Rimini (comunicato stampa) – Dalla chiusura dei porti alla criminalizzazione delle Ong, dal disprezzo dei poveri all’attacco frontale al mondo del no profit e del volontariato accusato di buonismo, se non di aperta inutilità.
Non c’era bisogno dell’ultimo decreto “Sicurezza bis,” che introduce nel nostro ordinamento il nuovo reato di umanità (salvare vite umane è diventato un crimine), per comprendere la deriva autoritaria su cui si sta avviando il nostro paese. Nell’indifferenza, o peggio con il favore di larghe fette di popolazione, anche dentro i confini della Chiesa, affascinati dal leader forte a contatto diretto col popolo…
A parlare di questa specie di mutazione antropologica oggi in atto in Italia sarà il prof. Stefano Zamagni, economista riminese conosciutissimo per i suoi studi in materia di economia sociale e, dal marzo scorso, presidente della Pontificia accademia delle Scienze sociali.
Invitato a Viserba dalla parrocchia di Santa Maria al Mare nell’ambito del ciclo di incontri estivi del lunedì sera, Zamagni spiegherà il disegno che sempre più chiaramente sta prendendo forma nel nostro paese: “Quello di una società civile che si vuole sempre più schiacciata tra le forze dello Stato e del mercato, con l’obiettivo non dichiarato di mettere sotto tutela gli enti del terzo settore, in termini sia di fondi da utilizzare (sempre di meno) che di progetti da realizzare”. Per questo, come ha spiegato in una recente intervista, “è necessario che i cattolici, a cui è legato in termini ideali il 70% delle organizzazioni attualmente presenti nella società civile e nel volontariato, non si tirino più indietro, si assumano le loro responsabilità e comincino a fare massa critica per poter incidere sulle scelte che davvero contano. Non farlo sarebbe peccato di omissione”.
L’appuntamento con il prof. Stefano Zamagni è in programma Lunedì 12 agosto alle ore 21 in Piazza Pascoli a Viserba (ingresso gratuito). Al termine, il relatore sarà disponibile per le domande del pubblico.
Per info: Don Aldo Fonti, Parroco di Santa Maria a mare, Viserba (RN)
L'articolo «Il mondo della solidarietà sotto attacco. Contro la deriva autoritaria in atto in Italia», incontro con il prof. Stefano Zamagni proviene da Cento Fiori, Rimini.
C’è un antropologa che a Palermo da anni si occupa di cercare di dare un nome a tutte le vittime del mediterraneo. E’ un lavoro difficile e meticoloso. Si chiama Giorgia Mirto ed è questa la sua resistenza: rendere umano ciò che si vorrebbe disumanizzare, anche nella morte.
Come operatrice dell’accoglienza mi sono chiesta tante volte quale potesse essere la nostra di resistenza, in un sistema che ci vorrebbe vedere gestire numeri e non persone; che ci vorrebbe carrarmati, in grado di passare sui corpi umani che incontriamo con indifferenza; un sistema dove le lacrime sono considerate deboli e poco professionali; dove ogni atto violento e razzista subito è etichettato come bravata o fatto di poco conto.
Come rendere umano tutto questo disumano?
Una risposta l’ho trovata negli occhi di Alagie un anno fa, il giorno in cui siamo arrivate [l’autrice e due colleghe della cooperativa, Federica Soglia e Camilla Pacassoni ndr] a trovarlo a Foggia dopo l’incidente.
Quando siamo entrate nella sua stanza, si è tolto la maschera dell’ossigeno che lo aiutava a respirare e ci ha detto: «Ebere, Bafode e Romanus, sono morti».
Alagie ha scandito quei nomi con tanta fatica e con altrettanta solennità. Pronunciare quei nomi è stato ed è per lui un obbligo, un dovere. L’impegno a non dimenticare quegli uomini.
Credo che non dimenticare significhi allora avere quello stesso coraggio che ha avuto Alagie nel dire che quegli uomini avevano un nome e di pronunciare quei nomi ogni giorno.
