie a deux”, osservavano che “Il problema non è semplicemente quello di esaminare l’influenza esercitata dalla persona malata su quella sana, ma anche quello inverso della persona ragionevole su quella delirante e di dimostrare come, tramite una serie di compromessi reciproci, le differenze vengono eliminate”(Loriedo, 1978).

Bleuler, nel suo trattato sulla schizofrenia del 1911, descrive alcune caratteristiche notate nella famiglia della persona schizofrenica, ma si può far derivare da Freud, con la formulazione del Complesso di Edipo, il primo esempio di relazione triangolare patogena. (Loriedo, 1978)

Negli anni 40 cominciò sempre più a comprendersi la relazione tra il sintomo che il soggetto presenta e la struttura famigliare della quale egli è membro.

La terapia familiare nasce nella cultura statunitense degli anni Cinquanta e si sviluppa in due diverse direzioni: una sistemica propria della Scuola di Palo Alto e una più psicodinamica. Nel contempo altri autori entravano in sinergia con questo nuovo paradigma che si stava sviluppando in riferimento al sintomo come espressione di una patologia del gruppo di appartenenza.

Nel 1942, con la partecipazione di alcuni psicoanalisti europei, nel solco tracciato ad opera dei gruppi di studio “locali” di Buenos Aires, nasce l’Associazione Psicoanalitica Argentina (APA).

Tra i fondatori Enrique Pichon-Rivière (Ginevra, 25 giugno 1907 – Buenos Aires, 16 luglio 1977), psichiatra e psicoanalista. Il suo pensiero ed il suo lavoro scientifico sono stati caratterizzati dallo sforzo teso alla ridefinizione della psicoanalisi come una psicologia sociale (analitica).

Ideò il metodo del Gruppo Operativo che definì come “[…] Un insieme di persone, legate per costanti di tempo e di spazio ed articolate su una mutua rappresentazione interna, che si propone esplicitamente o implicitamente un compito che costituisce il suo scopo” e nel quale risultano fondamentali i concetti di portavoce ed emergente. Il soggetto è un portavoce, in questo caso emergente, del proprio gruppo familiare che, a sua volta, è da intendersi come portavoce del gruppo socio-culturale più ampio di cui è parte.” (Lorenzo Sartini, “Enrique Pichon-Rivière”).

Il paziente non viene più visto semplicemente come il malato, bensì come elemento emergente della situazione gruppale e sociale che lo produce. È attraverso la famiglia, gruppo sociale primario che fa da ponte tra l’individuo e la società, che il soggetto impara a stare in relazione con gli altri e apprende una peculiare modalità per affrontare il mondo che lo circonda.

Un allievo di Pichon-Rivière è Josè Bleger, anch’egli psichiatra e psicoanalista,

A proposito della relazione tra individuo e contesto famigliare egli scrive:

“Quando l’individuo viene al mondo vi è un sincretismo, una mancanza di discriminazione fra Io e Non Io; non esiste ancora né mondo esterno né mondo interno, ma un tutto indiscriminato indiviso e solo gradualmente si differenzierà, allora si instaurerà nel soggetto un mondo interno che si differenzierà da quello esterno. (All’inizio dunque non ci sono né proiezione né introiezione). Ciò vuol dire che il processo che si sviluppa nella dinamica famigliare non è di progressiva connessione tra i membri, ma di graduale distacco ed individuazione.

La funzione istituzionale della famiglia è quella di servire da serbatoio, controllo e protezione per la parte più immatura, primitiva o narcisistica della personalità, ma al tempo stesso, grazie all’instaurarsi di una buona relazione simbiotica all’interno del gruppo famigliare (relazione simbiotica normale e necessaria) quest’ultimo, nella sua dinamica normale, permette che si sviluppino le parti più adatte e mature della personalità nell’extragruppo. Quanto al cambiamento esso deriva da cause connesse non con l’extragruppo, ma con la natura stessa-con la dinamica del fenomeno psicologico, riguarda cioè la natura intima o intrinseca delle dinamiche del gruppo famigliare.

Le situazioni di cambiamento possono provocare tre tipi di ansia: confusionale, paranoide e depressiva.” (Josè Bleger, “Psicoigiene e Psicologia istituzionale”, pag. 123).

Se il bambino viene nutrito e sufficientemente rassicurato risolverà la fase di simbiosi, si differenzierà, potrà sopportare l’angoscia di perdita, sarà in grado di sopportare la frustrazione, avrà sperimentato che la madre ritorna e che il mondo non gli è ostile, non sarà fuso e confuso con lei.

Il Gruppo Multifamigliare

 La storia dei Gruppi Multifamiliari inizia a Buenos Aires in Argentina, negli anni 60, in un reparto dell’Ospedale Psichiatrico “Borda”. Fondatori dei Gruppi Multifamiliari in Argentina, Jorge Garcia Badaracco psichiatra e psicoanalista, già presidente dell’APA, Eduardo Mandelbaum Specializzato nella Scuola di Psichiatria Dinamica, in Gruppi operativi, diretta da Pichon-Rivière, di cui è stato allievo e collega.

“In Italia la terapia di gruppo multifamigliare costituisce una forma di intervento clinico che si inserisce nell’ambito dei grandi cambiamenti avvenuti a seguito dell’entrata in vigore della legge 180 (più comunemente conosciuta come “legge Basaglia”)” (da Laura Dominijanni, I gruppi multifamiliari: cosa sono e come funzionano). Da quel momento, con la chiusura dei manicomi ed il rientro dei “pazienti” nelle famiglie, la cura è stata decentrata nel territorio e le famiglie sono state coinvolte nel trattamento. E’ interessante notare quanto sia complesso, ricco e articolato il processo che, da istituente diventa istituito, ripercorrendo il percorso che, dalle prime osservazioni sull’origine relazionale del sintomo, si muove verso la costruzione di modelli teorici e pratici di intervento che interessanole famiglie e i gruppi. Tale percorso si è sviluppato in sincronia con una molteplicità di cambiamenti a livello socio-politico, economico, culturale che hanno comportato l’emanazione di una serie di leggi (la legge sull’aborto, l’abolizione delle classi differenziali, la riforma del diritto di famiglia, la legge sul divorzio, la riforma sanitaria, la legge Basaglia) e istituzionalizzato il lavoro di équipe e l’ingresso della famiglia nel processo di cura.

In Italia la terapia multifamigliare si è diffusa ad opera di diverse correnti di pensiero e, per ciò che concerne la Psicologia Sociale Analitica ha rappresentato la naturale applicazione della concezione operativa di gruppo ai gruppi multifamiliari.

Questi Gruppi, nati per il trattamento di pazienti psicotici, sono poi stati utilizzati con pazienti border-line, con disturbi narcisistici della personalità e infine, adesso, con i famigliari di pazienti con disturbi alimentari e nel nostro caso con pazienti tossicodipendenti.

Un elemento innovativo che caratterizza questo tipo di trattamento è l’alleanza terapeutica interfamiliare.

Vale a dire che avvengono processi di identificazione che permettono l’uscita da schemi rigidi di comportamento. Già nel setting unifamiliare la famiglia, stimolata a confrontarsi con il mondo esterno rappresentato dal terapeuta e dal contesto in cui egli opera, ha modo di uscire dal proprio microcosmo, di riflettere sul proprio modo di comunicare, di confrontarsi e di sperimentare altre strade.

Ma allorché più famiglie si trovano insieme, le emozioni e le parole dell’uno trovano eco nell’altro che sembra vivere lo stesso problema e averlo risolto in modo diverso, gli integranti possono confrontarsi sulle somiglianze e sulle differenze ed il processo terapeutico intensificarsi nel dipanarsi di transfert alla pari ed intergenerazionali. Identificarsi e comprendere il figlio o il genitore dell’altro può creare le basi per dissolvere gli stereotipi che si manifestano nel pensiero e nei comportamenti, interrompere i copioni e le ridondanze e liberare energia per nuovi pensieri e progetti.

L’esperienza emozionale profonda che una famiglia può vivere in una situazione di contenimento e di appoggio che le fornisce il gruppo più ampio, aiuta a mobilitare e manifestare quei contenuti che opprimono, intimoriscono ed ostacolano il cambiamento.

Secondo Pichon-Rivière: “Quando più persone si riuniscono in un gruppo, ciascun membro proietta i propri oggetti fantastici inconsci sui diversi membri del gruppo; mettendosi in relazione con essi secondo quelle proiezioni che si evidenziano nel processo di assegnazione e assunzione dei ruoli. La struttura di interazione gruppale non solo permette, ma stimola l’emergere di fantasie inconsce. […] il ruolo è lo strumento di incontro, che determinerà alcune forme di interazione e ne escluderà altre.

Incontriamo dunque nel campo gruppale transfert multipli. Le fantasie di transfert emergono sia in relazione agli integranti del gruppo sia in relazione al compito e al contesto nel quale si sviluppa l’operazione di gruppo. […] Gli elementi del campo gruppale possono essere organizzati. L’azione gruppale, interazione nelle sue differenti modalità, può essere regolata al fine di renderla efficace, di potenziarla in vista dei suoi oggetti; in ciò consiste l’operazione.” (Pichon-Rivière, “Il processo gruppale”, pagg. 106 e seg.)

 

Quale modello di famiglia hanno in testa gli operatori: chi convocare?

Le nuove Famiglie

E’ chiaro che i progressi della scienza, della tecnologia, del lavoro femminile, i cambiamenti dei costumi e l’affacciarsi di nuovi diritti nell’ambito sociale e famigliare tutto ciò ha ampiamente influenzato e cambiato i costumi e smantellato l’identificazione di modelli famigliari univoci a cui riferirsi.

Ed è per questo che assistiamo oggi alla costruzione di svariate tipologie di famiglia: arcobaleno, adottive, omogenitoriali, monogenitoriali, allargate, famiglie divise, famiglie ricostituite Tali nuove tipologie costringono a percorsi istituenti sempre in divenire.

Le nuove famiglie non sempre hanno una collocazione riconosciuta giuridicamente ed i rapporti al loro interno non seguono sentieri già percorsi dai padri: prendiamo ad esempio le famiglie divorziate in cui i genitori si sono riaccompagnati o risposati con altri partner, forse è nato un altro figlio, forse due oltre a quello/i che ciascuno aveva avuto dal precedente matrimonio o convivenza. In queste famiglie, il sintomo che presenta l’ultimo nato divenuto adolescente, di chi è portavoce? In che rapporto sono i nuovi ed i vecchi nuclei tra loro?

Estrapolando alcuni stralci molto significativi dall’articolo di Alejandro Scherzer, “Dalla famiglia edipica alla famiglia gruppale”, rispetto a queste nuove famiglie possiamo chiederci:

“Chi educa? Chi decide? Chi sceglie la scuola?

E l’attenzione alla salute? Chi la paga? Chi supporta? Chi si prende cura?

Che cosa succede con il patrimonio: con i beni materiali, con il denaro per la sopravvivenze di ciascun gruppo familiare?

C’è un fondo comune con il denaro per i figli dell’altro coniuge?

Chi decide i luoghi, chi proibisce un’uscita, il condividere (o no) uno spazio della casa?

Come si coinvolge ciascuno nel rapporto con gli altri?

In queste nuove famiglie si generano attivazioni delle paure basiche.

Le paure familiari si intrecciano con le paure sociali.

Angosce confusionali per il fatto di rimanere come “con la testa tra le nuvole” con pochi appoggi di fronte ai cambiamenti, alle modifiche dell’identità.

Paura che possa accadere qualcosa ai figli.

Angosce persecutorie per l’avvento dello sconosciuto di fronte ai cambiamenti nelle forme di organizzazione e funzionamento delle famiglie.

Angosce di perdita degli affetti familiari, mancanza di protezione, impotenza economica, segregazione sociale per il fatto di non avere un’appartenenza familiare tradizionale, o per la ‘macchia’ della separazione.

Paura della sofferenza per le perdite delle organizzazioni conosciute.

Timori di ‘sprecare’ il tempo e lo sforzo che porta a costruire una nuova organizzazione familiare.”

Come tutto questo influisce sui nostri modelli? Non abbiamo risposte predefinite. Come un figlio non biologico, il cui padre vive in un altro nucleo famigliare, può chiamare la figura maschile del nucleo in cui vive, che svolge la funzione paterna rispetto ai figli biologici coabitanti ma non è il suo padre biologico? Come trattare le famiglie allargate? Chi chiamare in psicoterapia?

 

Il nostro lavoro con il Gruppo Multifamigliare

 A questo punto, dopo aver esplicitato per grandi linee il substrato teorico, passiamo ad esaminare la maniera in cui tutto questo si è tradotto in prassi operativa.

 Fase istituente

Da tempo, mesi, sulla lavagna della stanza delle riunioni c’era una lista di progetti attivati e da attivare, fra quelli da attivare un’idea in fieri per cui gli operatori avevano già attinto a corsi formativi e riguardava l’istituzione di un Gruppo di Terapia Multifamigliare.

Nella primavera 2018 la Scuola J. Bleger di Rimini diretta dal Dr. Leonardo Montecchi, ha organizzato un seminario su questo argomento.

Alcuni operatori decidono di partecipare.

Possiamo interpretare questo come un emergente della motivazione dell’intera équipe ad aprire questo percorso di trattamento.

Si è deciso pertanto di organizzare un corso di Formazione che si è svolto in quattro incontri a cadenza mensile, a partire dal mese di settembre 2018, dal titolo: “Processo terapeutico e gruppi multifamiliari. La ricchezza dei transfert multipli”.

Si è anche previsto di dare inizio agli incontri di terapia multifamigliare a partire dal mese di gennaio 2019 e di organizzare un’assemblea degli utenti nel mese di novembre 2018 al fine di presentare il lavoro terapeutico e di ascoltare i vissuti e le idee degli integranti.

Era ottobre e l’équipe intanto individuava, di lì ad un mese, le famiglie a cui proporre tale percorso.

Le stesse, qualora avessero accettato la proposta, venivano invitate all’assemblea.

Sono stati individuati 18 nuclei famigliari per complessivi 58 potenziali integranti, rispettando il criterio della disomogeneità che favorisce il confronto con la differenza ed il superamento di stereotipi.

Erano comprese nell’elenco situazioni di cronicità o utenti presi in carico recentemente, nuclei che avevano appena concluso la fase di valutazione o già in trattamento psicoterapico con interventi individuali, famigliari, di gruppo, casi di doppia diagnosi, famiglie di diverso ceto sociale e culturale.

Fra quelle che non hanno aderito (12 famiglie) in due di esse i figli sono entrati in Comunità terapeutica, nelle altre, uno è deceduto, uno ha abbandonato il programma, per una coppia il motivo è stato la nascita di una bambina, per un totale di 5 nuclei.

Hanno invece deciso di partecipare 6 famiglie (14 integranti), di cui 3 (8 integranti) costantemente presenti per tutta la durata del percorso

Il Gruppo Multifamigliare che si è costituito era formato da: una famiglia, padre madre e figlio, i cui genitori sono separati da anni, tre famiglie composte da madre e figli il cui padre è deceduto, una coppia di fratelli (la madre si presenterà un’unica volta) che lascerà presto il gruppo, una coppia di fratelli che entra dopo la pausa estiva.

Da subito si nota la mancanza dei padri.

Inquadramento

Si è stabilito che il gruppo avrebbe avuto inizio a gennaio con durata annuale ed interruzione nei mesi estivi (luglio e agosto) e nelle feste pasquali e natalizie. Le sedute si sarebbero svolte a cadenza quindicinale, il giovedì dalle 15 alle 16,30.

Lo spazio individuato è la stanza più grande del servizio dove si effettuano le riunioni di équipe degli operatori ed i gruppi di psicoterapia rivolti agli utenti ed ai famigliari.

Il compito del gruppo, enunciato dai coordinatori era “parlate di come stare meglio e di qualsiasi cosa volete” Abbiamo scelto un compito dove già fosse contenuta un’idea di cambiamento che, nel nostro pensiero, significa superamento degli stereotipi, delle resistenze, per desiderare e creare progetti nuovi che scaturiscano dall’Ecro gruppale (citando Pichon-Rivière: “il compito deve essere centrato su come raggiungere una maggiore salute mentale in una comunità specifica situata nel tempo e nello spazio […] ciò che si vuole ottenere è un adattamento attivo alla realtà dove il soggetto, nella misura in cui cambia, cambia la società che, a sua volta agisce su di lui, in un intergioco dialettico a forma di spirale, dove, nella misura in cui si rialimenta ad ogni passaggio, rialimenta anche la società a cui appartiene.” (Enrique Pichon-Rivière, “Il processo gruppale”)

Il ruolo di coordinazione viene svolto da una Psicologa di ruolo e una Psicologa a contratto; il ruolo di osservazione da un’Infermiera di ruolo e uno Psicologo a contratto.

I coordinatori segnalano ed interpretano gli ostacoli affettivi e cognitivi che il gruppo trova nel lavoro sul compito e gli osservatori annotano ciò che avviene nel processo gruppale, una di essi legge gli emergenti a venti minuti dalla fine.

Il coordinatore non conduce il gruppo, l’organizzazione della comunicazione non è stellare e centripeta, il depositario del sapere è il gruppo stesso con le sue differenze.

Al termine di ogni seduta gli operatori hanno deciso di riunirsi per discutere sulle relazioni gruppali e sul loro controtransfert.

Considerazioni

L’individuazione dei ruoli di Coordinatore ed Osservatore (discussa sia nella riunione di équipe che in un sottogruppo di lavoro appositamente costituito) appare caratterizzata da complessità istituzionali aventi valenza di istituente rispetto all’istituzione sanitaria.  L’Istituzione è organizzata secondo un modello verticale-gerarchico, il rapporto di lavoro regolamentato attraverso contrattazioni che distinguono il ruolo sanitario medico, il ruolo sanitario non medico, il comparto. Ma anche a livello orizzontale operatori aventi la stessa qualifica sono distinti in personale di ruolo e personale con contratto libero professionale e rapporto di lavoro a termine, con diverso trattamento economico.

A fronte di ciò il personale impegnato nel Servizio, indipendentemente dalla qualifica e dal contratto lavorativo, è, per la maggior parte, formato secondo il modello della Concezione Operativa. Ciò prevede che, all’interno dei gruppi operativi terapeutici, le stesse funzioni possano essere svolte indipendentemente dalla qualifica professionale.

Ciò che l’Istituzione separa, il modello della Concezione Operativa sovverte e riunifica, riconoscendo un valore professionale a prescindere dal ruolo istituzionale e dall’aspetto economico, ma tale ambivalenza passa anche nel corpo dell’équipe e degli operatori stessi, nell’utopia, che trova ostacoli nel modello socio-economico corrente, che al valore lavoro corrisponda anche un valore di riconoscimento culturale, professionale ed economico.

 

Presentazione del lavoro

 Metodologia

 Si utilizza la Concezione Operativa come strumento di analisi del processo gruppale seguendo i vettori di Pichon Riviere: appartenenza, pertinenza, affiliazione, cooperazione, telé, comunicazione.

Si analizzano la prima seduta, la seduta centrale e quella finale, ciascuna in base agli emergenti iniziale intermedio e gruppale.

Prima seduta (10 gennaio 2019)

Come ad ogni “prima” si respira tra tutti gli operatori del Servizio un clima frammisto di ansia e eccitazione per la nuova istituzione dei Gruppi di Terapia Multifamigliare.

Si decide di dare avvio al gruppo con le note di una canzone che recita:

tutto quello che mi serve adesso è ritrovarmi con me stesso perché spesso con me stesso ritrovarmi non mi va. Certo non si può restare tutto il giorno a disegnare una casetta con il sole quando il sole se ne va…non sarò mai abbastanza cinico da smettere di credere che il mondo possa essere migliore di com’è. Ma non sarò neanche tanto stupido da credere che il mondo possa crescere se non parto da me…” (Brunori Sas- Costume da torero)

Qualcuno arriva in ritardo segnalando la difficoltà ad entrare nel compito.

