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Grassi Benaglia Moretti avvocati e commercialisti

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Aggiornato: 4 giorni 17 ore fa

Le pensioni ricevute da San Marino non vanno dichiarate in Italia.

Ven, 20/09/2024 - 08:48
Le pensioni che lo stato di San Marino eroga a favore di cittadini italiani devono essere tassate solo nello Stato estero e non anche in Italia, in forza di quanto stabilito dall’art. 18 del Trattato contro le doppie imposizioni sottoscritto dai due Stati. E’ in sintesi questa la conclusione a cui perviene la sentenza n. 145/2024 della Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado emessa il 24 luglio 2024 e depositata il 27 agosto 2024. Il caso trattato dai giudici riminesi prende spunto dal fatto che l’Agenzia delle Entrate non ha riconosciuto il credito per imposte pagate all’estero a un contribuente italiano che riceve una pensione da San Marino. Il motivo della rettifica si fonda sulla diversa interpretazione che il Fisco dà del contenuto dell’art. 18 del trattato contro le doppie imposizioni tra Italia e San Marino.  Per capire il motivo della diatriba, che ha natura sostanzialmente di interpretazione del diritto, occorre preliminarmente analizzare quanto riportato nel suddetto Trattato. Nel comma 1 si legge che le pensioni pagate a un residente di uno Stato contraente sono imponibili soltanto in questo Stato. Ciò significa che un cittadino italiano versa le imposte solo in Italia per le pensioni ricevute da San Marino. Tuttavia questa disposizione viene derogata nel successivo comma 3 nel quale si legge che “le pensioni e altri pagamenti analoghi ricevuti nell’ambito della legislazione di sicurezza sociale di uno Stato contraente sono imponibili soltanto in detto Stato”. In soldoni: se un cittadino italiano riceve da San Marino una pensione che rientra nel concetto di “sicurezza sociale”, paga le tasse solo a San Marino. Il fulcro della diatriba, dunque, verte principalmente sulla corretta interpretazione del concetto di “pensione nell’ambito della legislazione di sicurezza sociale”. L’Ufficio interpreta tale locuzione in modo restrittivo, facendo rientrare nella categoria della “sicurezza sociale” solo le pensioni di invalidità, quelle non erogate in forza di contributi versati o quelle sociali. Di diverso parere è, però, il Giudice di Primo Grado. Il fondamento del suo giudizio contrario trae spunto innanzitutto dalla sentenza della Corte di Cassazione numero 23001 del 12 novembre 2010 per la quale il termine di “sicurezza sociale”  non ha solo il significato di pura assistenza sociale (come possono essere le pensioni di invalidità) ma anche quello più ampio di assistenza previdenziale. E’ indubbio, secondo la citata sentenza di Cassazione, che le prestazioni previdenziali in generale sono quello strumento con il quale lo Stato assicura i propri cittadini dai rischi derivanti dal rapporto di lavoro, come ad esempio la copertura in caso di malattia, infortunio o morte.  In questo ambito, dunque, rientrano anche i pagamenti delle pensioni di anzianità, in quanto la loro finalità è proprio quello della sicurezza sociale, essendo le stesse pensioni legate, tra l’altro, al versamento dei contributi durante l’arco di attività lavorativa. In tal senso, poi, ci sono anche le sentenze della Cassazione numero 1550/2012, 7969/2014 e più recentemente la n. 11035/2021. Come se non bastasse l’argomentazione svolta sulla base dei richiami alle sentenze di legittimità, la Corte di Giustizia cita anche il Commentario all’art. 18 del Modello Ocse, laddove si dice che con l’espressione di “sicurezza sociale” ci si riferisce a “un sistema di protezione obbligatoria istituita da uno Stato con l’obiettivo di garantire ai propri cittadini un livello minimo di reddito o di benefici pensionistici o ridurre l’impatto finanziario di eventi quali disoccupazione, invalidità, malattia o morte”. Per la Corte di Primo Grado, in conclusione, la pensione diretta erogata dallo Stato di San Marino per aver svolto lì una attività di lavoro dipendente deve scontare le imposte esclusivamente nella Repubblica di San Marino e non in Italia.  

 

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Tassazione per enunciazione: imposta di registro fissa se l’atto in cui è contenuta la disposizione è soggetto o esente Iva

Mer, 28/08/2024 - 11:53
La tassazione per enunciazione, contenuta nell’art. 22 del d.p.r. 131/86 (Testo Unico dell’Imposta di Registro), prevede che, qualora in un atto siano riportate disposizioni contenute in altri atti scritti o verbali non registrati, quest’ultime devono scontare l’imposta di registro. L’unica condizione è che queste disposizioni enunciate ma non tassate siano poste in essere dagli stessi soggetti che partecipano all’atto principale in cui queste enunciazioni sono riportate. Sul tema è intervenuta recentemente la Cassazione Civile, sez. 5, con sentenza numero 23015/2024 nella quale vengono ribaditi due principi:
  • È sufficiente che l’atto sia enunciato per essere soggetto alla tassazione, non rilevando gli effetti che questo procura alle parti coinvolte;
  • Se la disposizione annunciata sconta l’Iva, ancorchè esente ai sensi dell’art. 10 del DPR 633/72, per il principio di alternatività Iva/imposta di registro, quest’ultima si applica in misura fissa.
Il caso. Il caso trattato dagli Ermellini con la sentenza in commento riguarda un verbale di assemblea dei soci di una società contenente una delibera di aumento di capitale. L’aumento viene liberato con il conferimento di un ramo aziendale, da parte di un socio, e con un conferimento di un credito finanziario da parte dell’altro socio. A seguito del conferimento di un ramo aziendale si è resa necessaria la perizia di stima, che è stata allegata al verbale di assemblea. Nella suddetta perizia di stima sono contenuti, a sua volta, due ulteriori allegati riportanti: il primo un mutuo fruttifero dell’importo di euro 14.839.205,96 e il secondo un prestito infruttifero di euro 7.898.293,53. Entrambi i rapporti sono intercorsi fra gli stessi soggetti che hanno partecipato alla delibera di aumento di capitale. L’Agenzia delle Entrate ha emesso l’avviso di accertamento richiedendo il pagamento dell’imposta di registro proporzionale per entrambi gli atti, in aderenza alla già citata tassazione per enunciazione di cui all’art. 22 del Dpr 131/1986. La Commissione tributaria provinciale, in prima battuta, ha riconosciuto le ragioni del contribuente rigettando la richiesta dell’Ufficio. In secondo grado, invece, la Commissione tributaria regionale ha ribaltato l’esito, ritenendo corretto l’operato dell’Agenzia delle Entrate. La decisione. La Corte di Cassazione, con un’articolata decisione, riconosce solo in parte le ragioni del contribuente. In merito alla tassazione per enunciazione nulla rileva, secondo gli Ermellini, il contenuto della disposizione o gli effetti che ne conseguono ai soggetti che partecipano all’atto principale. E’ sufficiente, infatti, che nell’atto oggetto di tassazione per enunciazione siano presenti i soggetti che hanno partecipato all’atto (in tal senso Cassazione, 3841/2023). In ragione di questo, dunque, l’aver riportato due allegati all’interno della perizia di stima nei quali si enunciano un mutuo fruttifero e un prestito fruttifero, legittima l’Agenzia delle Entrate a richiedere l’imposta di registro per il principio dell’enunciazione. Ciò che diverge, però, rispetto alla richiesta del Fisco è la misura dell’imposta da applicare. La Corte osserva che il mutuo fruttifero è esente Iva ai sensi dell’art. 10 n.1 del D.p.r. 633/72. In ragione del principio di alternatività Iva/imposta di registro, gli atti esentati scontano comunque teoricamente l’Iva e, di conseguenza, sono sottoposti a registrazione in caso d’uso con l’applicazione dell’imposta di registro in misura fissa. Pertanto viene ridotto, in questo caso, l’importo richiesto dall’Agenzia dell’Entrate che, al contrario, ha applicato l’imposta in misura proporzionale. Analogo ragionamento, invece, non si può fare per il prestito infruttifero, in quanto non è una disposizione onerosa e, di conseguenza, non rientra all’interno della disciplina di applicazione dell’Iva. Di fatto è una operazione fuori campo Iva. In questo caso, quindi, l’imposta di registro da applicare è quella proporzionale.