Credo che significhi, in un sistema che tenta di annientare l’altro nella sua dimensione di essere umano, impegnarci a riconoscere ogni uomo e donna come tale perché nel nostro riconoscimento possa sentirsi a sua volta uomo o donna con dignità e diritti, indipendentemente da provenienza o colore della pelle.
Credo che significhi tornare a chiederci
se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no
Per noi oggi questa marcia e lo spazio comune con cui continueremo da domani rappresenta questo: partire dal lavoro per ridare un nome e con esso dignità e umanità a chi di lavoro è morto e a chi, di lavoro e di confini, continua a morire ogni giorno.
Tratto dalla pagina facebook della manifestazione Dalle radici alle stelle. Marcia per i diritti contro lo sfruttamento
L'articolo Quale può essere la nostra di resistenza? proviene da Cento Fiori, Rimini.
di Massimo De Berardinis
“Nella vita psichica individuale l’altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come amico o avversario e in questo modo la psicologia individuale è allo stesso tempo e fin dall’inizio, psicologia sociale, in senso lato, ma pienamente giustificato”
Quando iniziai il mio percorso di formazione specialistica alla Clinica Psichiatrica dell’Università di Modena … correva l’anno… 1977.
Il Reparto femminile, cui ero stato assegnato, contava su una dotazione ufficiale di 19 posti letto che, di fatto, a causa delle numerosissime richieste di ricovero, non scendeva mai al di sotto dei 25 letti, con momenti di sovraffollamento in cui si superavano anche i 30 posti letto.
Le degenti, tutte rigidamente in vestaglia, trascorrevano la maggior parte del tempo nelle loro stanze, a letto; l’alternativa allo stare in camera era rappresentata dal camminare avanti e indietro per il lungo corridoio.
Le infermiere se ne stavano in guardiola a fare le loro cose, come dicevano le ricoverate, oppure agivano una stereotipata ritualità di atti quotidiani (sveglia, distribuzione delle terapie, carrello della colazione, ecc., ecc.) che si ripetevano sempre uguali; quando entravano in contatto con le pazienti lo facevano attraverso l’assunzione di un petulante “ruolo genitoriale, inappropriatamente “infantilizzante”.
“… vieni qui da me Paolina, vieni …”, “…mangia Paolina … mangia … lo sai che ti fa bene …”; era la loro maniera di “accudire” le ricoverate; non conoscevano altri modi ma erano in buona fede e le pazienti sembravano capirlo.
I medici, dal canto loro, erano sempre “di corsa”; attraversavano veloci il corridoio tagliando con sapiente perizia la folla delle “questuanti”: “… dottore… dottore… mi ascolti dottore …”, sino a raggiungere gli ambulatori cui le pazienti potevano accedere solo su chiamata ed accompagnate dalle infermiere.
Le stesse infermiere venivano chiamate con un campanello che trillava direttamente nella “guardiola”.
Dopo tempi imprevedibili il campanello cessava di suonare ed i medici “riemergevano” dagli ambulatori per sparire definitivamente, in fondo al corridoio, al di là della porta che separava il Reparto dal “mondo di fuori”.
In quest’atmosfera spersonalizzata e regressiva, il tempo scorreva con una tranquillità innaturale, interrotta, ogni tanto, solo da urla improvvise, sbattimenti di porte e veloci tramestii di passi; poi… tutto tornava come prima, come se nulla fosse accaduto.
Le pazienti, che vivevano in questo stato di “sospensione”, sembravano aver trovato “nell’aspettare” il senso del loro stare in Reparto: aspettavano che arrivasse il carrello dei pasti; aspettavano di fumare le sigarette che le infermiere concedevano loro… una alla volta; aspettavano la visita dei famigliari; aspettavano in fila per andare in bagno; aspettavano la somministrazione delle terapie… ma soprattutto… aspettavano di essere chiamate dal medico per “il colloquio”… il mitico colloquio!
In Clinica, infatti, i medici, non senza una punta di orgoglio, avevano da tempo abbandonato il classico “giro” al letto delle malate per sostituirlo con momenti di colloquio.