Siamo nella fase di pre-compito, caratterizzata dall’assenza di discriminazione e da emozioni, pensieri che si frappongono al cambiamento (paure di base di perdita e attacco, paura del cambiamento, insicurezza, fantasie di base di malattia, trattamento, cura)

Ogni integrante arriva portando il proprio schema di riferimento, il proprio gruppo interno costruito a partire dalla situazione triangolare di base. Dice E. Pichon-Rivière: “Lo schema di riferimento è l’insieme di conoscenza, di attitudini che ciascuno di noi ha nella sua mente e con le quali lavora in relazione con il mondo e con se stesso” (Applicazioni della Psicoterapia di gruppo, 1957, e in Tecnica dei gruppi operativi, 1960). Partiamo dalla base della “preesistenza in ciascuno di noi di uno schema di riferimento (insieme di esperienze, conoscenze e affetti con i quali l’individuo pensa e agisce)”. Questo schema di riferimento è ciò che permette al soggetto di possedere modelli di sensibilità, modi di pensare, sentire e fare nel mondo e che segnano il suo corpo in una certa maniera. È la sua tendenza alla ripetizione che offrirà resistenza al nuovo, agli stimoli (idee o esperienze) che tendono a destrutturarlo.

Pichon-Rivière sostiene che così come abbiamo necessità di uno schema di riferimento, un sistema di idee che guidi la nostra azione nel mondo, abbiamo necessità che questo sistema di idee, questo apparato per pensare, operi anche come un sistema aperto che permetta la sua modificazione.

Viene enunciato il compito: “parlate di come stare meglio e di qualsiasi cosa volete

Il processo gruppale inizia toccando da subito il tema della risoluzione della simbiosi nella relazione tra genitori e figli, ma ciò che è contenuto nel primo emergenteIo sto meglio da quando ho smesso di identificarmi con la sofferenza di mio figlio” viene presto contraddetto da quanto affermato da un altro integrante: “mia madre è un caposaldo del mio benessere” affermazione che evidenzia come il rapporto di dipendenza ed indiscriminazione sia lungi dall’essere risolto. La separazione, l’individuazione sembrano essere solo auspicate, desiderate. L’emergente sta ad indicare che il gruppo, appena costituitosi, vive una fase di indiscriminazione ed ambivalenza di cui non è consapevole.

Dopo circa mezz’ora entrano 2 integranti: madre e figlia. Il ritardo rappresenta simbolicamente la difficoltà ad entrare nel compito, la resistenza caratteristica in particolare di questa fase di pre-compito.

Nella fase centrale il gruppo sembra riconoscere un bisogno di aiuto, sembra sentirsi la necessità di essere sostenuti dall’istituzione che cura e dal gruppo stesso, come si evidenzia nel secondo emergente: “Ho bisogno di parlare con qualcuno che mi possa supportare…Ma per poter dare concretezza a questo intento occorrerà creare dei vincoli che costituiranno la base del confronto e della possibilità di cambiamento.

Una coppia di fratelli esce mezz’ora prima del termine.

La cornice del setting, con una durata definita, ci permette di interpretare questo comportamento come una resistenza del gruppo a stare nel hic et nunc e nella relazione con gli altri. Sembra manifestarsi un desiderio di fuggire da una possibile ansia persecutoria e dolorosa provocata dalla sensazione di dover cambiare il proprio schema di riferimento sul quale si è costruita la propria vita, cucendo assieme idee e sentimenti giorno dopo giorno.

Un integrante, identificatosi nella coppia di fratelli, paragonandoli ai suoi figli non altrettanto uniti, esprime il dispiacere per la loro uscita dal gruppo ed in questo modo, forse, ribadisce la motivazione al compito ed un primo desiderio di appartenenza. Vediamo, già da queste prime note, come ogni movimento del gruppo sia connotato da ambivalenza.

La prima seduta si conclude con la constatazione dell’esistenza di un legame di dipendenza nel rapporto genitori-figli di cui il figlio, con il sintomo della tossicodipendenza, si fa portavoce. Una madre annuncia: “Non sono sufficientemente forte per lasciarlo andare (nei giardini di notte) da solo” Questa frase viene restituita al gruppo come terzo emergente del processo gruppale: così come non è differenziato il vincolo tra genitori e figli, anche il gruppo sta attraversando una fase di indiscriminazione e ambivalenza.

Seconda seduta 21 marzo 2019

 Sono trascorsi tre mesi dal primo incontro, il gruppo ha cominciato a sviluppare sentimenti di appartenenza, gli integranti si attendono ogni volta, provano la gioia, la rassicurazione di ritrovarsi, si sono cominciati a creare dei vincoli, ma in questa seduta mancano tre famiglie. L’assenza, indice della resistenza e dell’ambivalenza presente anche nel desiderio di appartenere, provoca sentimenti di rabbia e perdita non sempre chiaramente manifestati. I presenti si chiedono il perché dell’assenza degli altri, ricercano una giustificazione per tale comportamento che suscita sentimenti abbandonici e di rabbia.

Il primo emergente dà significato a questo passaggio del processo gruppale: “mancano persone: ci sono motivi?

I presenti ribadiscono di sentire l’importanza di esserci e la verbalizzano:

 “io sto vedendo che cambiamo come persone singole, affrontiamo i problemi in modo diverso. Poi se si vogliono risultati diversi bisogna agire in modo diverso. Avevo altre cose da fare però ho scelto di venire qua […]”

Forse il vissuto di abbandono evoca i fantasma della “madre cattiva” e qualcuno afferma   “io porto via solo le parti positive” frase che viene letta come secondo emergente gruppale.

Questo emergente segnala il meccanismo di scissione che sembra caratterizzare in questa fase il processo gruppale. Citando Pichon-Rivière: “il soggetto agisce in due direzioni: verso la gratificazione (costituendosi così il legame buono) e verso la frustrazione (stabilendo il legame cattivo). E’ così che sorge la struttura divalente nel sistema del legame con oggetti parziali o, più chiaramente detto, con una scissione dell’oggetto totale in due oggetti parziali, uno di essi vissuto con una valenza totalmente positiva, dal quale il soggetto si sente totalmente amato e che ama; l’altro oggetto è segnato da una valenza negativa: il soggetto si sente totalmente odiato; legame negativo del quale bisogna disfarsi o che bisogna controllare o negare o proiettare su qualcun altro.”

Iniziando a riconoscere degli oggetti, seppur parziali il gruppo comincia a muoversi dalla indifferenziazione alla discriminazione.

Il processo infatti, sta direzionandosi verso una maggiore differenziazione dei ruoli e dei confini come è testimoniato dalla seguente affermazione di un figlio “Noi non avevamo messo dei paletti tra di noi, adesso invece ce li siamo posti questi paletti”

Ma tali ruoli sembrano ancora incerti e da definire. Un padre afferma  “fino a 50 anni fa il padre era vicino alle parole autorità, rispetto e potere, oggi sono parole smarrite, la distanza padre figlio era epocale, come se quella persona fosse del secolo precedente, quando sono diventato padre ho notato che le distanze si erano accorciate, la distanza di generazione, tra me e i miei figli c’è stata possibilità di dialogo, la distanza si è accorciata, la comunicazione è stata possibile.

Per fortuna il ruolo del padre è svanito!”

Qualcuno aggiunge: Non è svanito è cambiato

L’emergente finale di questa seduta viene identificato nella frase “il ruolo del padre è svanito”

La famiglia è cambiata e non ci sono nuovi modelli.

Il gruppo sta cominciando a pensare ed a vivere il cambiamento, ma permane l’ambivalenza e la scissione di parti che vengono proiettate nell’altro, non si è sviluppato ancora un ecro condiviso.

Terza seduta: 27 giugno 2019

 E’ l’ultima seduta prima delle vacanze estive.

Il processo gruppale continua, seppur con molte ambivalenze, spinte in avanti e ritorni indietro, a indirizzarsi verso una maggiore discriminazione ed esplicitazione dei contenuti latenti.

Sembra che il gruppo, attraverso le parole di un integrante, lavorando intorno al compito (“parlate di come stare meglio e di qualsiasi cosa volete“) possa affermare di essere passato ad una condizione di maggior benessere che viene enunciata nell’emergente iniziale:

“voglio stare esattamente come sto in questi giorni, penso di aver vinto una piccola battaglia, ogni volta che dava di matto (si riferisce alla madre) mi sgonfiavo: eravamo un palloncino, adesso siamo due palloncini”

L’immagine del palloncino, evocativa dell’utero, si scinde: dall’uno onnipotente e simbiotico, si crea l’altro, ancora uguale, ma separato. L’immagine appare leggera e volatile come un processo appena cominciato.

Infatti la separazione e la relativa individuazione sembra difficoltosa da realizzare e avvalersi della conflittualità per potersi concretizzare:

Il figlio continua: “Dopo la litigata sono continuato a stare bene. Non mi ha tirato giù. Ha un problema e lo deve risolvere (rabbia)

Avere la crisi e io che continuo a stare bene, lei non lo ha mai vissuto. Siamo due palloncini, io e lei, e lei il suo lo deve ritirare su.”

E’ la madre che “si sgonfia” perde l’immagine di sempre, mostra la sua fragilità.

La madre annuncia che ha iniziato un percorso terapeutico individuale.

Circola un’ansia depressiva, dovuta alla perdita dei vecchi ruoli, alla separazione, allo scioglimento del vincolo simbiotico ed accentuata anche dal fatto che è l’ultimo gruppo prima dell’interruzione estiva

Un padre, colui che per ruolo è deputato allo scioglimento della simbiosi tra madre e figlio, sottolinea la sofferenza dovuta alla perdita del ruolo affermando: Molte donne alla fine della carriera domestica a 50 anni si sono sentite completamente sole e sono entrate in depressione… La madre dovrebbe diventare inutile per permettere i figli di andarsene

I genitori iniziano ad essere consapevoli che la dipendenza, insita nel legame simbiotico e diventata tossica per il suo prolungarsi, è legata alla fragilità ed al bisogno di appoggio del genitore oltre che alle difficoltà del figlio.

Un’integrante svela il proprio bisogno di dipendenza dal figlio e se ne riappropria riconoscendolo come parte di , questo vissuto si incrocia con il processo gruppale in cui gli stereotipi sulla tossicodipendenza iniziano ad essere abbattuti e costituisce il secondo emergentela responsabilità mi annebbia il cervello e mi esce fuori quell’aggressività che è in me, mio figlio mi aiuta a superare i momenti difficili nel lavoro”.

Emerge anche, come esplicitato nel terzo emergente, che la storia che porta alla tossicodipendenza dei figli nasce da lontano:

prima di essere stati genitori siamo stati un uomo e una donna e abbiamo fatto errori”

Di questo si può parlare con gli altri integranti e la comunicazione nel gruppo diviene intergenerazionale come il seguente dialogo tra una madre, che parla del suo ex marito, ed il figlio.

Madre: Noi ci siamo conosciuti che già litigavamo e siamo stati in conflitto fino all’ultimo. Lui soffriva di dipendenza e anche io, ero senza criteri, non avevo chiaro…

Figlio: Sono stati separati ma mio padre ha vissuto sempre con noi…

Due figli dei fiori erano!

Madre: Sì, nell’Urbino degli anni ’70, nel marasma dell’università.

Se lo rincontrassi adesso gli direi “Che abbiamo combinato?”

Purtroppo non si può tornare indietro!

Io forse da ragazza trascuravo più lui (il figlio) per le mie problematiche e quello che non ho fatto ho cercato di recuperarlo nel tempo.

 

Considerazioni finali

Il gruppo, attraverso la costruzione di vincoli, ha potuto confrontarsi con altre forme di pensiero (ecro), costruite da ciascun integrante a partire dalle prime esperienze infantili, ed affrontare l’ansia depressiva, persecutoria, confusionale derivata dal cambiamento dei propri modelli di riferimento per cominciare a costruire un ecro gruppale. Nella fase di precompito si sono potuti osservare gli elementi istituzionali e sociali che operano come ostacoli e resistenze al cambiamento e nel compito come operano elementi gruppali, immaginativi di cambiamento.

Il percorso ancora in evoluzione (il gruppo avrà termine a dicembre) è stato molto ricco e connotato da passaggi fortemente emotivi dovuti al realizzarsi di transfert multipli e al confronto tra i diversi modelli rappresentanti l’istituzione famiglia nella nostra epoca e l’esperienza di ogni integrante.

L’esperienza è stata molto ricca e coinvolgente anche per gli operatori che, anch’essi, hanno potuto riflettere sui propri schemi di riferimento iniziali e sviluppare un percorso di cambiamento teso a sviluppare un ecro comune.

 

 

Bibliografia

 

Josè Bleger, Il gruppo familiare, in “Psicoigiene e psicologia istituzionale”, La Meridiana, Molfetta (BA), 2011

Enrique Pichon Rivière, “Il processo gruppale – Dalla psicoanalisi alla psicologia sociale”, Editrice Lauretana, Loreto (AN), 1985

Enrique Pichon Rivière, “Applicazioni della Psicoterapia di gruppo”, 1957, in “Il processo gruppale – Dalla psicoanalisi alla psicologia sociale”, Editrice Lauretana, Loreto (AN), 1985

Enrique Pichon Rivière, “Tecnica dei gruppi operativi”, 1960, in “Il processo gruppale – Dalla psicoanalisi alla psicologia sociale”, Editrice Lauretana, Loreto (AN),1985

Leonardo Montecchi, “Varchi”, Pitagora Editrice, Bologna 2006

Jorge Garcia Badaracco; Andrea Narracci, “La psicoanalisi multifamiliare in Italia”, Antigone Edizioni, Torino, 2011

Eduardo Mandelbaum, “Teoria e pratica dei gruppi multifamigliari”, Nicomp, 2017

Camillo Loriedo, “La psicoterapia relazionale”, Astrolabio, Roma, 1978

Lorenzo Sartini, “Enrique Pichon-Rivière”, da www.lorenzosartini.com

Alejandro Scherzer, “Dalla famiglia alla famiglia gruppale”, 2011, da www.lorenzosartini.com

Laura Dominijanni, “I gruppi multifamliari: cosa sono e come funzionano”, 2012, da www.associazioneinverso.it

 

 

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Le reti dei servizi sanità

Lun, 09/03/2020 - 23:31

di Marella Tarini

Attualmente le normative locali e nazionali, in vigore o in elaborazione, e le programmazioni che si riferiscono alla predisposizione degli assetti relativi alla erogazione di interventi in materia di sanità pubblica, stabiliscono frequentemente la istituzionalizzazione di entità denominate Reti.
L’idea delle Reti introduce una profonda revisione dei paradigmi storicamente applicati nel settore sanitario, paradigmi che, nei tempi trascorsi, avevano sposato criteri di tipo autoreferenziale dal punto di vista dell’esercizio delle discipline, e gerarchico, dal punto di vista della competenza professionale.
Sono molteplici i fattori che si sono sviluppati negli ultimi tempi e che hanno contribuito a
suggerire questa previsione strutturale.

Tra questi fattori ricordiamo:
1) I cambiamenti socio-demografici e la perdita di ruolo di alcune istituzioni-aggregazioni
comunitarie che in passato svolgevano ruoli di supporto a quello sanitario. Sempre più
spesso la sanità pubblica deve vicariare le funzioni assistenziali e riabilitative un tempo
svolte all’interno delle famiglie, per esempio, assicurandone l’erogazione con modalità e
tempi strettamente conseguenti agli atti clinici.

2) L’invecchiamento della popolazione generale, e l’emergenza sempre più frequente, quindi, di situazioni cliniche caratterizzate dalla concomitante presenza nello stesso soggetto di patologie multiple, che richiedono contemporaneamente l’intervento di più strutture specialistiche.

3) Le emergenze di carattere finanziario, che hanno necessariamente richiesto l’ottimizzazione degli spazi fisici all’interno dei quali effettuare gli interventi. Queste necessità hanno decretato le aperture dei confini spaziali tra le strutture, che in passato funzionavano grazie a collocazioni definite e separate.

4) La parziale messa in crisi, a livello sociologico, del modello gerarchico e lo sviluppo e la
crescita di alcune professioni un tempo ritenute subordinate nel campo delle prestazioni di
carattere sanitario e sociale.

5) L’attuale attenzione alla elaborazione di un impianto concettuale ed epistemologico che
supera i sistemi del pensiero lineare e guarda ai fenomeni secondo i criteri della
complessità: ne consegue la tendenza a considerare con sempre maggiore attenzione
l’interazione degli aspetti multifattoriali per ciò che attiene l’interpretazione etiologica e la
predisposizione conseguente degli atti clinici.
E’ subentrato così un impulso al superamento delle divisioni presenti a più livelli nel sistema, e si è iniziato a pensare sulla necessità di “ mettere in rete” le realtà operative, anche al fine di produrre risposte coordinate e coerenti alle domande e alle necessità di trattamento rappresentate dall’utenza.

Assume un rilievo significativo che la composizione di queste entità, dal punto di vista dei ruoli che vi si pensano rappresentati, è, nel volere esplicito delle norme e delle programmazioni, multiprofessionale, transdisciplinare ed interistituzionale.
Il compito istituzionale potenzialmente assegnato ad una Rete è complesso, perché può riguardare la predisposizione e l’attuazione condivisa di assetti organizzativi- gestionali, oppure la definizione del collegamento di medesime competenze nella dimensione di un territorio, o ancora la costruzione di percorsi clinici articolati fra diverse competenze, che ineriscono la prevenzione, la cura e la riabilitazione di problematiche emergenti, laddove i programmi di cura devono essere intesi in una forma che sia al contempo e integrata e individualizzata.
La riflessione generale sulle Reti e sulla loro costituzione deve considerare ed includere il confronto tra due differenti modelli, quello del sistema monocentrico e quello del sistema multicentrico.
Il sistema monocentrico di Rete prevede che ci sia una centrale operativa attorno alla quale ruotano molti altri sistemi ad essa collegati, posti, per ciò che inerisce le decisioni e la comunicazione, in una situazione di dipendenza da questo ipotetico Centro Direzionale.

Quello multicentrico prevede che tutti i sistemi che fanno parte della Rete siano centri decisionali che emettono e ricevono vicendevolmente comunicazione e operazioni, e che si configurino tutti in una situazione di interdipendenza tra loro; questo modello prevede che sia individuato in forma condivisa il luogo all’interno del quale debbano essere elaborate e depositate le risultanze relative alla comunicazione e alla creazione di prodotti decisionali.
Il sistema multicentrico fa circolare la comunicazione all’interno dell’intero organismo, fra tutti i centri operativi della Rete, e supera il sistema per cui ogni singolo punto di intervento si relaziona isolatamente con l’ipotetico Centro Direzionale.
Nella costituzione di una Rete è implicito il concetto di integrazione, ma questo concetto merita una esplicitazione: possiamo pensare alla integrazione fra ruoli, Strutture e competenze come ad un passaggio di apposizione, in cui ogni frammento si aggiunge all’altro senza che si modifichino le specifiche definizioni ed attribuzioni di ognuno, oppure possiamo pensarlo come un processo di ricombinazione dei contenuti che ogni parte della rete rappresenta e porta con sé. Nel processo di ricombinazione gli effetti ed i prodotti che scaturiscono dal lavoro della Rete non sono frutti messi assieme in una modalità addizionale, ma sono nuove, inedite, configurazioni strutturali, alle quali
sottende una epistemologia che alcuni studiosi hanno definito “convergente”. I saperi, cioè, devono ricombinarsi e produrre un sapere ed un saper fare nuovo e globale, che non proviene più separatamente da ogni singolo componente, ma diventa bagaglio collettivo della nuova organizzazione.

Si configurano quindi alcune problematiche piuttosto evidenti.
-La prima problematica: riguardo alla composizione multiprofessionale, transdisciplinare ed interistituzionale ( rapporti definiti tra Servizi differenti) di queste entità, dobbiamo tenere presente che esse debbono inserirsi in un contesto macroistituzionale, quello della Sanità e della Medicina pubbliche, nel quale tali principi sono ancora ampiamente disattesi nei fatti.
La Sanità Pubblica, difatti, al di là dei proclami, quando questi vengano espressi, è un’istituzione fortemente stereotipata, fortemente focalizzata sulla cura delle patologie più che sulla promozione della salute, nella quale, per quanto riguarda la lettura della patologia e la predisposizione degli atti diagnostici, terapeutici e riabilitativi, vige il principio individualista in forma molto cristallizzata; nella quale emergono inoltre i principi della superspecializzazione e della frammentazione dei saperi; nella quale, infine, a dare forma alle relazioni sono i principi gerarchici ed il conflitto fra discipline e professioni.
In misura sempre maggiore, tra l’altro, nella gestione pubblica della salute si affermano i principi aziendalistici della imprenditoria e del profitto ed i criteri finanziari ed economici, e sembrano essere questi ad informare le scelte programmatorie.