 

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Tassazione per enunciazione: imposta di registro fissa se l’atto in cui è contenuta la disposizione è soggetto o esente Iva

Mer, 28/08/2024 - 11:53
La tassazione per enunciazione, contenuta nell’art. 22 del d.p.r. 131/86 (Testo Unico dell’Imposta di Registro), prevede che, qualora in un atto siano riportate disposizioni contenute in altri atti scritti o verbali non registrati, quest’ultime devono scontare l’imposta di registro. L’unica condizione è che queste disposizioni enunciate ma non tassate siano poste in essere dagli stessi soggetti che partecipano all’atto principale in cui queste enunciazioni sono riportate. Sul tema è intervenuta recentemente la Cassazione Civile, sez. 5, con sentenza numero 23015/2024 nella quale vengono ribaditi due principi:
  • È sufficiente che l’atto sia enunciato per essere soggetto alla tassazione, non rilevando gli effetti che questo procura alle parti coinvolte;
  • Se la disposizione annunciata sconta l’Iva, ancorchè esente ai sensi dell’art. 10 del DPR 633/72, per il principio di alternatività Iva/imposta di registro, quest’ultima si applica in misura fissa.
Il caso. Il caso trattato dagli Ermellini con la sentenza in commento riguarda un verbale di assemblea dei soci di una società contenente una delibera di aumento di capitale. L’aumento viene liberato con il conferimento di un ramo aziendale, da parte di un socio, e con un conferimento di un credito finanziario da parte dell’altro socio. A seguito del conferimento di un ramo aziendale si è resa necessaria la perizia di stima, che è stata allegata al verbale di assemblea. Nella suddetta perizia di stima sono contenuti, a sua volta, due ulteriori allegati riportanti: il primo un mutuo fruttifero dell’importo di euro 14.839.205,96 e il secondo un prestito infruttifero di euro 7.898.293,53. Entrambi i rapporti sono intercorsi fra gli stessi soggetti che hanno partecipato alla delibera di aumento di capitale. L’Agenzia delle Entrate ha emesso l’avviso di accertamento richiedendo il pagamento dell’imposta di registro proporzionale per entrambi gli atti, in aderenza alla già citata tassazione per enunciazione di cui all’art. 22 del Dpr 131/1986. La Commissione tributaria provinciale, in prima battuta, ha riconosciuto le ragioni del contribuente rigettando la richiesta dell’Ufficio. In secondo grado, invece, la Commissione tributaria regionale ha ribaltato l’esito, ritenendo corretto l’operato dell’Agenzia delle Entrate. La decisione. La Corte di Cassazione, con un’articolata decisione, riconosce solo in parte le ragioni del contribuente. In merito alla tassazione per enunciazione nulla rileva, secondo gli Ermellini, il contenuto della disposizione o gli effetti che ne conseguono ai soggetti che partecipano all’atto principale. E’ sufficiente, infatti, che nell’atto oggetto di tassazione per enunciazione siano presenti i soggetti che hanno partecipato all’atto (in tal senso Cassazione, 3841/2023). In ragione di questo, dunque, l’aver riportato due allegati all’interno della perizia di stima nei quali si enunciano un mutuo fruttifero e un prestito fruttifero, legittima l’Agenzia delle Entrate a richiedere l’imposta di registro per il principio dell’enunciazione. Ciò che diverge, però, rispetto alla richiesta del Fisco è la misura dell’imposta da applicare. La Corte osserva che il mutuo fruttifero è esente Iva ai sensi dell’art. 10 n.1 del D.p.r. 633/72. In ragione del principio di alternatività Iva/imposta di registro, gli atti esentati scontano comunque teoricamente l’Iva e, di conseguenza, sono sottoposti a registrazione in caso d’uso con l’applicazione dell’imposta di registro in misura fissa. Pertanto viene ridotto, in questo caso, l’importo richiesto dall’Agenzia dell’Entrate che, al contrario, ha applicato l’imposta in misura proporzionale. Analogo ragionamento, invece, non si può fare per il prestito infruttifero, in quanto non è una disposizione onerosa e, di conseguenza, non rientra all’interno della disciplina di applicazione dell’Iva. Di fatto è una operazione fuori campo Iva. In questo caso, quindi, l’imposta di registro da applicare è quella proporzionale.

 

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Contributi a fondo perduto della Regione Marche per le nuove imprese create da disoccupati.

Gio, 08/08/2024 - 22:44
Incentivare la nascita di nuove imprese all’interno del proprio territorio e contemporaneamente favorire l’autoimprenditorialità delle persone disoccupate: con questa finalità la Regione Marche, con avviso pubblico pubblicato sul Bur del 31 luglio 2024,  ha previsto la concessione di un contributo a fondo perduto di 20.000 euro a favore di disoccupati che intendono creare una nuova impresa. Il contributo concesso è forfettario: non necessita, quindi, presentare un piano di spesa dettagliato, ma verrà concesso sulla base dell’idea progettuale presentata, valutata secondo alcuni criteri specifici. I requisiti per accedere a questa agevolazione sono:
  • essere disoccupati da almeno sei mesi e avere sottoscritto un Patto di Servizio con uno dei centri dell’impiego;
  • avere la residenza nelle Marche;
  • avere un’età compresa fra i 18 e i 65 anni.
Le imprese beneficiarie per accedere al contributo dovranno possedere i seguenti requisiti:
  • essere costituite successivamente alla pubblicazione dell’avviso pubblico e dopo la presentazione della domanda di contributo. La domanda, quindi, deve essere presentata con l’impresa ancora non costituita;
  • essere iscritte alla Camera di Commercio;
  • avere una posizione INPS aperta
  • avere presentato la Comunicazione di inizio attività;
  • avere la sede o una unità locale all’interno del territorio della Regione Marche
  • avere come soci esclusivamente persone fisiche. La maggioranza di questi deve essere costituita dal soggetto che ha presentato la domanda;
  • Essere micro o pmi ai sensi della disciplina vigente
Possono accedere al contributo a fondo perduto anche gli studi professionali, purchè rispettino i seguenti requisiti:
  • avere aperto la partita iva successivamente alla pubblicazione del bando e dopo la presentazione della domanda di contributo;
  • avere la sede operativa nella Regione Marche;
  • essere costituiti esclusivamente da persone fisiche.
La domanda, in via telematica, dovrà essere presentata all’interno di due finestre temporali ben precise:
  • La prima si aprirà il 10.09.2024 e terminerà il 31.10.2024;
  • La seconda si aprirà il 10.09.2025 e terminerà il 31.10.2025.
Le domande saranno valutate tenendo presente la Qualità del progetto presentato (che peserà per il 40%) e l’Efficacia potenziale. All’interno della Qualità, si terrà conto sia del grado di affidabilità del progetto sia della qualità dell’imprese proponente. All’interno dell’Efficacia potenziale si terrà conto dell’anzianità dell’inoccupazione dei proponenti, della localizzazione e della tipologia dei soggetti destinatari. Notizie ImpreseOggi
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Contributi a fondo perduto della Regione Marche per le nuove imprese create da disoccupati.

