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Grassi Benaglia Moretti avvocati e commercialisti

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Aggiornato: 3 giorni 21 ore fa

La proroga dei versamenti si è dimenticata della sanatoria del magazzino.

Ven, 02/08/2024 - 11:24
Passato il 31 di luglio, primo giro di boa della stagione dei versamenti dichiarativi anno di imposta 2023, qualcuno si è accorto, compreso chi scrive, che in alcuni software non vi è la possibilità di indicare la proroga del versamento della prima rata della sanatoria delle rimanenze, che rimane calendarizzata per il 01 luglio. La sanatoria sulle rimanenze di magazzino è prevista dai commi 78 – 85 della Legge di Stabilità 2023. Permette l’adeguamento, sia in aumento che in diminuzione, delle rimanenze di magazzino contabilizzate al 01 gennaio 2023 e si applica a tutte le imprese che non adottano i principi contabili internazionali nella redazione del bilancio di esercizio. L’imposta la rivalutazione è pari al 18% del valore adeguato. Nel caso di diminuzione delle rimanenze contabilizzate al 01 gennaio è dovuta anche l’Iva, con un meccanismo di calcolo che solo il 24 giugno 2024 il Ministero ha reso pubblico. Per avere efficacia, l’adeguamento deve essere indicato nella dichiarazione dei redditi riferita all’anno di imposta 2023. L’eventuale omesso versamento dell’imposta sostitutiva non inficia la possibilità di utilizzare il valore adeguato delle rimanenze, ma rileva solamente ai fini dell’iscrizione a ruolo delle somme dovute. Per spiegare il perché la proroga vale anche per il versamento della prima rata della sanatoria, occorre partire dal dato letterario dell’articolo 37 del D. Lgs. 13/2024. La norma si limita a disporre il rinvio dei versamenti “risultanti dalle dichiarazioni dei redditi e da quelle in materia di imposta regionale sulle attività produttive e di imposta sul valore aggiunto” per i soggetti che esercitano attività per i quali sono approvati gli Isa. Non si menziona il versamento dell’imposta sostitutiva. Tuttavia, tale dimenticanza può apparire solo come un piccolo peccato veniale piuttosto che una precisa volontà del Legislatore. La risposta la si trova nel combinato disposto fra l’articolo 37 appena citato e il comma 82 della Legge di Stabilità laddove è previsto che le imposte sostitutive dovute “sono versate in due rate di pari importo, di cui la prima con scadenza entro il termine previsto per il versamento a saldo delle imposte sui redditi” relative al periodo d'imposta 2023 mentre la seconda “entro il termine di versamento della seconda o unica rata dell'acconto delle imposte sui redditi relativa al periodo d'imposta successivo”. La Legge di Stabilità non fa menzione di una scadenza specifica ma rimanda, attraverso una locuzione generica, al termine di versamento delle imposte sui redditi. Di conseguenza, quindi, la proroga del versamento, se non per espressa previsione di legge, avviene di fatto in quanto legata a un altro termine di versamento oggetto di rinvio esplicito. Tale interpretazione è coerente anche con quanto previsto dalle norme relative al versamento del diritto annuale della Camera di Commercio. In questo caso il versamento, ai sensi dell’articolo 8, comma 2, d.m. 11 maggio 2001 n. 359, deve essere fatto entro il termine previsto per il pagamento del primo acconto delle imposte sui redditi. La proroga dell’articolo 37 del D. Lgs. 13/2024, non indica anche quella del diritto camerale. E’ pacificamente accettato, soprattutto perchè mai contestato, che il differimento del termine del versamento delle imposte sui redditi porta con sé anche quello del diritto camerale, perché ad esso collegato per legge. Non si comprenderebbe, dunque, perché ciò non possa avvenire anche per le imposte sostitutive sull’adeguamento delle rimanenze di magazzino, anch’esse agganciate, per il versamento, al suddetto termine. Analisi e commenti ImpreseOggi
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Le quote consortili sono escluse dall’applicazione dell’Iva.

Gio, 01/08/2024 - 22:38
L’Agenzia delle Entrate, interpellata sulla questione del corretto trattamento Iva dei contributi consortili, ritiene che quest’ultimi non rientrino nell’ambito di applicazione dell’Iva ai sensi dell’articolo 3, comma 1, del D.p.r. 633/1972, purchè non siano parametrati alle prestazioni che i singoli consorziati ricevono dal Consorzio stesso. Cosi si è espressa nella risposta all'interpello 164 del 01 agosto 2024.  Il ragionamento che l'Ufficio svolge per arrivare a tale conclusione parte dalla lettura dell’art. 3 del Dpr 633/72, nella parte in cui al comma 1 è previsto che “costituiscono prestazioni di servizio le prestazioni verso corrispettivo dipendenti da contratti d’opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione, agenzia, mediazione, deposito e in genere da obbligazione di fare, di non fare e di permettere quale ne sia la fonte”. La Corte di Giustizia Ue, con le sentenze C-283/12 del 2013 e C-11/15 del 2016, ha stabilito che nel qualificare come a titolo oneroso una prestazione di servizio, è necessario verificare innanzitutto l’esistenza di un nesso causale fra la prestazione svolta e il corrispettivo ricevuto. Questo nesso esiste quando tra i due soggetti che partecipano allo scambio il corrispettivo concordato sia considerato come il controvalore per i servizi ricevuti. In sostanza vi deve essere un rapporto sinallagmatico fra versamento di denaro e prestazione eventualmente ricevuta dal Consorzio. Quando questo rapporto non esiste o non è ravvisabile, non siamo in presenza di una prestazione di servizio, e pertanto, la dazione di denaro al consorzio è da considerarsi fuori campo iva in quanto carente dei requisiti di cui all’art. 3 del D.p.r. 633/72. Infine, nella risposta in commento, l’Agenzia delle Entrate tiene a precisare che non è sufficiente fare riferimento alla definizione di quota consortile contenuta nello Statuto del Consorzio. Nella realtà, infatti, può succedere che queste vengano determinate sulla base delle prestazioni che i singoli consorziati ricevono durante il corso dell’anno. In tal caso, dunque, va applicata l’Iva ancorchè queste somme di denaro versate sia indicate genericamente come “quote consortili”. Tale osservazione trova riscontro anche nella risposta 361/2021, che a sua volta richiama la vecchia risoluzione n. 156/E del 1996. Notizie ImpreseOggi
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Le quote consortili sono escluse dall’applicazione dell’Iva.