-La seconda problematica: tra i problemi che non possono essere elusi quando si pensi a dei percorsi di dialogo, cooperazione e collaborazione fra Servizi, si rileva il seguente: persino gli schemi di riferimento ( ECRO, nel linguaggio della Concezione Operativa) impliciti di molti operatori non convergono, anche quando questi siano attivi nello stesso settore e/o nei Servizi di confine.
Possono persino essere molto divergenti le stesse idee che si hanno sulla configurazione e
l’importanza di alcuni fattori etiopatogenetici: alcuni operatori optano per un pensiero lineare al quale sono abituati da certa formazione meccanicistica, altri osservano il loro campo di intervento secondo i criteri della multifattorialità nella determinazione della sofferenza, ed assumono che questa, pur esprimendosi tramite posizioni e sintomi individuali, dichiara la implicazione, nella sua genesi, di ambiti più vasti di quello individuale, per esempio quello familiare, quello dei gruppi secondari, quello istituzionale e quello comunitario. Questa differenza di vedute rende differente anche la individuazione e la definizione del campo di intervento sul quale si presceglie di operare.

-La terza problematica: rispetto alla finalità per cui si configura una Rete, che sia organizzativo-gestionale, clinica, o di collegamento delle competenze in un ambito territoriale, occorre sottolineare che il compito deve essere necessariamente ed imprescindibilmente definito ed esplicitato, affinchè questo organismo sappia perché è stato creato e per quali specifiche funzioni.
Differentemente, potrebbe essere creata una entità Rete solo perché la tendenza normativa del momento lo richiede, con un esito sterilmente burocratico, preoccupato più di mantenere se stesso che di produrre operatività che abbia senso.

-Una quarta problematica riguarda il fatto che si sta parlando della creazione di un processo istituzionale che prevede la costituzione di un collegamento tra Servizi connotati nella loro composizione, senza che sia definito però a livello normativo “come” i partecipanti debbano operare, nella relazione tra loro e con l’utenza.
Si deve quindi avviare un processo di pensiero condiviso e compartecipato su come debba
concretamente agire l’organismo “ Rete” per l’attuazione dei programmi suoi propri, e questo “come” riguarda anche e soprattutto la sua configurazione ed il suo funzionamento interno.
Una assenza di riflessione intorno questi aspetti e la mancanza di un modello applicabile di funzionamento lasciano le Reti nell’ambito del luogo astratto delle dichiarazioni formali.

Tutta questa è complessità. Tutte queste tematiche richiedono una elaborazione, ed è chiaro quindi che la costituzione di una Rete attiva in un Ambito Comunitario deve contemplare il concetto di processo. Per attraversare il processo istituzionale di costituzione di una Rete dobbiamo essere consci di queste difficoltà e diversità , onde evitare lo scivolamento verso la burocratizzazione, e per far sì che il dispositivo di messa in rete possa diventare una effettiva macchina coerente, che funzioni per la produzione di salute e non resti un mero enunciato teorico.
Dato che, per tutto quanto è stato più sopra esposto, costituire una Rete significa cominciare a pensare e operare in termini di gruppo e non più in termini di individuo, risulta utile pensare a questo percorso come ad un processo gruppale: è necessario cioè identificare uno spazio ed un tempo ben definiti, quindi un inquadramento, all’interno del quale poter dare avvio, con la presenza costante degli attori coinvolti, ognuno con il suo proprio ruolo e la sua appartenenza istituzionale, ad un processo di trasformazione del paradigma individualistico ed autoreferenziale in quello condiviso collettivamente. Si sta sottolineando la necessità di costruire un paradigma interpretativo ed operativo condiviso che superi quello individuale, con la creazione di uno schema di riferimento che possa essere dell’intero sistema e non più solo del singolo, e con la esplicitazione continua del
compito che ci si dà.
Infatti una Rete che non sia solo enunciata o solo scritta sulla carta è costituita da operatori reali, che debbono interagire all’interno della configurazione aziendale e macroistituzionale del del SSR e del SSN, tenendo presenti i temi della multiprofessionalità, transdisciplinarietà, interistituzionalità e multifattorialità delle tematiche da affrontare, costruendo quindi dei vincoli effettivi tra di loro.
Inoltre, o forse in prima istanza, la modalità condivisa di funzionamento richiede che si lavori sul tema della comunicazione: come e dove e quando e a chi veicolare le informazioni ed i contenuti da trasmettere.
Gli spazi ed i tempi precisi, continuativi e cadenzati che si ritengono necessari per lo svolgimento di questo processo di confronto concettuale ed operativo, sono spazi imprescindibili per elaborare il confronto con le resistenze al collegamento, dettate dalle idiosincrasie disciplinari, dalle appartenenze professionali, dalle appartenenze istituzionali, dalle divergenze concettuali, e sono indispensabili per giungere, infine, alla creazione di progetti e prodotti condivisi.
Il processo che si crea permette agli operatori di poter svolgere poi ciascuno il proprio ruolo individuale nei rapporti con l’utenza, rafforzati dalla interiorizzazione del pensiero elaborato nella Rete e dalla esperienza di appartenenza al gruppo della Rete; questo consente di affrontare i problemi della solitudine operativa e di imparare a differire le risposte alle richieste che pervengono, permettendo di inserire un processo di pensiero ed una programmazione condivisa tra il momento in cui si raccoglie l’emergenza della richiesta e quello in cui si formula un intervento.
Questo processo permette di affrontare anche un’altra stereotipia, che vuole i Servizi in
competizione nella gestione delle problematiche sociali e sanitarie. Questo aspetto competitivo, che ancora oggi è possibile osservare in determinate realtà operative, è fortemente alimentato da atteggiamenti pregiudiziali serpeggianti nella collettività e tra gli operatori, e da determinanti di ordine politico, finanziario ed economico. Potrebbe darsi che già la sola esperienza di condivisione dello schema di riferimento ed il lavoro sulla esplicitazione e sulla condivisione del compito, pur nel riconoscimento dei singoli ruoli, costruisca un’esperienza fortemente motivante, tal da far in parte superare le questioni improntate secondo la mera ottica economicista della serie risparmio –profitto, che tanto spesso mette in contrapposizione i rappresentanti di questo sistema.
Se grazie a questo processo si formano i vincoli tra gli operatori, il piacere della condivisione di un compito riesce a superare le difficoltà generata dalla situazione interna, caratterizzata dalla appartenenza ad istituzioni ( Servizi) differenti, e da quella esterna, determinata dalle logiche che guardano con un’ ottica competitiva ed economicista.
Nel nostro territorio regionale esistono già esperienze consolidate di processi gruppali di équipes che lavorano in rete, caratterizzate da elementi di eterogeneità degli integranti in quanto ad appartenenza istituzionale differente: queste esperienze testimoniano la complessità del percorso, ma anche la sua ricchezza. Questo modello, per esempio, è stato esportato nelle sue linee concettuali ed operative, con una determina regionale, a tutti i DDP marchigiani, in un documento che determina le modalità di attuazione dei Profili Assistenziali per gli utenti di questi Servizi.
In questi casi di sperimentazione già consolidata di funzionamento a Rete dei Servizi si è stabilito un modello collettivo e condiviso di effettuare le accoglienze o prime visite, di definire le formulazioni diagnostiche, predisporre ed eseguire i piani terapeutici integrati, valutarne l’andamento e decidere le dimissioni, all’interno di un dispositivo costituito da incontri permanenti cadenzati di équipe settimanali, alle quali partecipano operatori di tutte le professioni, di tutte le discipline e di tutte le istituzioni pubbliche e del privato sociale coinvolte. E con lo stesso dispositivo si è deciso di progettare e programmare gli interventi di promozione di salute sul territorio.
Questione di importanza cruciale: lo svolgimento di questo processo è stato affiancato e sostenuto da un percorso di formazione congiunta, che ha riguardato proprio l’elaborazione dei percorsi possibili per la condivisione, collaborazione e cooperazione tra membri appartenenti a Strutture differenti.
Queste esperienze funzionano come una rete multicentrica.

A conclusione vorrei evidenziare alcuni aspetti che potrebbero essere interessanti per ulteriori riflessioni:
1) La configurazione delle reti ed il loro effettivo funzionamento possono essere strumenti per pensare la prassi nei servizi sanitari, per far sì cioè che pratica, teoria ed infine ricerca non restino disgiunte, come succede invece nel cattivo esempio dato dalle strutture sanitarie nel loro complesso.
Occorre smascherare il senso di colpa che molto spesso, inconsapevolmente, esiste rispetto all’uso del processo del pensiero negli assetti istituzionali sanitari, sempre più improntati e chiamati a dare risposte automatiche e determinate da situazioni di urgenza, e sempre meno inclini ad operare in seguito a ponderate programmazioni.

2) Il processo istituzionale di costituzione di una Rete non è una panacea per tutti i mali, non risolve tutti i complessi problemi portati ai Servizi né elimina magicamente le contraddizioni ed i conflitti tra i membri che la compongono; esso permette però che i problemi possano essere individuati e possa essere attuato un percorso per la loro elaborazione, costruendo la possibilità di pensare strumenti per risolverli. Ciò introduce la riflessione sulla necessità di pensare modi e tempi della valutazione degli esiti e dei prodotti del processo di lavoro della Rete.

3) Il paradigma individualista è molto cristallizzato, e tende costantemente a riaffermarsi sia negli utenti che negli operatori, ed il processo del gruppo della Rete deve intendersi perciò come in costante svolgimento: debbono essere valutati continuamente i destini dei vincoli di chi ne fa parte in seguito a perdite, cambiamenti anche radicali, traumi, conflitti esterni, problemi determinati dalla appartenenza ad assetti istituzionali differenti. Questa riflessione ci porta a considerare la necessità di prevedere azioni di manutenzione permanente della Rete e del suo funzionamento.

4) La normativa generale non supporta fino in fondo questa concezione, ed è per esempio confusa ed inevasa la tematica della responsabilità clinica condivisa degli atti terapeutici.

5) Alcune esperienze dimostrano che è più facile attivare una comunicazione interistituzionale con gruppi meno formalizzati e burocratizzati, mentre risulta più problematica e persecutoria quella con assetti istituzionali più definiti , compresi quelli di appartenenza o quelli dei servizi di confine.

6) Le esperienze realizzate permettono di pensare che questa organizzazione nei Servizi Pubblici è possibile, come è possibile la formazione condivisa e continuativa, contrariamente a quanto viene espresso nei fatti da parte di varie organizzazioni sanitarie, peraltro attratte dai principi che superano l’individualismo terapeutico.

7) L’assetto legislativo sembra più avanzato e flessibile di quello istituzionale.

8) Questa concezione risponde a domande di politica sanitaria che sono riferite a paradigmi e riferimenti concettuali di altre aree gestionali, quali ad esempio:

Gestione e riduzione del rischio clinico:
ricordiamo che anche l’assetto organizzativo con il quale si concatenano le azioni e gli eventi ha un effetto significativo sulla giusta esecuzione degli atti: un buon assetto nell’ambito della organizzazione di un sistema che deve dare risposte complesse ed articolate tra professioni, discipline e sevizi differenti, riduce grandemente i rischi di malfunzionamento, di esecuzione di azioni cliniche improprie o carenti e di omissioni.

Medicina basata sulle Prove di efficacia:
Il paradigma recita: “date le risorse che sono disponibili, individuare la migliore concatenazione di atti che possa dare i risultati più vicini a quelli idealmente considerati ottimali, secondo un sistema di confronto con le pratiche registrate come efficaci nella letteratura internazionale pubblicata”. La letteratura internazionale pubblicata rileva in molteplici settori la evidenza di un minor numero di ricadute sintomatologiche quando l’intervento si articoli secondo i criteri della integrazione ed interazione disciplinare.

Miglioramento continuo della qualità secondo i parametri della efficienza e della efficacia:
La cooperazione tra strutture, discipline e professioni , adeguatamente strutturata, consente la riduzione dei rischi di frammentazione operativa nella erogazione degli interventi e permette la costruzione di percorsi di prevenzione, cura ed assistenza il più possibile omogenei, coordinati ed efficaci e, parametro non ultimo in ordine di importanza, trasmissibili chiaramente all’utenza.
Il coordinamento tra professioni, discipline e servizi nella costruzione ed esecuzione degli interventi predispone ad una maggior efficienza operativa.

 

Bibliografia:

A. Bauleo, “Note di psicologia e psichiatria sociale“, ed. Pitagora

J. Bleger, “Psicologia della condotta“, ed. Armando

J. Bleger, “Psicoigiene e psicologia istituzionale“, ed. La Meridiana

L. Buongiorno, “Psicoigiene e città“, ed. Pitagora

M. De Brasi, “Psichiatria sociale e psicoigiene“, ed. Pitagora

M. De Brasi, “L’orizzonte della prevenzione“, ed. Pitagora

M. Ferrari, L. Montecchi, S. Semprini, “Cambiare“, ed. Pitagora   

R. Lourau, “La chiave dei campi“, ed. Sensibili alle Foglie

L. Montecchi, “Officine della dissociazione. Transiti metropolitani“, ed. Pitagora

Categorie: siti che curo

Ambito comunitario

Lun, 09/03/2020 - 21:58

di Marella Tarini

La descrizione e l’analisi dell’ Ambito Comunitario si riferiscono ad una materia complessa e per articolare la informazione al riguardo sembra opportuno applicare un percorso di strutturazione della presentazione. Articoleremo secondo il seguente indice:

Definizioni
Contenitore
Contenuto
Struttura
La Psicoigiene
Le Reti

Cominciamo quindi recuperando alcuni tentativi di DEFINIZIONE:
Mac Iver e Page: “nell’A. comunitario c’è un sentimento comunitario e non sono esplicitati
obiettivi definiti da dover raggiungere e chi lo abita vive lì la totalità della propria vita, non solo per svolgere funzioni predeterminate, come accade invece per gli altri Ambiti.”
Pozas Arciniegas: “nella Comunità esiste reciproca capacità di comprensione ( coerenza
linguistica) il coordinamento di attività e la formazione di strutture sociali atte ad occuparsi di bisogni collettivi.”
Bleger: “gruppo vasto di persone che vivono insieme in un territorio determinato, legate da determinati vincoli e funzioni o inseriti in una organizzazione comune.” Si parla quindi qui di un certo grado di coesione, di interrelazione.
Bleger: “il confine di un A. Comunitario è demarcato dal deposito di un certo grado di specifica coesione sociale dei suoi membri, che ne sollecita la riconoscibilità.”
Come vediamo, le definizioni elencate mostrano un certo grado di differenza, soprattutto nei termini delle lenti utilizzate per la messa a fuoco .
Procedendo, può essere utile riflettere intorno a questo specifico Ambito mettendolo a fuoco secondo il criterio contenitore – contenuto. E vedremo che recupereremo molti concetti che abbiamo già avvicinato nella descrizione e nello studio degli altri Ambiti ( individuale, famigliare, gruppale, istituzionale.)

CONTENITORE:
Intanto ricordiamo che esiste un concetto di Campo, che sappiamo essere un ritaglio di situazione totale considerato in un momento dato: è caratterizzato dall’ “insieme di elementi coesistenti ed interagenti fra loro, dalla totalità di fatti coesistenti concepiti come mutamente interdipendenti” (K. Lewin), laddove i fatti considerati comprendono sia soggetti che oggetti.
Ora, abbiamo imparato già che a seconda delle ampiezza spazio temporale del campo in cui si manifesta il fenomeno che vogliamo osservare o sul quale vogliamo intervenire noi stabiliamo la configurazione di un Ambito.
Considerando una estensione progressiva, abbiamo quindi già approcciato le tematiche
dell’Ambito individuale, di quello famigliare, di quello gruppale e di quello istituzionale. Ampliando questa estensione, arriviamo all’Ambito Comunitario.
Questo è quindi un’area più ampia degli Ambiti già esaminati e si differenzia rispetto a quelli per la sua maggior estensione, per la maggior complessità e per la maggior molteplicità e mobilità dei fenomeni che lo caratterizzano, (aspetti che riguardano però il contenuto e che analizzeremo più avanti).
Ma se proviamo a concentrarci sulla questione della sua delimitazione, demarcazione e
configurazione incorriamo in alcune tematiche che abbiamo già affrontato: dobbiamo cioè
ricordare e chiarificare che questa delimitazione non è data a priori, ma è un’operazione
arbitraria e convenzionale che gli osservatori decidono di condividere. Questa delimitazione quindi è stabilita di volta in volta da una scelta di definizione spaziale condivisa, sempre considerando che vogliamo ritagliare un campo più ampio rispetto a quello degli Ambiti già presi in esame.
Questa relatività del confine del nostro campo di osservazione non deve essere peraltro un
aspetto che ci sorprende: se riflettiamo, e come abbiamo già visto, la stressa relatività ha
caratterizzato la definizione anche degli altri Ambiti: l’Ambito individuale, per esempio, non coincide certamente ed inequivocabilmente con i confini del corpo fisico, perché sappiamo che un soggetto emana la sua energia al di là dei limiti di questo; il suo campo emotivo può non essere strettamente contenuto al suo interno, basti pensare ai fenomeni di proiezione ed identificazione proiettiva, e per converso, può essere influenzato ed ” abitato” da elementi dell’ambiente esterno: introiezione, internalizzazione, rappresentazioni interiorizzate come quelle del gruppo interno; anche la mente individuale, se vogliamo, ha un’estensione che trascende i limiti di spazio e di tempo rappresentati dalla dimensione fisica percepibile e non coincide con la mera
dimensione del singolo cervello.
Così è per la demarcazione di un Ambito Familiare: dove disegniamo la delimitazione di una singola famiglia? Sono le persone che vivono insieme? O può essere qualcosa di potenzialmente non coincidente con questo e più esteso di questo, nello spazio e nel tempo? E così via, per l’Ambito Gruppale e per quello Istituzionale.
Quindi per definire uno specifico Ambito Comunitario dobbiamo decidere quali limiti assegnare alla sua estensione spaziale e storico – temporale, tenendo presenti dimensioni che vanno oltre gli altri Ambiti già considerati, sempre ricordando che comunque i limiti degli Ambiti devono essere pensati come sfumati: questa sfumatura delle cornici, che ormai sappiamo essere convenzionali, fanno sì che molti fenomeni di confine generino una permeabilità ed una trasversalità di contenuti tra un Ambito e l’altro.

CONTENUTO:
Detto questo, andiamo a considerare gli aspetti del campo contenuto in questa cornice, in questa configurazione spazio – temporale : un Ambito Comunitario contiene individui, gruppi, famiglie e istituzioni e naturalmente tutto l’insieme delle relazioni che intercorrono tra loro e che attraversano tutto il campo. Inoltre, contiene uno spazio-tempo non ancora definito da queste configurazioni e da questi inquadramenti già in qualche modo strutturati , uno spazio-tempo attraversato da fenomeni molto mobili e più indefiniti, incarnati da individui transeunti e trasmigranti, raggruppamenti transitori, proto-organizzazioni non istituite, persone che si legano ad altre molto fugacemente e condividono convivenze labili e precarie. Come dicevamo in apertura, troviamo fenomeni e fatti molto mobili, assistiamo ad una molteplicità spiccata di eventi e situazioni e ad aspetti caratterizzati quindi da elevata complessità. Quello che potremmo forse definire, per analogia con il linguaggio dell’Analisi Istituzionale, una sorta di Istituente Comunitario, o di Latente Comunitario.
Vediamo che l’Ambito Comunitario si differenzia dagli altri Ambiti, inoltre, per un aspetto
specifico: oltre che per la sua maggior estensione e quindi per la capacità di contenere tutti gli altri, esso non ha necessariamente un Compito enunciato o predefinito e non tutti i ruoli sono assegnati.
Sempre in termini di analisi del contenuto, vediamo poi come nell’Ambito Comunitario abbiamo configurazioni caratterizzate da vincoli consolidati in vario grado, fino alle situazioni di assenza vincolare.
In questo contenitore, come negli altri già visti, l’esperienza dello spazio e del tempo del campo sono definiti dal movimento possibile al suo interno e dalle percezioni che vi si sviluppano, ossia dalle informazioni che lo attraversano, dato che le percezioni sono sollecitate da una qualche sorta di informazione.
Le possibilità di fruire dello spostamento in questo spazio e di avere informazioni percettive sui fenomeni che lo attraversano, quindi di fruire della comunicazione, stabiliscono i rapporti di potere sociale, le dimensioni economiche, le dimensioni della sessualità.
Un Ambito Comunitario è attraversato quindi da percorsi e siti fisici ( strade , piazze, edifici) e da dinamiche di altro ordine: ci sono aspetti che organizzano la sua affettività e il suo clima prevalente. E c’è una configurazione che si basa sui sistemi di potere, organizzati secondo i percorsi della dialettica politica e della assegnazione delle gerarchie, sulla dimensione economica, e sui sistemi concettuali, quelli prevalenti e quelli “ alternativi”: i sistemi concettuali costruiscono le ideologie e anche sistemi di valutazione largamente condivisi meno articolati e strutturati concettualmente, ma tenaci, come per esempio i luoghi comuni. Un Ambito Comunitario ha i suoi pregiudizi e le sue stereotipie.
Sappiamo che le stereotipie sono i punti di riferimento fissi e sicuri che mettono al riparo dalle ansie confusionali collegate all’apprendimento del nuovo e dell’ignoto. Pensiamo a quante ansie di questo tipo possono essere mobilizzate in un Ambito Comunitario, data la sua complessità e la mobilità e rapidità dei fenomeni non strutturati e non strutturabili che vi accadono. Molte volte le stereotipie sollecitano agiti a livello corporeo, quando il materiale collegato ai processi di apprendimento non è accoglibile sul piano mentale: e questo ci dà conto di alcuni accadimenti, spesso di natura violenta, apparentemente difficilmente spiegabili, che accadono a questo livello.