Gio, 08/08/2024 - 22:44
Incentivare la nascita di nuove imprese all’interno del proprio territorio e contemporaneamente favorire l’autoimprenditorialità delle persone disoccupate: con questa finalità la Regione Marche, con avviso pubblico pubblicato sul Bur del 31 luglio 2024,  ha previsto la concessione di un contributo a fondo perduto di 20.000 euro a favore di disoccupati che intendono creare una nuova impresa. Il contributo concesso è forfettario: non necessita, quindi, presentare un piano di spesa dettagliato, ma verrà concesso sulla base dell’idea progettuale presentata, valutata secondo alcuni criteri specifici. I requisiti per accedere a questa agevolazione sono:
  • essere disoccupati da almeno sei mesi e avere sottoscritto un Patto di Servizio con uno dei centri dell’impiego;
  • avere la residenza nelle Marche;
  • avere un’età compresa fra i 18 e i 65 anni.
Le imprese beneficiarie per accedere al contributo dovranno possedere i seguenti requisiti:
  • essere costituite successivamente alla pubblicazione dell’avviso pubblico e dopo la presentazione della domanda di contributo. La domanda, quindi, deve essere presentata con l’impresa ancora non costituita;
  • essere iscritte alla Camera di Commercio;
  • avere una posizione INPS aperta
  • avere presentato la Comunicazione di inizio attività;
  • avere la sede o una unità locale all’interno del territorio della Regione Marche
  • avere come soci esclusivamente persone fisiche. La maggioranza di questi deve essere costituita dal soggetto che ha presentato la domanda;
  • Essere micro o pmi ai sensi della disciplina vigente
Possono accedere al contributo a fondo perduto anche gli studi professionali, purchè rispettino i seguenti requisiti:
  • avere aperto la partita iva successivamente alla pubblicazione del bando e dopo la presentazione della domanda di contributo;
  • avere la sede operativa nella Regione Marche;
  • essere costituiti esclusivamente da persone fisiche.
La domanda, in via telematica, dovrà essere presentata all’interno di due finestre temporali ben precise:
  • La prima si aprirà il 10.09.2024 e terminerà il 31.10.2024;
  • La seconda si aprirà il 10.09.2025 e terminerà il 31.10.2025.
Le domande saranno valutate tenendo presente la Qualità del progetto presentato (che peserà per il 40%) e l’Efficacia potenziale. All’interno della Qualità, si terrà conto sia del grado di affidabilità del progetto sia della qualità dell’imprese proponente. All’interno dell’Efficacia potenziale si terrà conto dell’anzianità dell’inoccupazione dei proponenti, della localizzazione e della tipologia dei soggetti destinatari. Notizie ImpreseOggi
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La proroga dei versamenti si è dimenticata della sanatoria del magazzino.

Ven, 02/08/2024 - 11:24
Passato il 31 di luglio, primo giro di boa della stagione dei versamenti dichiarativi anno di imposta 2023, qualcuno si è accorto, compreso chi scrive, che in alcuni software non vi è la possibilità di indicare la proroga del versamento della prima rata della sanatoria delle rimanenze, che rimane calendarizzata per il 01 luglio. La sanatoria sulle rimanenze di magazzino è prevista dai commi 78 – 85 della Legge di Stabilità 2023. Permette l’adeguamento, sia in aumento che in diminuzione, delle rimanenze di magazzino contabilizzate al 01 gennaio 2023 e si applica a tutte le imprese che non adottano i principi contabili internazionali nella redazione del bilancio di esercizio. L’imposta la rivalutazione è pari al 18% del valore adeguato. Nel caso di diminuzione delle rimanenze contabilizzate al 01 gennaio è dovuta anche l’Iva, con un meccanismo di calcolo che solo il 24 giugno 2024 il Ministero ha reso pubblico. Per avere efficacia, l’adeguamento deve essere indicato nella dichiarazione dei redditi riferita all’anno di imposta 2023. L’eventuale omesso versamento dell’imposta sostitutiva non inficia la possibilità di utilizzare il valore adeguato delle rimanenze, ma rileva solamente ai fini dell’iscrizione a ruolo delle somme dovute. Per spiegare il perché la proroga vale anche per il versamento della prima rata della sanatoria, occorre partire dal dato letterario dell’articolo 37 del D. Lgs. 13/2024. La norma si limita a disporre il rinvio dei versamenti “risultanti dalle dichiarazioni dei redditi e da quelle in materia di imposta regionale sulle attività produttive e di imposta sul valore aggiunto” per i soggetti che esercitano attività per i quali sono approvati gli Isa. Non si menziona il versamento dell’imposta sostitutiva. Tuttavia, tale dimenticanza può apparire solo come un piccolo peccato veniale piuttosto che una precisa volontà del Legislatore. La risposta la si trova nel combinato disposto fra l’articolo 37 appena citato e il comma 82 della Legge di Stabilità laddove è previsto che le imposte sostitutive dovute “sono versate in due rate di pari importo, di cui la prima con scadenza entro il termine previsto per il versamento a saldo delle imposte sui redditi” relative al periodo d'imposta 2023 mentre la seconda “entro il termine di versamento della seconda o unica rata dell'acconto delle imposte sui redditi relativa al periodo d'imposta successivo”. La Legge di Stabilità non fa menzione di una scadenza specifica ma rimanda, attraverso una locuzione generica, al termine di versamento delle imposte sui redditi. Di conseguenza, quindi, la proroga del versamento, se non per espressa previsione di legge, avviene di fatto in quanto legata a un altro termine di versamento oggetto di rinvio esplicito. Tale interpretazione è coerente anche con quanto previsto dalle norme relative al versamento del diritto annuale della Camera di Commercio. In questo caso il versamento, ai sensi dell’articolo 8, comma 2, d.m. 11 maggio 2001 n. 359, deve essere fatto entro il termine previsto per il pagamento del primo acconto delle imposte sui redditi. La proroga dell’articolo 37 del D. Lgs. 13/2024, non indica anche quella del diritto camerale. E’ pacificamente accettato, soprattutto perchè mai contestato, che il differimento del termine del versamento delle imposte sui redditi porta con sé anche quello del diritto camerale, perché ad esso collegato per legge. Non si comprenderebbe, dunque, perché ciò non possa avvenire anche per le imposte sostitutive sull’adeguamento delle rimanenze di magazzino, anch’esse agganciate, per il versamento, al suddetto termine. Analisi e commenti ImpreseOggi
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La proroga dei versamenti si è dimenticata della sanatoria del magazzino.