Gio, 01/08/2024 - 22:38
L’Agenzia delle Entrate, interpellata sulla questione del corretto trattamento Iva dei contributi consortili, ritiene che quest’ultimi non rientrino nell’ambito di applicazione dell’Iva ai sensi dell’articolo 3, comma 1, del D.p.r. 633/1972, purchè non siano parametrati alle prestazioni che i singoli consorziati ricevono dal Consorzio stesso. Cosi si è espressa nella risposta all'interpello 164 del 01 agosto 2024.  Il ragionamento che l'Ufficio svolge per arrivare a tale conclusione parte dalla lettura dell’art. 3 del Dpr 633/72, nella parte in cui al comma 1 è previsto che “costituiscono prestazioni di servizio le prestazioni verso corrispettivo dipendenti da contratti d’opera, appalto, trasporto, mandato, spedizione, agenzia, mediazione, deposito e in genere da obbligazione di fare, di non fare e di permettere quale ne sia la fonte”. La Corte di Giustizia Ue, con le sentenze C-283/12 del 2013 e C-11/15 del 2016, ha stabilito che nel qualificare come a titolo oneroso una prestazione di servizio, è necessario verificare innanzitutto l’esistenza di un nesso causale fra la prestazione svolta e il corrispettivo ricevuto. Questo nesso esiste quando tra i due soggetti che partecipano allo scambio il corrispettivo concordato sia considerato come il controvalore per i servizi ricevuti. In sostanza vi deve essere un rapporto sinallagmatico fra versamento di denaro e prestazione eventualmente ricevuta dal Consorzio. Quando questo rapporto non esiste o non è ravvisabile, non siamo in presenza di una prestazione di servizio, e pertanto, la dazione di denaro al consorzio è da considerarsi fuori campo iva in quanto carente dei requisiti di cui all’art. 3 del D.p.r. 633/72. Infine, nella risposta in commento, l’Agenzia delle Entrate tiene a precisare che non è sufficiente fare riferimento alla definizione di quota consortile contenuta nello Statuto del Consorzio. Nella realtà, infatti, può succedere che queste vengano determinate sulla base delle prestazioni che i singoli consorziati ricevono durante il corso dell’anno. In tal caso, dunque, va applicata l’Iva ancorchè queste somme di denaro versate sia indicate genericamente come “quote consortili”. Tale osservazione trova riscontro anche nella risposta 361/2021, che a sua volta richiama la vecchia risoluzione n. 156/E del 1996. Notizie ImpreseOggi
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Corte costituzionale: al convivente di fatto si applica la disciplina prevista per l’impresa familiare ex art. 230-bis del codice civile

Ven, 26/07/2024 - 00:19
Con sentenza n. 148/2024 del 04 luglio 2024 depositata il 25 luglio 2024 la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 230 bis terzo comma del Codice Civile nella parte in cui non prevede, riguardo alla disciplina dell’impresa familiare, che il convivente di fatto (o convivente more uxorio) sia equiparato a un familiare. Tale dichiarazione di incostituzionalità, poi, implica che deve essere altresì essere dichiarato incostituzionale l’intero articolo art. 230-ter del codice civile in quanto prevede una disciplina speciale e depotenziata del lavoro prestato dal convivente di fatto nell’impresa familiare. Con ordine. L’articolo 230 bis terzo comma considera come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo. Per “impresa familiare”, invece, si intende l’impresa nella quale collabora il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo. Dalla lettura, dunque, si ravvisa che il convivente di fatto (o convivente more uxorio) non può partecipare all’impresa familiare. Per lui è riservata una disciplina speciale contenuta nell’articolo 230-ter. Disciplina, però, che limita il diritto del convivente rispetto a quello del familiare: al primo, infatti, non spetta il diritto al mantenimento ma solo una partecipazione basata sui risultati economici dell’impresa in proporzione al lavoro prestato. In più per il convivente non è nemmeno previsto un diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria o di cessione dell’impresa; è escluso anche un diritto di partecipazione alle decisioni aziendali, che possono essere prese solo dal titolare o dai familiari che eventualmente collaborano con lui. Si ricorda, per completezza espositiva, che la legge 76/2016 all’articolo 1 comma 36 intende come conviventi di fatto “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità, adozione, da matrimonio o da unione civile”. In più, il comma 37, prevede che la stabile convivenza sia da determinare sulla base anche della residenza anagrafica dei due soggetti la quale, qualora coincida, indica chiaramente la stabilità del rapporto affettivo. Nel dichiarare l’incostituzionalità dei due riferimenti normativi in esame, la Corte Costituzionale si basa anche sul fatto che le convivenze di fatto sono un diffuso fenomeno sociale tanto da sopravanzare in numero i matrimoni tradizionali diventando di fatto un tipo di rapporto interpersonale comunemente accettato. In ragione di questa diffusione, i rapporti interpersonali basati sulle convivenze di fatto meritano una tutela al pari di quelli basati su matrimoni formalizzati. Di conseguenza la Consulta non può far altro che dichiarare incostituzionale una disciplina civilistica che riduce i diritti patrimoniali dei conviventi all’interno di una impresa familiare. Notizie ImpreseOggi
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Corte costituzionale: al convivente di fatto si applica la disciplina prevista per l’impresa familiare ex art. 230-bis del codice civile

Ven, 26/07/2024 - 00:19
Con sentenza n. 148/2024 del 04 luglio 2024 depositata il 25 luglio 2024 la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 230 bis terzo comma del Codice Civile nella parte in cui non prevede, riguardo alla disciplina dell’impresa familiare, che il convivente di fatto (o convivente more uxorio) sia equiparato a un familiare. Tale dichiarazione di incostituzionalità, poi, implica che deve essere altresì essere dichiarato incostituzionale l’intero articolo art. 230-ter del codice civile in quanto prevede una disciplina speciale e depotenziata del lavoro prestato dal convivente di fatto nell’impresa familiare. Con ordine. L’articolo 230 bis terzo comma considera come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo. Per “impresa familiare”, invece, si intende l’impresa nella quale collabora il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo. Dalla lettura, dunque, si ravvisa che il convivente di fatto (o convivente more uxorio) non può partecipare all’impresa familiare. Per lui è riservata una disciplina speciale contenuta nell’articolo 230-ter. Disciplina, però, che limita il diritto del convivente rispetto a quello del familiare: al primo, infatti, non spetta il diritto al mantenimento ma solo una partecipazione basata sui risultati economici dell’impresa in proporzione al lavoro prestato. In più per il convivente non è nemmeno previsto un diritto di prelazione in caso di divisione ereditaria o di cessione dell’impresa; è escluso anche un diritto di partecipazione alle decisioni aziendali, che possono essere prese solo dal titolare o dai familiari che eventualmente collaborano con lui. Si ricorda, per completezza espositiva, che la legge 76/2016 all’articolo 1 comma 36 intende come conviventi di fatto “due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità, adozione, da matrimonio o da unione civile”. In più, il comma 37, prevede che la stabile convivenza sia da determinare sulla base anche della residenza anagrafica dei due soggetti la quale, qualora coincida, indica chiaramente la stabilità del rapporto affettivo. Nel dichiarare l’incostituzionalità dei due riferimenti normativi in esame, la Corte Costituzionale si basa anche sul fatto che le convivenze di fatto sono un diffuso fenomeno sociale tanto da sopravanzare in numero i matrimoni tradizionali diventando di fatto un tipo di rapporto interpersonale comunemente accettato. In ragione di questa diffusione, i rapporti interpersonali basati sulle convivenze di fatto meritano una tutela al pari di quelli basati su matrimoni formalizzati. Di conseguenza la Consulta non può far altro che dichiarare incostituzionale una disciplina civilistica che riduce i diritti patrimoniali dei conviventi all’interno di una impresa familiare. Notizie ImpreseOggi
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L’esenzione Imu spetta alla Società Sportiva dilettantistiche purchè gli immobili esenti siano destinati ad attività prive di lucro.

