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La casa di Kikko (il mio blog)

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Il blog di Enrico Rotelli: la mia Rimini, appunti, viaggi, racconti, articoli, libri e qualche foto…
Aggiornato: 2 giorni 15 ore fa

Emma Petitti, con Tiziano Arlotti, rispondono con un'interrogazione parlamentare alla mia lettera aperta sui lavoratori stranieri. Grazie.

Lun, 27/01/2014 - 15:04

La deputata riminese Emma Petitti, coinvolgendo il collega Tiziano Arlotti, ha risposto alla mia lettera aperta sui colleghi di lavoro stranieri che, perdendo il posto, potrebbero perdere, con i loro cari, i diritti al soggiorno. Maggiori dettagli li trovate in questo post. Per ora la risposta è un'interrogazione che verrà depositata alla Camera. Se poi si evolverà in normativa, beh, credo che civilmente sarà una cosa bella. Nata, peraltro, su un blog. Vi lascio al comunicato di Emma.

Petitti: "Immigrazione e lavoro, il caso Feynman impone di rivedere al più presto la normativa"

La parlamentare annuncia un'interrogazione alla Camera: "Modificare la durata dei permessi per rendere più stabile il soggiorno regolare e ridurre la precarietà indotta dalla perdita del lavoro"

Rimini, 27 gennaio 2013 - Il caso della cooperativa Feynman arriva in Parlamento. E' il deputato PD riminese Emma Petitti ad assicurare il proprio interessamento sulla vicenda, che coinvolge 15 lavoratori e lavoratrici italiani e stranieri messi in cassa integrazione dopo le trattative per evitare il licenziamento collettivo.

"Presenterò al più presto un'interrogazione al ministro del Lavoro Enrico Giovannini, sottoscritta anche dal collega Arlotti, e porterò il caso all'attenzione della Camera in occasione della discussione del Jobs act e del nuovo codice del lavoro - annuncia Petitti -. La vicenda della Feynman ha evidenziato infatti i numerosi limiti di un sistema normativo che non tutela adeguatamente i lavoratori quando si tratta di immigrati pur in regola con i permessi, che da anni vivono nel nostro paese e i cui figli frequentano la scuola. Per diversi addetti e addette stranieri della cooperativa, l'inizio delle trattative per evitare il licenziamento collettivo ha coinciso con il rinnovo del permesso di soggiorno. Se l'azienda li avesse licenziati, avrebbero invece perso il permesso e sarebbero diventati clandestini di fronte alla legge. E quello della Feynman non è un caso isolato, bensì uno dei tanti che in Italia riguardano migliaia di lavoratori stranieri integrati nelle nostre comunit à, che perdendo il posto rischiano di perdere anche i diritti".

Parallelamente alla riforma del lavoro occorre ripensare anche la disciplina sull'immigrazione e sulla condizione dello straniero, conclude la parlamentare. "Chiederò ai ministri e al Governo di intervenire. I lavoratori stranieri sono persone integrate nel nostro territorio, a cui va riconosciuta la piena dignità. C'è bisogno di una svolta culturale e legislativa, con una nuova legge quadro sull'immigrazione e sul diritto d'asilo e con la modifica dei termini di durata dei permessi, al fine di rendere più stabile il soggiorno regolare e sottrarre alla precarietà indotta dalla perdita del lavoro, consentendo di cercare una nuova occupazione. Una norma così sbagliata nei principi fa emergere tutti i suoi limiti proprio nei momenti di crisi, e ci impone di rimettere mano in tempi rapidi al complesso normativo sull'immigrazione".

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Dei lavoratori e dei clandestini: lettera aperta ai parlamentari Emma Petitti e Tiziano Arlotti

Dom, 26/01/2014 - 23:54

Cari Emma e Tiziano,

come forse avrete appreso da Fb o dai giornali, io e altre 14 persone potremmo usufruire, forse per tre mesi, della cassa integrazione. Come del resto sta accadendo a migliaia di altre persone. Vorrei però sollecitare il vostro interesse su un dettaglio secondo me di non poco conto. Inizialmente l'azienda voleva licenziarci. E questo avrebbe messo alcuni di noi, stranieri, nella scomoda condizione di perdere il permesso di soggiorno. Ovvero diventare clandestini.

Sto parlando, per capirci, di una donna ucraina, da 12 anni in Italia, con due figli grandi, che vanno nelle nostre scuole, uno credo alle medie, una in un istituto superiore. Un'altra vive qui da nove anni, ha un figlio di otto. E ce ne sono altri, più o meno, nella medesima situazione, familiare e di permanenza.

Per una di queste persone l'inizio delle trattative per evitare il licenziamento collettivo ha coinciso con il rinnovo del permesso di soggiorno. Per cui ha avviato le pratiche del permesso ufficialmente come dipendente. Per un pelo, come si dice da noi.

La maggior parte dei miei colleghi è straniera, più o meno tutti hanno figli che vanno a scuola qui, studiano la nostra lingua, la nostra storia, la nostra geografia. E come loro, chissà quanti si ritroveranno in questa medesima situazione in Italia. Rischiare di qualificarli civilmente come clandestini, non solo per come nell'immaginario collettivo è percepita questa parola, mi fa orrore.

E sono certo che lo fa anche a voi.

Confidando nelle vostre possibilità legislative, vi saluto caramente

Enrico Kikko Rotelli

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Un piccolo passo avanti nella vertenza Feynman

Mer, 22/01/2014 - 17:26

Il primo incontro tra la cooperativa Feynman e la delegazione sindacale di Cgil, Cisl e Uil ha segnato un piccolo passo in avanti per i 15 lavoratori, me compreso, coinvolti nella vertenza: l'azienda, che proponeva il licenziamento collettivo, ha accettato la proposta sindacale di richiedere la cassa integrazione in deroga per tre mesi, con decorrenza dal 1° gennaio. I segretari della Filt - Cgil, Fit - Cisl e Uil Trasporti, Ornella Giacomini, Gilberto Bellucci e Saverio Messina, verificato che sia la Feynman sia i precedenti datori di lavoro dei 15 operai coinvolti nell'appalto presso Opportunity versano i contributi per l'accesso agli ammortizzatori sociali, hanno ritenuto che ci siano i presupposti per vedere accolta positivamente dalla Provincia di Rimini la richiesta per la cassa integrazione in deroga, l'ammortizzatore previsto per le imprese cooperative. Richiesta che, visto l'accordo con la Feynman, sarà immediatamente sottoposta all'ente locale.