Ven, 02/08/2024 - 11:24
Passato il 31 di luglio, primo giro di boa della stagione dei versamenti dichiarativi anno di imposta 2023, qualcuno si è accorto, compreso chi scrive, che in alcuni software non vi è la possibilità di indicare la proroga del versamento della prima rata della sanatoria delle rimanenze, che rimane calendarizzata per il 01 luglio. La sanatoria sulle rimanenze di magazzino è prevista dai commi 78 – 85 della Legge di Stabilità 2023. Permette l’adeguamento, sia in aumento che in diminuzione, delle rimanenze di magazzino contabilizzate al 01 gennaio 2023 e si applica a tutte le imprese che non adottano i principi contabili internazionali nella redazione del bilancio di esercizio. L’imposta la rivalutazione è pari al 18% del valore adeguato. Nel caso di diminuzione delle rimanenze contabilizzate al 01 gennaio è dovuta anche l’Iva, con un meccanismo di calcolo che solo il 24 giugno 2024 il Ministero ha reso pubblico. Per avere efficacia, l’adeguamento deve essere indicato nella dichiarazione dei redditi riferita all’anno di imposta 2023. L’eventuale omesso versamento dell’imposta sostitutiva non inficia la possibilità di utilizzare il valore adeguato delle rimanenze, ma rileva solamente ai fini dell’iscrizione a ruolo delle somme dovute. Per spiegare il perché la proroga vale anche per il versamento della prima rata della sanatoria, occorre partire dal dato letterario dell’articolo 37 del D. Lgs. 13/2024. La norma si limita a disporre il rinvio dei versamenti “risultanti dalle dichiarazioni dei redditi e da quelle in materia di imposta regionale sulle attività produttive e di imposta sul valore aggiunto” per i soggetti che esercitano attività per i quali sono approvati gli Isa. Non si menziona il versamento dell’imposta sostitutiva. Tuttavia, tale dimenticanza può apparire solo come un piccolo peccato veniale piuttosto che una precisa volontà del Legislatore. La risposta la si trova nel combinato disposto fra l’articolo 37 appena citato e il comma 82 della Legge di Stabilità laddove è previsto che le imposte sostitutive dovute “sono versate in due rate di pari importo, di cui la prima con scadenza entro il termine previsto per il versamento a saldo delle imposte sui redditi” relative al periodo d'imposta 2023 mentre la seconda “entro il termine di versamento della seconda o unica rata dell'acconto delle imposte sui redditi relativa al periodo d'imposta successivo”. La Legge di Stabilità non fa menzione di una scadenza specifica ma rimanda, attraverso una locuzione generica, al termine di versamento delle imposte sui redditi. Di conseguenza, quindi, la proroga del versamento, se non per espressa previsione di legge, avviene di fatto in quanto legata a un altro termine di versamento oggetto di rinvio esplicito. Tale interpretazione è coerente anche con quanto previsto dalle norme relative al versamento del diritto annuale della Camera di Commercio. In questo caso il versamento, ai sensi dell’articolo 8, comma 2, d.m. 11 maggio 2001 n. 359, deve essere fatto entro il termine previsto per il pagamento del primo acconto delle imposte sui redditi. La proroga dell’articolo 37 del D. Lgs. 13/2024, non indica anche quella del diritto camerale. E’ pacificamente accettato, soprattutto perchè mai contestato, che il differimento del termine del versamento delle imposte sui redditi porta con sé anche quello del diritto camerale, perché ad esso collegato per legge. Non si comprenderebbe, dunque, perché ciò non possa avvenire anche per le imposte sostitutive sull’adeguamento delle rimanenze di magazzino, anch’esse agganciate, per il versamento, al suddetto termine. Analisi e commenti ImpreseOggi
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Le quote consortili sono escluse dall’applicazione dell’Iva.

Gio, 01/08/2024 - 22:38
L’Agenzia delle Entrate, interpellata sulla questione del corretto trattamento Iva dei contributi consortili, ritiene che quest’ultimi non rientrino nell’ambito di applicazione dell’Iva ai sensi dell’articolo 3, comma 1, del D.p.r. 633/1972, purchè non siano parametrati alle prestazioni che i singoli consorziati ricevono dal Consorzio stesso. Cosi si è espressa nella risposta all'interpello 164 del 01 agosto 2024.  Il ragionamento che l'Ufficio svolge per arrivare a tale conclusione parte dalla lettura dell’art. 3 del Dpr 633/72, nella parte in cui al comma 1 è previsto che “costituiscono prestazioni di servizio le prestazioni verso corrispettivo dipendenti da contratti d’opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione, agenzia, mediazione, deposito e in genere da obbligazione di fare, di non fare e di permettere quale ne sia la fonte”. La Corte di Giustizia Ue, con le sentenze C-283/12 del 2013 e C-11/15 del 2016, ha stabilito che nel qualificare come a titolo oneroso una prestazione di servizio, è necessario verificare innanzitutto l’esistenza di un nesso causale fra la prestazione svolta e il corrispettivo ricevuto. Questo nesso esiste quando tra i due soggetti che partecipano allo scambio il corrispettivo concordato sia considerato come il controvalore per i servizi ricevuti. In sostanza vi deve essere un rapporto sinallagmatico fra versamento di denaro e prestazione eventualmente ricevuta dal Consorzio. Quando questo rapporto non esiste o non è ravvisabile, non siamo in presenza di una prestazione di servizio, e pertanto, la dazione di denaro al consorzio è da considerarsi fuori campo iva in quanto carente dei requisiti di cui all’art. 3 del D.p.r. 633/72. Infine, nella risposta in commento, l’Agenzia delle Entrate tiene a precisare che non è sufficiente fare riferimento alla definizione di quota consortile contenuta nello Statuto del Consorzio. Nella realtà, infatti, può succedere che queste vengano determinate sulla base delle prestazioni che i singoli consorziati ricevono durante il corso dell’anno. In tal caso, dunque, va applicata l’Iva ancorchè queste somme di denaro versate sia indicate genericamente come “quote consortili”. Tale osservazione trova riscontro anche nella risposta 361/2021, che a sua volta richiama la vecchia risoluzione n. 156/E del 1996. Notizie ImpreseOggi
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Le quote consortili sono escluse dall’applicazione dell’Iva.

Gio, 01/08/2024 - 22:38
L’Agenzia delle Entrate, interpellata sulla questione del corretto trattamento Iva dei contributi consortili, ritiene che quest’ultimi non rientrino nell’ambito di applicazione dell’Iva ai sensi dell’articolo 3, comma 1, del D.p.r. 633/1972, purchè non siano parametrati alle prestazioni che i singoli consorziati ricevono dal Consorzio stesso. Cosi si è espressa nella risposta all'interpello 164 del 01 agosto 2024.  Il ragionamento che l'Ufficio svolge per arrivare a tale conclusione parte dalla lettura dell’art. 3 del Dpr 633/72, nella parte in cui al comma 1 è previsto che “costituiscono prestazioni di servizio le prestazioni verso corrispettivo dipendenti da contratti d’opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione, agenzia, mediazione, deposito e in genere da obbligazione di fare, di non fare e di permettere quale ne sia la fonte”. La Corte di Giustizia Ue, con le sentenze C-283/12 del 2013 e C-11/15 del 2016, ha stabilito che nel qualificare come a titolo oneroso una prestazione di servizio, è necessario verificare innanzitutto l’esistenza di un nesso causale fra la prestazione svolta e il corrispettivo ricevuto. Questo nesso esiste quando tra i due soggetti che partecipano allo scambio il corrispettivo concordato sia considerato come il controvalore per i servizi ricevuti. In sostanza vi deve essere un rapporto sinallagmatico fra versamento di denaro e prestazione eventualmente ricevuta dal Consorzio. Quando questo rapporto non esiste o non è ravvisabile, non siamo in presenza di una prestazione di servizio, e pertanto, la dazione di denaro al consorzio è da considerarsi fuori campo iva in quanto carente dei requisiti di cui all’art. 3 del D.p.r. 633/72. Infine, nella risposta in commento, l’Agenzia delle Entrate tiene a precisare che non è sufficiente fare riferimento alla definizione di quota consortile contenuta nello Statuto del Consorzio. Nella realtà, infatti, può succedere che queste vengano determinate sulla base delle prestazioni che i singoli consorziati ricevono durante il corso dell’anno. In tal caso, dunque, va applicata l’Iva ancorchè queste somme di denaro versate sia indicate genericamente come “quote consortili”. Tale osservazione trova riscontro anche nella risposta 361/2021, che a sua volta richiama la vecchia risoluzione n. 156/E del 1996. Notizie ImpreseOggi
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Corte costituzionale: al convivente di fatto si applica la disciplina prevista per l’impresa familiare ex art. 230-bis del codice civile