Mar, 16/07/2024 - 22:57
Alle società sportive dilettantistiche spetta l’esenzione Imu purchè negli immobili esenti siano svolte attività senza fine di lucro. Lo stabilisce la Corte di Cassazione, con sentenza numero 17968/2024 del 15.03.2024, pubblicata il giorno 01.07.2024. Il caso trae origine da un avviso di accertamento emesso nel 2018 per l’Imu dovuta nel 2013 da una S.S.D, nel quale il Comune non ha ritenuto sussistere le condizioni soggettive ed oggettive necessarie a riconoscere l’esenzione Imu per le attività non commerciali. In particolare, per quanto riguarda il criterio soggettivo, per l’ente locale le Società Sportive Dilettantistiche non possono essere equiparate alle A.s.d. Nel caso di specie, poi, non si ravvisa nemmeno il criterio oggettivo, in quanto all’interno dell’immobile viene svolta una attività senza dubbio lucrativa. Per amor di cronaca, il caso in commento finisce con dare torto al contribuente ricorrente, riconoscendo le ragioni dell’ente impositore, in quanto non sussistente il criterio oggettivo. Tuttavia la sentenza offre una lettura ben precisa, al di là del caso contingente, della norma in materia di esenzione a favore di enti che svolgono attività sportiva dilettantistica. La Corte di Cassazione, prima di tutto, interviene sulla corretta interpretazione del criterio soggettivo, smentendo la tesi sostenuta dall’ente locale. Lo fa attraverso la lettura combinata dell’art. 7 lett. i del D. Lgs. 504/92 in materia di esenzione Ici (traslata, per effetto dei rinvii normativi, sull’Imu) e l’art. 90 della legge 289/02 in materia di società sportiva dilettantistica. In particolare quest’ultima prevede che le norme di natura tributaria riguardanti le associazioni sportive dilettantistiche si applicano anche alle società sportive dilettantistiche in forma di società di capitali, purchè queste escludano il lucro. Ulteriore condizione è che l’attività sportiva svolta da quest’ultime deve rientrare tra quelle riconosciute dal Coni e la società sia affiliata a un ente sportivo formalmente riconosciuto ai sensi dell’art. 90 della legge 289/02. Sotto il profilo oggettivo, invece, la Corte di Cassazione stabilisce che l’esenzione viene riconosciuta solo nel caso in cui l’immobile sia destinato allo svolgimento di attività non commerciali. Tale dimostrazione è a carico del contribuente ed è fondamentale anche la classificazione catastale dell’immobile stesso oggetto di esenzione. Nel caso in commento, ad esempio, quest’ultimo ha la categoria catastale D6, cioè impianti sportivi. La Cassazione osserva che questo tipo di destinazione può essere consona anche allo svolgimento di attività lucrative e, di conseguenza, in assenza di qualsiasi dimostrazione contraria, si presume che al suo interno la società ricorrente svolga una attività con scopo di lucro. Notizie ImpreseOggi
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L’esenzione Imu spetta alla Società Sportiva dilettantistiche purchè gli immobili esenti siano destinati ad attività prive di lucro.

Mar, 16/07/2024 - 22:57
Alle società sportive dilettantistiche spetta l’esenzione Imu purchè negli immobili esenti siano svolte attività senza fine di lucro. Lo stabilisce la Corte di Cassazione, con sentenza numero 17968/2024 del 15.03.2024, pubblicata il giorno 01.07.2024. Il caso trae origine da un avviso di accertamento emesso nel 2018 per l’Imu dovuta nel 2013 da una S.S.D, nel quale il Comune non ha ritenuto sussistere le condizioni soggettive ed oggettive necessarie a riconoscere l’esenzione Imu per le attività non commerciali. In particolare, per quanto riguarda il criterio soggettivo, per l’ente locale le Società Sportive Dilettantistiche non possono essere equiparate alle A.s.d. Nel caso di specie, poi, non si ravvisa nemmeno il criterio oggettivo, in quanto all’interno dell’immobile viene svolta una attività senza dubbio lucrativa. Per amor di cronaca, il caso in commento finisce con dare torto al contribuente ricorrente, riconoscendo le ragioni dell’ente impositore, in quanto non sussistente il criterio oggettivo. Tuttavia la sentenza offre una lettura ben precisa, al di là del caso contingente, della norma in materia di esenzione a favore di enti che svolgono attività sportiva dilettantistica. La Corte di Cassazione, prima di tutto, interviene sulla corretta interpretazione del criterio soggettivo, smentendo la tesi sostenuta dall’ente locale. Lo fa attraverso la lettura combinata dell’art. 7 lett. i del D. Lgs. 504/92 in materia di esenzione Ici (traslata, per effetto dei rinvii normativi, sull’Imu) e l’art. 90 della legge 289/02 in materia di società sportiva dilettantistica. In particolare quest’ultima prevede che le norme di natura tributaria riguardanti le associazioni sportive dilettantistiche si applicano anche alle società sportive dilettantistiche in forma di società di capitali, purchè queste escludano il lucro. Ulteriore condizione è che l’attività sportiva svolta da quest’ultime deve rientrare tra quelle riconosciute dal Coni e la società sia affiliata a un ente sportivo formalmente riconosciuto ai sensi dell’art. 90 della legge 289/02. Sotto il profilo oggettivo, invece, la Corte di Cassazione stabilisce che l’esenzione viene riconosciuta solo nel caso in cui l’immobile sia destinato allo svolgimento di attività non commerciali. Tale dimostrazione è a carico del contribuente ed è fondamentale anche la classificazione catastale dell’immobile stesso oggetto di esenzione. Nel caso in commento, ad esempio, quest’ultimo ha la categoria catastale D6, cioè impianti sportivi. La Cassazione osserva che questo tipo di destinazione può essere consona anche allo svolgimento di attività lucrative e, di conseguenza, in assenza di qualsiasi dimostrazione contraria, si presume che al suo interno la società ricorrente svolga una attività con scopo di lucro. Notizie ImpreseOggi
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Enti del terzo settore: imposta di registro, ipotecarie e catastali fisse anche in caso di acquisto immobiliare a rate.

Mar, 18/06/2024 - 23:02
Un Ente del terzo settore che acquista un bene immobile a rate può godere dell’agevolazione delle imposte di registro, ipotecaria e catastale in misura fissa, come previsto dall’art. 82, comma 4, del D. Lgs. 117/2017 (Codice del terzo settore). Lo stabilisce l’Agenzia delle Entrate con la risposta 135/2024 del 18 giugno 2024 fornita a seguito di un interpello presentato da una Aps, riguardante il caso di un acquisto immobiliare a rate, con patto di riservato di proprietà a favore del venditore. Si ricorda che, ai sensi dell’articolo 1523 del Codice Civile, in caso di vendita a rate con riserva di proprietà, l’acquirente diventa proprietario della cosa trasferita solo al momento del pagamento dell’ultima rata, pur acquisendo i rischi dal momento della sua consegna. L’agevolazione di cui all’art. 82, comma 4, del D. Lgs. 117/2017 stabilisce, invece, che un Ente del terzo settore può godere dell’applicazione dell’imposta di registro e ipotecaria – catastale in misura fissa quando l’immobile acquistato viene utilizzato direttamente per la realizzazione dei propri scopi istituzionali. Questo impegno, prevede la norma, deve essere reso esplicito nell’atto di acquisto e deve essere realizzato nei cinque anni dall’acquisto. L’Agenzia delle Entrate, nella risposta fornita al contribuente, sottolinea come l’articolo 27, comma 3, del Dpr 131/1986 (Testo unico dell’imposta di registro) prevede che le vendite con riserva di proprietà, come quella del caso in commento, non sono sottoposti a condizione sospensiva. Di conseguenza, sul piano fiscale, questi tipi di contratto sono parificati a tutti gli effetti alle vendite, a prescindere dal pagamento o meno dell’ultima rata. Sulla base di questa ricostruzione normativa, quindi, nulla osta affinchè gli Enti del Terzo Settore possano godere a tutti gli effetti, godere dell’agevolazione delle imposte ipotecarie, catastali e di registro anche in caso di acquisto con riserva di proprietà.   Se se un ente del terzo settore e vuoi una consulenza specifica, consulta la nostra pagina dedicata   Notizie ImpreseOggi
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Enti del terzo settore: imposta di registro, ipotecarie e catastali fisse anche in caso di acquisto immobiliare a rate.