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Piccoli Moraldo invecchiano

Mar, 21/01/2014 - 23:37

Papà voleva che facessi come Moraldo, il protagonista del film I vitelloni, di Fellini. “Metti la testa fuori dalla caverna” mi diceva. Per questo mi propose di imbarcarmi sulle navi della Grande Compagnia Petrolifera. A me Moraldo piaceva. Soprattutto la scena di quando prende il treno e lascia la città a quei pataca dei suoi amici. Anche se all'epoca, pur avendo già visto il film, non l'avevo capito appieno. Forse perché non avevo capito Rimini così come la conosco ora. Non avevo la maturità, ma la curiosità sì. Presi il libretto di navigazione e mi imbarcai, tra la fine della scuola e il servizio militare. Poi però, dopo il militare, l'imbarco non c'era più: sbagliai le pratiche per lo sbarco a causa del militare e il posto non me l'avevano lasciato. E c'era la crisi. Come oggi.

Papà voleva sempre che mettessi la testa fuori dalla caverna e mi propose poi un imbarco su una nave Bp o non so di quale altra compagnia petrolifera. Nell'oceano Indiano. A dirla tutta non apprezzava nemmeno che facessi il marinaio sui pescherecci di Rimini, dopo il militare. Ma io di andare a fare il mozzo su una nave battente bandiera inglese, proprio non mi andava. Avevo visto come trattano gli stranieri sulle navi. Vieni dopo di tutti. Sul Ragno dovevo gestire io i filippini, quando eravamo nel Mare del nord, perché ero l'unico della cucina che parlava in inglese. Una sera li avevo lasciati liberi per finire io i lavoretti in cucina e il cambusiere si incazzò: te sei italiano, tu vai via, loro restano a fare il lavoro. Va bene. E avevo visto anche come discutevano le robe tra di loro: durante un litigio, mentre li stavo dividendo, uno di loro tirò fuori il coltello. Non è bello il primo piano di una lama. Per cui, di finire su una nave inglese, nell'oceano Indiano, con inglesi, filippini, indiani, pakistani e chi più ne ha più ne metta come ultima ruota del carro, mozzo appunto, beh, preferivo di no.

Però 'sto tarlo di Moraldo, papà a parte, ogni tanto tornava fuori. Solo che di andare in giro a fare l'operaio o il cameriere o il cuoco o non so cosa, non mi andava. Negli anni '80 si andava a Londra, tanto il lavoro si trovava. Ovviamente quello che gli inglesi non volevano fare: il cuoco, il cameriere ecc ecc. Come da noi oggi. Solo che noi arriviamo con 20 – 30 anni di ritardo. Ma loro non c'hanno quei coglioni della Lega, le stesse cose le fanno (senza dirle) con stile. Del resto, loro un impero coloniale lo hanno avuto sul serio, mica come noi che ci siamo fermati alle operette e ci sono venute pure male. E per questo saltai anche il gran tour – o la fuga di cervelli, come la chiamano ora - degli anni '80.

Qualche anno fa ero in giro per la Scozia. Mi venne in mente di andare a curiosare a Edinburgo per vedere se c'era qualcosa da fare lì di più interessante che controllare i resi dei librai a metà prezzo per la Grande Azienda di Distribuzione Libraria di Santarcangelo. Lì c'è una colonia nutrita di italiani, ma non era certo il mercato delle pizzerie che mi interessava. Per cui feci un giro informativo all'Istituto di Cultura Italiano. Così, per capire se per un giornalista c'era qualcosa da fare in quelle terre meravigliose ma decisamente freschine. Le impiegate erano gentili, ma poco collaborative in informazioni oltre alle pratiche che svolgevano. Non furono loro la causa dirimente dell'eclissi del sogno di Moraldo. Il colpo di grazia lo diede il tempo: sette giorni di pioggia e tre di coperto - in piena estate - su 10 furono letali.

Un'altra briscola non indifferente al povero Moraldo venne l'anno scorso. Dopo una settimana di dieta stretta anglosassone, fatta di sandwich o altri piatti immangiabili alla mensa dell'ospedale di Dundee, feci i salti di felicità divorando un piatto di spaghetti di riso presi al take away scoperto in qualche anfratto di un quartiere poco distante. Per non dire della liberazione quando con mia zia Rita armeggiammo nella coproduzione di un salvifico ragù intergenerazionale, per rinfrancarci da giorni di dolore e pasti informi. Noi, decisamente non razzisti in fatto di gastronomia. Forse sarò deludente dopo questo lungo panegirico - magari nemmeno bello – scritto dopo aver letto l'ennesimo resoconto pro o contro la fuga di cervelli, o più verosimilmente di braccia, all'estero. Ma mi piacerebbe pensarmi o sognarmi in un posto diverso - magari migliore, magari peggiore - se posso fare qualcosa, qualsiasi cosa, più interessante di ciò che faccio qui. Anche senza il ragù.

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Una porta piena di spifferi

Mer, 15/01/2014 - 16:05

Uno dice: beh, perdiamo il lavoro e pensa che sia finita lì. Si chiude una porta e si apre un portone, forse. E in qualche modo mi piacerebbe fosse così. E invece si scopre che si spalancano un sacco di feritoie da quella porta che si sta chiudendo, feritoie che occorre studiare, scrutare e poi tentare di aprire. Perché la porta che viene chiusa, forse, non è stata chiusa nel modo più corretto. Ma occorre dimostrarlo.