Ven, 26/07/2024 - 00:19
Con sentenza n. 148/2024 del 04 luglio 2024 depositata il 25 luglio 2024 la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 230 bis terzo comma del Codice Civile nella parte in cui non prevede, riguardo alla disciplina dell’impresa familiare, che il convivente di fatto (o convivente more uxorio) sia equiparato a un familiare. Tale dichiarazione di incostituzionalità, poi, implica che deve essere altresì essere dichiarato incostituzionale l’intero articolo art. 230-ter del codice civile in quanto prevede una disciplina speciale e depotenziata del lavoro prestato dal convivente di fatto nell’impresa familiare. Con ordine. L’articolo 230 bis terzo comma considera come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo. Per “impresa familiare”, invece, si intende l’impresa nella quale collabora il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo. Dalla lettura, dunque, si ravvisa che il convivente di fatto (o convivente more uxorio) non può partecipare all’impresa familiare. Per lui è riservata una disciplina speciale contenuta nell’articolo 230-ter. Disciplina, però, che limita il diritto del convivente rispetto a quello del familiare: al primo, infatti, non spetta il diritto al mantenimento ma solo una partecipazione basata sui risultati economici dell’impresa in proporzione al lavoro prestato. In più per il convivente non è nemmeno previsto un diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria o di cessione dell’impresa; è escluso anche un diritto di partecipazione alle decisioni aziendali, che possono essere prese solo dal titolare o dai familiari che eventualmente collaborano con lui. Si ricorda, per completezza espositiva, che la legge 76/2016 all’articolo 1 comma 36 intende come conviventi di fatto “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità, adozione, da matrimonio o da unione civile”. In più, il comma 37, prevede che la stabile convivenza sia da determinare sulla base anche della residenza anagrafica dei due soggetti la quale, qualora coincida, indica chiaramente la stabilità del rapporto affettivo. Nel dichiarare l’incostituzionalità dei due riferimenti normativi in esame, la Corte Costituzionale si basa anche sul fatto che le convivenze di fatto sono un diffuso fenomeno sociale tanto da sopravanzare in numero i matrimoni tradizionali diventando di fatto un tipo di rapporto interpersonale comunemente accettato. In ragione di questa diffusione, i rapporti interpersonali basati sulle convivenze di fatto meritano una tutela al pari di quelli basati su matrimoni formalizzati. Di conseguenza la Consulta non può far altro che dichiarare incostituzionale una disciplina civilistica che riduce i diritti patrimoniali dei conviventi all’interno di una impresa familiare. Notizie ImpreseOggi
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Corte costituzionale: al convivente di fatto si applica la disciplina prevista per l’impresa familiare ex art. 230-bis del codice civile

Ven, 26/07/2024 - 00:19
Con sentenza n. 148/2024 del 04 luglio 2024 depositata il 25 luglio 2024 la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 230 bis terzo comma del Codice Civile nella parte in cui non prevede, riguardo alla disciplina dell’impresa familiare, che il convivente di fatto (o convivente more uxorio) sia equiparato a un familiare. Tale dichiarazione di incostituzionalità, poi, implica che deve essere altresì essere dichiarato incostituzionale l’intero articolo art. 230-ter del codice civile in quanto prevede una disciplina speciale e depotenziata del lavoro prestato dal convivente di fatto nell’impresa familiare. Con ordine. L’articolo 230 bis terzo comma considera come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo. Per “impresa familiare”, invece, si intende l’impresa nella quale collabora il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo. Dalla lettura, dunque, si ravvisa che il convivente di fatto (o convivente more uxorio) non può partecipare all’impresa familiare. Per lui è riservata una disciplina speciale contenuta nell’articolo 230-ter. Disciplina, però, che limita il diritto del convivente rispetto a quello del familiare: al primo, infatti, non spetta il diritto al mantenimento ma solo una partecipazione basata sui risultati economici dell’impresa in proporzione al lavoro prestato. In più per il convivente non è nemmeno previsto un diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria o di cessione dell’impresa; è escluso anche un diritto di partecipazione alle decisioni aziendali, che possono essere prese solo dal titolare o dai familiari che eventualmente collaborano con lui. Si ricorda, per completezza espositiva, che la legge 76/2016 all’articolo 1 comma 36 intende come conviventi di fatto “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità, adozione, da matrimonio o da unione civile”. In più, il comma 37, prevede che la stabile convivenza sia da determinare sulla base anche della residenza anagrafica dei due soggetti la quale, qualora coincida, indica chiaramente la stabilità del rapporto affettivo. Nel dichiarare l’incostituzionalità dei due riferimenti normativi in esame, la Corte Costituzionale si basa anche sul fatto che le convivenze di fatto sono un diffuso fenomeno sociale tanto da sopravanzare in numero i matrimoni tradizionali diventando di fatto un tipo di rapporto interpersonale comunemente accettato. In ragione di questa diffusione, i rapporti interpersonali basati sulle convivenze di fatto meritano una tutela al pari di quelli basati su matrimoni formalizzati. Di conseguenza la Consulta non può far altro che dichiarare incostituzionale una disciplina civilistica che riduce i diritti patrimoniali dei conviventi all’interno di una impresa familiare. Notizie ImpreseOggi
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L’esenzione Imu spetta alla Società Sportiva dilettantistiche purchè gli immobili esenti siano destinati ad attività prive di lucro.