Mar, 18/06/2024 - 23:02
Un Ente del terzo settore che acquista un bene immobile a rate può godere dell’agevolazione delle imposte di registro, ipotecaria e catastale in misura fissa, come previsto dall’art. 82, comma 4, del D. Lgs. 117/2017 (Codice del terzo settore). Lo stabilisce l’Agenzia delle Entrate con la risposta 135/2024 del 18 giugno 2024 fornita a seguito di un interpello presentato da una Aps, riguardante il caso di un acquisto immobiliare a rate, con patto di riservato di proprietà a favore del venditore. Si ricorda che, ai sensi dell’articolo 1523 del Codice Civile, in caso di vendita a rate con riserva di proprietà, l’acquirente diventa proprietario della cosa trasferita solo al momento del pagamento dell’ultima rata, pur acquisendo i rischi dal momento della sua consegna. L’agevolazione di cui all’art. 82, comma 4, del D. Lgs. 117/2017 stabilisce, invece, che un Ente del terzo settore può godere dell’applicazione dell’imposta di registro e ipotecaria – catastale in misura fissa quando l’immobile acquistato viene utilizzato direttamente per la realizzazione dei propri scopi istituzionali. Questo impegno, prevede la norma, deve essere reso esplicito nell’atto di acquisto e deve essere realizzato nei cinque anni dall’acquisto. L’Agenzia delle Entrate, nella risposta fornita al contribuente, sottolinea come l’articolo 27, comma 3, del Dpr 131/1986 (Testo unico dell’imposta di registro) prevede che le vendite con riserva di proprietà, come quella del caso in commento, non sono sottoposti a condizione sospensiva. Di conseguenza, sul piano fiscale, questi tipi di contratto sono parificati a tutti gli effetti alle vendite, a prescindere dal pagamento o meno dell’ultima rata. Sulla base di questa ricostruzione normativa, quindi, nulla osta affinchè gli Enti del Terzo Settore possano godere a tutti gli effetti, godere dell’agevolazione delle imposte ipotecarie, catastali e di registro anche in caso di acquisto con riserva di proprietà.   Se se un ente del terzo settore e vuoi una consulenza specifica, consulta la nostra pagina dedicata   Notizie ImpreseOggi
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Se si impugna tardivamente una cartella esattoriale, spetta al contribuente dimostrare quando questa è stata effettivamente notificata.

Dom, 09/06/2024 - 19:11
La Corte di Cassazione, con sentenza 15224 del 15 marzo 2024, formula un principio di diritto ben preciso da applicare ai casi di contestazioni sulla tempestività nella presentazione di un ricorso contro una cartella di pagamento. Il principio enunciato prevede che, in presenza di un ricorso tardivo, tocca al contribuente dimostrare il momento esatto in cui la cartella di pagamento è stata notificata, al fine di dare prova della tempestività della presentazione del suo ricorso. Il caso da cui trae origine questo principio è assai curioso. Il contribuente riceve, tra il febbraio 2015 e il marzo 2017, sette cartelle di pagamento, relative a imposte dirette, Irap, Iva e omessi versamenti di ritenute alla fonte. Presenta, per tutte e sette le cartelle, un unico ricorso nel febbraio 2018, cioè quasi un anno dopo rispetto all’ultima notifica ricevuta, e quasi tre anni dopo la data di notifica della prima cartella di pagamento. Nei motivi di ricorso si chiede la nullità delle cartelle per una serie di vizi delle stesse. I giudici di primo e secondo grado rigettano il ricorso, eccependo solamente il fatto che i vizi di nullità denunciati dal contribuente non sussistono. Nulla decidono rispetto all’eventuale tardività nella proposizione del ricorso, nonostante l’Agenzia delle Entrate ne avesse sollevato la questione. Il contribuente, ovviamente insoddisfatto, propone ricorso in Cassazione, avverso il quale si costituisce anche l’Agenzia delle Entrate, insistendo sulla tardiva proposizione del ricorso in primo grado. L’Ufficio fa bene ad insistere su questo punto, perché la Corte di Cassazione, ancor prima di esaminare i motivi del contribuente, riconosce che qualsiasi Giudice deve prima di tutto verificare che il ricorso sia stato presentato rispettando i sessanta giorni dalla notifica dell’atto oggetto di contestazione. Cosa che nessun Giudice che ha trattato il caso ha fatto. Da qui il rinvio al Giudice del merito, al quale è assegnato il compito di verificare quando il contribuente ha avuto conoscenza di ciascuna cartella che ha impugnato.   Notizie ImpreseOggi
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Se si impugna tardivamente una cartella esattoriale, spetta al contribuente dimostrare quando questa è stata effettivamente notificata.

Dom, 09/06/2024 - 19:11
La Corte di Cassazione, con sentenza 15224 del 15 marzo 2024, formula un principio di diritto ben preciso da applicare ai casi di contestazioni sulla tempestività nella presentazione di un ricorso contro una cartella di pagamento. Il principio enunciato prevede che, in presenza di un ricorso tardivo, tocca al contribuente dimostrare il momento esatto in cui la cartella di pagamento è stata notificata, al fine di dare prova della tempestività della presentazione del suo ricorso. Il caso da cui trae origine questo principio è assai curioso. Il contribuente riceve, tra il febbraio 2015 e il marzo 2017, sette cartelle di pagamento, relative a imposte dirette, Irap, Iva e omessi versamenti di ritenute alla fonte. Presenta, per tutte e sette le cartelle, un unico ricorso nel febbraio 2018, cioè quasi un anno dopo rispetto all’ultima notifica ricevuta, e quasi tre anni dopo la data di notifica della prima cartella di pagamento. Nei motivi di ricorso si chiede la nullità delle cartelle per una serie di vizi delle stesse. I giudici di primo e secondo grado rigettano il ricorso, eccependo solamente il fatto che i vizi di nullità denunciati dal contribuente non sussistono. Nulla decidono rispetto all’eventuale tardività nella proposizione del ricorso, nonostante l’Agenzia delle Entrate ne avesse sollevato la questione. Il contribuente, ovviamente insoddisfatto, propone ricorso in Cassazione, avverso il quale si costituisce anche l’Agenzia delle Entrate, insistendo sulla tardiva proposizione del ricorso in primo grado. L’Ufficio fa bene ad insistere su questo punto, perché la Corte di Cassazione, ancor prima di esaminare i motivi del contribuente, riconosce che qualsiasi Giudice deve prima di tutto verificare che il ricorso sia stato presentato rispettando i sessanta giorni dalla notifica dell’atto oggetto di contestazione. Cosa che nessun Giudice che ha trattato il caso ha fatto. Da qui il rinvio al Giudice del merito, al quale è assegnato il compito di verificare quando il contribuente ha avuto conoscenza di ciascuna cartella che ha impugnato.   Notizie ImpreseOggi
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Fondo perduto startup innovative: la Regione Emilia Romagna ne incentiva la nascita