Me ne sono accorto oggi, quando siamo stati convocati per la penultima busta paga, quella relativa a a dicembre. La procedura è stata laboriosa: il presidente della cooperativa Feynman – il nome di un famoso fisico – ha esposto il suo profondo rammarico per l'epilogo e per la triste situazione in cui ci troviamo. Sottolineando che è anche la loro, una triste situazione. Gettando lì, en passant, che al tavolo delle trattative del prossimo 21 gennaio con le parti sindacali, avrebbe proposto il licenziamento collettivo.

Si è anche premurato di dirci a quali ammortizzatori potevamo accedere, escludendo subito mobilità e cassa integrazione. Due ore di colloquio, allungate da una costellazione di interventi vari dei colleghi, conditi dalle giuste preoccupazioni di chi ha responsabilità familiari maggiori. Un clima empatico che avrebbe commosso. Molti miei colleghi hanno partecipato a questo clima empatico, in modo più che dignitoso. Naturalmente nel tempo lasciato dal presidente. Altri ancora si sono preoccupati delle spettanze maturate e non ancora liquidate, nonostante se ne parli da tempo. Altri hanno preferito tacere. Sono stati per lo più gli stranieri, che non sempre riescono a seguire i dialoghi in italiano e le normative di un paese comunque straniero, «crazy but beautifull».

Ripeto: un clima empatico che avrebbe potuto commuovere. Se. Se non conosce abbastanza la legislazione vigente. Non si conoscono tutti i passi che hanno portato a questa prospettata conclusione. Se non si colgono i significati delle parole. Se non si mettono in fila gli impegni dichiarati. Se si accetta che restino dei meri enunciati. Se si da per scontato che l'empatia eluda in un colpo precise responsabilità. Ecco. E' stata in questa occasione che ho apprezzato la mia lunga militanza nella politica. Non so se potrà essere utile ai miei colleghi. Ma finita la riunione e tirate le somme tra di noi, ripercorrendo insieme quel che abbiamo sentito e quel che abbiamo visto in questo anno trascorso, quel clima empatico si è dissolto.

Argomenti: Luoghi:

Wanna Marchi mon amour

Mar, 14/01/2014 - 22:39

Ogni volta che leggo su Fb frasi del tipo “Clamorosa rivelazione”, “incredibile”, “prima che venga censurato”, “quello che non vedrete mai in televisione” mi vengono in mente certi personaggi, quando in televisione impazzavano gli urlatori nelle televendite. Robertino, mi pare si chiamasse uno, quello robustino, con i baffi, che sembrava sempre sull'orlo dell'infarto e in deficit d'ossigeno. Oppure la mitica Wanna Marchi, prima che le disavventure troncassero una gloriosa carriera di teleimbonitrice. E gli emuli? Una miriade, tutti a urlare a squarciagola nei tubi catodici di Telecampanile. Ecco, le tecniche di adescamento son sempre le stesse. Cambiano i prodotti che ti vogliono propinare. Solo che questi sono gratis, al massimo ti costano un voto.

Argomenti: Informatica:

Abbiamo perso il lavoro. Via sms.

Gio, 02/01/2014 - 14:14

Tutte le sere alle nove un sms mi avvertiva se avrei lavorato il pomeriggio dopo. Se non c'era lavoro, sarei stato a casa. Oggi, un sms mi ha confermato quel che già si ipotizzava: starò a casa a tempo indefinito. L'azienda presso la quale avevamo l'appalto ha disdetto il contratto causa cessione ramo d'azienda. E io e altre 16 persone non sappiamo quale sarà il nostro destino lavorativo. Tutto via sms. Per un anno ha funziona così: il messaggino mi diceva se c'erano dei libri da smistare ai vari ordini, inscatolare, impilare in bancali, sigillare e avviare alla spedizione. Parliamo di migliaia o decine di migliaia di libri. Funziona così in certe cooperative di logistica (perché formalmente è una cooperativa, ma il caposquadra chiamava il presidente “titolare”). Funziona così anche per chi è part time come me.

Dubito che “i milanesi” (come chiamo l'azienda del lavoro pomeridiano) ci chiederanno di trasferirci in un altro dei loro cantieri, a Milano – dove ha sede - o giù di lì. Magari però arriverà un sms: «nel dispiacerci per l'epilogo, l'informiamo con piacere che c'è pronto un posto per lei a Usmago, presso lo stabilimento XY, a partire dalle 7,30 di domattina». E' più probabile invece la cassa integrazione. L'ultima volta che li abbiamo sentiti – perché il disastro era nell'aria – ci hanno rassicurato: non sappiamo nulla, sappiamo solo che hanno venduto il settore dei libri a metà prezzo. Ma state tranquilli: c'è la cassa integrazione». Ho passato la vita sui libri, e gran parte delle cose che so me le hanno insegnate loro. Ora i libri mi regalano una nuova esperienza lavorativa: la cassa integrazione. Spero.

Argomenti: Luoghi:

E' passato pure l'ultimo tram chiamato Desiderio

Lun, 11/11/2013 - 23:14

Oggi era l'ultimo giorno utile per rinnovare la tessera Pd in vista del congresso. E non l'ho fatto. Tra le varie perplessità – che non sto a elencare perché non sono su un lettino da psicanalista anche se ci vorrebbe - non capisco perché dovrei rinnovare la tessera per scegliere i candidati, quando poi arriva uno sconosciuto che con me e il mio partito non c'entra nulla e decide, al mio pari, chi dovrà dirigerci. E ce ne sono. Qualche tempo fa ho cenato con uno che era dichiaratamente di destra, antieuropeista, vagheggiava il ritorno alla lira e – udite udite – la cancellazione della cassa integrazione ed altri ammortizzatori sociali. L'alternativa era un reddito di cittadinanza a scaglioni in base all'età, che tutti percepivano a partire da bambini. E i soldi? Bastava stamparli. Senza l'euro sarebbe stato più facile. Mi ha confessato di aver votato Renzi alle primarie. Poi però ha votato Berlusconi: «io volevo Renzi come candidato, ha vinto Bersani e io non lo volevo». Pensare che si permetterà a questo di decidere chi guiderà il mio partito - a parte che mi da il disgusto - mi fa seriamente riflettere sul senso di appartenenza a un partito. Come a un ricordo, ovvio.