Mar, 16/07/2024 - 22:57
Alle società sportive dilettantistiche spetta l’esenzione Imu purchè negli immobili esenti siano svolte attività senza fine di lucro. Lo stabilisce la Corte di Cassazione, con sentenza numero 17968/2024 del 15.03.2024, pubblicata il giorno 01.07.2024. Il caso trae origine da un avviso di accertamento emesso nel 2018 per l’Imu dovuta nel 2013 da una S.S.D, nel quale il Comune non ha ritenuto sussistere le condizioni soggettive ed oggettive necessarie a riconoscere l’esenzione Imu per le attività non commerciali. In particolare, per quanto riguarda il criterio soggettivo, per l’ente locale le Società Sportive Dilettantistiche non possono essere equiparate alle A.s.d. Nel caso di specie, poi, non si ravvisa nemmeno il criterio oggettivo, in quanto all’interno dell’immobile viene svolta una attività senza dubbio lucrativa. Per amor di cronaca, il caso in commento finisce con dare torto al contribuente ricorrente, riconoscendo le ragioni dell’ente impositore, in quanto non sussistente il criterio oggettivo. Tuttavia la sentenza offre una lettura ben precisa, al di là del caso contingente, della norma in materia di esenzione a favore di enti che svolgono attività sportiva dilettantistica. La Corte di Cassazione, prima di tutto, interviene sulla corretta interpretazione del criterio soggettivo, smentendo la tesi sostenuta dall’ente locale. Lo fa attraverso la lettura combinata dell’art. 7 lett. i del D. Lgs. 504/92 in materia di esenzione Ici (traslata, per effetto dei rinvii normativi, sull’Imu) e l’art. 90 della legge 289/02 in materia di società sportiva dilettantistica. In particolare quest’ultima prevede che le norme di natura tributaria riguardanti le associazioni sportive dilettantistiche si applicano anche alle società sportive dilettantistiche in forma di società di capitali, purchè queste escludano il lucro. Ulteriore condizione è che l’attività sportiva svolta da quest’ultime deve rientrare tra quelle riconosciute dal Coni e la società sia affiliata a un ente sportivo formalmente riconosciuto ai sensi dell’art. 90 della legge 289/02. Sotto il profilo oggettivo, invece, la Corte di Cassazione stabilisce che l’esenzione viene riconosciuta solo nel caso in cui l’immobile sia destinato allo svolgimento di attività non commerciali. Tale dimostrazione è a carico del contribuente ed è fondamentale anche la classificazione catastale dell’immobile stesso oggetto di esenzione. Nel caso in commento, ad esempio, quest’ultimo ha la categoria catastale D6, cioè impianti sportivi. La Cassazione osserva che questo tipo di destinazione può essere consona anche allo svolgimento di attività lucrative e, di conseguenza, in assenza di qualsiasi dimostrazione contraria, si presume che al suo interno la società ricorrente svolga una attività con scopo di lucro. Notizie ImpreseOggi
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L’esenzione Imu spetta alla Società Sportiva dilettantistiche purchè gli immobili esenti siano destinati ad attività prive di lucro.

Mar, 16/07/2024 - 22:57
Alle società sportive dilettantistiche spetta l’esenzione Imu purchè negli immobili esenti siano svolte attività senza fine di lucro. Lo stabilisce la Corte di Cassazione, con sentenza numero 17968/2024 del 15.03.2024, pubblicata il giorno 01.07.2024. Il caso trae origine da un avviso di accertamento emesso nel 2018 per l’Imu dovuta nel 2013 da una S.S.D, nel quale il Comune non ha ritenuto sussistere le condizioni soggettive ed oggettive necessarie a riconoscere l’esenzione Imu per le attività non commerciali. In particolare, per quanto riguarda il criterio soggettivo, per l’ente locale le Società Sportive Dilettantistiche non possono essere equiparate alle A.s.d. Nel caso di specie, poi, non si ravvisa nemmeno il criterio oggettivo, in quanto all’interno dell’immobile viene svolta una attività senza dubbio lucrativa. Per amor di cronaca, il caso in commento finisce con dare torto al contribuente ricorrente, riconoscendo le ragioni dell’ente impositore, in quanto non sussistente il criterio oggettivo. Tuttavia la sentenza offre una lettura ben precisa, al di là del caso contingente, della norma in materia di esenzione a favore di enti che svolgono attività sportiva dilettantistica. La Corte di Cassazione, prima di tutto, interviene sulla corretta interpretazione del criterio soggettivo, smentendo la tesi sostenuta dall’ente locale. Lo fa attraverso la lettura combinata dell’art. 7 lett. i del D. Lgs. 504/92 in materia di esenzione Ici (traslata, per effetto dei rinvii normativi, sull’Imu) e l’art. 90 della legge 289/02 in materia di società sportiva dilettantistica. In particolare quest’ultima prevede che le norme di natura tributaria riguardanti le associazioni sportive dilettantistiche si applicano anche alle società sportive dilettantistiche in forma di società di capitali, purchè queste escludano il lucro. Ulteriore condizione è che l’attività sportiva svolta da quest’ultime deve rientrare tra quelle riconosciute dal Coni e la società sia affiliata a un ente sportivo formalmente riconosciuto ai sensi dell’art. 90 della legge 289/02. Sotto il profilo oggettivo, invece, la Corte di Cassazione stabilisce che l’esenzione viene riconosciuta solo nel caso in cui l’immobile sia destinato allo svolgimento di attività non commerciali. Tale dimostrazione è a carico del contribuente ed è fondamentale anche la classificazione catastale dell’immobile stesso oggetto di esenzione. Nel caso in commento, ad esempio, quest’ultimo ha la categoria catastale D6, cioè impianti sportivi. La Cassazione osserva che questo tipo di destinazione può essere consona anche allo svolgimento di attività lucrative e, di conseguenza, in assenza di qualsiasi dimostrazione contraria, si presume che al suo interno la società ricorrente svolga una attività con scopo di lucro. Notizie ImpreseOggi
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Enti del terzo settore: imposta di registro, ipotecarie e catastali fisse anche in caso di acquisto immobiliare a rate.

Mar, 18/06/2024 - 23:02
Un Ente del terzo settore che acquista un bene immobile a rate può godere dell’agevolazione delle imposte di registro, ipotecaria e catastale in misura fissa, come previsto dall’art. 82, comma 4, del D. Lgs. 117/2017 (Codice del terzo settore). Lo stabilisce l’Agenzia delle Entrate con la risposta 135/2024 del 18 giugno 2024 fornita a seguito di un interpello presentato da una Aps, riguardante il caso di un acquisto immobiliare a rate, con patto di riservato di proprietà a favore del venditore. Si ricorda che, ai sensi dell’articolo 1523 del Codice Civile, in caso di vendita a rate con riserva di proprietà, l’acquirente diventa proprietario della cosa trasferita solo al momento del pagamento dell’ultima rata, pur acquisendo i rischi dal momento della sua consegna. L’agevolazione di cui all’art. 82, comma 4, del D. Lgs. 117/2017 stabilisce, invece, che un Ente del terzo settore può godere dell’applicazione dell’imposta di registro e ipotecaria – catastale in misura fissa quando l’immobile acquistato viene utilizzato direttamente per la realizzazione dei propri scopi istituzionali. Questo impegno, prevede la norma, deve essere reso esplicito nell’atto di acquisto e deve essere realizzato nei cinque anni dall’acquisto. L’Agenzia delle Entrate, nella risposta fornita al contribuente, sottolinea come l’articolo 27, comma 3, del Dpr 131/1986 (Testo unico dell’imposta di registro) prevede che le vendite con riserva di proprietà, come quella del caso in commento, non sono sottoposti a condizione sospensiva. Di conseguenza, sul piano fiscale, questi tipi di contratto sono parificati a tutti gli effetti alle vendite, a prescindere dal pagamento o meno dell’ultima rata. Sulla base di questa ricostruzione normativa, quindi, nulla osta affinchè gli Enti del Terzo Settore possano godere a tutti gli effetti, godere dell’agevolazione delle imposte ipotecarie, catastali e di registro anche in caso di acquisto con riserva di proprietà.   Se se un ente del terzo settore e vuoi una consulenza specifica, consulta la nostra pagina dedicata   Notizie ImpreseOggi
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Enti del terzo settore: imposta di registro, ipotecarie e catastali fisse anche in caso di acquisto immobiliare a rate.

