“C’è una rivoluzione in corso nel mondo arabo. E’ la rivoluzione che sta cambiando il prisma attraverso il quale gli arabi guardano gli eventi nel mondo e del loro ‘giardino’. Una rivoluzione che sta riforgiando il modo in cui la gente comune osserva i suoi leader e il modo in cui essi interagiscono con il popolo. Questa è una rivoluzione dei media e nessuno è meno interessato dei giornalisti stessi. La questione del loro ruolo è oggi al top dell’agenda nel mondo arabo”. E’ l’incipit dell’analisi di Lawrence Pintak , direttore dell’Adham Center per il giornalismo elettronico all’American University del Cairo, oltre che co-editor del giornale Arab Media e society. Analisi, "Rewriting the rules of journalism ", apparsa sul sito di Al Jazeera, nello speciale che l’emittente offre per il decennale - e il lancio del nuovo canale in lingua inglese, in onda dalle 12 (ora di Greenwich) di mercoledì 15 novembre.
L’analisi affronta il cambiamento dei media di questi anni, un cambiamento che coincide anche con le trasmissioni della rete satellitare del Qatar, e che investe non solo i rapporti tra media e potere, le cui leve stanno, secondo Pintak, lentamente sfuggendo dai governi, ma lo stesso ruolo che i giornalisti stanno assumendo. “Faccio parte della generazione di reporter americani dei primi anni ‘70. - scrive - Vietnam e Watergate ci hanno portato a credere che potevamo cambiare il mondo. Lo stesso senso di eccitazione possiamo trovarlo tra i giovani cronisti arabi. Una delle mie studenti all’American University of Cairo, spiegandomi perché voleva lavorare nei canali satellitari arabi, ha scritto: “Non posso criticare dal mio Paese, ma il giornalismo mi permette di criticarlo da fuori e iniziare a fare sì che le cose cambino”. Un diverso punto di vista che riguarda anche molti giornalisti “adulti”.
“Fin dalla fine della seconda guerra mondiale il governo ha avuto il controllo dei media arabi in tutti i paesi. Dovevano riportare le linee governative o venivano chiusi, i giornalisti che deviavano venivano arrestati o peggio. Alcuni giornali, in particolare a Beirut o quelli pan arabi con sede a Londra, premevano dalle periferie, ma la televisione, e i media stampati, rimanevano nelle mani governative. Muhammed Ayishle, docente al college di comunicazione di massa di Sharja, disse, prima dell’arrivo di Al Jazeera: ‘Il concetto di giornalismo televisivo come un insieme di valori e pratiche professionali era virtualmente inesistente nel mondo televisivo arabo’. Le immagini dei reporters di Al Jazeera, sfidando i governi, chiedendo ai leader arabi, intervistando i leader delle opposizioni in esilio, dando voce nell’etere agli israeliani come Ariel Sharon, e portando in televisione immagini a lungo nascoste, hanno creato un’atmosfera nella quale gli altri giornalisti hanno cominciato a riesaminare la loro professione e la loro missione. C’è stato un nuovo senso del possibile. Ma non è solo possibile, stava accadendo proprio lì sul schermo televisivo”. Non solo, Al Jazeera ha cambiato le strutture delle televisioni del vicino Oriente, moltiplicando le avventure delle televisioni semi indipendenti della regione, “ha anche ispirato i giornalisti della stampa, e quelli impiegati nelle televisioni governative, a sospingere i limiti del controllo governativo”.
Così come stanno ridefinendo sé stessi, i giornalisti arabi stanno sviluppando una nuova missione giornalistica. “Combina una richiesta di obbiettività con una visione di agenti del cambiamento e difensori della patria araba. Una visione che è alla base delle critiche occidentali e di altri media arabi. L’amministrazione Bush e altri hanno lamentato del pregiudizio nel nuovo approccio nel coprire le notizie della regione. Questa nascente indipendenza è una parte integrante del cambiamento democratico che Washington ha chiesto alla regione. Nello stesso tempo l’amministrazione Bush ha rifiutato di invitare l’Emiro del Qatar al summit G9 sulla democrazia nel mondo arabo come punizione per aver fallito il controllo su Al Jazeera, un’ironia non passata inosservata agli avvocati della democrazia del mondo arabo. Quello che molti politici, editorialisti e ricercatori non hanno capito è che il giornalismo arabo sta definendo le proprie regole, non ricreando sé stesso da un modello di media occidentale e, in particolare, americano”. Nello stesso tempo, non accampano una cittadinanza globale: “essi sono arabi prima e principalmente, e raccontano orgogliosamente da una prospettiva araba per una audience araba”.
Però. “Ancora la sinistra realtà è che il giornalismo aggressivo di Al Jazeera e di una manciata di altri media rimangono la luce in un grigio panorama, dove i giornalisti vivono sotto minaccia. I produttori, giornalisti e cameraman dell’emittente sono stati attaccati, fermati, arrestati e uccisi non solo dalle truppe Usa e israeliane, ma anche nelle nazioni arabe più disparate, come l’Egitto, lo Yemen e l’Iraq”. In molti paesi ancora ci sono leggi che prevedono l’incarcerazione dei giornalisti, a dispetto di declamate riforme. In più, i paradossi: “In Iraq, il più mortale dei paesi per la stampa, i giornalisti sono uccisi perché sono percepiti troppo vicino al governo, troppo alla resistenza o troppo vicini a particolari partiti politici”.