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Solenne ottavario dei morti

Sab, 02/11/2013 - 19:11

Mi piaceva di più andare al cimitero a trovare mio fratello quando fumavo. Spostavo un ciaffo a forma di paperella che qualcuno – non so chi e non so perché – gli aveva lasciato di fianco all'immagine, mi sedevo al suo posto, rollavo la mia paglia e mi ritagliavo quelle poche boccate con lui. Qualche volta parlavo del più e del meno – sto imparando a gestire mamma, Viola mi sembra un po' smarrita, non riesco a darmi una radanata... - ma poi ho smesso: se c'è un aldilà, è probabile che sappia già tutto, se non c'è un aldilà, sono solo un altro matto che parla da solo. E così spipacchiando il mio tabacco passavo con lui una decina di minuti.

Ora che ho perso il vizio delle sigarette, il giro da Robi ha molto meno senso. La sua assenza è una presenza conclamata nei gesti quotidiani. I fiori non si possono portare perché non c'è modo, tra l'ulivo nano e i fiori nella terra e la composizione stagionale a centro tomba. E poi la cura delle spoglie è il consolatorio monopolio delegato alle sue due donne. C'è il piacevole del posto, calmo, tranquillo, con quell'affrettarsi di congiunti intenti alla cura dei marmi, delle foto, delle piante, il cui andirivieni ricorda il bottinare delle api, instancabile e immutabile liturgia del ricordo. Anzi, della pulizia del ricordo.

Oggi poi ha avuto ancora meno senso. O pregnanza, o interesse, o gusto? Il cimitero invaso dalle torme di congiunti agghindati nella festa, il baracchino dello Ior che ha preso il posto del rom che chiede l'elemosina (stesso rito, ma molta più professionalità, non trovate?), i vigili alla porta in alta uniforme, le anziane con il capello scolpito da grande occasione, con quel grigio che del tempo non ha nulla, anzi riluce di riflessante... Ecco, tutto quel che negli altri 364 giorni manca, rendendo il cimitero un luogo piacevole da percorrere.

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Erich Priebke: una pietra sopra

Mar, 15/10/2013 - 00:37

Non è per niente facile chiudere questa maledetta vicenda di Erich Piebke, gravata com'è da un bel po' di sovrastrutture che non andranno mai in pensione. Né quelle a carico del boia delle Ardeatine – e ci mancherebbe altro!!! - né quelle a discarico. Purtroppo, aggiungo. Ma una pietra sopra comunque va messa. Un po' per evitare altri imbecilli che scrivano con mano tremolante frasi insulse e macabri segni. Ma sopratutto perché credo fermamente sia necessario, per chi si riconosce nelle ragioni dell'accusa all'ex capitano delle Ss, marcare la differenza tra “uomini e no”.

Per questo non sono d'accordo con chi gli vuol negare la sepoltura. La pietà per un morto, innanzi tutto. Magari spererei che la famiglia, come ha fatto notare il Governo tedesco, decida per una tumulazione all'estero. Siamo pieni di idioti che indossano fez o anfibi inscenando macchiette nostalgiche sulle tombe di illustri assassini. Riportare le spoglie di Priebke nella sua terra natia, oltre a dissuadere odiose sceneggiate e conseguenti contromanifestazioni, sarebbe soprattutto un gesto di rispetto per le sue vittime e per una terra che egli ha insanguinato e che solo in parte è riuscita a punirlo per l'efferatezza del suo delitto. Ma temo, dopo aver letto la provocazione del figlio – “seppellitelo in Israele” - sia difficile un atto di buon senso. Eppure, di questo abbiamo bisogno. Solo di questo e di un po' di pace.

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Il Cuore di Rimini batte ma non ha fiuto per la pecunia calcistica

Gio, 12/09/2013 - 23:49

Non mi reputo bacchettone, credo nella legalizzazione delle droghe leggere, non ho figli, ma quando ho letto che uno sponsor della giovanile di calcio di Rimini è il Cocoricò ho storto il naso. Perché credo che il Cocco stia all'educazione calcistica come una dama di carità sta alla solidarietà. E ancora di più l'ho storto leggendo i commenti di chi invece quei soldi “pochi, maledetti e subito” (l'ho messo tra virgolette per ironia, ovvio) li apprezza, li brama e se ne frega da dove vengono.

Non è peregrino il paragone della dama di carità di ottocentesca memoria. Credo infatti che un simile binomio, se anche porta nelle esangui casse del vivaio calcistico un po' di soldi, valga per un locale chiuso per problemi attinenti alla droga come una patacca di buone intenzioni da appuntarsi sul petto. Roba di marketing buona quanto un'operazione di ricostruzione dell'imene alla vigilia del matrimonio. Intendiamoci, non ho elementi per ricondurre direttamente il Cocco ad abusi di stupefacenti. Non mi interessa nemmeno farlo. La decisione è stata presa da organi dello Stato in base a delle leggi e a degli atti che le contravvenivano. E' un fatto, e basta. E in materia di droghe leggere – sottolineo leggere, ovvero i derivati dalla cannabis - sono io il primo a non essere d'accordo con le patrie leggi. Ma questo è un altro discorso.

E' un fatto però che le parole Cocco e abusi formino una rappresentazione scolpita nell'immaginario di generazione e generazioni di frequentatori di discoteche, dai più giovani agli attuali genitori. Chiunque lo percepisce. Sono molti meno quelli che conoscono il Cocco come qualcosa di più, quale è infatti. Il Cocoricò è un fenomeno di costume, è un locale dove le culture giovanili sono cresciute e diventate tendenze, è un luogo di lavoro, un'icona, un brand che attira altri brand. E' speciale, magari bellissimo. Ma non c'entra nulla con i valori dell'educazione sportiva.