Mar, 18/06/2024 - 23:02
Un Ente del terzo settore che acquista un bene immobile a rate può godere dell’agevolazione delle imposte di registro, ipotecaria e catastale in misura fissa, come previsto dall’art. 82, comma 4, del D. Lgs. 117/2017 (Codice del terzo settore). Lo stabilisce l’Agenzia delle Entrate con la risposta 135/2024 del 18 giugno 2024 fornita a seguito di un interpello presentato da una Aps, riguardante il caso di un acquisto immobiliare a rate, con patto di riservato di proprietà a favore del venditore. Si ricorda che, ai sensi dell’articolo 1523 del Codice Civile, in caso di vendita a rate con riserva di proprietà, l’acquirente diventa proprietario della cosa trasferita solo al momento del pagamento dell’ultima rata, pur acquisendo i rischi dal momento della sua consegna. L’agevolazione di cui all’art. 82, comma 4, del D. Lgs. 117/2017 stabilisce, invece, che un Ente del terzo settore può godere dell’applicazione dell’imposta di registro e ipotecaria – catastale in misura fissa quando l’immobile acquistato viene utilizzato direttamente per la realizzazione dei propri scopi istituzionali. Questo impegno, prevede la norma, deve essere reso esplicito nell’atto di acquisto e deve essere realizzato nei cinque anni dall’acquisto. L’Agenzia delle Entrate, nella risposta fornita al contribuente, sottolinea come l’articolo 27, comma 3, del Dpr 131/1986 (Testo unico dell’imposta di registro) prevede che le vendite con riserva di proprietà, come quella del caso in commento, non sono sottoposti a condizione sospensiva. Di conseguenza, sul piano fiscale, questi tipi di contratto sono parificati a tutti gli effetti alle vendite, a prescindere dal pagamento o meno dell’ultima rata. Sulla base di questa ricostruzione normativa, quindi, nulla osta affinchè gli Enti del Terzo Settore possano godere a tutti gli effetti, godere dell’agevolazione delle imposte ipotecarie, catastali e di registro anche in caso di acquisto con riserva di proprietà.   Se se un ente del terzo settore e vuoi una consulenza specifica, consulta la nostra pagina dedicata   Notizie ImpreseOggi
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Se si impugna tardivamente una cartella esattoriale, spetta al contribuente dimostrare quando questa è stata effettivamente notificata.

Dom, 09/06/2024 - 19:11
La Corte di Cassazione, con sentenza 15224 del 15 marzo 2024, formula un principio di diritto ben preciso da applicare ai casi di contestazioni sulla tempestività nella presentazione di un ricorso contro una cartella di pagamento. Il principio enunciato prevede che, in presenza di un ricorso tardivo, tocca al contribuente dimostrare il momento esatto in cui la cartella di pagamento è stata notificata, al fine di dare prova della tempestività della presentazione del suo ricorso. Il caso da cui trae origine questo principio è assai curioso. Il contribuente riceve, tra il febbraio 2015 e il marzo 2017, sette cartelle di pagamento, relative a imposte dirette, Irap, Iva e omessi versamenti di ritenute alla fonte. Presenta, per tutte e sette le cartelle, un unico ricorso nel febbraio 2018, cioè quasi un anno dopo rispetto all’ultima notifica ricevuta, e quasi tre anni dopo la data di notifica della prima cartella di pagamento. Nei motivi di ricorso si chiede la nullità delle cartelle per una serie di vizi delle stesse. I giudici di primo e secondo grado rigettano il ricorso, eccependo solamente il fatto che i vizi di nullità denunciati dal contribuente non sussistono. Nulla decidono rispetto all’eventuale tardività nella proposizione del ricorso, nonostante l’Agenzia delle Entrate ne avesse sollevato la questione. Il contribuente, ovviamente insoddisfatto, propone ricorso in Cassazione, avverso il quale si costituisce anche l’Agenzia delle Entrate, insistendo sulla tardiva proposizione del ricorso in primo grado. L’Ufficio fa bene ad insistere su questo punto, perché la Corte di Cassazione, ancor prima di esaminare i motivi del contribuente, riconosce che qualsiasi Giudice deve prima di tutto verificare che il ricorso sia stato presentato rispettando i sessanta giorni dalla notifica dell’atto oggetto di contestazione. Cosa che nessun Giudice che ha trattato il caso ha fatto. Da qui il rinvio al Giudice del merito, al quale è assegnato il compito di verificare quando il contribuente ha avuto conoscenza di ciascuna cartella che ha impugnato.   Notizie ImpreseOggi
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Se si impugna tardivamente una cartella esattoriale, spetta al contribuente dimostrare quando questa è stata effettivamente notificata.

Dom, 09/06/2024 - 19:11
La Corte di Cassazione, con sentenza 15224 del 15 marzo 2024, formula un principio di diritto ben preciso da applicare ai casi di contestazioni sulla tempestività nella presentazione di un ricorso contro una cartella di pagamento. Il principio enunciato prevede che, in presenza di un ricorso tardivo, tocca al contribuente dimostrare il momento esatto in cui la cartella di pagamento è stata notificata, al fine di dare prova della tempestività della presentazione del suo ricorso. Il caso da cui trae origine questo principio è assai curioso. Il contribuente riceve, tra il febbraio 2015 e il marzo 2017, sette cartelle di pagamento, relative a imposte dirette, Irap, Iva e omessi versamenti di ritenute alla fonte. Presenta, per tutte e sette le cartelle, un unico ricorso nel febbraio 2018, cioè quasi un anno dopo rispetto all’ultima notifica ricevuta, e quasi tre anni dopo la data di notifica della prima cartella di pagamento. Nei motivi di ricorso si chiede la nullità delle cartelle per una serie di vizi delle stesse. I giudici di primo e secondo grado rigettano il ricorso, eccependo solamente il fatto che i vizi di nullità denunciati dal contribuente non sussistono. Nulla decidono rispetto all’eventuale tardività nella proposizione del ricorso, nonostante l’Agenzia delle Entrate ne avesse sollevato la questione. Il contribuente, ovviamente insoddisfatto, propone ricorso in Cassazione, avverso il quale si costituisce anche l’Agenzia delle Entrate, insistendo sulla tardiva proposizione del ricorso in primo grado. L’Ufficio fa bene ad insistere su questo punto, perché la Corte di Cassazione, ancor prima di esaminare i motivi del contribuente, riconosce che qualsiasi Giudice deve prima di tutto verificare che il ricorso sia stato presentato rispettando i sessanta giorni dalla notifica dell’atto oggetto di contestazione. Cosa che nessun Giudice che ha trattato il caso ha fatto. Da qui il rinvio al Giudice del merito, al quale è assegnato il compito di verificare quando il contribuente ha avuto conoscenza di ciascuna cartella che ha impugnato.   Notizie ImpreseOggi
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Fondo perduto startup innovative: la Regione Emilia Romagna ne incentiva la nascita