Al tempo i colloqui erano fondamentalmente di due tipi: uno era il colloquio con i famigliari, al quale le ricoverate erano ammesse solo alla fine per essere informate, “in modo semplice”, delle decisioni che erano state prese sul loro conto; l’altro era quello con le pazienti ed era soprattutto orientato ad una valutazione medico comportamentale: dorme, non dorme, mangia, va di corpo, delira, è allucinata, è aggressiva, rifiuta le terapie, ecc., ecc.
Ora qui sarebbe lungo addentrarsi nel dettaglio delle vicende che, a partire da questa realtà, consentirono la progressiva trasformazione del Reparto, per cui citerò solo alcuni dei passaggi, per me più significativi, di quel percorso.
Il primo elemento di cambiamento, preliminare a tutto il seguito, consistette nell’adibire una grande stanza ad otto letti a sala da pranzo e di intrattenimento; questo cambiamento, apparentemente banale, fu quello che permise i miei primi avvicinamenti alla vita delle ricoverate.
Era solitamente di pomeriggio, sotto lo sguardo un po’ contrariato (perché “turbava” la routine del Reparto) ma insieme anche curioso delle infermiere, che cominciai a prendere l’abitudine di mettermi a sedere ad un tavolo della nuova sala; me ne stavo lì, guardandomi intorno, finchè qualche paziente, con fare un po’ incerto, si avvicinava, si sedeva e cominciava a parlarmi; poi se ne avvicinava un’altra e un’altra ancora, così, piano piano, si formava un gruppetto “di chiacchiera”. Il giorno successivo la scena si ripeteva ed il gruppo si ricomponeva… gli argomenti erano quelli della quotidianità, i figli, i problemi di lavoro… i soldi… ecc., ed io… “nuovo del mestiere”… restavo colpito da questi momenti in cui le pazienti “quasi non sembravano pazienti”, come invece avveniva negli altri momenti di incontro “ufficiale” con il medico.
Il secondo elemento di cambiamento riguardò la trasformazione dello spazio mattutino delle cosiddette “consegne”; uno spazio che noi specializzandi avevamo ribattezzato dispregiativamente “riunione cacca e piscio” perché essenzialmente deputato ad acquisire informazioni, tramite le infermiere, sull’andamento di queste funzioni corporali e sugli aspetti più grossolanamente comportamentali delle ricoverate: ha dormito, non ha dormito, è andata di corpo, non è andata di corpo, ha preso le medicine, non ha preso le medicine…
L’aspirazione del nostro gruppo era invece quello di dare vita ad una riunione d’équipe nella quale, accanto alle questioni di ordine organizzativo-gestionale della quotidianità spicciola, si potessero sviluppare discussioni cliniche sul funzionamento psicologico delle pazienti, sull’andamento delle loro storie famigliari, sul tipo di trattamento da condurre in Reparto, ecc.; ma il conseguimento di questo obiettivo ci impegnò a lungo, vista anche l’evidente sperequazione di potere decisionale che caratterizzava inizialmente la nostra posizione: all’inizio nessuno di noi era “strutturato”.
In quegli anni, quando si parlava di riunioni, ci si riferiva ovviamente a riunioni tra operatori; infatti, se si eccettuano le esperienze assembleari che si erano tenute in alcuni Ospedali Psichiatrici, come a Gorizia, Trieste, Arezzo ed in poche altre realtà, vi erano in Italia rarissime esperienze di attività di gruppo con pazienti ricoverati.
A noi, del Reparto Donne, così ci chiamavamo, occorsero più di due anni prima di poter riuscire ad organizzare delle riunioni a cadenza regolare con le ricoverate.
Queste riunioni, che pure si rivelarono già da subito come un potente strumento in grado di ridurre l’aggressività e dare un senso al tempo trascorso all’interno del Reparto, dovettero convivere a lungo con la “ritualità” dei colloqui individuali, cui restavano fortemente legati non solo le pazienti ma anche i medici e le infermiere che, con il loro abbandono, temevano di perdere anche un pezzo della loro identità professionale.