Questo brand, oltre ai soldi, non porta un valore aggiunto al vivaio calcistico del Rimini. E' il vivaio calcistico del Rimini che porta qualcosa al locale. Lo aiuta a ricostruire la sua verginità come faro delle giovani generazioni, non solo legato al ballo e ai riti della notte. Una verginità perduta irrimediabilmente nell'immaginario collettivo e, recentemente, nei provvedimenti di pubblica sicurezza.

C'è chi ha ben chiaro che non è, tutto sommato, un affare d'oro il connubio calcistico – educativo con il nome del locale riccionese. E chi invece preferisce seguire l'adagio del “pecunia non olet”. Anzi, visto che uno dei contrari e Stefano Vitali, la nenia principale che viene intonata è “Non ci sono alternative e comunque dove sono le istituzioni, cosa fanno e cosa propongono?” Stefano difende da sé le proprie idee, io posso dire che diversi gli hanno risposto con solenni patacate. Qualcosa di più di una patacata invece è il comunicato di  Cuore di Rimini, la piccola lista civica presentatasi alle scorse elezioni e, da come si dimena, mi sa anche alle prossime. In un lungo comunicato di non facile lettura Emanuale Pironi, - con il quale condivido occasionalmente un calice di vino e quattro chiacchiere, entrambi piacevolmente, all'enoteca del Teatro – traccia al pubblico i perché sì dei civisti. Tralascio gran parte del testo, leggetevelo sul sito di Cuore di Rimini.  Sottolineo solo due passaggi. Il primo : «... se posti di fronte ad uno sponsor eticamente e legalmente impresentabile, allora si che lo stigmatizzare diventa opera non solo accettabile, ma ineludibile e doverosa». E' chiaro che un locale chiuso per problemi connessi allo spaccio, per la lista civica non rientra nella fattispecie.

Vi lascio chiosando dopo con il passaggio seguente: «E bandendo l’ipocrisia, se possibile, quale sarebbe lo sponsor ideale? Quello senza macchia? Quello che non urterebbe nessuna sensibilità? Siamo sicuri che tutto andrebbe bene per tutti, se lo sponsor fosse un ente benefico che gira solo il 17% circa di ciò che incassa per tutelare i soggetti del proprio oggetto sociale? O se fosse una ditta che raffina il petrolio? O che produce il famoso abbigliamento in paesi poveri semmai sfruttando bambini? O se fosse un’industria che sopravvive solo con aiuti di stato ed infischiandosene dei diritti dei lavoratori? O se fosse il magnate straniero, dai dubbi affari in casa propria?» Chiaro il concetto? Le perplessità sulla situazione legale dello sponsor sono solo ipocrisia e, pare di capire leggendo la brillante rassegna delle ipotesi più astratte, con qualunque sponsor ci sarebbero state delle polemiche. Per cui va bene così. E meno male che parliamo di educazione sportiva.

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Prima uscita da Giocatore Abilitato: bye bye driver

Gio, 15/08/2013 - 21:17

Ieri ho raggiunto il battesimo del campo: le mie prime nove buche. Ufficiali. Essì, perché in realtà ero già sceso su un golf course, in Scozia. Lì, nessuno mi ha chiesto nulla. Qui, in Italia, invece, dopo esserti affiliato alla Federazione Italiana Golf, la trafila è decisamente diversa, come puoi leggere qui: prima diventi giocatore non abilitato (Na). Poi un istruttore o una commissione ti abilita al campo e diventi Giocatore Abilitato (GA), e puoi giocare sui golf course. Poi dai l'esame delle regole e diventi Non Classificato (N.C.), ovvero senza handicap, poi giochi nelle gare per N.C e ti danno l'handicap... Insomma, la storia si fa lunga e... «Non di questo mi sono messo a raccontare» :-)

Anche se in quest'ultimo anno mi sono “sfinito” a giocare sul campo executive di Villa Verucchio, Rimini, il traguardo di scendere su un vero campo è comunque emozionante. U po' perché le buche sono molto più lunghe (e il mio drive è decisamente in fase di affinamento), un po' perché comunque ti misuri con chi ti precede e chi ti segue. E tra palle perse, slice ed errori vari, il gioco si prevede lento. Per cui, tra l'emozione e le preoccupazioni, già si parte con un bell'handicap. Per fortuna, mentre mi apprestavo al tee giallo della buca Uno, un giocatore – Carlo, un NC come me ma già in odore di classificazione – si è proposto come compagno di debutto. Il che, se da una parte sfalsa il mio gioco – ogni volta che gioco con qualcuno, si risveglia il competitor che dorme in me e.... sbaglio l'insbagliabile – dopo pochi colpi è stato un toccasana. Poiché non solo mi ha illustrato il campo sul quale stavo giocando, a me del tutto sconosciuto, ma ha reso piacevole e talvolta didattico un tour altrimenti impegnativo, a paragone del campo executive.

Intanto, già dal primo colpo, ho abbandonato il driver n. 1. La prima buca al golf course di Villa Verucchio è un par 5 di 440 metri, con un percorso a sinistra che, costeggiando un laghetto, disegna una U. Con, in più, un piccolo ostacolo d'acqua proprio nel mezzo. Già al primo slice opti per ridimensionare i tuoi sogni di potenza. Con un legno tre o un rescue, proseguendo nel gioco, sono riuscito ad ottenere gli stessi risultati (che speravo di ottenere) restando più o meno nel fairway o poco distante. Qualche volta ho perso anche la palla, sia chiaro. E' vero che i primi colpi hanno risentito del giocare con uno sconosciuto: dalla psiche emerge prepotente quello spirito competitivo capace di soffocare l'adagio del primo maestro: «nice and easy, nice and easy». Ma nel prosieguo, grazie al compagno di gioco sportivo e illuminante e ad una maggiore calma, ho notato che un po' meno desideri di distanza e un po' più di precisione ti consente di puntare a stare nel par. Puntare, beninteso... Senza contare che il percorso riminese è lungo e ricco di ostacoli: se non si è ragionevolmente padroni dei propri colpi, meglio una sana prudenza. Il risultato è stato un percorso buche 1 – 9 davvero piacevole, che stimola a continuare, sperando tra qualche tempo ad affrontare il più impegnativo percorso 9 – 18 riminese.