Dom, 09/06/2024 - 17:30
La Regione Emilia Romagna, con la delibera di Giunta Regionale n. 910 del 27 maggio 2024, intende incentivare la nascita e lo sviluppo delle startup innovative che operano nel proprio territorio regionale. Dei cinque milioni di euro stanziati per questa misura di incentivo, due milioni sono riservati a imprese culturali e creative e per l’innovazione nei servizi. I destinatari della misura di aiuto sono le piccole e medie imprese che alla data di presentazione della domanda di agevolazione sono regolarmente iscritte al Registro Imprese con la qualifica di Startup innovativa. Condizione essenziale per l’ammissione è anche quella di avere la sede o una unità operativa all’interno del territorio della Regione Emilia Romagna. Il contributo a fondo perduto concesso è pari al 40% della spesa ritenuta ammissibile e, comunque, per un importo non superiore ad euro 150.000,00. La percentuale del contributo a fondo perduto può essere aumentata:
  • di un 10% nel caso in cui sia prevista l’assunzione di una persona a tempo indeterminato nella sede o nell’unità locale dove viene realizzato il progetto oggetto di agevolazione;
  • di un 5% nel caso in cui, alternativamente:
    • vi sia una prevalente presenza femminile o giovanile all’interno della compagine sociale dell’impresa;
    • l’intervento oggetto di incentivo è realizzato in un’area montana o in un’area definita “interna”, oppure in un’area interessata dall’alluvione del maggio 2023;
Gli interventi ammissibili dovranno riguardare:
  • lo sviluppo di prodotti realizzati sfruttando le conoscenze interne dell’impresa;
  • sfruttamento economico di ricerche realizzate da università o enti di ricerca, sia essi pubblici che privati;
  • applicazione di modelli di business o produttivi nuovi rispetto al mercato di riferimento;
  • commercializzazione di nuovi prodotti o servizi.
Le spese ammissibili sono:
  • acquisto o noleggio (compreso il leasing) di impianti, macchinari, attrezzature, licenze per l’utilizzo di brevetti e di software. I beni oggetto di contributo possono essere anche usati;
  • affitto di laboratori;
  • Consulenze per la realizzazione del progetto ammesso all’agevolazione a fondo perduto;
  • Partecipazione a fiere, nella misura di un importo massimo di euro 20.000,00;
  • Spese per il personale, nella misura massima del 20% delle spese di cui ai punti precedenti.
La scadenza del bando è prevista per il giorno 11 settembre 2024 alle ore 13:00.   SE VUOI SAPERNE DI PIU', NOI POSSIAMO AIUTARTI. CLICCA QUI

 

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La Regione Emilia Romagna incentiva la nascita e la crescita delle startup innovative

Dom, 09/06/2024 - 17:30
La Regione Emilia Romagna, con la delibera di Giunta Regionale n. 910 del 27 maggio 2024, intende incentivare la nascita e lo sviluppo delle startup innovative che operano nel proprio territorio regionale. Dei cinque milioni di euro stanziati per questa misura di incentivo, due milioni sono riservati a imprese culturali e creative e per l’innovazione nei servizi. I destinatari della misura di aiuto sono le piccole e medie imprese che alla data di presentazione della domanda di agevolazione sono regolarmente iscritte al Registro Imprese con la qualifica di Startup innovativa. Condizione essenziale per l’ammissione è anche quella di avere la sede o una unità operativa all’interno del territorio della Regione Emilia Romagna. Il contributo a fondo perduto concesso è pari al 40% della spesa ritenuta ammissibile e, comunque, per un importo non superiore ad euro 150.000,00. La percentuale del contributo a fondo perduto può essere aumentata:
  • di un 10% nel caso in cui sia prevista l’assunzione di una persona a tempo indeterminato nella sede o nell’unità locale dove viene realizzato il progetto oggetto di agevolazione;
  • di un 5% nel caso in cui, alternativamente:
    • vi sia una prevalente presenza femminile o giovanile all’interno della compagine sociale dell’impresa;
    • l’intervento oggetto di incentivo è realizzato in un’area montana o in un’area definita “interna”, oppure in un’area interessata dall’alluvione del maggio 2023;
Gli interventi ammissibili dovranno riguardare:
  • lo sviluppo di prodotti realizzati sfruttando le conoscenze interne dell’impresa;
  • sfruttamento economico di ricerche realizzate da università o enti di ricerca, sia essi pubblici che privati;
  • applicazione di modelli di business o produttivi nuovi rispetto al mercato di riferimento;
  • commercializzazione di nuovi prodotti o servizi.
Le spese ammissibili sono:
  • acquisto o noleggio (compreso il leasing) di impianti, macchinari, attrezzature, licenze per l’utilizzo di brevetti e di software. I beni oggetto di contributo possono essere anche usati;
  • affitto di laboratori;
  • Consulenze per la realizzazione del progetto ammesso all’agevolazione a fondo perduto;
  • Partecipazione a fiere, nella misura di un importo massimo di euro 20.000,00;
  • Spese per il personale, nella misura massima del 20% delle spese di cui ai punti precedenti.
La scadenza del bando è prevista per il giorno 11 settembre 2024 alle ore 13:00.

 

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La cessione delle rate residue del Superbonus e dei bonus edilizi ordinari non sarà più possibile.

Sab, 11/05/2024 - 23:04
Nella notte tra venerdì 10 maggio e sabato 11 maggio il Governo ha presentato al Senato un emendamento al Decreto Legge numero 39 del 29 marzo 2024, attualmente all’esame della Commissione Finanze e Tesoro, in attesa di essere convertito in Legge ordinaria. Ciò che ha attirato l’attenzione, in questi ultimi giorni, ha riguardato principalmente l’allungamento a dieci anni della detrazione delle spese sostenute a partire dal 2024. La lettura effettiva del testo depositato ha fugato i timori della vigilia. C'è da dire che una certa curiosità l'ha destata anche il divieto per le Banche e gli altri intermediari finanziari, di utilizzare i crediti fiscali acquisiti dalla propria clientela per compensare i propri contributi previdenziali. La curiosità nasce dal fatto che questo divieto, nei rumors dei giorni precedenti, non era mai circolato. Tuttavia tra le pieghe del testo presentato a Palazzo Madama vi è un comma che farà dormire sonni poco tranquilli a tutti quei contribuenti alle prese con la faticosa cessione dei propri bonus edilizi. Infatti, il comma 7 del nuovo articolo 4 così come formulato dal Governo, prevede che, a far data dall’entrata in vigore della nuova disposizione (che avverrà solo dopo l’approvazione in Legge del decreto in commento), testualmente “non è in ogni caso consentito l'esercizio dell'opzione di cui all'articolo 121, comma 1, lettera b), del decreto-legge 19 4 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, in relazione alle rate residue non ancora fruite delle detrazioni derivanti dalle spese per gli interventi di cui al comma 2 del medesimo articolo 121”. Più semplicemente, a far data dall’entrata in vigore del Decreto convertito in legge non sarà più possibile cedere a terzi le rate residue degli interventi relativi a:
  • recupero del patrimonio edilizio;
  • efficienza energetica;
  • adozione di misure antisismiche;
  • recupero o restauro della facciata degli edifici esistenti;
  • installazione di impianti fotovoltaici;
  • installazione di colonnine per la ricarica dei veicoli elettrici;
  • superamento ed eliminazione di barriere architettoniche di cui all'articolo 119-ter del presente decreto.
Il testo così come formulato è indubbiamente una pietra tombale per tutti quei contribuenti che, per svariati motivi, non sono stati in grado, o non hanno potuto, cedere entro il 04 aprile 2024, i lavori pagati nel corso del 2023 o di quelli pagati negli anni precedenti.