Dom, 09/06/2024 - 17:30
La Regione Emilia Romagna, con la delibera di Giunta Regionale n. 910 del 27 maggio 2024, intende incentivare la nascita e lo sviluppo delle startup innovative che operano nel proprio territorio regionale. Dei cinque milioni di euro stanziati per questa misura di incentivo, due milioni sono riservati a imprese culturali e creative e per l’innovazione nei servizi. I destinatari della misura di aiuto sono le piccole e medie imprese che alla data di presentazione della domanda di agevolazione sono regolarmente iscritte al Registro Imprese con la qualifica di Startup innovativa. Condizione essenziale per l’ammissione è anche quella di avere la sede o una unità operativa all’interno del territorio della Regione Emilia Romagna. Il contributo a fondo perduto concesso è pari al 40% della spesa ritenuta ammissibile e, comunque, per un importo non superiore ad euro 150.000,00. La percentuale del contributo a fondo perduto può essere aumentata:
  • di un 10% nel caso in cui sia prevista l’assunzione di una persona a tempo indeterminato nella sede o nell’unità locale dove viene realizzato il progetto oggetto di agevolazione;
  • di un 5% nel caso in cui, alternativamente:
    • vi sia una prevalente presenza femminile o giovanile all’interno della compagine sociale dell’impresa;
    • l’intervento oggetto di incentivo è realizzato in un’area montana o in un’area definita “interna”, oppure in un’area interessata dall’alluvione del maggio 2023;
Gli interventi ammissibili dovranno riguardare:
  • lo sviluppo di prodotti realizzati sfruttando le conoscenze interne dell’impresa;
  • sfruttamento economico di ricerche realizzate da università o enti di ricerca, sia essi pubblici che privati;
  • applicazione di modelli di business o produttivi nuovi rispetto al mercato di riferimento;
  • commercializzazione di nuovi prodotti o servizi.
Le spese ammissibili sono:
  • acquisto o noleggio (compreso il leasing) di impianti, macchinari, attrezzature, licenze per l’utilizzo di brevetti e di software. I beni oggetto di contributo possono essere anche usati;
  • affitto di laboratori;
  • Consulenze per la realizzazione del progetto ammesso all’agevolazione a fondo perduto;
  • Partecipazione a fiere, nella misura di un importo massimo di euro 20.000,00;
  • Spese per il personale, nella misura massima del 20% delle spese di cui ai punti precedenti.
La scadenza del bando è prevista per il giorno 11 settembre 2024 alle ore 13:00.   SE VUOI SAPERNE DI PIU', NOI POSSIAMO AIUTARTI. CLICCA QUI

 

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La Regione Emilia Romagna incentiva la nascita e la crescita delle startup innovative

Dom, 09/06/2024 - 17:30
La Regione Emilia Romagna, con la delibera di Giunta Regionale n. 910 del 27 maggio 2024, intende incentivare la nascita e lo sviluppo delle startup innovative che operano nel proprio territorio regionale. Dei cinque milioni di euro stanziati per questa misura di incentivo, due milioni sono riservati a imprese culturali e creative e per l’innovazione nei servizi. I destinatari della misura di aiuto sono le piccole e medie imprese che alla data di presentazione della domanda di agevolazione sono regolarmente iscritte al Registro Imprese con la qualifica di Startup innovativa. Condizione essenziale per l’ammissione è anche quella di avere la sede o una unità operativa all’interno del territorio della Regione Emilia Romagna. Il contributo a fondo perduto concesso è pari al 40% della spesa ritenuta ammissibile e, comunque, per un importo non superiore ad euro 150.000,00. La percentuale del contributo a fondo perduto può essere aumentata:
  • di un 10% nel caso in cui sia prevista l’assunzione di una persona a tempo indeterminato nella sede o nell’unità locale dove viene realizzato il progetto oggetto di agevolazione;
  • di un 5% nel caso in cui, alternativamente:
    • vi sia una prevalente presenza femminile o giovanile all’interno della compagine sociale dell’impresa;
    • l’intervento oggetto di incentivo è realizzato in un’area montana o in un’area definita “interna”, oppure in un’area interessata dall’alluvione del maggio 2023;
Gli interventi ammissibili dovranno riguardare:
  • lo sviluppo di prodotti realizzati sfruttando le conoscenze interne dell’impresa;
  • sfruttamento economico di ricerche realizzate da università o enti di ricerca, sia essi pubblici che privati;
  • applicazione di modelli di business o produttivi nuovi rispetto al mercato di riferimento;
  • commercializzazione di nuovi prodotti o servizi.
Le spese ammissibili sono:
  • acquisto o noleggio (compreso il leasing) di impianti, macchinari, attrezzature, licenze per l’utilizzo di brevetti e di software. I beni oggetto di contributo possono essere anche usati;
  • affitto di laboratori;
  • Consulenze per la realizzazione del progetto ammesso all’agevolazione a fondo perduto;
  • Partecipazione a fiere, nella misura di un importo massimo di euro 20.000,00;
  • Spese per il personale, nella misura massima del 20% delle spese di cui ai punti precedenti.
La scadenza del bando è prevista per il giorno 11 settembre 2024 alle ore 13:00.

 

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La cessione delle rate residue del Superbonus e dei bonus edilizi ordinari non sarà più possibile.

Sab, 11/05/2024 - 23:04
Nella notte tra venerdì 10 maggio e sabato 11 maggio il Governo ha presentato al Senato un emendamento al Decreto Legge numero 39 del 29 marzo 2024, attualmente all’esame della Commissione Finanze e Tesoro, in attesa di essere convertito in Legge ordinaria. Ciò che ha attirato l’attenzione, in questi ultimi giorni, ha riguardato principalmente l’allungamento a dieci anni della detrazione delle spese sostenute a partire dal 2024. La lettura effettiva del testo depositato ha fugato i timori della vigilia. C'è da dire che una certa curiosità l'ha destata anche il divieto per le Banche e gli altri intermediari finanziari, di utilizzare i crediti fiscali acquisiti dalla propria clientela per compensare i propri contributi previdenziali. La curiosità nasce dal fatto che questo divieto, nei rumors dei giorni precedenti, non era mai circolato. Tuttavia tra le pieghe del testo presentato a Palazzo Madama vi è un comma che farà dormire sonni poco tranquilli a tutti quei contribuenti alle prese con la faticosa cessione dei propri bonus edilizi. Infatti, il comma 7 del nuovo articolo 4 così come formulato dal Governo, prevede che, a far data dall’entrata in vigore della nuova disposizione (che avverrà solo dopo l’approvazione in Legge del decreto in commento), testualmente “non è in ogni caso consentito l'esercizio dell'opzione di cui all'articolo 121, comma 1, lettera b), del decreto-legge 19 4 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, in relazione alle rate residue non ancora fruite delle detrazioni derivanti dalle spese per gli interventi di cui al comma 2 del medesimo articolo 121”. Più semplicemente, a far data dall’entrata in vigore del Decreto convertito in legge non sarà più possibile cedere a terzi le rate residue degli interventi relativi a:
  • recupero del patrimonio edilizio;
  • efficienza energetica;
  • adozione di misure antisismiche;
  • recupero o restauro della facciata degli edifici esistenti;
  • installazione di impianti fotovoltaici;
  • installazione di colonnine per la ricarica dei veicoli elettrici;
  • superamento ed eliminazione di barriere architettoniche di cui all'articolo 119-ter del presente decreto.
Il testo così come formulato è indubbiamente una pietra tombale per tutti quei contribuenti che, per svariati motivi, non sono stati in grado, o non hanno potuto, cedere entro il 04 aprile 2024, i lavori pagati nel corso del 2023 o di quelli pagati negli anni precedenti.

 

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