Argomenti: Sodalizi: Luoghi:

Tra il libro e il moschetto

Sab, 27/07/2013 - 19:15

C'è qualcosa di autolesionistico nella politica comunicativa dei Nuovi Balilla. Loro ci provano a mostrare i muscoli come gli “antenati”, fieri e impettiti nel nuovo look fatto di camicie immacolate e bandiere garrenti. E fin qui, gli va bene. Se scatti una foto senza indugiare nei particolari dei volti, magari possono essere pure equiparati ai combattivi nonni (se a loro fa piacere...). Il problema è quando lasciano il libro e, prima di imbracciare il moschetto, si impratichiscono di altre armi. E qui il neobalilla, ahimè, scivola. Stavolta sulla classica buccia di banana.

Ne hanno dato una dimostrazione gli aderenti a CasaPound il 21 giugno, a Solferino, Mantova. Arrivano per manifestare contro la privatizzazione – secondo loro – della Croce Rossa e cosa ti combinano? Con le torce che brandivano hanno dato fuoco alle sterpaglie, costringendosi ad una precipitosa fuga.

Non è andata meglio a Cervia, l'altro giorno, quando un altro neobalilla, di altra formazione, ha tentato di sfruttare l'assist (mediatico) di Calderoli, lanciando alcuni frutti all'indirizzo del ministro Cècile Kyenge. Posto che alle feste dell'Unità folle oceaniche si notano solo alla balera, il neobalilla è arrivato appena alla prima e seconda fila, meritandosi l'ironico sfottò del ministro Cècile Kyenge – che sarà ormai stufa di misurarsi con decerebrati – e persino di disconoscimento dalla locale squadretta di Forza Nuova. Il che, è tutto dire.

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Qualcosa da difendere. Ovvero, una Citroën Dyane, Mutonia e le giovanili “visioni” cyberpunk.

Lun, 08/07/2013 - 10:15

Il primo amore a quattro ruote fu la Citroën Dyane 6. Gialla. Anche il secondo. Rosso fiammante. E quando raggiunse i limiti di età, non portai la mia Dyane dallo sfasciacarrozze. La portai alla Mutoid Waste company, a Santarcangelo Perché sapevo che quegli artisti squinternati le avrebbero dato una seconda vita. Il che mi piaceva assai. Erano già parcheggiati da qualche anno a Santarcangelo, usciti da un film di Mad Max proiettato nel centro di Londra. E alle colorate creste che i loro colleghi londinesi mostravano per foto da cartolina, loro aggiungevano un'arte meravigliosa, ridare vita artistica ad oggetti che la civiltà-così-come-la-conosciamo gettava via. Dai ramificati tentacoli culturali e tematici della letteratura cyberpunk – integrazione uomo–macchina, degrado ambientale da industrializzazione selvaggia, denuncia di un'economia aggressiva e democraticida – arrivano questi qua in una cava dismessa lungo il Marecchia, archeologia della rapina ambientale.

Magari a questi non gliene fregava niente di William Gibson o J.C. Ballard, Mad Max è stata un'occasione per fare qualche opera, forse si preoccupavano di fare qualche spettacolo e festa e basta... Non lo so, chi guarda un'opera di solito ci trova tante di quelle robe che l'autore manco ci pensa. Ma la loro presenza per me ha significato qualcosa. Al confine di un mondo che guardava all'effimero e che rapinava l'ambiente come se non ci fosse domani, che vestiva i panni della rivolta solo perché li preferiva a quelli dell'omologazione, i Mutoid erano una ventata che spazzava via tutti gli alibi provinciali, un pezzo di contemporaneità culturale inverata nel quotidiano, la lievità e la naturalezza del vivere un'idea piuttosto che indossarla sulla passerella del proprio ego.

Ecco, pensare che il boxer bicilindrico e lo chassis della mia Dyane sarebbe diventato un mezzo che impennavano nel mezzo degli spettacoli, la scorta al loro drago sputafuoco, mi riempiva in qualche modo di orgoglio. Oggi, quel gesto ha il potere di far passare in secondo piano anni e anni di ciarpame da me prodotto, ovvero il mio contributo alla civiltà-così-come-la-conosciamo.

Io non so perché si è giunti a questo”sfratto” della comunità dalla cava dove vivono da 20 anni. Se per un cavillo da azzeccagarbugli insondabile o per insipienza. Se a Santarcangelo si guardava veramente ai Mutoid come una risorsa, di sicuro avrebbero dovuto “blindare” anche amministrativamente la presenza della comunità. Ma verrà il tempo di valutare eventuali responsabilità politiche. Questo è il tempo di dare atto di ciò che ha prodotto un innesto culturale e di difenderlo.

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La stanza accanto

Lun, 13/05/2013 - 17:10

Death is nothing at all. It does not count. I have only slipped away into the next room. Nothing has happened. Everything remains exactly as it was. I am I, and you are you, and the old life that we lived so fondly together is untouched, unchanged. Whatever we were to each other, that we are still. Call me by the old familiar name. Speak of me in the easy way which you always used. Put no difference into your tone. Wear no forced air of solemnity or sorrow. Laugh as we always laughed at the little jokes that we enjoyed together. Play, smile, think of me, pray for me. Let my name be ever the household word that it always was. Let it be spoken without an effort, without the ghost of a shadow upon it. Life means all that it ever meant. It is the same as it ever was. There is absolute and unbroken continuity. What is this death but a negligible accident? Why should I be out of mind because I am out of sight? I am but waiting for you, for an interval, somewhere very near, just round the corner. All is well. Nothing is hurt; nothing is lost. One brief moment and all will be as it was before. How we shall laugh at the trouble of parting when we meet again!