 

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La cessione delle rate residue del Superbonus e dei bonus edilizi ordinari non sarà più possibile.

Sab, 11/05/2024 - 23:04
Nella notte tra venerdì 10 maggio e sabato 11 maggio il Governo ha presentato al Senato un emendamento al Decreto Legge numero 39 del 29 marzo 2024, attualmente all’esame della Commissione Finanze e Tesoro, in attesa di essere convertito in Legge ordinaria. Ciò che ha attirato l’attenzione, in questi ultimi giorni, ha riguardato principalmente l’allungamento a dieci anni della detrazione delle spese sostenute a partire dal 2024. La lettura effettiva del testo depositato ha fugato i timori della vigilia. C'è da dire che una certa curiosità l'ha destata anche il divieto per le Banche e gli altri intermediari finanziari, di utilizzare i crediti fiscali acquisiti dalla propria clientela per compensare i propri contributi previdenziali. La curiosità nasce dal fatto che questo divieto, nei rumors dei giorni precedenti, non era mai circolato. Tuttavia tra le pieghe del testo presentato a Palazzo Madama vi è un comma che farà dormire sonni poco tranquilli a tutti quei contribuenti alle prese con la faticosa cessione dei propri bonus edilizi. Infatti, il comma 7 del nuovo articolo 4 così come formulato dal Governo, prevede che, a far data dall’entrata in vigore della nuova disposizione (che avverrà solo dopo l’approvazione in Legge del decreto in commento), testualmente “non è in ogni caso consentito l'esercizio dell'opzione di cui all'articolo 121, comma 1, lettera b), del decreto-legge 19 4 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio 2020, n. 77, in relazione alle rate residue non ancora fruite delle detrazioni derivanti dalle spese per gli interventi di cui al comma 2 del medesimo articolo 121”. Più semplicemente, a far data dall’entrata in vigore del Decreto convertito in legge non sarà più possibile cedere a terzi le rate residue degli interventi relativi a:
  • recupero del patrimonio edilizio;
  • efficienza energetica;
  • adozione di misure antisismiche;
  • recupero o restauro della facciata degli edifici esistenti;
  • installazione di impianti fotovoltaici;
  • installazione di colonnine per la ricarica dei veicoli elettrici;
  • superamento ed eliminazione di barriere architettoniche di cui all'articolo 119-ter del presente decreto.
Il testo così come formulato è indubbiamente una pietra tombale per tutti quei contribuenti che, per svariati motivi, non sono stati in grado, o non hanno potuto, cedere entro il 04 aprile 2024, i lavori pagati nel corso del 2023 o di quelli pagati negli anni precedenti.

 

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L’impresa agricola potrà chiedere la sospensione dei pagamenti delle rate dei mutui.

Sab, 11/05/2024 - 22:19
Lo prevede il Decreto Legge Agricoltura approvato dal Consiglio dei Ministri in data 08 maggio 2024 e ancora in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. La disposizione agevolativa di cui si parla è contenuta nell’articolo 1, rubricato come “Interventi urgenti per fronteggiare la crisi economica delle imprese agricole, della pesca e dell’acquacoltura”. Nello specifico la norma consente alle imprese agricole, della pesca e dell’acquacoltura di sospendere, per dodici mesi, il pagamento delle rate dei mutui e degli altri finanziamenti rateali, compresi quelli costituiti da cambiale agrarie che sono in scadenza nel corso del 2024. La condizione per richiedere tale sospensione è che il volume d’affari conseguito nel 2023 abbia avuto una riduzione almeno pari al 20 per cento rispetto a quello che si è registrato nell’anno precedente. L’imprese agricola potrà dimostrare tale calo facendo ricorso a una semplice autocertificazione, che dovrà essere presentata alla banca dove si intrattengono i rapporti di finanziamento per i quali si vuole richiedere la sospensione. Non possono accedere alla richiesta di sospensione le imprese che, pur avendo i requisiti qui descritti, hanno esposizioni debitorie che, nei fatti, sono da considerarsi come “incagliate”. Una volta che l’impresa agricola si è avvalsa della moratoria, il piano dei pagamenti viene spostato in avanti per un periodo pari al periodo di sospensione richiesto. Anche le eventuali garanzie che accompagnano i finanziamenti oggetto di sospensione sono per legge prorogate per analogo periodo. Infine il decreto dà la possibilità, alle imprese agricole che ne faranno richiesta, di sospendere il pagamento della sola quota capitale, potendo continuare a pagare, così, solo gli interessi sui finanziamenti concessi. Notizie ImpreseOggi
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L’impresa agricola potrà chiedere la sospensione dei pagamenti delle rate dei mutui.

Sab, 11/05/2024 - 22:19
Lo prevede il Decreto Legge Agricoltura approvato dal Consiglio dei Ministri in data 08 maggio 2024 e ancora in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. La disposizione agevolativa di cui si parla è contenuta nell’articolo 1, rubricato come “Interventi urgenti per fronteggiare la crisi economica delle imprese agricole, della pesca e dell’acquacoltura”. Nello specifico la norma consente alle imprese agricole, della pesca e dell’acquacoltura di sospendere, per dodici mesi, il pagamento delle rate dei mutui e degli altri finanziamenti rateali, compresi quelli costituiti da cambiale agrarie che sono in scadenza nel corso del 2024. La condizione per richiedere tale sospensione è che il volume d’affari conseguito nel 2023 abbia avuto una riduzione almeno pari al 20 per cento rispetto a quello che si è registrato nell’anno precedente. L’imprese agricola potrà dimostrare tale calo facendo ricorso a una semplice autocertificazione, che dovrà essere presentata alla banca dove si intrattengono i rapporti di finanziamento per i quali si vuole richiedere la sospensione. Non possono accedere alla richiesta di sospensione le imprese che, pur avendo i requisiti qui descritti, hanno esposizioni debitorie che, nei fatti, sono da considerarsi come “incagliate”. Una volta che l’impresa agricola si è avvalsa della moratoria, il piano dei pagamenti viene spostato in avanti per un periodo pari al periodo di sospensione richiesto. Anche le eventuali garanzie che accompagnano i finanziamenti oggetto di sospensione sono per legge prorogate per analogo periodo. Infine il decreto dà la possibilità, alle imprese agricole che ne faranno richiesta, di sospendere il pagamento della sola quota capitale, potendo continuare a pagare, così, solo gli interessi sui finanziamenti concessi. Notizie ImpreseOggi
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In presenza di soci usufruttuari, le somme derivanti da una liquidazione di una srl devono essere tassate dagli usufruttuari e non dai nudi proprietari.