STRUTTURA:
La complessità e mobilità di un Ambito Comunitario ci porta a considerare che la sua
configurazione è forse più un insieme di interferenze che un campo solido e definito. La struttura di un Ambito Comunitario comincia ad essere una struttura reticolare, più che una struttura lineare.
Inoltre, la sfumatura dei suoi confini fa sì che sia attraversato trasversalmente dalle molteplici interferenze e trasversalità che provengono dallo spazio globale, del quale ci occuperemo fra qualche incontro e che è fortemente caratterizzato da questi aspetti di reticolarità.
Detto questo, dobbiamo comunque tenere presente che tra un punto ed un altro della
dimensione reticolare esiste lo spazio reale di connessione dove accadono fenomeni, che non necessariamente sono marginali: questo spazio ha bisogno di tempo per essere percorso e conosciuto e forse persino creato. Questi sono gli aspetti di Congiunzione, anche tra corpi, come direbbe Bifo, mentre i processi che si sviluppano su una dimensione reticolare sono di carattere Connettivo. Egli fa una riflessione su come stiano cambiando le tecnologie della comunicazione e della creazione della relazione: da un procedimento prevalentemente congiuntivo , si sta transitando verso una modalità prevalentemente connettiva. Questo aspetto, che troviamo anche nell’analisi di un Ambito Comunitario, è determinato dalla massiccia interferenza e trasversalità che si realizza con l’Ambito Globale, e sarà perciò meglio approfondito quando si parlerà appunto dell’ Ambito Globale.
Questa precisazione ci permette di elaborare alcune riflessioni di Bleger sulla struttura dell’Ambito di cui ci stiamo occupando. Egli fa una sorta di classificazione degli Ambiti Comunitari utilizzando tre categorie: coesione, dissociazione, integrazione: nella società coesa l’individualità è gruppale, in quella dissociata è individualista, in quella integrata si affaccia la personificazione, l’apparizione della soggettività, come esperienza umana in relazione, come processo permanente, non portato a termine una volta per tutte. Queste tre modalità coesistono contemporaneamente, come d’altra parte nei gruppi, nelle istituzioni, nella famiglia e nello stesso individuo. Riferendoci a Bleger, “a noi interessa studiare come queste caratteristiche si mettano fra loro in relazione in un particolare spaccato comunitario, essendo queste rappresentate in particolari sottogruppi o sotto-
organizzazioni in modo variabile”. Probabilmente, tutte e tre le caratteristiche di qualsiasi
struttura hanno bisogno di coesistere in certa misura ed in vario grado, affinché possa essere garantito un equilibrio dinamico.
Gli aspetti coesivi di un Ambito Comunitario sono per esempio le appartenenze e le coesioni dialettali o linguistiche. Sono acritiche, non si differenziano tra soggetti e determinano una coesione automatica; ma anche i luoghi comuni sono un fenomeno di coesione comunitaria, come certe stereotipie. Gli aspetti dissociativi sono rappresentati da tutti quei fenomeni che determinano il confinamento di individui o situazioni, in positivo ed in negativo: possiamo pensare a tutte quelle situazioni che permettono a singoli individui o ad aggregazioni di stabilire un confine protettivo per ridurre l’impatto informativo e darsi tempi congrui per la elaborazione delle informazioni sopraggiunte, oppure, in negativo, a tutti i fenomeni di ostracismo e di azzeramento degli aspetti relazionali che producono isolamento sociale. E così via.
Per recuperare le categorie della logica, possiamo dire che i fenomeni coesivi sono prelogici, quelli dissociativi sono basati su logiche binarie o lineari, quelli integrativi su processi di logica dialettica.
Questa ultima angolazione ci permette di entrare in una specificità degli Ambiti Comunitari: possiamo infatti pensare alla dimensione comunitaria anche in termini che travalicano quelli spaziali e che riuniscono invece insieme alcune categorie di soggetti: per esempio, possiamo considerare la Comunità di alcuni professionisti che si occupano di specifiche aree di intervento, come può essere l’Ambito della Comunità Scientifica di un territorio. Possiamo per esempio pensare all’Ambito Comunitario degli operatori della Salute Mentale di un’area territoriale definita, o degli operatori delle dipendenze patologiche di un territorio delimitato: operatori pubblici, di organizzazioni private, o del privato sociale o libero professionisti. Anche in questo Ambito Comunitario così inteso troveremo vincoli più o meno labili, gerarchie, sistemi di potere, posizioni politiche, dinamiche economiche, ideologie, luoghi comuni, tecnologie della comunicazione, affettività prevalente, stili di apprendimento: qualcuno sarà più incline alla
trasmissione di contenuti e all’apprendimento articolati su una base mimetico-mnemonica, altri prediligeranno il metodo dialogico e troveremo una grande varietà di schemi di riferimento concettuale e di stili operativi.
Quindi, anche noi siamo appartenenti ad un Ambito Comunitario, sia che ci pensiamo inseriti in esso in termini di estensione spazio-temporale, sia che ci pensiamo collegati in termini di appartenenza concettuale e operativa in quanto professionisti.

LA PSICOIGIENE
In qualità di operatori appartenenti a questo Ambito siamo chiamati, con certa implicazione, a pensare ed attuare interventi che si riferiscono proprio ad esso, all’Ambito Comunitario. Se ci occupiamo di salute, dobbiamo considerare infatti il travaso di interferenze senza soluzione di continuità tra tutti gli Ambiti considerati, travaso che determina gli stati ed i fenomeni, anche quelli relativi proprio alla salute, da quella individuale e quella collettiva. Per esempio, non possiamo escludere la valutazione dell’Ambito Comunitario se ci accingiamo a pensare ad interventi di prevenzione. Infatti gli interventi in Ambito Comunitario possono avere una dimensione clinica, e più facilmente in questo caso dobbiamo parlare di intervento interistituzionale, dato che l’offerta clinica ha sempre una situazione a partenza istituzionale; oppure possono avere un obiettivo di promozione di salute, e quindi possono non essere focalizzati su momenti sintomatici che denotino una patologia, bensì possono concentrarsi su quegli aspetti che tendono a irrigidire i contesti e a inibire la chiarificazione, la comunicazione, l’apprendimento ed infine la integrazione dei vari elementi che caratterizzano i contesti
medesimi.
Quando pensiamo agli interventi in questi termini, stiamo pensando in termini di Psicoigiene.
Dice Bleger: “ la Psicoigiene ha per oggetto la gestione delle risorse psicologiche per far fronte ai problemi attinenti alle condizioni e alle situazioni in cui si svolge la vita della comunità considerata in se stessa e non in relazione alla malattia.”
Come costruiamo quindi un percorso di ricerca e/o di intervento in un Ambito Comunitario?
Intanto dobbiamo avere una serie di criteri per definirlo e per analizzarlo, e possono essere quelli che abbiamo fin qui elaborato. Per poter attivare interventi, infatti, dobbiamo prima sapere analizzare l’area a livello della quale decidiamo di operare tenendo conto di tutte le variabili che abbiamo descritto. Poi dovremmo chiarire la nostra strategia: e in questo senso Bleger invita a non voler psicologizzare la Comunità, ma a far sì che il suo contatto con gli operatori permetta ad essa di pervenire a situazioni di consapevolezza sulle sue proprie caratteristiche e favorisca i processi di insight .
Da un punto di vista tattico, sempre Bleger ci invita a tener presente che l’’operazione di analisi del contesto cii consente di fare un’operazione quanto mai opportuna, e cioè tradurre la eventuale richiesta in termini di effettiva domanda, e di concordare quindi una offerta di interventi. Bleger ricorda che se è mancata la fase della richiesta nella impostazione iniziale degli interventi, la Comunità esprime i suoi pregiudiziali malintesi riguardo alla scelta operativa degli operatori medesimi: una Comunità può, per esempio, pensare che è stata scelta fra altre per l’esecuzione di un qualche intervento perché più malata di altre, e quindi può organizzare resistenze ed ostilità.
Inoltre, e non certo per ultima cosa, ricordiamo che a nostra volta configuriamo un Ambito
Comunitario, nel senso di Comunità Scientifica di operatori, e come tale, prima di operare, è opportuno che in quanto Ambito noi stessi, allo stesso modo, impariamo a conoscere la nostra configurazione, in tutta la sua complessità.
Ora andremo ad analizzare meglio proprio questa dimensione reticolare, quella dell’Ambito comunitario degli operatori che esprimono interventi in un Ambito Comunitario

(continua: Le reti dei servizi sanità)

 

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“Rimini, tra le bandiere ed i gelati”. Contro lo sfruttamento, braccianti e donne in marcia.

Mer, 14/08/2019 - 17:11

di Marco Caligari

“Stavo stretto stretto, e allora gli ho chiesto se potessi cambiare posto. Mi ha mandato dietro negli ultimi posti. Mi sono messo le cuffie nelle orecchie e mi sono addormentato ascoltando musica. Ho aperto gli occhi e ho sentito che stavano contando i morti ed ho capito che erano morte sei persone”. L’ascolto di questa testimonianza di Alagie Saho ha rappresentato il momento più emozionante della marcia contro lo sfruttamento svolta il 06 Agosto 2019 a Rimini. Sono le parole pronunciate dall’unico superstite all’incidente avvenuto un anno prima durante il trasporto dei braccianti nelle campagne di Foggia, dove hanno incontrato la morte i lavoratori. Tre di loro, Bafodè, Ebere e Romanus, erano persone che vivevano nella città di Rimini e sono andati a lavorare come braccianti nella provincia di Foggia. Un territorio caratterizzato dai ghetti per i lavoratori migranti e da decine di morti violente, dove il contesto culturale rende complessa la costruzione di
percorsi di solidarietà, come racconta Alessandro Dal Grande: “Anche quando parlano la stessa lingua, costretti come sono da un lavoro estenuante, i lavoratori sono incapaci di stringere legami e di aprirsi a una minima forma di relazione umana. La difficoltà nel ricostruire le storie di vita dei lavoratori stagionali nasce anche da quest’assenza di legami”.


La marcia era chiamata a ricordare la morte di esseri umani, che per la loro condizione di migranti africani o di persone povere non trovano la dimensione di rispetto sia in vita sia dopo la morte. In ospedale dopo l’incidente, Saho fu ascoltato da diverse operatrici sociali, tra cui Nicoletta Russo. “Come operatrice dell’accoglienza mi sono chiesta tante volte quale potesse essere la nostra di resistenza, in un sistema che ci vorrebbe vedere gestire numeri e non persone; che ci vorrebbe carrarmati, in grado di passare sui corpi umani che incontriamo con indifferenza” con queste parole Russo esprime chiaramente la difficoltà umana e professionale di essere quotidianamente mossa da due principi contrastanti. Da un lato, la propria umanità e professionalità, attraverso cui costruisce una relazione con i richiedenti asilo politico e favorisce un processo di soggettivazione degli sfruttati. Dall’altro, le indicazioni delle leggi in materia di migrazioni, che producono meccanismi di colpevolizzazione degli stranieri e delle ONG. Ad ascoltare le parole di Russo, tornano alla mente le teorie di Achille Mbembe, che analizza come la proiezione della razza sulla
società separi l’umanità nella società, oltre che produrre semplicemente segmentazione. Lo studioso camerunense sviluppò le proprie teorie all’interno di contesti coloniali dell’Africa. Non è legittimo pensare che tali processi di “disumanizzazione” si stiano sviluppando oggi giorno in alcune zone dell’Europa, ad esempio nel Mar Mediterraneo o nei ghetti dei braccianti in Puglia? Il medesimo appello di lancio della Marcia contro lo Sfruttamento evoca tale connessione, quando afferma che “da Salvini a Bolsonaro passando per Trump, è in atto una sempre più forte legittimazione della morte di chi è considerato altro, estraneo, straniero, nemico”.
Certamente comparare i campi dei braccianti agricoli in Puglia con il lavoro negli alberghi sarebbe un’operazione molto discutibile. Al medesimo tempo, è legittimo ricordare come la morte violenta di una donna rumena trovata nell’estate 2009. Si chiamava Eva Ana Bocean ed “il 19 agosto fu trovata agonizzante, da un passante, distesa a terra e morì poco dopo all’ospedale. Le furono trovate diverse emorragie e ferite ai polsi e alle caviglie. L’albergatore, le sue colleghe, e Riccardo Muzzioli, titolare dell’agenzia rumena rilasciarono le loro testimonianze agli investigatori. Il datore di lavoro e le colleghe riportarono la medesima versione, ovvero che la lavoratrice vedeva i fantasmi e parlava del diavolo, conseguentemente fu descritta come una persona psichicamente disturbata. Una donna morta in dinamiche misteriose, reclutata attraverso un’agenzia internazionale
e presente presso tale albergo senza regolare contratto fu considerata come persone pericolosa e non destò nell’opinione pubblica e nelle istituzioni un momento di riflessione e di lutto.

 

Prospettiva femminista e il lavoro delle donne

 
In merito alla condizione di colpevolizzazione della vittima di incidente o di violenza eterodiretta riflette la comunicazione dell’attivista di Non Una di Meno, attraverso le seguenti parole “viviamo in un’epoca in cui la vittima, sia essa un lavoratore pesantemente sfruttato, una donna stuprata viene sistematicamente criminalizzata e colpevolizzata” solitamente ci si chiede “Se si fosse comportata in una maniera corretta, se avesse studiato per avere un lavoro migliore, se non avesse provocato con abiti succinti e atteggiamenti ammiccanti”.

La dimensione di genere riveste una notevole importanza, visto che le lavoratrici che nel 2014 contano per il 59,4% degli avviamenti al lavoro sono prevalentemente assunte per mansioni di media o bassa qualifica quali cameriere, segretarie e addette al ricevimento; laddove gli uomini sono un’ampia maggioranza tra i portieri di notte, i cuochi e i maître d’hotel (Cpi Rimini, 2015, 35-36). All’interno della forza lavoro migrante, le donne sono il 77% degli assunti romeni, il 71,8% dei moldavi, l’80% dei polacchi mentre rappresentano una minoranza tra i senegalesi (11,9%) e tra i marocchini (36,1%) (Cpi Rimini, 2015, 53).
In tale contesto, si inserisce l’ultimo caso di donna migrante che ha subito violenza da parte del titolare dell’azienda dove era impiegata. La lavoratrice racconta al segretario della CGIL “mi ha colpito sulla testa con una zuppiera di plastica mezza piena di besciamella. Poi mi ha strattonato tenendomi per il collo. È la storia di Boguslawa, percossa dal padrone dell’albergo perché riteneva il suo lavoro imperfetto”. In questo caso, la violenza di genere è evidente e la donna espone chiaramente i postumi, diversi giorni dopo aver subito l’attacco dell’uomo.
La marcia contro lo sfruttamento del 6 agosto 2019 ha rappresentato a livello qualitativo e
quantitativo una novità all’interno del contesto del distretto del turismo, visto che oltre 500 persone sono scese in strada, con il coinvolgimento di cittadini di tutte le età e con una forte componente di migranti in testa al corteo. Si possono segnalare alcuni limiti, tra cui sicuramente la mancanza delle lavoratrici giunte a Rimini dalle nazioni dell’Est Europa. Un dato fattuale, a cui è difficile ora fornire interpretazioni. Una donna rumena, in particolare da Cruj, mi ha narrato le sue condizioni di lavoro con le seguenti parole “Io lavoro dalle 7 e mezzo del mattino fino alle 10 di sera e faccio 2 ore di pausa nel pomeriggio, poi dipende sempre da come siamo messi. Ho diciotto camere da fare
dalle 8.30 alle 13.30 e non riesco a fumare nemmeno una sigaretta… dopo scendo giù in cucina e do una mano alla cuoca e lavo i tegami mentre l’altra lava i piatti, fino alle 3 – 3 e mezza; vado via e poi torno alle 6 e lavoro in cucina, aiuto cuoco o lavapiatti, fino alle 10 o 10 e mezza”. Altri incontro dopo l’intervista mi ha dato l’occasione di apprendere che all’Ispettore del Lavoro aveva raccontato condizioni di lavoro legali e rispettose del Contratto di Lavoro del Turismo.

 

Le vertenze

Un secondo dato da raccogliere è relativo al fatto che i diversi interventi all’interno della marcia
contro lo sfruttamento sono stati in prevalenza da attivisti di decine di associazioni, singoli
antirazzisti e sindacati. Oltre alla testimonianza del bracciante agricolo Saho, si segnala la
mancanza della presa di parola di lavoratori per narrare la propria condizione di lavoro o vertenza lavorativa. In questa dimensione del corteo, rappresenta un’anomalia la comunicazione di un educatore sociale. Il lavoratore ha raccontato la mobilitazione dei propri colleghi contro il contratto di lavoro recentemente firmato dai sindacati confederali, ma aspramente criticato dai medesimi educatori sociali per diversi aspetti, tra cui il basso salario, che non li mette in condizioni di vivere una vita dignitosa e potersi percepire come soggetti qualificati e valorizzati dalle istituzioni locali.
Al medesimo tempo, durante il corteo Stella Mecozzi (Mani Tese) ha comunicato come “non sia sufficiente una manifestazione”, ma “è necessario un intervento culturale quotidiano per far rispettare i diritti umani”. Tale considerazione di realismo, alla fine della manifestazione si è intrecciata alla consapevolezza che le strade principali del distretto del turismo riminese, tra “ le bandiere ed i gelati” non erano attraversate da un corteo contro lo sfruttamento con tale partecipazione da diversi decenni, raccogliendo la curiosità di alcune lavoratrici e tantissimi turisti. Nella parte conclusiva del suo intervento, il signor Saho ci conduce alla volontà di costruire la memoria collettiva “erano miei fratelli. Mangiavamo insieme e dormivamo insieme. Non posso dimenticare. Non voglio”.

Marco Caligari, Genova, 09 Agosto 2019.

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Dispositivi gruppali e trasformazioni istituzionali in un reparto psichiatrico ospedaliero

Ven, 09/08/2019 - 11:48

di Massimo De Berardinis

 “Nella vita psichica individuale l’altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come amico o avversario e in questo modo la psicologia individuale è allo stesso tempo e fin dall’inizio, psicologia sociale, in senso lato, ma pienamente giustificato”

S.Freud: psicologia delle masse ed analisi dell’io, 1921

 

Quando iniziai il mio percorso di formazione specialistica alla Clinica Psichiatrica dell’Università di Modena … correva l’anno… 1977.

Il Reparto femminile, cui ero stato assegnato, contava su una dotazione ufficiale di 19 posti letto che, di fatto, a causa delle numerosissime richieste di ricovero, non scendeva mai al di sotto dei 25 letti, con momenti di sovraffollamento in cui si superavano anche i 30 posti letto.

Le degenti, tutte rigidamente in vestaglia, trascorrevano la maggior parte del tempo nelle loro stanze, a letto; l’alternativa allo stare in camera era rappresentata dal camminare avanti e indietro per il lungo corridoio.