Henry Scott Holland

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Il pane, il circo e non so bene cosa

Ven, 26/04/2013 - 15:43

Sto scoprendo una curiosa assonanza tra i miei stati d'animo e la panificazione casalinga. Quelle robe strane per cui se ti girano i maroni perché i grandi elettori del Pd suicidano una classe dirigente e sé stessi bruciando un presidente decente, i neogiacobini propongono trucchetti per guadagnare altro consenso senza fare un cavolo e i cugini delle nipotina di Mubarack gongolano, il pane e la pizza e la spianata ti vengono da schifo.

Ho provato a cercare altre cause nella debacle panificatoria della settimana scorsa. Giuro, ci ho provato. Ma il veleno che ha ammorbato i miei farinacei è facilmente individuabile nel big bang che si è consumato a Montecitorio. Perché al pane, mi sto accorgendo, ci sto dando un senso. Anzi, molto più di uno. E' come se mi stesse smuovendo qualche tappo ancestrale, liberando cose che non riesco a cogliere nella loro interezza. Ecco, se vogliamo usare un'immagine, sono il mostro di Frankenstein Junior quando suonano il violino: agito le mani per afferrare la musica. Ma inesorabilmente sfugge.

So solo che, forse contaminato da una moda passeggera, forse coinvolto in un flusso carsico di desideri primari che depurino i nostri bisogni inquinati, ho posto nella panificazione casalinga un gesto di comunanza. Devo andare a mangiare dalle mie nipoti? Cucino il pane. Vengono gli zii da Milano? Porto il pane. L'amico smette il maiale e invita al baccanale? Impasto il pane. Le due parenti hanno litigato e non si parlano? Porto a entrambe un pezzo della stessa pagnotta. Fatta da me.

Ho cominciato per caso. Anzi, ricominciato. Perché da garzone, nelle cucine dei mercantili, il panettiere mi aveva insegnato a fare il pane, esattamente 30 anni fa. Naturalmente non mi ricordo nulla. Mi ha incuriosito tutto questo gran parlare di pane o lievito madre che attraversa web, vita e reparti elettrodomestici dei centri commerciali. Poi. Mia cugina fa il pane in casa: butta tutto dentro una macchinetta e questa sforna pagnotte. Il commercialista dinoccolato fa il pane. La tipa-che-si-iscrive-a-tutti-i-corsi fa il pane in casa. Messe di informazioni frammentarie alimentano blog eleganti - la cucina sta andando di moda, mi sa che soppianta la fotografia quest'anno - e forum. Li ho letti, ma insoddisfatto ho tampinato un'amica compiacente che ha generosamente concesso le sue nozioni, indicandomi il centro macrobiotico come luogo di spaccio per un po' di pasta madre. Dove mi sono recato. E questo, da solo, merita un siparietto.

- Buongiorno, vorrei del lievito madre

- Un attimo che viene la signora, è lei che se ne occupa, mi dice un ragazzotto dietro il bancone dei pani, biscotti, crostate e via così.

Esce una signora dal laboratorio e ripeto la domanda. E questa:

- Ma lei ha fatto i nostri corsi per gestire il lievito madre?

- No

- Li ha fatti sua moglie?

Evito di spiegarle che sono zitello e dico No.

- Perché – continua – sa che ci sono delle procedure da fare per gestire la pasta madre...

- Sì, sono al corrente, me l'ha spiegato un'amica che ha già esperienza che va rinfrescato con la stessa quantità di farina e la metà dell'acqua..

- A bene, perché sa, non è che lo vendiamo così... Poi non è facile, sarebbe meglio fare il corso, ma se sapete già cosa fare...

La risposta sulle tecniche è quanto di più evasiva si potesse immaginare, ,ma io insisto: - usate farina Manitoba (farina adatta a panificare che ingloba molta acqua, ottima per pane, pan brioche, panettoni e colombe pasquali)?

E questa si chiude a riccio: - A no, noi usiamo solo farine di grano antico, non usiamo queste farine moderne...

Apparteilfatto che la farina Manitoba viene dall'omonima regione canadese e la usavano i nativi americani... Ma insomma, un quarto d'ora di terzo grado per darmi un po' di poltiglia in un barattolino di vetro, con la quale cominciare i miei esperimenti...

Due giorni dopo provavo a fare il pane. Due giorni dopo e un assaggio scoprivo che era altamente acido, oltre a non essere lievitato. Quattro giorni dopo ho provato a fare la pizza, acida e piatta come una tavola. Due settimane dopo facevo un corso per panificare con il lievito madre, ma con una tecnica diversa, tenuto da Paolo Bissaro. Un mese e diversi pani bianchi e di segale e pizze dopo continuo a panificare con la pasta madre solida ma ho buttato nel water la poltiglia del centro macrobiotico.

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Visto da vicino, nessuno è normale

Gio, 25/04/2013 - 01:15

... Alba crebbe con l'idea che la normalità fosse un dono divino. Ne discusse con sua nonna.

- In quasi tutte le famiglie c'è qualche rimbambito o pazzo, figliola - assicurò Clara [...] - Talvolta non li si nota perché li nascondono come se fosse una vergogna. Li chiudono nelle stanze più isolate, affinché non li vedano quando ci sono visite. Ma in realtà non c'è di che vergognarsene, anche loro sono opera di Dio.

- Ma nella nostra famiglia non ce ne sono, nonna - replicò Alba.

- No. Qui la follia è divisa fra tutti e non ne è avanzata per avere il nostro matto da legare.