Mer, 01/05/2024 - 12:16
In presenza di un usufruttuario che detiene delle quote di una società a responsabilità limitata, le somme che derivano dalla conclusione della liquidazione volontaria, devono essere dichiarate dall’usufruttuario stesso e non dal nudo proprietario
A stabilire questo principio di diritto è la Corte di Cassazione, Sezione 5 Civile, con sentenza numero 11152 del 20 marzo 2024 pubblicata il 24 aprile 2024. Il caso. Il caso giudicato trae origine da un ricorso avverso un diniego di rimborso proposto da cinque contribuenti che sono nudi proprietari di alcune quote di partecipazione di una società a responsabilità limitata. Al termine della liquidazione volontaria la società ha provveduto a distribuire una somma che è stata poi inserita nella dichiarazione dei redditi dei singoli soci nudi proprietari. La tesi proposta da quest’ultimi è, infatti, che sono loro i legittimi percettori delle somme e non il socio usufruttuario in quanto, in caso di scioglimento di una srl, la posta di patrimonio netto dalla quale vengono prelevate le somme è indistinta e non imputabile a una voce di utile. In sostanza, secondo i nudi proprietari, al termine della liquidazione si sono visti restituire il denaro che è stato conferito in sede di costituzione della società e non una forma di “utile”, che spetta unicamente all’usufruttuario.   La decisione.  La Cassazione non è d’accordo con la tesi proposta dai contribuenti. Prima di arrivare, però, ai motivi della decisione, gli Ermellini si pongono il problema sia di chiarire quando cessa il diritto di usufrutto su una quota di una srl sia di stabilire quali sono i diritti patrimoniali che spettano all’usufruttuario.
Nel nostro ordinamento non esiste una norma specifica che dà risposta ai due problemi sopra descritti. Di conseguenza occorre fare ricorso alle norme generali in materia di cessazione dell’usufrutto, che sono contenute nell’art. 1014 del Codice Civile. Per quanto di interesse, il passaggio importante è quello che prevede che l’usufrutto cessa “per il totale perimento della cosa su cui è costituito”. Per cui, per analogia, nel caso di una partecipazione in una società, l’usufrutto non cessa al momento della messa in liquidazione della società stessa, ma al momento in cui questa viene cancellata dal registro imprese. E’ solo in quel caso che la cosa su cui è costituito l’usufrutto “perisce”.
Accertato questo principio, la Cassazione osserva che non solo non vi è nessuna norma che limita all’usufruttuario il diritto di percepire solo i dividendi, ma non vi è nemmeno nessuna norma che prevede che l’usufruttuario debba percepire delle somme dalla società solo quando questa non è in liquidazione! L’ambito di azione è ormai sostanzialmente circoscritto. Si tratta solo di risolvere l’ultimo dilemma: una società in liquidazione può produrre ancora utili?
Certamente sì, è la risposta. In ciò viene in aiuto anche l’art. 47 comma 7 del TUIR, il quale stabilisce che le somme ricevute dai soci in caso di liquidazione di una società sono oggetto di tassazione per la parte eccedente il prezzo pagato per l’acquisto. Di conseguenza rientrano nell’oggetto della tassazione anche le somme assegnate ai soci a titolo di patrimonio netto risultante dalla liquidazione, nulla rilevando se esse possano riferirsi a voci di utili o di denaro conferito in sede di costituzione o successivamente. 
  Il principio di diritto. La sentenza in commento è senz’altro innovativa, tanto da far esprimere agli stessi Ermellini il principio di diritto per il quale quando si è in presenza di soci usufruttuari di una quota di srl, qualsiasi somma che la società in liquidazione distribuisce come esito della liquidazione stessa, deve essere tassata dal socio usufruttuario e non da quello nudo proprietario. 

 

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In presenza di soci usufruttuari, le somme derivanti da una liquidazione di una srl devono essere tassate dagli usufruttuari e non dai nudi proprietari.

Mer, 01/05/2024 - 12:16
In presenza di un usufruttuario che detiene delle quote di una società a responsabilità limitata, le somme che derivano dalla conclusione della liquidazione volontaria, devono essere dichiarate dall’usufruttuario stesso e non dal nudo proprietario
A stabilire questo principio di diritto è la Corte di Cassazione, Sezione 5 Civile, con sentenza numero 11152 del 20 marzo 2024 pubblicata il 24 aprile 2024. Il caso. Il caso giudicato trae origine da un ricorso avverso un diniego di rimborso proposto da cinque contribuenti che sono nudi proprietari di alcune quote di partecipazione di una società a responsabilità limitata. Al termine della liquidazione volontaria la società ha provveduto a distribuire una somma che è stata poi inserita nella dichiarazione dei redditi dei singoli soci nudi proprietari. La tesi proposta da quest’ultimi è, infatti, che sono loro i legittimi percettori delle somme e non il socio usufruttuario in quanto, in caso di scioglimento di una srl, la posta di patrimonio netto dalla quale vengono prelevate le somme è indistinta e non imputabile a una voce di utile. In sostanza, secondo i nudi proprietari, al termine della liquidazione si sono visti restituire il denaro che è stato conferito in sede di costituzione della società e non una forma di “utile”, che spetta unicamente all’usufruttuario.   La decisione.  La Cassazione non è d’accordo con la tesi proposta dai contribuenti. Prima di arrivare, però, ai motivi della decisione, gli Ermellini si pongono il problema sia di chiarire quando cessa il diritto di usufrutto su una quota di una srl sia di stabilire quali sono i diritti patrimoniali che spettano all’usufruttuario.
Nel nostro ordinamento non esiste una norma specifica che dà risposta ai due problemi sopra descritti. Di conseguenza occorre fare ricorso alle norme generali in materia di cessazione dell’usufrutto, che sono contenute nell’art. 1014 del Codice Civile. Per quanto di interesse, il passaggio importante è quello che prevede che l’usufrutto cessa “per il totale perimento della cosa su cui è costituito”. Per cui, per analogia, nel caso di una partecipazione in una società, l’usufrutto non cessa al momento della messa in liquidazione della società stessa, ma al momento in cui questa viene cancellata dal registro imprese. E’ solo in quel caso che la cosa su cui è costituito l’usufrutto “perisce”.
Accertato questo principio, la Cassazione osserva che non solo non vi è nessuna norma che limita all’usufruttuario il diritto di percepire solo i dividendi, ma non vi è nemmeno nessuna norma che prevede che l’usufruttuario debba percepire delle somme dalla società solo quando questa non è in liquidazione! L’ambito di azione è ormai sostanzialmente circoscritto. Si tratta solo di risolvere l’ultimo dilemma: una società in liquidazione può produrre ancora utili?
Certamente sì, è la risposta. In ciò viene in aiuto anche l’art. 47 comma 7 del TUIR, il quale stabilisce che le somme ricevute dai soci in caso di liquidazione di una società sono oggetto di tassazione per la parte eccedente il prezzo pagato per l’acquisto. Di conseguenza rientrano nell’oggetto della tassazione anche le somme assegnate ai soci a titolo di patrimonio netto risultante dalla liquidazione, nulla rilevando se esse possano riferirsi a voci di utili o di denaro conferito in sede di costituzione o successivamente. 
  Il principio di diritto. La sentenza in commento è senz’altro innovativa, tanto da far esprimere agli stessi Ermellini il principio di diritto per il quale quando si è in presenza di soci usufruttuari di una quota di srl, qualsiasi somma che la società in liquidazione distribuisce come esito della liquidazione stessa, deve essere tassata dal socio usufruttuario e non da quello nudo proprietario. 

 

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Corte di Cassazione: la compensazione delle spese di lite tributaria deve essere adeguatamente motivata. Il caso della Camera di Commercio di Roma.