Le infermiere se ne stavano in guardiola a fare le loro cose, come dicevano le ricoverate, oppure agivano una stereotipata ritualità di atti quotidiani (sveglia, distribuzione delle terapie, carrello della colazione, ecc., ecc.) che si ripetevano sempre uguali; quando entravano in contatto con le pazienti lo facevano attraverso l’assunzione di un petulante “ruolo genitoriale, inappropriatamente “infantilizzante”.

 “… vieni qui da me Paolina, vieni …”, “…mangia Paolina … mangia … lo sai che ti fa bene …”; era la loro maniera di “accudire” le ricoverate; non conoscevano altri modi ma erano in buona fede e le pazienti sembravano capirlo.

I medici, dal canto loro, erano sempre “di corsa”; attraversavano veloci il corridoio tagliando con sapiente perizia la folla delle “questuanti”: “… dottore… dottore… mi ascolti dottore …”, sino a raggiungere gli ambulatori cui le pazienti potevano accedere solo su chiamata ed accompagnate dalle infermiere.

Le stesse infermiere venivano chiamate con un campanello che trillava direttamente nella “guardiola”.

Dopo tempi imprevedibili il campanello cessava di suonare ed i medici “riemergevano” dagli ambulatori per sparire definitivamente, in fondo al corridoio, al di là della porta che separava il Reparto dal “mondo di fuori”.

In quest’atmosfera spersonalizzata e regressiva, il tempo scorreva con una tranquillità innaturale, interrotta, ogni tanto, solo da urla improvvise, sbattimenti di porte e veloci tramestii di passi; poi… tutto tornava come prima, come se nulla fosse accaduto.

Le pazienti, che vivevano in questo stato di “sospensione”, sembravano aver trovato “nell’aspettare” il senso del loro stare in Reparto: aspettavano che arrivasse il carrello dei pasti; aspettavano di fumare le sigarette che le infermiere concedevano loro… una alla volta; aspettavano la visita dei famigliari; aspettavano in fila per andare in bagno; aspettavano la somministrazione delle terapie… ma soprattutto… aspettavano di essere chiamate dal medico per “il colloquio”… il mitico colloquio!

In Clinica, infatti, i medici, non senza una punta di orgoglio, avevano da tempo abbandonato il classico “giro” al letto delle malate per sostituirlo con momenti di colloquio.

Al tempo i colloqui erano fondamentalmente di due tipi: uno era il colloquio con i famigliari, al quale le ricoverate erano ammesse solo alla fine per essere informate, “in modo semplice”, delle decisioni che erano state prese sul loro conto; l’altro era quello con le pazienti ed era soprattutto orientato ad una valutazione medico comportamentale: dorme, non dorme, mangia, va di corpo, delira, è allucinata, è aggressiva, rifiuta le terapie, ecc., ecc.

Ora qui sarebbe lungo addentrarsi nel dettaglio delle vicende che, a partire da questa realtà, consentirono la progressiva trasformazione del Reparto, per cui citerò solo alcuni dei passaggi, per me più significativi, di quel percorso.

Il primo elemento di cambiamento, preliminare a tutto il seguito, consistette nell’adibire una grande stanza ad otto letti a sala da pranzo e di intrattenimento; questo cambiamento, apparentemente banale, fu quello che permise i miei primi avvicinamenti alla vita delle ricoverate.

Era solitamente di pomeriggio, sotto lo sguardo un po’ contrariato (perché “turbava” la routine del Reparto) ma insieme anche curioso delle infermiere, che cominciai a prendere l’abitudine di mettermi a sedere ad un tavolo della nuova sala; me ne stavo lì, guardandomi intorno, finchè qualche paziente, con fare un po’ incerto, si avvicinava, si sedeva e cominciava a parlarmi; poi se ne avvicinava un’altra e un’altra ancora, così, piano piano, si formava un gruppetto “di chiacchiera”. Il giorno successivo la scena si ripeteva ed il gruppo si ricomponeva… gli argomenti erano quelli della quotidianità, i figli, i problemi di lavoro… i soldi… ecc., ed io… “nuovo del mestiere”… restavo colpito da questi momenti in cui le pazienti “quasi non sembravano pazienti”, come invece avveniva negli altri momenti di incontro “ufficiale” con il medico.

Il secondo elemento di cambiamento riguardò la trasformazione dello spazio mattutino delle cosiddette “consegne”; uno spazio che noi specializzandi avevamo ribattezzato dispregiativamente “riunione cacca e piscio” perché essenzialmente deputato ad acquisire informazioni, tramite le infermiere, sull’andamento di queste funzioni corporali e sugli aspetti più grossolanamente comportamentali delle ricoverate: ha dormito, non ha dormito, è andata di corpo, non è andata di corpo, ha preso le medicine, non ha preso le medicine…

L’aspirazione del nostro gruppo era invece quello di dare vita ad una riunione d’équipe nella quale, accanto alle questioni di ordine organizzativo-gestionale della quotidianità spicciola, si potessero sviluppare discussioni cliniche sul funzionamento psicologico delle pazienti, sull’andamento delle loro storie famigliari, sul tipo di trattamento da condurre in Reparto, ecc.; ma il conseguimento di questo obiettivo ci impegnò a lungo, vista anche l’evidente sperequazione di potere decisionale che caratterizzava inizialmente la nostra posizione: all’inizio nessuno di noi era “strutturato”.

In quegli anni, quando si parlava di riunioni, ci si riferiva ovviamente a riunioni tra operatori; infatti, se si eccettuano le esperienze assembleari che si erano tenute in alcuni Ospedali Psichiatrici, come a Gorizia, Trieste, Arezzo ed in poche altre realtà, vi erano in Italia rarissime esperienze di attività di gruppo con pazienti ricoverati.

A noi, del Reparto Donne, così ci chiamavamo, occorsero più di due anni prima di poter riuscire ad organizzare delle riunioni a cadenza regolare con le ricoverate.

Queste riunioni, che pure si rivelarono già da subito come un potente strumento in grado di ridurre l’aggressività e dare un senso al tempo trascorso all’interno del Reparto, dovettero convivere a lungo con la “ritualità” dei colloqui individuali, cui restavano fortemente legati non solo le pazienti ma anche i medici e le infermiere che, con il loro abbandono, temevano di perdere anche un pezzo della loro identità professionale.

La sostituzione dei colloqui individuali con le riunioni quotidiane con le pazienti, rappresentò quindi una tappa che richiese molto tempo e molta “pazienza” ed il cui conseguimento fu possibile solo grazie all’evidenza con la quale le pazienti che partecipavano ai gruppi presentavano miglioramenti clinici più significativi e più rapidi rispetto a quelle “seguite”con colloqui individuali.

Fu così che, pur tra mille difficoltà e resistenze, piano piano la riunione con le pazienti divenne il momento centrale dell’attività terapeutica del Reparto.

Si teneva tutte le mattine, dal lunedì al venerdì, per la durata di un’ora e mezza; vi partecipavano tutte le ricoverate e lo staff di Reparto, tranne un’infermiera che, a turno, restava “fuori” disponibile per le eventuali chiamate telefoniche, ritiro di esami, nuovi ingressi, ecc. e soprattutto per consentire a quelli che stavano “dentro” una sufficiente tranquillità per potersi concentrare su quanto avveniva nella riunione.

Un medico coordinava l’incontro mentre gli altri operatori fungevano da osservatori partecipanti. La discussione era a tema libero e la finalità ricercata, in particolare agli inizi, mirava a favorire una democraticità relazionale ispirata alle comunità terapeutiche di Maxwell Jones, ma anche un’attenuazione delle ansie ed un contenimento della frammentazione psicotica soprattutto nelle pazienti in fase di grave scompenso.

Questo assetto era reso possibile dall’atteggiamento, mantenuto da tutti gli operatori, di convogliare sistematicamente nello spazio della riunione tutte le problematiche concernenti le pazienti. Fatte salve le situazioni d’urgenza, infatti, ogni tentativo di instaurare rapporti individuali con figure dello staff veniva cortesemente scoraggiato e rinviato allo spazio – tempo della riunione.

Col procedere dell’esperienza il lavoro con i gruppi ci pose sempre di più a contatto con le “parti sane” delle pazienti (aspetto questo fortemente sottovalutato nella cultura degli ambienti di ricovero psichiatrico del tempo) ed in certo senso ci “costrinse” a rivedere molte delle nostre idee sulla malattia mentale, sul significato e soprattutto sul modo di condurre un ricovero psichiatrico.

Di seguito descriverò brevemente “i dispositivi” che, nel tempo, si aggiunsero alla riunione d’équipe ed alla riunione con le pazienti e che contribuirono a determinare  le più significative trasformazioni organizzativo-funzionali del Reparto.

L’incontro di accoglimento 

Giungemmo alla sua istituzione perché non potevamo più accettare il fatto che i ricoveri venissero disposti, dal Pronto Soccorso, sulla base di consulenze nelle quali l’indicazione al ricovero era sostenuta, quasi esclusivamente, dal riscontro di una sintomatologia psichiatrica o, ancor peggio, dalle pressioni esercitate dal contesto famigliare o micro sociale del paziente; cioè senza alcuna analisi della richiesta: chi chiedeva? Cosa chiedeva? Quale sarebbe potuta essere la risposta più adeguata? Tutto questo non accadeva e neppure si poteva pensare, allora, che potesse accadere nella realtà compressa e convulsa del Pronto Soccorso di un grande Policlinico.

Il nuovo spazio dell’accoglimento avrebbe quindi dovuto assolvere alla finalità di sviluppare un’analisi della richiesta, raccogliere informazioni sulle vicende che avevano condotto le pazienti al ricovero, formulare ipotesi di orientamento diagnostico e soprattutto (cosa per noi più importante di ogni altra) consentire, laddove il ricovero ci fosse apparso indicato, di giungere alla definizione di un “contratto” che esplicitasse, in modo chiaro e realistico, “la compromissione” di pazienti, famigliari ed équipe curante relativamente al lavoro da svolgere durante il ricovero. Il nostro intento, insomma, era quello di dare un “setting” al ricovero, cioè definirne contrattualmente lo spazio (il dove), il tempo (il quando e per quanto tempo), il ruolo (tra chi e chi) e il compito (per fare che cosa).

Immaginatevi che cosa accadde… riconoscere una contrattualità a pazienti quasi sempre affetti da quadri psicotici… ed in più… in fase di scompenso!

Ovviamente le resistenze non riguardavano solo i pazienti ed i loro famigliari… ma per noi questo passaggio rivestiva una valenza fondamentale; rappresentava una pre-condizione irrinunciabile per l’avvio di qualsiasi rapporto che avesse almeno l’aspirazione di svolgere una funzione terapeutica!

L’incontro, una volta istituito, aveva la durata di un’ora e mezza; si teneva tutte le mattine, dal lunedì al sabato, e vi prendevano parte, oltre alle pazienti ricoverate nella notte o il giorno precedente, anche tutte quelle pazienti, già ricoverate, con le quali non si era ancora giunti alla definizione di un “contratto di ricovero”; all’incontro erano invitati a partecipare, oltre ai famigliari delle pazienti, anche gli operatori dei Servizi di riferimento.

Per avere un’idea di quanto potesse essere “dirompente”, al tempo, questo tipo di approccio è sufficiente pensare a cosa accadrebbe, ancora oggi, se per esempio i colloqui che si tengono a scuola tra insegnanti e genitori cominciassero ad includere gli allievi… ed assumessero la forma della multifamigliarità!!

In questo spazio assai particolare, attraversato da transferts, controtransferts e proiezioni multiple, la natura delle “crisi dei sistemi famigliari” tendeva a mostrarsi in modo così intellegibile e rapido (… e non solo per gli operatori ma per tutti i partecipanti, non foss’altro per la forma drammatico – didascalica con la quale le crisi venivano per così dire… “messe in scena”…) da rendere assai spesso del tutto ingiustificato il prolungarsi dei ricoveri.

L’incontro di counseling con i famigliari

L’attivazione di questo dispositivo, che si teneva una volta alla settimana, per la durata di un’ora e mezza, discendeva, come ormai si sarà capito, dall’importanza che noi annettevamo al coinvolgimento della rete famigliare nel processo di cura.

L’incontro era pensato come uno spazio di ascolto per i famigliari che fosse in grado di accogliere ed elaborare richieste, ansie, transferenze e proiezioni in modo tale da favorire una rimodulazione, in termini meno stereotipati, dei ruoli “aggiudicati ed assunti” dai vari membri, all’interno di ciascun gruppo famigliare.

I famigliari delle ricoverate venivano invitati a partecipare agli incontri già in fase di accoglimento; nella “consegna” di avvio del gruppo veniva chiarito che, per motivi di riservatezza, non sarebbero state fornite informazioni riguardanti le persone ricoverate; anzi, per tutto quanto concerneva il loro stato di salute si rinviava direttamente alle interessate che, si sottolineava, erano perfettamente al corrente di ogni aspetto che riguardasse il loro programma di cura: terapie seguite, risultati di esami, durata presumibile del ricovero, eventuale data della dimissione, ecc. ecc.

Anche qui si può immaginare la reazione dei famigliari. “… Ma allora questo incontro è per noi!!… ma noi non siamo mica malati!!… voi dovete dirci come stanno!!… ve le abbiamo portate per curarle… non siamo mica noi quelli da curare!!…”

Nonostante queste vivaci reazioni e le indignate proteste al Direttore della Clinica e sin anche alla Direzione Sanitaria del Policlinico, lo staff, senza arretramenti sul piano del rispetto del segreto professionale nei confronti delle signore ricoverate, ribadiva con fermezza che l’incontro non era finalizzato a fornire informazioni, bensì a  condividere le difficoltà che un gruppo famigliare si può trovare ad affrontare in occasione del ricovero di uno dei suoi membri.

Il nostro obiettivo era quello di “spingere” i famigliari a ripensare le loro congiunte  ricoverate, non come delle “pazienti” (come loro stessi ormai le definivano) ma come figlie, madri, mogli, ecc., momentaneamente in difficoltà; perciò rifiutavamo con forza quella richiesta di “alleanza”, alle loro spalle, che i famigliari ci riproponevano costantemente.

L’incontro di discussione clinica e di supervisione

Dopo ognuna delle riunioni descritte l’équipe di Reparto si ritrovava in un post-riunione, come lo chiamavamo allora, che aveva la durata di un’ora, per discutere e riflettere sugli accadimenti che le avevano caratterizzate.

Una volta alla settimana le situazioni più problematiche venivano affrontate all’interno di una supervisione con un collega psicoanalista esterno alle attività del Reparto.

Se la riunione con le ricoverate costituiva certamente “il cuore” del processo terapeutico, il post-riunione rappresentò, altrettanto certamente, “il cuore” del processo formativo di tutta l’équipe di Reparto.

Con questo assetto: riunione d’équipeincontro di accoglimento – riunione con le pazienti – incontro di counseling con i famigliari – incontro di discussione clinica e di supervisione, il Reparto andò avanti per alcuni anni.

Anni durante i quali maturarono e soprattutto si trasformarono profondamente la cultura e l’operatività di tutta l’équipe del Reparto.

La riflessione sulla interazione tra sistema famigliare e sistema istituzionale di cura, facilitata dai dispositivi gruppali che avevamo posto in essere, ci permise di renderci conto della inadeguatezza dei paradigmi concettuali con i quali operavamo e stimolò in noi la ricerca di nuove forme di approccio alle gravi situazioni  di scompenso psichiatrico che giungevano alla nostra osservazione; le strade individuate tramite quell’impegno di ricerca ci condussero all’abbandono della “cultura” dell’intervento “sul” paziente a vantaggio di una pratica di lavoro “con” il paziente ed il suo contesto.

In particolare ricordo che andarono in pezzi due classici approcci molto “di moda” in quel periodo: quello caratterizzato dalla cosiddetta “alleanza tra sani”, cioè tra famigliari e terapeuti, di cui fu possibile comprendere appieno la negatività rispetto ai percorsi di crescita psicologica delle pazienti e quello, sviluppatosi in opposizione al primo, caratterizzato dall’alleanza tra pazienti e terapeuti sullo stile “… lei è così perché ha avuto i famigliari che ha… ma vedrà… con noi sarà diverso…” 

L’uscita da queste forme di “collusività”, proprie di certa “psichiatria paternalistica” del tempo, ci permise di collocarci in una nuova e diversa posizione che per essere mantenuta necessitava però di ulteriore studio e formazione.

Lo studio della psicoanalisi ed in particolare del pensiero di Bion e di Pichon Rivière, nutrì la prima delle due esigenze, mentre la seconda trovò risposta nell’incontro con Armando Bauleo.

Alla luce del nuovo armamentario culturale di cui ci stavamo dotando, ci apparve chiaro che i diversi dispositivi che avevamo mano a mano impiantato, altro non erano se non apparati con i quali avevamo cercato di “trattare”, in maniera “separata”, i diversi aspetti di quel fenomeno, “complesso ma unitario”, rappresentato dalla malattia mentale.

Ciò che i dispositivi gruppali ci avevano consentito di “vedere” contribuì in maniera decisiva alla trasformazione del nostro modo di “pensare” il rapporto malato – malattia; dovemmo così accettare che la malattia mentale, contrariamente a quanto sostenuto dalla Psichiatria classica, non si esauriva “nel” malato, rappresentando un fenomeno di assai più ampia dimensione, in grado di interessare tutto il contesto storico e relazionale del soggetto.

Voglio dire che l’esercizio di queste pratiche terapeutiche ci aiutò a comprendere che la salute e la malattia mentale non sono fenomenologie “chiuse” nella dimensione intra-soggettiva, o addirittura intra-cerebrale, come sostenuto da certa psichiatria organicistica, bensì “aperte” alla dimensione inter-soggettiva e di contesto.

Alla rilettura delle evidenze che ci provenivano dalla clinica non potevano non fare seguito consequenziali trasformazioni sul piano dell’operatività; trasformazioni che in effetti non tardarono ad apparire, spingendo il Reparto Donne ad abbandonare la sua tradizionale organizzazione ospedaliera per trasformarsi in una realtà terapeutica, del tutto sui generis, di centro psichiatrico per le crisi; un’esperienza a tutt’oggi mai più replicata.

L’incontro di accoglimento permanente

Il nuovo strumento terapeutico, pensato per riunificare tutti i dispositivi terapeutici precedenti, prese il nome di accoglimento permanente; aveva la durata di due ore e si teneva tutte le mattine dal Lunedì al Sabato; un medico coordinava l’incontro mentre gli altri componenti dello staff, tranne un’infermiera che a turno restava fuori, svolgevano il ruolo di osservatori partecipanti.

Al gruppo partecipavano, oltre alle pazienti ricoverate, i loro famigliari e, quando possibile, anche gli operatori dei servizi di riferimento territoriale.

Il compito manifesto, esplicitato nella consegna, si componeva di due parti; la prima riguardava il come mai erano lì… il che cosa era accaduto; la seconda riguardava il che cosa pensavano di fare.

Il lavoro del gruppo prendeva le mosse dalla situazione presente, quindi muoveva verso il passato, e da qui piegava verso il futuro; poi tornava al presente, di nuovo al passato, di nuovo al futuro…

In questo andare e venire il gruppo raccontava le sue storie; i soggetti entravano nei loro ruoli, a volte se li scambiavano, si confondevano, sparivano e riapparivano; i confini famigliari si sfumavano, si rimodellavano, a volte i membri di una famiglia “entravano a far parte” di un’altra e viceversa, tutto si metteva in movimento, era come una grande rappresentazione teatrale in cui tutti gli attori (pazienti, famigliari e terapeuti) contribuivano alla costruzione di una trama continuamente rimodulata; quando il gruppo terminava, foss’anche solo per un piccolissimo aspetto, nessuno, e questo valeva anche per i terapeuti, poteva sentirsi uguale a prima.

Dopo un lungo cercare ci eravamo finalmente imbattuti in questo fantastico strumento di cura; una grande “giostra ricombinante” dove, in un intergioco di fenomeni transferali, controtranferali, proiettivi ed introiettivi, era possibile, per tutti i soggetti, rimettere in gioco la forma dei propri vincoli interni.

Il setting assunto dal centro crisi permise alla nuova struttura di svolgere quella necessaria funzione di “contenitore”, di “non processo”, che consentiva il dispiegarsi di “processi terapeutici” in grado di abbracciare contemporaneamente la dimensione individuale, famigliare e istituzionale.

Tutto ciò si tradusse in un’ accelerazione dei tempi di risoluzione delle crisi tanto vertiginosa che la presenza media giornaliera delle ricoverate, già fortemente calata con gli assetti che il Reparto era venuto mano a mano assumendo,  raggiunse i valori record di 5/6 presenze medie giornaliere!!