La casa degli spiriti, Isabel Allende

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Come una goccia di petrolio nel mare

Ven, 05/04/2013 - 00:30

Sono tre giorni che il mio pc ha gravi problemi: non parte. Parte solo e soltanto grazie a un live cd (un sistema operativo in un cd che fa funzionare la macchina). Succede. Potrei maledire openSuse - linux (colpa sua). Potrei incazzarmi per averlo aggiornato (tutte le volte c'è una magagna che spunta). E invece... Non mi affaccendo più di tanto sui forum. Non accorro al suo capezzale smanettando in file di configurazione. Aspetto pazientemente i consigli di chi ne sa più di me, che arrivano puntuali alla mattina, per metterli in pratica solo alla sera, quando ho tempo e con molta calma. Insomma, mi trovo a godermi una pausa relativa nella relazione morbosa con il mio personal computer. Troppo morbosa. continuo ad aspettarmi troppo da lui. Continuo ad aspettarmi troppo dalla Rete, dai social media. E' come se da questo strumento dovesse giungere qualcosa o qualcuno di messianico, capace di rivoluzionare davvero la mia vita. Percepisco l'ansia di aggiornare i sistemi, aggiornare le pagine che visito, aggiornare gli stati che incessantemente migliaia di amici, conoscenti, semiconoscenti e sconosciuti vomitano nel più feroce frullatore di umani umori mai inventato. Più percepisco e alimento l'ansia, la simultaneità e l'ubiquità digitali e più le energie precipitano e le parole sfuggono. Si spandono come una goccia di petrolio su un mare piatto, che ammanta di colore la sua tossicità.

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Roberto, secondo anniversario

Lun, 25/02/2013 - 13:38

… decisi che in quella famiglia disgregata, sfasciata, lacerata, io e mio fratello dovevamo essere diversi. Decisi che non potevamo essere come i nostri genitori, dilaniati da una guerra infinita della quale eravamo ostaggi e non meri spettatori. Deposi le armi. Con un gesto unilaterale cessai ogni scontro, per quanto piccolo e naturale tra fratelli giovani. Ciò che più mi ha stupito, negli anni che seguirono, è che non ci fu bisogno di dirlo. Mio fratello mi seguì su quella strada. O la percorse con me, non ce lo siamo mai detti. So solo che nei nostri rapporti, per quanto cresciuti diversi, distanti, in ambienti, contesti, esperienze profondamente lontane, ci riconoscevamo, ci rispettavamo, ci amavamo. Quando morì, capisco ora, è morto l'ultimo legame con una famiglia così come l'avevamo conosciuta. Non potevo ricostruirla a partire dalle macerie abbandonate sul terreno, dovevo crearne una nuova. Nonostante le macerie.

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Tra il detto e il non scritto: primarie, il mio appello per Elisa Marchioni

Sab, 29/12/2012 - 20:26

Domani sarò uno dei tanti iscritti che voterà alle primarie per i parlamentari, così come ho scelto il mio leader, Pieluigi Bersani. E so anche chi votare, perché per 4 anni e mezzo ho visto, condiviso e raccontato il suo lavoro: Elisa Marchioni. Qualche dietrologo più cinico di me ci potrà leggere una scelta di opportunismo professionale. Il mio curriculum e la mia coscienza, che se ne fregano allegramente dei dietrologi (ma li conoscono), sono dalla parte delle ragioni che hanno sostenuto il suo operato in questi anni non facili e che la sostengono in questa ennesima prova – le primarie – anch'essa in salita. Le ragioni di un iscritto Pd abituato a scegliersi il suo team leader e il suo destino. Anche professionale.

Quando fu messa in lista Pd in posizione eleggibile alla Camera, l'Unità di Bologna titolò «Elisa la ragazza radio e chiesa che va a Roma». Meno diplomatici del giornale di Gramsci, altri la vedevano come una vispa Teresa un po' cresciutella, non so se aspettandosi il tritacarne di Montecitorio o solo sulla scorta di uno sguardo provincialotto che si elargisce a tutto e tutti, qui tra l'Ausa e il Marecchia. Si sbagliarono clamorosamente.

Ne sa qualcosa la Michela Vittoria Brambilla, ministro tanto procace quanto inconcludente che perse le staffe perché la nostra la martellava su come usava i fondi del ministero per compensare consulenti che – per caso – lavoravano a campagne elettorali del Pdl. Con annessa inchiesta della Corte dei Conti. Narrano di urla e improperi poco signorili all'indirizzo della riminese. Di sicuro non si presentò a rispondere in commissione. La focosa ministra ebbe grattacapi anche sul pozzo senza fondo che era il sito Italia.it. Oppure sulla gestione dell'Enit, accendendo un'ulteriore inchiesta parlamentare. A rendere inconcludente il suo mandato ci pensò la Corte Costituzionale: il codice del turismo Brambilla fu bocciato in 19 punti. Eppure la Vispa Teresa l'aveva avvertita...

Nel frattempo, dalle nostre parti, si consumava la guerra di logoramento tra Italia e San Marino, con Tremonti silente e il Titano dolente. Sappiamo cosa c'era in ballo, ma nel frattempo il silenzio del commercialista di Berlusconi permetteva a qualcuno di fare il pesce nel barile, ad altri – i frontalieri - di farsi triturare in un braccio di ferro logorante, mentre il ministro degli Esteri Franco Frattini diceva che per carità va tutto bene. Fino al 10 marzo 2011, quando nel question time Elisa Marchioni chiede a Tremonti di svelare le carte. E Sonia Viale, sottosegretaria, rivela finalmente cosa c'è che non va. Quisquilie tipo «controlli sulle banche e sulle società finanziarie sanmarinesi nonché sulle sanzioni per i comportamenti illegali», nessun accordo in materia di scambi fiscali, poca trasparenza. Insomma «la Repubblica di San Marino – dice a Montecitorio il sottosegretario - è sempre più rifugio per i capitali di origine illecita e, da ciò, deriva il timore che sia anche meta per la malavita organizzata, sia italiana che estera». La nostra vispa Teresa avea tra l'erbetta al volo sorpresa “gentil” farfalletta.

Io tralascerei il resto della legislatura. C'è un sito www.elisamarchioni.it che parla a chi vuole ascoltarlo con le proprie orecchie e giudicarlo secondo coscienza. Non la voterò solo per questo. E nemmeno perché so cosa si annida tra le righe degli appelli e quelle dei giornali. La voterò anche per le parole che ha scritto a una madre menomata del suo affetto più caro e che Elisa non ha dato in pasto ai media affamati. E per la sorellanza che quella donna che non conosceva le ha concesso, carezzandole le mani.

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