Dom, 14/04/2024 - 16:17
Si dovrebbe essere seri e limitarsi a commentare una sentenza della Cassazione che riguarda la sempre irrisolta questione della compensazione delle spese di lite. Un commento fatto senza farsi distrarre dal merito della causa. Rimanere concentrati esclusivamente sui principi di diritto che la Suprema Corte esprime. Purtroppo in questo caso tutto questo è assai difficile. Sì, perché al di la del merito giuridico, ciò che irrita è il fatto che in contenzioso nasce a seguito dell’ennesima situazione di inefficienza in cui versa la Pubblica Amministrazione. Con l’aggiunta per di più che pure una Commissione Tributaria di Primo Grado ci aggiunge del suo, ad aggravare la questione. L’oggetto del contendere è questo: un contribuente propone ricorso contro alcuni avvisi emanati dalla Camera di Commercio di Roma. Nei motivi di ricorso si evidenzia l’intervenuta prescrizione di quanto richiesto dall’ente pubblico. Valore della lite: 1.114,75 euro. La Commissione Tributaria Provinciale di Roma gli dà ragione e, oltre ad annullare la pretesa, condanna la Camera di Commercio di Roma alle spese di lite, che determina in euro 250,00.  A questo punto la questione pare chiusa qui, anche se stupisce un po’ il fatto che la Camera di Commercio di Roma probabilmente sapeva già di suo che gli avvisi potevano essere prescritti. Ma tant’è, lasciamo il beneficio del dubbio. Invece, purtroppo, la questione non è chiusa qui. L’avvocato che ha difeso il contribuente vittorioso, in sede di primo giudizio, si è dichiarato “antistatario”, cioè ha assistito il proprio cliente senza aver riscosso gli onorari e anticipando le spese del giudizio. In questo modo può chiedere direttamente alla parte soccombente, nella fattispecie la Camera di Commercio, di vedersi pagato il suo onorario. Cosa che puntualmente fa. In cambio non ottiene nessuna risposta. La Camera di Commercio di Roma, condannata al pagamento delle spese di lite, non risponde e non versa quanto dovuto. Di fronte a questo silenzio, all’avvocato non resta altro che proporre ricorso di ottemperanza ai sensi dell’art. 70 e ss. del D. Lgs. 546/1992, per chiedere alla Camera di Commercio di Roma di pagare le spese legali del precedente giudizio. In prossimità dell’udienza, l’Ente si costituisce producendo la contabile del pagamento delle spese di giudizio della causa dove è risultato soccombente. Solo che il pagamento è avvenuto in data successiva all’instaurazione del giudizio di ottemperanza. In pratica un Ente pubblico, solo di fronte alla minaccia di un nuovo giudizio negativo, provvede al pagamento di quanto dovuto in base a una sentenza precedente. La Commissione Tributaria Provinciale di Roma, di fronte al pagamento della Camera di Commercio di Roma, non può fare altro che dichiarare estinto il giudizio di ottemperanza, perché è avvenuto il pagamento per il quale si è prodotto il ricorso. Solo che al momento di stabilire a chi accollare le spese del giudizio di ottemperanza, invece di condannare ulteriormente la Camera di Commercio di Roma a rifondere anche queste spese, le compensa! Quindi ci troviamo di fronte al fatto che l’avvocato difensore del contribuente vittorioso del primo giudizio, per essere pagato, deve far nuovamente causa alla Camera di Commercio di Roma la quale si è guardata bene dal pagare tempestivamente le spese a cui è stata condannata. Le spese di questo nuovo giudizio, secondo i giudici tributari, sono a suo carico. Dimenticavo: il valore della lite del giudizio di ottemperanza è pari ad euro 364,78! Quindi l’avvocato ne riscuote 250 euro dalla Camera di Commercio di Roma ma per farlo ne deve pagare 364,78 al suo difensore. Per far rispettare un suo diritto ci ha rimesso 114,78 euro. Alla faccia del buon funzionamento della Pubblica Amministrazione. A questo punto l’avvocato del contribuente propone, giustamente si aggiunge, ricorso alla Corte di Cassazione per chiedere un pronunciamento di legittimità sulla compensazione delle spese del giudizio di ottemperanza fatta dalla Commissione di Primo Grado. Arriviamo, quindi, al principio di diritto contenuto nella sentenza n. 9037/2024 pubblicata in data 04.04.2024. Il principio che la Cassazione stabilisce è molto semplice. La sua base giuridica è contenuta nella sentenza n. 77 del 02 aprile 2018 della Corte Costituzionale, nella quale si dichiara illegittimo l’art. 92 secondo comma del Cod. Proc. Civile, nella parte in cui non consente, nelle ipotesi di soccombenza totale, di compensare parzialmente oppure per intero le spese di giudizio. Ciò anche nei casi in cui la compensazione sarebbe logica in presenza di gravi ed eccezionali motivi diversi da quelli tipizzati dalle norme. Nello specifico i casi tipizzati dalle norme sono quelli di soccombenza reciproca, di assoluta novità della questione trattata o di mutamento di opinione della giurisprudenza. Gli Ermellini scrivono che, quando non ricorrono i casi di compensazione previsti per legge, il Giudice deve sempre indicare i motivi alla base della compensazione delle spese legali: “La compensazione delle spese di lite allorchè concorrano gravi ed eccezionali ragioni, costituisce una norma elastica, quale clausola generale che il legislatore ha previsto per adeguarla ad un dato contesto storico sociale o a speciali situazioni, non esattamente ed efficacemente determinabili a priori, ma da specificare in via interpretativa da parte del giudice del merito, con un giudizio censurabile in sede di legittimità, in quanto fondato su norme giuridiche”. Nel caso di specie la Commissione Tributaria Provinciale di Roma non ha motivato le ragioni alla base della compensazione delle spese. Per cui la Cassazione non può far altro che cassare la sentenza e rinviare il tutto al Giudice di Primo Grado che deve rifare il giudizio indicando, questa volta, i motivi per i quali trova applicazione l’eventuale nuova compensazione delle spese. Il commento alla sentenza potrebbe finire qui, con una piccola chiosa finale rispetto all’obbligo che ha il Giudice Tributario di indicare i motivi alla base della compensazione delle spese di lite. Non è giusto, però, finire così. Si deve osservare anche la situazione di sperpero di denaro e risorse pubbliche fatto da un Ente pubblico. Già in partenza ci si poteva accorgere che gli atti erano viziati da prescrizione e non emanarli. Come si diceva, però, si può lasciare alla Camera di Commercio il beneficio del dubbio. La Commissione Tributaria di Primo grado ha però ristabilito correttamente la giustizia, sia annullando gli atti, sia sanzionando l’Ente attraverso il pagamento delle spese.  E’ il giudizio successivo che dimostra la scarsa efficienza dell’Ente pubblico. La sua inattività rispetto alla richiesta di pagamento delle spese di giudizio, ha portato a dover iniziare un nuovo contenzioso al quale hanno lavorato tre giudici, i segretari delle Commissioni Tributari, un funzionario della stessa Camera di Commercio e poi ancora, la Cassazione, i funzionari della Cassazione, tutto il personale amministrativo. Tutti pagati con soldi pubblici. Ma non è finita qui, perché adesso dovrà di nuovo lavorare la Commissione Tributaria Provinciale di Roma per adeguarsi alla prescrizione impostagli dalla Corte di Cassazione. Il tutto perché la Camera di Commercio di Roma non ha voluto pagare spontaneamente la somma impostagli da un Giudice Tributario pari ad euro 250,00. Il Fisco italiano non sta bene, ma anche la Pubblica Amministrazione non è di sicuro messa meglio. Analisi e commenti ImpreseOggi
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