Ma nonostante gli importanti risultati sul piano clinico non tutto andò per il meglio.

Se, infatti, le precedenti trasformazioni istituzionali che avevano interessato il Reparto non ne avevano mai realmente messo in discussione la “sopravvivenza”, ora le cose cominciavano a prendere una piega diversa… quei dati, quei numeri, se da un lato parlavano di un’incontestabile riuscita, dall’altro aprivano la porta a scenari nuovi, inimmaginabili sino ad allora.

Il ricovero, come lo si pensava solo pochi anni prima, almeno da noi, non esisteva più, né nei numeri né nella durata né nelle finalità.

Il Reparto stesso, con le sue stanze sempre più vuote, “risuonava come un luogo del passato”… finanche il numero dei sanitari, che ai  tempi delle 30 ricoverate e dei colloqui individuali era decisamente insufficiente, ora iniziava ad apparire inutilmente sovradimensionato per questa funzione.

La percezione, ancorchè confusa, del fatto che la somma di tutti i cambiamenti realizzati nel corso degli anni stava producendo una trasformazione che andava ben al di là dell’assetto organizzativo del Reparto, investendo alla radice la nostra concezione della cura in Psichiatria, iniziò a produrre in noi reazioni inconsapevoli e scomposte.

La resistenza al cambiamento, che era sempre stata espressa soprattutto dalla Direzione della Clinica, dalla Direzione Ospedaliera, dai Servizi Territoriali, dai pazienti e dai famigliari, improvvisamente passò ad essere “interna” al gruppo dei medici e delle infermiere che sino ad allora avevano combattuto per il cambiamento: “… si però… adesso basta… dove dobbiamo arrivare?… basta!…”. Frenavano, volevano tornare indietro…

Non me lo sarei mai aspettato; proprio ora che le cose cominciavano a cambiare veramente.

Cercai in ogni modo di ricomporre il gruppo, ma non ci fu verso: il “vento controrivoluzionario” spirava forte e la mia capacità di comprendere ed intervenire nelle dinamiche istituzionali non fu all’altezza della situazione.

Mi sentii tradito, deluso e sospinto anche da altre conflittualità sul piano professionale, decisi di andarmene… aggiungendo così anche il mio contributo alla causa della resistenza al cambiamento!

Piano piano l’esperienza regredì e fu riassorbita, col tempo cambiò anche parte del personale ed un po’ alla volta… fu dimenticata… ma non tutto è stato dimenticato!

 

Riassunto

L’Autore riferisce, in questa comunicazione, di un’originale esperienza di lavoro condotta nel Reparto femminile della Clinica Psichiatrica dell’Università di Modena.

Vengono ripercorse alcune delle fasi più significative di questa esperienza che, lungo l’arco di un decennio (dal 1977 al 1987), condussero il Reparto Donne della Clinica ad abbandonare la sua tradizionale organizzazione ospedaliera per trasformarsi in una realtà terapeutica sui generis.

Le progressive introduzioni, nella realtà operativa del Reparto, di dispositivi gruppali quali la riunione d’équipe, la riunione con le pazienti ricoverate, l’incontro di counseling famigliare, il gruppo di accoglimento e la supervisione periodica di gruppo, rappresentarono “la chiave di volta” di un profondo cambiamento  nella maniera di “leggere” la malattia e nel modo stesso di pensare il ricovero.

L’interazione tra sistema famigliare e sistema istituzionale, filtrata dai dispositivi gruppali, pose presto in evidenza la stereotipia operativo – concettuale che caratterizzava lo stile di lavoro del Reparto stimolando la ricerca di nuove forme di approccio alle gravi situazioni  di scompenso psichiatrico; le strade individuate tramite quella ricerca segnarono l’abbandono della “cultura” dell’intervento “sul” paziente per passare ad una pratica di lavoro “con” il paziente ed il suo contesto.

 

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Stessa strada per crescere insieme Consulenza psicologica per sostegno alla genitorialita’ UICI Sezione Rimini

Sab, 04/05/2019 - 20:05
di Laura Buongiorno

Relazione colloqui individuali, di coppia e familiari Ore impegnate nei colloqui: 60 Le ore sono state distribuite da giugno 2018 a febbraio 2019 con andamento diverso in quanto era difficile per i genitori partecipare al lavoro di gruppo e nella stessa settimana riuscire a venire ai colloqui. Si è data priorità di partecipazione al gruppo aspettando che le lezioni fossero terminate per passare ad una cadenza settimanale negli ultimi tre mesi. Psicoterapia: terapeuta individuale, di coppia e familiare Modello di lavoro: l’individuo è gruppo (J. Bleger) . Psicologia degli ambiti ( individuale, gruppale, istituzionale, comunitario).

Metodologia Il primo incontro ha visto la partecipazione di 15 genitori convocati da Mauro Favarolo (coordinatore regionale) al quale ho partecipato su invito del presidente Domenico Mini UICI di Rimini in qualità di psicologa dell’UICI e poi di coordinatrice locale . Sono stati distribuiti dei quesiti, sottoposti da un gruppo di genitori di figli con disabilità visiva agli psicologi ,perché anche i genitori presenti si esprimessero rispetto alle tematiche da trattare.

Quando è partito il progetto le famiglie che si sono dichiarate interessate a partecipare sono state riconvocate per cercare di chiarire la differenza tra le informazioni e le discussioni in gruppo e i colloqui individuali e per ognuno si è proceduto a sottoscrivere il “Consenso Informato” ai sensi dell’articolo 24 del “Codice Deontologico degli Psicologi Italiani” e l’Informativa ai sensi dell’articolo 13 del D.Lgs. 196/2003 e dell’articolo 13 del Regolamento UE n.2016/679.

Prima di ottenere prestazioni professionali da parte della dott.ssa Laura Buongiorno, Psicologa/ Psicoterapeuta, iscritta all’ordine dell’Emilia Romagna, l’interessato dichiara di essere stato informato sui seguenti punti: - la prestazione rientra nel “ progetto stessa strada” proposto dall’IRIFOR in collaborazione con il CNOP - l’intervento prevede da due a quattro incontri di supporto al singolo genitore o coppia genitoriale, della durata di un’ora ciascuno, poi modificato fino a otto incontri ciascuno - a tal fine, anche ai sensi di quanto previsto dall’art. 1 della L.n 56/1989, potranno essere usati strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, l’ attività di abilitazione- riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico, in ogni caso lo strumento principale sarà il colloquio clinico; - le prestazioni verranno rese presso UICI sito in via Covignano N 238 Rimini (RN) - In qualsiasi momento il genitore potrà interrompere la prestazione; - la psicoterapeuta è tenuta al rispetto del Codice Deontologico che, tra l’altro, impone l’obbligo del segreto professionale, derogabile solo previo valido e dimostrabile consenso del paziente o nei casi eccezionali previsti dalla legge; - Nessun compenso verrà chiesto in quanto corrisposto dallIRIFOR (come da progetto).

Dopo aver compreso i termini dell’informativa e aver dichiarato di accettare l’intervento concordato, in materia di protezione dei dati personali, informo che i dati personali che emergeranno nel corso dell’intervento psicologico saranno trattati esclusivamente per l’esecuzione di prestazioni professionali strettamente inerenti alla mia attività di psicologa. Ho precisato che rifiutando tale consenso non sarei stata in grado di svolgere il mio lavoro e che pertanto avrei dovuto rinunciare all’incarico conferitomi. Preso atto dell’informativa ognuno esprime il consenso al trattamento dei propri dati “sensibili”per gli scopi di cui all’incarico professionale conferitomi. ​

Partecipanti Negli incontri collettivi iniziali si è sottolineato che la proposta prevedeva incontri individuali per singolo genitore o coppia genitoriale, preziosa occasione per esprimere i propri bisogni, desideri e necessità e avvalersi di un supporto e una consulenza specifica per approfondimenti o particolari necessità. Si è anche deciso che le lezioni e le discussioni in gruppo si tenessero separate dai colloqui individuali in modo che i genitori percepissero che gli incontri e il loro privato sarebbe stato assolutamente tutelato. Per questo motivo io non ho mai partecipato agli incontri di gruppo ne’ ho mai fatto incontri con le docenti alla presenza dei genitori e ho detto no agli incontri prima di gruppo poi di psicoterapia nello stesso pomeriggio come in un caso mi era stato richiesto. Ci si chiede alla fine di questo progetto perché su 80 ore complessivamente impiegate per i colloqui individuali, rispetto alle 240 previste, 60 siano state a Rimini e perché ci sia stato un così scarso utilizzo nelle altre sedi.

È vero che l’incontro individuale comporta un mettersi in discussione molto più diretto e coinvolgente di una partecipazione al gruppo dove ci si confronta sugli aspetti più o meno comuni. Così come dobbiamo riconoscere che ancora oggi esistono pregiudizi e resistenze nei confronti della cura psicologica con tendenza a preferire quella farmacologica, anche se le statistiche dicono che sempre di più le persone si rivolgono alla psicoterapia come modalità di risoluzione dei problemi. Quali problemi avrebbero dovuto avere i nostri partecipanti al progetto? Gli stessi per cui è nato il progetto. La collaborazione tra IRIFOR e CNOP ha impiegato gli psicologi a discutere con le famiglie i problemi dei figli.

Sappiamo che uno della famiglia che non sta bene può diventare il capro espiatorio del gruppo e spesso viene relegato con la colpa inconscia di essere lui il responsabile del disagio familiare: a maggior ragione e ancora di più se si tratta di figli non vedenti, ipovedenti e a volte anche pluridisabili. Nella discussione in gruppo si sa che si è lì perché c’è a casa un figlio naturale o adottato che non vede, è disabile e tutto ruota attorno a lui per farlo stare meglio. Si pensi a quanti genitori (madri) hanno rinunciato anche al lavoro per accudire il figlio, quante preoccupazioni per il futuro e sensi di colpa da ambo le parti. Se tutto questo si traduce in ansie, angosce, emarginazioni, situazioni depressive, come si può pensare che una semplice discussione in gruppo possa risolvere questi problemi? Ecco perché da noi psicologi si pretende di capire quali strategie mettere in atto per rompere gli stereotipi e arrivare a cambiamenti possibili a partire da noi.

Si ha a che fare con il retaggio dei pregiudizi sulla psicologia che si è cercato in questo caso di rompere affermando che un genitore, una coppia che si analizza e affronta i propri problemi personali individuali, attiva una comunicazione più consapevole, rafforza la capacità di una forma di autostima convincente, può migliorare il clima familiare e alleggerire il peso di essersi caricato sulle spalle l’onere di fare crescere il proprio figlio disabile e convincersi così di non essere malati ma di poterlo diventare se non si facesse prevenzione potendo scegliere una psicoterapia. Quindi tutte queste premesse sono servite per superare il lavoro spesso che si fa generalizzando sulle condivisioni, decidendo invece caso per caso sul quotidiano della persona.


Sui colloqui clinici

Senza scendere in particolari che riguardano la privacy di ognuno, si è rilevato che una costante comune a tutti è stata quella concentrata in una domanda “ Che cosa fa per se’ stesso? Ha un hobby, una situazione gratificante, un aspetto piacevole della vita, un desiderio ricorrente?”. Tutti hanno risposto allo stesso modo senza essersi parlati :” Niente”. Il lavoro è stato molto nell’ascoltare e nell’interpretare gli aspetti latenti rispetto al manifesto. È inutile chiedersi se gli incontri fossero positivi in quanto la conferma la troviamo nel semplice fatto che le persone continuavano a venire agli appuntamenti e hanno manifestato dispiacere quando le ore erano finite. Lo dimostrano le note scritte alla fine dei questionari anonimi che la segretaria dell’UICI ha loro sottoposto e che io ho avuto occasione di leggere prima che fossero inviati.

Scrivendo questa relazione ho riflettuto sul perché si sia prodotta la differenza di ore tra le varie sedi e non conoscendo i validi motivi delle colleghe che hanno lavorato sui colloqui individuali, esprimo con estrema umiltà la convinzione, per quanto mi riguarda, che le fasi iniziali sono molto importanti così come in psicoterapia si parla dell’importanza dei primi colloqui dove se non dici tutto quello che serve finisce che la relazione terapeuta-paziente non funziona o non viene attivata. Mi rendo conto che non è facile trasmettere i vari passaggi che si sono succeduti ma sicuramente sono serviti per inviare messaggi di fiducia che è la prima condizione per poter parlare e raccontare quello che a volte non si ha il coraggio di ammettere neanche a se’ stessi. Infine segnalo un emergente di questa parte di progetto: partendo dalla psicologia degli ambiti ( individuale, gruppale, istituzionale, comunitario, globale) e ritrovando nella famiglia pezzi di questi ambiti, ho ritenuto che chiunque avesse voluto venire al colloquio tra i componenti familiari che avevano aderito al progetto, poteva farlo.

Così la partecipazione ha visto genitori (coppia) insieme, oppure madre o padre singolarmente, anche una famiglia con un minore adottato non vedente e pluridisabile che mi ha meravigliato come riuscisse a rimanere un’ora a parlare seduto davanti a me (spiegazione possibile è l’attenzione che gli veniva data come in nessun’altra situazione tanto che raccontava cosa faceva a scuola e i genitori dicevano che a casa non lo faceva) ; una ragazza maggiorenne non vedente e affetta da una sindrome è stata portata dalla madre, molto preoccupata per la figlia che era ipocondriaca, depressa, emarginata : ho accettato di vederla nonostante si trattasse di figlia e poi ho visto anche la madre separatamente e una volta anche il padre. La ragazza continua a venire ancora oggi privatamente :ha ripreso a suonare il pianoforte, migliorato il rapporto con il padre, più autonoma anche grazie alla madre che superando certe paure e riattivando abitudini dimenticate del tempo libero, ha fatto ricadere sulla figlia comportamenti più positivi della vita. Queste sono solo alcune delle relazioni intraprese: certe purtroppo interrotte e non ancora definite, che in forma anonima, se ci sarà l’occasione si potranno anche raccontare perché si possa capire che le due fasi del progetto “stessa strada …” individuate in lezioni e discussione e in colloqui individuali possono integrarsi e rendere un servizio indiscutibilmente valido per promuovere la salute e il benessere a livello individuale gruppale istituzionale e quindi nella comunità.

(Progetto IRIFOR 2018)

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Religione, Spiritualità e Disturbo da Gioco d’Azzardo

Mar, 11/12/2018 - 23:04

S.T.D.P.  Senigallia
Direttore: Dott.ssa Marella Tarini

Relatori:
Dott.ssa Francesca Silvestrini
Dott. Edoardo Ballanti

La fatica di Sisifo II Giornata dell’AV2 dedicata al Gioco d’Azzardo Patologico DISTRUZIONI/COSTRUZIONI: Dare senso all’agire del giocatore

Sollecitati dal titolo di questo convegno Distruzioni/Costruzioni, e dall’indicazione suggerita al nostro intervento riguardante il dare senso all’agire del giocatore e al gioco d’azzardo, ci siamo posti in un’ottica di esplorazione, riflessione e ricerca, non sapendo esattamente cosa saremmo andati a trovare.

Il tema del significato evoca numerose domande, solleva riflessioni e pone interrogativi. Ci interroga sul significato del sintomo, influenza la nostra concezione della malattia, del recupero e della guarigione, riguarda noi in veste di curanti ma riguarda anche i pazienti e le famiglie, immaginate come microcosmi, comunità con la loro specifica epistemologia, all’interno delle quali il sintomo genera un significato o lo incarna o svolge la funzione di attribuzione di un ruolo. Per questo diventa necessario farsi interpreti, attraverso un lavoro ermeneutico, per evitare spiegazioni generaliste o peggio ancora riduzioniste.

Interrogarsi sul significato del sintomo può divenire allora interrogare il sintomo stesso per forzarlo a rivelarci il suo senso; o cercare il senso, in termini esistenziali, di un comportamento che è insieme distruttivo e costruttivo.

Occorre riconoscere le radici del disturbo da gioco d’azzardo e l’immensa sofferenza sia del giocatore patologico sia dei familiari e dei partner, sofferenza che in molti casi era presente già prima che il problema di gambling avesse inizio. Così possiamo dire che la patologia del gioco è solo la punta dell’iceberg, un sintomo che è più una richiesta di aiuto, un grido da parte del giocatore che si trova inestricabilmente invischiato e irretito nella trama di un sistema socio-economico e familiare, sia passato sia presente, di cui è parte.

Si può valutare la salute mentale in termini di qualità del comportamento individuale in rapporto all’ambiente sociale, in quest’ottica (che pone al centro la relazione), il comportamento, il suo modo di dispiegarsi e prodursi, così come il suo deteriorarsi, sono legati a fattori d’ordine socio-economico e familiare. Il malato è portavoce dei conflitti e tensioni della famiglia, per essa svolge il ruolo di depositario degli aspetti alienati della struttura sociale più ampia, facendosi portavoce dell’insicurezza e del clima d’incertezza. Tutti questi fattori presi insieme determinano, in positivo o in negativo, la possibilità di adattamento alla realtà: possibile quando la relazione con il contesto avviene sulla base di un vincolo creativo, impossibile quando questo è coercitivo.

Qui la domanda sul significato si fa domanda anche sul senso della cura. Che cosa curiamo e che cosa possiamo curare? Che cosa vuole essere curato? Cosa c’è bisogno di curare?  Quando nasce la richiesta di aiuto da parte del giocatore? Spesso nella pratica vediamo che il giocatore non sente il disturbo come una malattia, bensì come una soluzione.

Certamente vanno curate la profondità delle ferite e la storia traumatica del giocatore patologico, vanno curate le cicatrici nei partner e le gravi fratture nella relazione di coppia. Così come andrebbero pensate strategie di cambiamento della struttura socio-economica di cui il malato è Emergente. Pensiamo che la guarigione passi attraverso l’assegnazione di un nuovo ruolo, quello di agente del cambiamento, che chiede a noi stessi di trasformarci, divenendo per primi agenti del cambiamento.

L’obiettivo non è quindi limitato all’astinenza o alla riduzione del danno, ma si estende oltre, puntando all’apertura di una riserva di risorse psicologiche e sociali, sia del giocatore sia delle sue relazioni, ripristinando un legame creativo con il contesto e la comunità. Per rimpiazzare il gioco patologico e le funzioni che esso svolge, bisogna intuirne il senso. L’effetto finale del cambiamento sarà allora, non il tentativo di modificare un comportamento, ma vedere la relazione tra comportamento e contesto, svelandone i nodi insolubili e le contraddizioni patogene. Fare questo richiede un cambiamento di secondo ordine, un imparare a imparare che è un imparare a pensare, che investa l’intero sistema di cui il giocatore è parte coinvolta in modo centrale.

La letteratura e la ricerca sul gioco d’azzardo sono prevalentemente incentrate sulla patologia o sull’impatto socio-economico, sulla prevalenza del problema e sui modelli patologici, spesso estraniando le persone dai contesti in cui si svolge il gioco, riflettendo una epistemologia occidentale dominante, e non riuscendo ad approfondire la nostra comprensione dei discorsi sociali ed esistenziali, che costituiscono il contesto in cui i giocatori danno significato, o ricercano un significato, dal loro giocare d’azzardo.

 

ESPERIENZA CLINICA

Non molto tempo fa, si presenta presso l’STDP di Senigallia il Sig. L., chiedendo una presa in carico per un problema di gioco d’azzardo di lunga data. Il Sig. L. comincia a raccontarci la sua storia, fatta di tante storie: una carriera nelle forze armate, incarichi importanti, missioni sia in Italia sia all’estero, campi di battaglia, il confronto con la morte, l’avere ucciso. Il suo lavoro lo porta a trascurare la famiglia, la moglie, i figli. Il gioco d’azzardo sembra essergli sempre appartenuto. A fatica riesce a individuare un punto d’inizio, ma riconosce che il bisogno di giocare diventava più impellente nei momenti di crisi, con i problemi legali, con le ingiustizie che sente di subire e per le quali non ha sufficienti strumenti e forza di opporsi. Disperde tutti i suoi risparmi, tanti soldi poiché i suoi guadagni sono elevati. Non è intaccato il patrimonio della famiglia, che prova molta rabbia e lo espelle. La moglie prima lo butta fuori di casa poi lo riprende. Ora il Sig. L. tenta di ricucire i rapporti deteriorati, anche se non sa come fare. Cerca di farsi riaccogliere dalla moglie e dai figli, in modo incerto, considerata l’estrema difficoltà di contattare e comunicare le proprie emozioni. Curarsi è per lui una conditio sine qua non posta dalla moglie: un lasciapassare da presentare per il rientro a casa.

Già da qui sembra configurarsi ai nostri occhi un quadro riconoscibile, una personalità con tratti narcisistici, la ricerca di sensazioni forti, un disturbo da stress post traumatico, impulsività, senso di colpa, uso costante di cannabis: il disturbo da gioco d’azzardo potrebbe essere interpretato in questa cornice come una difesa appresa per sfuggire, dissociare, alleviare o evitare le memorie traumatiche e gli elevati livelli di stress attuale.

Ma il Sig. L. porta con sé altre storie. Veniamo a sapere dal suo racconto la storia della madre che quando L. era ancora bambino si ammala di una malattia terminale. Era l’inizio degli anni 80, anni in cui avvenivano le prime apparizioni mariane nella città di Medjugorie in Bosnia. Sentendo la notizia in televisione e alla ricerca di un ultimo appiglio di speranza, la famiglia si avvia a intraprendere un viaggio verso quello che allora era un semplice e sconosciuto villaggio di contadini e pastori sulle colline della Bosnia-Erzegovina. Durante quel viaggio avviene qualcosa d’inaspettato che cambia per sempre le sorti della famiglia. La madre di L. ottiene quella che viene definita una guarigione miracolosa. Una delle poche guarigioni miracolose ufficialmente riconosciute dalla Chiesa Cattolica. La storia della famiglia va incontro a un cambiamento imprevisto e imprevedibile, il miracolo è la svolta, la prima grande vincita, la divinità entra in scena intervenendo sulle sorti drammatiche che apparivano tracciarsi in un destino segnato. La madre diventa l’eroina che ha sfidato e vinto il destino. Il padre abbandona gradualmente il suo lavoro di piccolo imprenditore e artigiano, dedicandosi interamente, insieme alla moglie, all’attività di servizio. La famiglia si trasferisce per lunghi periodi a Medjugorie, organizzando pellegrinaggi. La madre di L. entra in contatto con alte sfere dell’Istituzione Ecclesiastica, che penetra in modo importante e duraturo nella vita e nella storia della famiglia, arrecando onore e prestigio sociale.

Sotto questa luce anche la storia di vita del Sig. L. sembra incarnare il mito dell’eroe.

Com’è andata avanti la storia del Sig. L. dopo tutto questo?

Verso la moglie il Sig. L. nutre oggi un sentimento d’indifferenza, non pensa la separazione e rifiuta l’espulsione. Si sta battendo per rientrare all’interno della famiglia. Il discorso non apre porte sulle sue emozioni, non ci sono né tenerezza né calore, soltanto la volontà di appartenenza a un nucleo familiare. Della moglie lamenta le credenze e l’adesione a gruppi d’evoluzione e sviluppo spirituale, che le fanno adottare un comportamento che giudica irrazionale, fatto di rituali per attirare verso di sé e verso la famiglia influenze positive e benefiche. Il Sig. L. non si sente libero quando è in casa e ne è profondamente irritato. Questa visione del mondo, secondo lui, ha influenzato anche l’educazione dei figli, verso i quali sente che come genitori non hanno alcuna presa educativa.

La descrizione fatta della scena familiare mette in luce un quadro d’isolamento, uno stare insieme ma isolati, ognuno preso in una personale attività di estraniazione che lo cattura e lo aliena dal contesto e dalla comunicazione. Con rabbia il Sig. L. porta questa sua considerazione e quest’istanza, lamentandosi di essere additato come “quello dipendente”, in una famiglia in cui tutti hanno una loro dipendenza.

Il forte ruolo rivestito da religione, spiritualità e rituale all’interno di questo nucleo familiare, ci ha fatto interrogare sul legame tra religione/spiritualità e gioco d’azzardo, per approfondire in questa direzione l’interrogativo sul senso e sul significato: intesi come l’umana ricerca di un senso che possa collocare l’esperienza vissuta all’interno di un quadro fonte di significato, identità, scopo e realizzazione nella vita individuale, culturale e sociale.

Di per sé questa non è una cosa nuova: Freud attribuiva a religione e gioco d’azzardo la funzione di fornire alle persone un senso di controllo sul destino, e suggeriva che l’azzardo potesse agire come sostituto della religione. Marx sosteneva che le religioni hanno una funzione molto importante nella vita, dando conforto psicologico per l’incertezza e la paura della morte.

Allo stesso modo il gioco d’azzardo ha radici profonde nei rituali religiosi e molte forme di spiritualità ne sono intessute. Tradizionalmente, il gioco d’azzardo ha avuto origine da rituali religiosi e dalla ricerca di esperienze spirituali, per cui questo nesso appare evidente e il rituale ne è il comune denominatore.

Questi pensieri ci hanno fatto incuriosire e allora ci stiamo interessando alla letteratura sul gioco d’azzardo nelle popolazioni native: aborigeni australiani, indiani d’America e Canada. In queste culture tradizionali l’azzardo era spesso presente già prima della colonizzazione e aveva aspetti sia sacri sia secolari. Il gioco era usato per scopi religiosi e di cura, per la divinazione e la risoluzione delle controversie, per la redistribuzione della ricchezza e la ricreazione. Gli obiettivi secolari del gioco tra i nordamericani nativi erano il divertimento e il guadagno, ma il “gioco sacro” era investito di una funzione simbolica in cui l’ordine cosmico era incarnato e mantenuto. Associato a miti, cerimoniali, e pratiche rituali con funzioni divinatorie e magiche, rappresenta il desiderio di assicurarsi la guida dei poteri naturali da cui l’essere umano è dominato.

Da una prospettiva occidentale il gioco d’azzardo riguarda i soldi. Dalla prospettiva dei nativi Blackfoot la promessa di una “grande vincita” di denaro ha il suo peso, ma la promessa di prestigio o merito è ancor più significativa, e in essa viene incarnato il viaggio dell’eroe, esemplificato nel Napi, eroe archetipico della loro cultura.

Le narrative esplorate negli studi da noi passati in rassegna suggeriscono che il gioco d’azzardo tra i popoli Blackfoot contemporanei è un’attività in cui gli individui cercano prestigio, in un mondo sempre più secolare, in cui hanno uno status marginale.

Queste osservazioni suggeriscono che i giocatori, inconsciamente, giocano miti non esaminati. Alla base delle distorsioni cognitive ci sono delle strutture mitiche inconsce che riflettono epistemologie, o modi di conoscere, che danno significati simbolici ad azioni, oggetti e persone.Lo studio che stiamo citando (McGowan et Al., 2004) sostiene l’opinione che i contesti culturali, storici ed esperienziali, modellano i significati attribuiti all’esperienza di gioco. Le differenze nell’esperienza soggettiva del gioco d’azzardo, nel gioco d’azzardo problematico, nel recupero e nella guarigione, sono evidenti tra le generazioni all’interno delle comunità di Blackfoot, così come tra nativi e non nativi. Sempre più nativi stanno costruendo significati e cercando soluzioni per il gioco d’azzardo e altri problemi nel contesto della spiritualità tradizionale, ricercando identità culturali tracciate nelle loro tradizionali visioni del mondo.

Il terapeuta può aiutare a riconoscere le distorsioni cognitive e le credenze irrazionali, ma questo non tiene conto dei contesti sociali o culturali del gioco d’azzardo o delle differenze di sistemi di senso.

Cit: “Le tradizionali visioni occidentali del gioco d’azzardo suggeriscono che la risoluzione del problema del gioco d’azzardo avviene attraverso un processo chiamato “recupero” (recovery) in cui gli stati dell’essere prima scartati, distrutti o trascurati, come l’occupazione lavorativa, la proprietà e le relazioni con gli altri sono ricostruiti. Al contrario, la risoluzione del problema del gioco d’azzardo tra i Blackfoot è descritta in modo più accurato, attraverso processi di guarigione (healing) mediati da credenze e pratiche tradizionali. Come sottolineato da un consulente sulle dipendenze di origine Blackfoot, il “recupero” di ciò che non avete mai avuto (come una occupazione stabile, proprietà, relazioni genitori-figli) non è semplicemente possibile per molte persone colonizzate”. (McGowan et Al., Sacred and secular play in gambling among Blackfoot peoples of Southwest Alberta)

Suggeriamo quindi di tenere in considerazione l’importanza del contesto in cui il significato si genera, contesto che ha una sua epistemologia che informa di sé il processo della malattia come quello della cura.

“In contrasto con l’idea forse ristretta di una ristrutturazione cognitiva e con l’enfasi sul recupero che è il segno distintivo della psicoterapia, la guarigione tradizionale indigena sottolinea il raggiungimento dell’equilibrio tra le quattro dimensioni della natura di una persona (mentale, fisico, emotivo, spirituale). Piuttosto che attraverso un codice di pratica prescrittivo, questo viene raggiunto attraverso vari mezzi in base a contesti altamente situazionali e, a volte, a pratiche idiosincratiche. L’obiettivo è il ripristino del benessere, inteso come armonia restaurata secondo una legge d’interconnessione tra l’individuo in relazione con sé, la famiglia, la comunità, il mondo spirituale e l’ambiente fisico. L’armonia restaurata è intesa come espressione di una guarigione più profonda che è “la fonte del significato, dell’identità, dello scopo e della realizzazione nella vita” (McGowan et Al., Blackfoot traditional knowledge in resolution of problem gambling: getting gambled and seeking wholeness).

 

Bibliografia

Enrique Pichon-Riviere, Il processo gruppale: Dalla psicoanalisi alla psicologia sociale, Editrice Lauretana, 1985;

Helen Breen & Sally Gainsbury, Aboriginal Gambling and Problem Gambling: A Review, Int J Ment Health Addiction (2013) 11:75–96 DOI 10.1007/s11469-012-9400-7;

Virginia M. McGowan, Gary Nixon, Blackfoot traditional knowledge in resolution of problem gambling: getting gambled and seeking wholeness, Canadian Journal of Native Studies XXIV, 1 (2004):7-3;

Virginia McGowan, L. Frank, G. Nixon, M. Grimshaw, Sacred and secular play in gambling among Blackfoot peoples of Southwest Alberta, Culture & the Gambling Phenomenon, 241;

Elisabeth Gedge, Deirdre Querney, The Silent Dimension: Speaking of Spirituality in Addictions Treatment, Journal of Social Work Values and Ethics, Volume 11, Number 2 (2014);

Stephen Louw, African numbers games and gambler motivation: ‘Fahfee’ in contemporary South Africa, Article  in  African Affairs · January 2018;

Robert Grunfeld, Masood Zangeneh, and Lea Diakoloukas, Religiosity and Gambling Rituals, in M. Zangeneh, A. Blaszczynski, N. Turner (eds.), In the Pursuit of Winning, Springer 2008, capitolo 9.

Peter Ferentzy, Wayne Skinner, Paul Antze, The Serenity Prayer: Secularism and Spirituality in Gamblers Anonymous, Journal of Groups in Addiction & Recovery, 5:124–144, 2010;

Clarke, S. Tse, M. Abbot, S. Townsend, P. Kingi, W. Manaia, Religion, Spirituality and Associations with Problem Gambling, New Zealand Journal of Psychology  Vol. 35,  No. 2,  July 2006;

Keehan Koorn, The Roles of Religious Affiliation and Family Solidarity  as Protective Factors against Problem Gambling Risk in a Métis Sample, A Thesis Presented to The University of Guelph, In partial fulfilment of requirements for the degree of Master of Science in Family Relations and Applied Nutrition, Guelph, Ontario, Canada, © Keehan Koorn, August, 2011

Gary Nixon and Jason Solowoniuk, A Transpersonal Developmental Approach to Gambling Treatment, in M. Zangeneh, A. Blaszczynski, N. Turner (eds.), In the Pursuit of Winning. 211 C springer 2008, capitolo 13.

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Il Gruppo: integrazione, accoglienza, cura

Ven, 30/11/2018 - 19:44

di Simona Di Marco

Il lavoro clinico con richiedenti si svolge necessariamente in integrazione con il sistema dell’accoglienza e passa dall’incontro con gli operatori di SPRAR e CAS che sono, nella maggior parte dei casi, coloro che formulano la richiesta d’aiuto.

Partiamo dunque dal presupposto che la clinica in questo ambito sia una clinica di confine, decostruita e ricostruita attraverso una mediazione continua con altri sistemi e altri mondi.

Crediamo che una modalità di lavoro di gruppo sia essenziale nei vari ambiti e nei vari setting istituzionali sia dell’accoglienza sia della Cura.

Attraverso un setting di gruppo si può costruire una clinica integrata che tenga insieme aspetti sociali e sanitari.

Nel lavoro con i richiedenti evidenziamo diverse difficoltà dovute agli effetti del trauma e delle diversità culturali sulla relazione d’aiuto.

Sappiamo che i richiedenti sono portatori di vulnerabilità post-traumatica e sono pertanto ad alto rischio di sviluppare disturbi psicopatologici.

La vulnerabilità può emergere sotto forma di disagio psicologico nei luoghi di vita, nei CAS e negli SPRAR, in ogni momento del percorso di accoglienza.

Gli effetti del trauma possono rivivere nella relazione d’aiuto operatore-utente e generare difficoltà di comunicazione e vissuti emotivi molti intensi.

Sappiamo che è fondamentale intercettare precocemente la vulnerabilità affinché non diventi disturbo e non arrivi a compromettere il funzionamento sociale.

La fase di uscita dai percorsi di accoglienza può essere molto complessa soprattutto quando il progetto di   inclusione non è stato realizzato.

Questa è una fase molto difficile in cui il disagio psicologico può riemergere o manifestarsi per la prima volta.

Chi lavora nell’accoglienza è esposto quotidianamente agli effetti del trauma.

Gli effetti traumatici dei richiedenti si trasmettono in chi li ospita e si riflettono a livello delle istituzioni. Ma soprattutto le conseguenze del trauma rivivono nella relazione operatore-richiedente.  In questa relazione d’aiuto sono contenuti importanti aspetti terapeutici.

L’operatore dell’accoglienza è infatti la prima persona con cui il richiedente può costruire una relazione umana e gettare le basi per una esperienza di fiducia.

Possiamo dunque supporre che vi siano aspetti transferali e controtransferali che si sviluppano nelle relazioni fra il richiedente e il sistema dell’accoglienza e della cura.

Ci sono transfert positivi e negativi che il richiedente sviluppa nei confronti dell’operatore e dell’Istituzione dell’Accoglienza.

A volte l’operatore può essere investito da un potere molto grande e da aspettative che possono apparire irrealistiche.

L’operatore può a sua volta, sviluppare diversi tipi di controtransfert. Pensiamo che possa sentirsi frustrato se investito da aspettative troppo grandi o provare ambivalenza quando deve rispondere a mandati istituzionali nei quali non si riconosce.

Possono inoltre svilupparsi vissuti emotivi correlati alle differenze culturali e ad incomprensioni di codici e linguaggi (contro-transfert culturale).

E che tipo di tranfert sviluppa il richiedente nei confronti dell’Istituzione sanitaria o della salute mentale?  Che tipo di fantasie, aspettative, corrispondenze si mettono in moto? Dove si incontrano gli equivalenti dei nostri luoghi di cura?

E che tipo di controtransfert si attiva in noi operatori sanitari?

La relazione con queste persone passa dunque attraverso tutti questi elementi che, se non vengono riconosciuti ed elaborati, possono condizionare la relazione d’aiuto e influire sulla riuscita del percorso di accoglienza.

Come sostiene Abdelmalek Sayad “ci sono elementi controtransferali che, se non riconosciuti e contenuti, possano generare relazioni violente ed espulsive”.

Pensiamo che il dispositivo gruppale possa proteggere da tutti questi aspetti.

Partiamo dall’utilizzo del setting gruppale nella clinica.

Nella clinica con i migranti i nostri riferimenti teorici sono quello etnopsichiatrico e quello etnopsicoanalitico di Devereux e Nathan.

“E’ un tipo di setting quello di gruppo”, come sostiene Nathan, “al quale il migrante più facilmente si appoggia, in quanto in esso riconosce la propria cultura gruppale”.

Il gruppo inoltre apporta dei vantaggi ai terapeuti proteggendoli da emozioni intense che il contatto con l’alterità suscita.  Permette l’elaborazione del controtransfert e la sua trasformazione in strumento di conoscenza.

Se nel setting, sia esso individuale o gruppale, si riattivano le relazioni del pazienti, si può affermare come sostiene Bleger che, “nel caso dei migranti, nel setting gruppale, si riattivino i legami con le matrici culturali originarie”.

“Il dispositivo gruppale”, secondo Nathan, “consente il passaggio da un dialogo della coppia “paziente-terapeuta” ad un dialogo fra “gruppi sociali” (gruppo del paziente e gruppo del terapeuta)”.

Nel nostro setting di colloqui clinici all’interno del CSM (psichiatra, infermiere, psicologo e un assistente sociale) includiamo sempre il mediatore culturale e generalmente l’operatore dell’accoglienza.

Parliamo di un setting dunque che è interistituzionale, che mette insieme aspetti sociali, sanitari e culturali.

Riteniamo che la presenza dell’operatore dell’accoglienza nel setting possa svolgere diverse funzioni.

L’operatore può fungere da elemento di congiunzione fra sociale e sanitario; può favorire il racconto della storia del richiedente e aiutarlo ad esplicitare difficoltà nelle relazioni nel contesto di vita.

Abbiamo osservato che in alcuni casi la presenza dell’operatore ha invece ostacolato la libera espressione di vissuti del richiedente, questo soprattutto quando emergevano difficoltà nella relazione fra richiedente e operatore.

Il gruppo ha in questo caso funzionato anche come contenitore di aspetti tranferali e controtransferali generati nella trama di relazioni dentro i CAS e gli SPRAR.

La clinica con i migranti ci porta ad una riflessione su alcuni aspetti del setting (inquadramento): il tempo, lo spazio, i luoghi, il compito.

Il tempo del colloquio alla presenza del mediatore in genere si allunga, si raddoppia, si triplica.

E cosa pensiamo dei nostri luoghi?  Gli ambulatori di un CSM sono i luoghi più adatti per svolgere questa clinica di confine?

Ci siamo accorti di come anche il Compito dei servizi di Salute Mentale dovesse essere ridefinito in un lavoro di negoziazione con altre istituzioni e con altri sistemi.

Questa che segue è un’esperienza clinica che ci ha consentito di riformulare e sperimentare sul campo alcuni aspetti del setting e di rinegoziare la nostra funzione clinica.

Qualche mese fa alla nostra equipe clinica del Centro di Salute Mentale è arrivata, da parte di un CAS, una   richiesta di consultazione per un ragazzo che, nel momento di uscita dall’Accoglienza, manifestava un evidente disagio.

Ci siamo chiesti cosa succede a questo setting quando viene meno la cornice, quando per esempio una persona deve uscire dal suo CAS e non ha un posto dove andare a dormire.

E’ questo un momento in cui si interrompono legami e si lascia un contesto che è diventato familiare, si lasciano luoghi in cui si sono depositati sogni, speranze, bisogni e in cui si sono stabiliti rapporti umani.

Anche per gli operatori dell’Accoglienza accompagnare questo passaggio può essere difficile, soprattutto quando la persona che termina il suo percorso in un CAS non ha raggiunto una propria autonomia.  Il ragazzo per il quale eravamo stati consultati non aveva lavoro, né alcuna possibilità di autosostenersi ed era portatore di una vulnerabilità fisica oltre che psicologica.

Questo passaggio aveva generato in lui marcata sofferenza   e la preoccupazione di perdere anche il diritto di curarsi per i suoi problemi di salute.

Difficoltà nella gestione di questo passaggio erano emerse anche negli operatori.

La situazione che si stava delineando ci imponeva una riflessione sia sul nostro modo di fare clinica sia sul modo di utilizzare il setting.

Abbiamo dunque riformulato il nostro setting clinico di gruppo includendovi il ragazzo, la mediatrice culturale, gli operatori del CAS e gli operatori del dormitorio.

Abbiamo creato dunque   una equipe/gruppo di lavoro inter-istituzionale (3 istituzioni) che si riuniva nel dormitorio dove il ragazzo era stato inserito.

Ci siamo accorti di come la nostra funzione clinica andava rinegoziata su altri livelli di incontro.

E’ impossibile infatti lavorare sui bisogni psicologici se i bisogni materiali non sono soddisfatti (casa, cibo).

Né le storie con i loro contenuti culturali, i vissuti, le appartenenze, emergono al di fuori di un setting sicuro.

Ci siamo accorti che il disagio psicologico che emergeva (sintomi dissociativi, confusione, disorganizzazione), trovava nel gruppo il suo principale fattore terapeutico.

Il nuovo gruppo così composto si è fatto carico di garantire una coesione, di “tenere insieme i pezzi” di una identità che vacillava; ha funzionato da contenitore fisico e psichico dei bisogni psicologici e sociali.

Nel corso delle sedute la nuova equipe/gruppo ha creato una nuova operatività, un nuovo compito, riformulato sui nuovi bisogni del ragazzo.

Nel nuovo gruppo/equipe hanno trovato espressione aspetti transferali e controtransferali, che hanno potuto essere elaborati al fine di consentire la realizzazione di una nuova operatività.

Può succedere che, in questa fase (quella in cui la persona deve uscire dal CAS) un transfert positivo (del richiedente nei confronti dell’operatore) può diventare improvvisamente negativo (sentirsi espulsi da chi ci aveva accolti). Il richiedente può altrimenti depositare sull’operatore fantasie irrealistiche o salvifiche.

Supponiamo che l’operatore possa a sua volta provare vissuti di ambivalenza (deve rispondere al mandato istituzionale di mettere fuori una persona che non ha ancora raggiunto una autonomia).

Nel contesto del nuovo gruppo/equipe è stato possibile interpretare quanto stava accadendo in quella situazione (è difficile per voi operatori accompagnare questo passaggio) e, di conseguenza, ridurre l’ansia degli operatori del CAS e la loro fatica di sentirsi soli a sostenere il carico.

Nel gruppo/equipe si è osservata una resistenza iniziale che si opponeva all’operatività, dovuta al fatto che i componenti facevano riferimento alle loro isitituzioni di appartenenza e non riuscivano ad individuare un compito comune.

Nello svolgersi del processo gruppale il gruppo/equipe ha ridefinito un nuovo compito che aveva al centro i nuovi   bisogni del ragazzo.

Solo nel momento in cui il setting gruppale è diventato sicuro e il ragazzo ha iniziato a provare fiducia, i materiali culturali insieme ai vissuti e alla narrazione della soggettività hanno iniziato ad emergere.

Possiamo dire che abbiamo realizzato una diagnosi operativa (e non una diagnosi psichiatrica).

In quei giorni abbiamo lavorato oltre il nostro orario istituzionale, mantenendo, oltre agli incontri in gruppo con il ragazzo, una rete di sms, mail, telefonate con gli operatori del dormitorio.

Pensiamo che questa rete abbia restituito confine e continuità e abbia permesso al ragazzo di sentirsi “tenuto” e di “tenere” in questo passaggio. Ha inoltre contenuto le nostre ansie, quelle degli operatori del CAS e quelle degli operatori del dormitorio e ha trasformato le identità professionali di ciascuno.

Noi operatori dell’equipe di consultazione abbiamo sentito sulla pelle il rischio in cui scivola la Psichiatria: il rischio di psichiatrizzare il disagio sociale e psicologico; il rischio di agire secondo schemi che ci sono familiari in risposta all’ansia e all’incertezza.

Abbiamo sperimentato quanto sia importante mantenere, nel primo periodo dopo l’uscita dall’Accoglienza, una continuità di interventi e di operatori che accompagnino il richiedente verso il nuovo percorso.

Ora il ragazzo è in un’altra città e ha portato con sé la bicicletta che noi, tutti insieme nel nuovo gruppo/equipe, gli avevamo regalato. La stessa bicicletta   che, come una specie di oggetto transizionale, lo aveva accompagnato già nel passaggio dal CAS al dormitorio.

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Epistemologia convergente

Dom, 22/07/2018 - 14:17

di Leonardo Montecchi

In primo luogo che cosa intendiamo quando parliamo di metodo? La parola viene dal greco μέϑοδος ed è composta di due parti: Meta che significa andare verso, e Odus che significa cammino, si tratta dunque di una via verso una meta, questo senso viene ampliato  perché la parola greca si può tradurre come ricerca.

E qui arriviamo all’interrogativo di oggi:

qual è il metodo della ricerca con il nostro Schema di riferimento concettuale e operativo?

Discendiamo anche noi dalla frattura che Descartes ha introdotto nel pensiero antico assieme a Galilei e Newton, per questo parliamo di metodo scientifico ma con tutti i cambiamenti che sono intervenuti nelle scienze nel secolo scorso non è più possibile parlare di “metodo scientifico” ma di metodi scientifici. Le vie per la conoscenza certa: la ἐπιστήμη, come dicevano i greci, diventano molteplici, non c’è più solo un unica via da seguire per conoscere l’oggetto.

Dobbiamo a questo proposito soffermarci sulla scoperta della esistenza del campo. Sto parlando del campo come oggetto fisico scoperto prima da Faraday ampliato da Maxwell come campo elettromagnetico e poi da Einstein nella relatività generale.

Il campo, come oggetto fisico, complica la relazione di conoscenza tra soggetto ed oggetto, immette la reciprocità.

Kurt Lewin introducendo il concetto di campo in psicologia parla di un passaggio dal pensiero aristotelico a quello galileiano. Ci dice Bleger in “Psicologia della conducta” a proposito del campo psicologico

“se define un campo come el conjunto de elementos coexistentes e interactuantes en un momento dado (…) La relazione sujeto-medio no es, entonces,una simple relacion linear de causa a efecto, entre dos objectos distintos e separados, sino que ambos son integrantes de una sola estructura total (…)”

Queste considerazioni ci fanno uscire da una teoria della conoscenza ingenua per cui il soggetto conosce l’oggetto in una sorta di “immacolata percezione”; in realtà il processo di conoscenza avviene in un campo in cui il soggetto modifica l’oggetto e contemporaneamente l’oggetto modifica il soggetto. Ci dice Merleau Ponty in “Fenomenologia della percezione”, nel capitolo IV intitolato “Il campo fenomenico”:

“Non diremo più che la percezione è la scienza ai suoi albori, ma viceversa che la scienza classica è una percezione che dimentica le sue origini e si crede compiuta. Il primo atto filosofico consisterebbe quindi nel ritornare al mondo vissuto al di qua del mondo oggettivo”.

Anche i coniugi Baranger nel loro fondamentale lavoro “La situazione analitica come campo bipersonale”  affermano:

“la coppia analitica è un trio, in cui uno dei tre membri, fisicamente assente, è presente dal punto di vista del vissuto”.

Così arriviamo alla psicoanalisi che per Freud era una pluralità di metodi, cioè un metodo di cura, un metodo di conoscenza ed in terzo luogo una teoria della mente.

Il metodo di cura si è sviluppato dalla relazione medico-paziente, è passato attraverso l’ipnosi ed è approdato alla coppia libera associazione ed attenzione fluttuante. Ma il dispositivo che rende possibile il processo psicoanalitico è, come ci dice Bleger, un non-processo: l’inquadramento, cioè:

“…il ruolo del analista, l’insieme dei fattori relativi allo spazio (ambiente) e al tempo e parte degli aspetti della tecnica (che comprende la fissazione e il mantenimento degli orari, gli onorari, le interruzioni concordate ecc.)”

Il dispositivo del metodo di cura che dura per anni e viene mantenuto in base ad un insieme di norme e di attitudini “altro non è, per sua stessa definizione, che una istituzione”

Ora, questa istituzione della cura psicoanalitica ha prodotto una specifica teoria della mente: la metapsicologia.

Quella istituzione ha prodotto un altro dispositivo: l’Associazione Psicoanalitica internazionale, il gruppo degli analisti che custodivano il metodo di cura ortodosso e che potevano includere ed espellere chi effettuava cambiamenti non autorizzati del dispositivo di cura o introduceva concetti innovativi che potevano essere percepiti come eretici.

Forse per questo Karl Popper riteneva che la psicoanalisi non fosse una scienza, perché i suoi costrutti sembravano non poter essere sottoposti alla sperimentazione ma all’autorità di una istituzione.

Qui entra in campo l’aspetto del metodo psicoanalitico come metodo di ricerca e dunque l’applicazione della psicoanalisi in campi diversi da quello abituale degli adulti nevrotici ricevuti negli studi privati.

Abbiamo una serie importante di nuovi campi con la pedagogia, l’antropologia, la letteratura, i bambini, gli psicotici e istituzioni come cliniche ospedali, scuole, asili ecc., via via altre applicazioni che ampliano enormemente i dispositivi clinici.

Ma queste sperimentazioni entrarono spesso in conflitto con l’associazione psicoanalitica perché si ponevano come un aspetto istituente a fronte di regole istituite.

Negli anni fra le due guerre si sono intrecciati conflitti politici e teorici importanti che si possono riassumere in una spaccatura fra una destra e una sinistra psicoanalitica. La destra continuava con la libera professione e gli studi privati.

La sinistra pensava all’applicazione dei dispositivi psicoanalitici fuori dallo studio libero professionale, pensava alla prevenzione, ai temi sociali, agli asili, alle scuole, ai quartieri operai.

Questi differenti metodi hanno prodotto diversi concetti metapsicologici, dalla parte “destra” si cerca di teorizzare una esperienza “individuale”, come se non esistesse il concetto di campo e si potesse regredire ad una concatenazione lineare di causa ed effetto in cui un soggetto con una “area dell’io libera da conflitti” fin dalle origini (Hartmann) potesse sviluppare la propria affermazione sociale indipendentemente dal vincolo con l’altro.

L’altra concettualizzazione, al contrario, prevede che l’io non sia libero nel proprio modo di agire ma che dipenda dall’es e dal super-io. Cioè dal biologico e dal sociale. Per riprendere il Reich di “Materialismo dialettico e psicoanalisi” che aveva allargato il metodo psicoanalitico al sociale e al politico con il movimento sexpol.

Inoltre, come sappiamo, il metodo di cura applicato ai bambini da Melania Klein ed agli psicotici da Rosenfeld e da Bion ha modificato la metapsicologia introducendo le relazioni oggettuali e l’identificazione proiettiva. Tutte queste ricerche e nuove concettualizzazioni hanno generato conflitti nell’istituzione psicoanalitica. Nei primi anni 50, Jacques Lacan fonda la sua scuola che si presenta come l’introduzione della dialettica idealista nella psicoanalisi. La dialettica hegeliana lo porta ad una diversa concezione del soggetto.

Secondo Bauleo, Lacan ci dice che nella fase dello specchio il bambino “esce dalla realtà dell’io vissuto, per riferirsi a quell’io immaginario di cui l’immagine speculare è l’inizio”.

Seguirà la “dialettica dell’identificazione con l’Altro”.

Questi concetti entrano in conflitto con la metapsicologia freudiana “ortodossa”.

Nello stesso periodo Pichon Rivière, usa la dialettica materialista per applicare il metodo di cura psicoanalitico agli psicotici e, in seguito alla sua esperienza istituzionale nell’Ospedale Psichiatrico, sperimenta il dispositivo del gruppo operativo.  Ripensando a questi passaggi nel prologo de “Il processo gruppale” Pichon usa il concetto elaborato da Bachelard di ostacolo epistemologico, concetto fondamentale che rientra a pieno titolo nella nostra metapsicologia, cioè nel nostro ECRO.

L’ostacolo, per lui, consisterebbe nella nozione di istinto e di narcisismo primario a cui contrappone il concetto di vincolo come “un protoapprendimento, come il veicolo delle prime esperienze sociali che costituiscono il soggetto come tale”.

Si tratta sicuramente di un cambiamento di paradigma di cui parla Thomas Khun, che si precisa meglio con l’applicazione del metodo clinico e del dispositivo psicoanalitico all’istituzione totale in un momento di emergenza, quando:

“si rese necessario formare, con un gruppo di pazienti, una equipe di infermieri per il Servizio”.

Pichon sente la necessità di una rottura epistemologica, come dice Althusser di Marx, cioè elabora dei concetti che rendono conto di una prassi differente da quella della applicazione del “pensiero psicoanalitico ortodosso”.

Il metodo di ricerca, in questo caso lo porta ad ipotizzare un “oggetto astratto” che poi elaborerà in seguito con Bauleo. Si tratta del compito. Peirce avrebbe parlato di una abduzione, ma si può parlare anche di una operazione dada per Pichon che conosceva Tzara, un ready-Made concettuale.

Un emergente dell’epistemologia convergente.

Ora, per riprendere un lavoro di René Kaes, il compito, che non cita quando parla delle sue differenze con Pichon, appartiene ad una metapsicologia che Kaes chiama di terzo tipo e che si riferisce alle applicazioni dei metodi analitici alle coppie, alle famiglie e ai gruppi. Non considera le istituzioni.

Bauleo aveva già ampliato lo schema concettuale e operativo, la nostra metapsicologia, e nella prefazione all’edizione italiana de “Il processo gruppale” dice:

“Il compito (o finalità) del gruppo sarà l’elemento chiave nella problematica della situazione gruppale; ora da me concepita come un vertice della triangolazione (compito-coordinazione-struttura gruppale)”

Ma il nostro Schema concettuale di riferimento e operativo l’ECRO, si è esteso in questo tempo grazie ad altre e numerose prassi. Sicuramente dobbiamo includere quella che Bauleo e De Brasi chiamavano “clinica istituzionale”, che si caratterizza per un dispositivo specifico e cioè l’assemblea generale. È un dispositivo particolarmente concettualizzata dagli analisti istituzionali come Georges Lapassade, ma che è stato ed è un dispositivo applicato anche nei processi di deistituzionalizzazione a partire dalla esperienza di Franco Basaglia a Gorizia. E dal movimento del ‘68.

Ora si sta sperimentando il dispositivo multifamigliare in diversi ambiti. Molti di noi organizzano dispositivi per pensare attraverso la differenza di genere. Altri elaborano dispositivi etnopsicanalitici con i migranti.

Sono convinto che le nostre ricerche costruiscano un arricchimento del nostro ECRO in un nuovo giro di spirale che ci porterà ad ipotizzare una metapsicologia del quarto tipo in grado di dialogare con le varie scuole psicoanalitiche per superare le scomuniche ed affermare attraverso pluralità di metodi la necessità della ricerca.

In questo siamo aiutati dal concetto di compito nel suo aspetto manifesto e latente che si articola in pre-compito, compito e progetto e descrive il funzionamento di un apparato psichico che si articola in situazioni e campi diversi e si dispone su ambiti che circoscrivono spazi specifici. Quello individuale o psicosociale, il gruppo interno, quello gruppale famigliare, il gruppo esterno o sociodinamico, quello istituzionale, quello comunitario e quello globale.

In ciascuno di questi ambiti organizziamo dispositivi analitici, di cura e di ricerca e da qui stiamo traendo nuovi oggetti per la teoria.

 L’epistemologia convergente significa dunque fare convergere sul compito diversi apporti di diverse discipline e di diverse esperienze e vissuti.

Sono convinto che l’epistemologia convergente sia indispensabile per affrontare la complessità senza riduzionismi e banalizzazioni.

Possiamo fare nostra l’affermazione di Edgar Morin che ne “Il metodo” dice:

“Il cerchio sarà la nostra ruota, la nostra strada sarà a spirale”

Non si può praticarla se non si effettua la rottura epistemologica con l’individualismo ed il narcisismo che alimentano un clima di lavoro caratterizzato da una ideologia gerarchica in cui il rappresentante di una disciplina cerca di prevalere sull’altra. Quando avviene questo si è perso di vista il compito.

La rottura implica la necessità della prassi perché è nella prassi che possono ricombinarsi i diversi saperi e costruire uno schema concettuale ed operativo specifico per quella situazione.

Dice Paul Feyerabend:

“L’idea di un metodo che contenga principi fermi, immutabili e assolutamente vincolanti come guida nell’attività scientifica si imbatte in difficoltà considerevoli (…) (le scoperte più importanti) si verificarono solo perché alcuni pensatori o decisero di non lasciarsi vincolare da certe norme metodologiche ovvie o perché involontariamente le violarono”

Per concludere voglio descrivere brevemente una esperienza che stiamo facendo a Rimini nel servizio per le dipendenze patologiche.

Da qualche anno si riunisce ogni mese un gruppo interdisciplinare che ha il compito di costruire la clinica della complessità. Che cosa significa?

Ci siamo resi conto che esiste una molteplicità di casi che transitano in diversi campi dal ricovero nel reparto ospedaliero di diagnosi e cura, al centro di salute mentale, al servizio ambulatoriale delle dipendenze patologiche, alle varie comunità terapeutiche del territorio e così via.

Agli incontri partecipano medici, infermieri, educatori, assistenti sociali, psicologi, psichiatri, psicoterapeuti provenienti da diversi servizi pubblici e del privato sociale, come comunità terapeutiche, centri diurni, gruppi appartamento, educatori di strada, con lo stesso diritto alla presa di parola. Vengono presentati a turno i casi nella prima ora, poi si discute in un tempo fuori dall’urgenza, apportando informazioni o formulando ipotesi per capire meglio ed applicare i diversi saperi e per assumere decisioni concrete.

In questo lavoro diviene evidente l’ostacolo epistemologico quando, ad esempio, le diverse manifestazioni di un essere umano sono ricondotte ad una qualche diagnosi psichiatrica che pretende di spiegarle tutte, oppure ad una visione medico-biologica o pedagogica o sociale e così via. L’ostacolo è dato anche dalla visione parziale di una situazione, ad esempio in un servizio ospedaliero o in un altro segmento del dispositivo terapeutico, che viene generalizzata come “la verità” sul caso.

Emerge in questo, come in tutti i gruppi operativi, lo specifico criterio di verità.

Significa che non si può imporre una visione ma cercare un accordo che passa attraverso la comprensione del compito comune. Così i concetti sorgono come effetto della ricombinazione di diversi saperi applicati in un campo determinato.

L’ostacolo epistemologico si colloca nel pre-compito e si caratterizza per la prevalenza degli aspetti istituzionali. E come se gli integranti non avessero coscienza di trovarsi in un campo nuovo, la parte della loro personalità legata all’istituzione di appartenenza li fa vivere nella falsa coscienza. È in questa situazione che, come ci dicono Pichon Riviere e Bauleo, “appare il ‘come se’ o l’impostura del compito. Si fa ‘come se’ si affrontasse il lavoro specifico (o il comportamento richiesto)”.

Fu una ricerca del dipartimento del gruppo operativo del CIR a dimostrare che il passaggio da pre-compito a compito era ostacolato dalle appartenenze istituzionali.

Ecco, l’epistemologia convergente permette di usare gli strumenti derivati dalle più diverse discipline per applicarli al lavoro sul compito nel campo concreto quando si rompe la dissociazione e la ripetizione stereotipata e si “rende cosciente ciò che è inconscio” ed in questi passaggi sta l’aspetto produttivo del gruppo, la sua possibilità di creare concetti specifici per quel campo e quella situazione ma che possono circolare alimentando la spirale del nostro ECRO, come succederà in queste giornate.

Quale sia il metodo, cioè il cammino dell’epistemologia convergente ce lo dicono i versi di Machado:

“caminante no hay camino,

se hace camino al andar”

Adelante companeros.

 

Madrid 26 aprile 2018

Bibliografia

Enrique Pichon Rivière, “Il processo gruppale”, Lauretana

Willy e Madeleine Baranger, “La situazione analitica come campo bipersonale”, Raffaello Cortina

José Bleger, “Psicologia della conducta”, Paidos

“Simbiosi e ambiguità”, Lauretana

Armando Bauleo, “Ideologia, gruppo e famiglia”, Feltrinelli

Paul Feyerabend, “Contro il metodo”, Feltrinelli

Edgar Morin, “Il metodo, la natura della natura”, Raffaello Cortina

Maurice Merleau-Ponty, “Fenomenologia della percezione”, Bompiani

René Kaes, “La metapsychologie aujourdhui et l’exstension de la psychanalyse”, Conferenza a Bologna di “Psicoterapia e scienze umane”, 14/4/2018

 “A proposito del gruppo interno, del gruppo, del soggetto, del legame e del portavoce nell’opera di Pichon Riviere”, Interazioni 1/7/1996

Thomas Khun, “La struttura delle rivoluzioni scientifiche”, Einaudi

Karl Popper, “Logica della scoperta scientifica”, Einaudi

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