La sostituzione dei colloqui individuali con le riunioni quotidiane con le pazienti, rappresentò quindi una tappa che richiese molto tempo e molta “pazienza” ed il cui conseguimento fu possibile solo grazie all’evidenza con la quale le pazienti che partecipavano ai gruppi presentavano miglioramenti clinici più significativi e più rapidi rispetto a quelle “seguite”con colloqui individuali.
Fu così che, pur tra mille difficoltà e resistenze, piano piano la riunione con le pazienti divenne il momento centrale dell’attività terapeutica del Reparto.
Si teneva tutte le mattine, dal lunedì al venerdì, per la durata di un’ora e mezza; vi partecipavano tutte le ricoverate e lo staff di Reparto, tranne un’infermiera che, a turno, restava “fuori” disponibile per le eventuali chiamate telefoniche, ritiro di esami, nuovi ingressi, ecc. e soprattutto per consentire a quelli che stavano “dentro” una sufficiente tranquillità per potersi concentrare su quanto avveniva nella riunione.
Un medico coordinava l’incontro mentre gli altri operatori fungevano da osservatori partecipanti. La discussione era a tema libero e la finalità ricercata, in particolare agli inizi, mirava a favorire una democraticità relazionale ispirata alle comunità terapeutiche di Maxwell Jones, ma anche un’attenuazione delle ansie ed un contenimento della frammentazione psicotica soprattutto nelle pazienti in fase di grave scompenso.
Questo assetto era reso possibile dall’atteggiamento, mantenuto da tutti gli operatori, di convogliare sistematicamente nello spazio della riunione tutte le problematiche concernenti le pazienti. Fatte salve le situazioni d’urgenza, infatti, ogni tentativo di instaurare rapporti individuali con figure dello staff veniva cortesemente scoraggiato e rinviato allo spazio – tempo della riunione.
Col procedere dell’esperienza il lavoro con i gruppi ci pose sempre di più a contatto con le “parti sane” delle pazienti (aspetto questo fortemente sottovalutato nella cultura degli ambienti di ricovero psichiatrico del tempo) ed in certo senso ci “costrinse” a rivedere molte delle nostre idee sulla malattia mentale, sul significato e soprattutto sul modo di condurre un ricovero psichiatrico.
Di seguito descriverò brevemente “i dispositivi” che, nel tempo, si aggiunsero alla riunione d’équipe ed alla riunione con le pazienti e che contribuirono a determinare le più significative trasformazioni organizzativo-funzionali del Reparto.
L’incontro di accoglimento
Giungemmo alla sua istituzione perché non potevamo più accettare il fatto che i ricoveri venissero disposti, dal Pronto Soccorso, sulla base di consulenze nelle quali l’indicazione al ricovero era sostenuta, quasi esclusivamente, dal riscontro di una sintomatologia psichiatrica o, ancor peggio, dalle pressioni esercitate dal contesto famigliare o micro sociale del paziente; cioè senza alcuna analisi della richiesta: chi chiedeva? Cosa chiedeva? Quale sarebbe potuta essere la risposta più adeguata? Tutto questo non accadeva e neppure si poteva pensare, allora, che potesse accadere nella realtà compressa e convulsa del Pronto Soccorso di un grande Policlinico.
Il nuovo spazio dell’accoglimento avrebbe quindi dovuto assolvere alla finalità di sviluppare un’analisi della richiesta, raccogliere informazioni sulle vicende che avevano condotto le pazienti al ricovero, formulare ipotesi di orientamento diagnostico e soprattutto (cosa per noi più importante di ogni altra) consentire, laddove il ricovero ci fosse apparso indicato, di giungere alla definizione di un “contratto” che esplicitasse, in modo chiaro e realistico, “la compromissione” di pazienti, famigliari ed équipe curante relativamente al lavoro da svolgere durante il ricovero. Il nostro intento, insomma, era quello di dare un “setting” al ricovero, cioè definirne contrattualmente lo spazio (il dove), il tempo (il quando e per quanto tempo), il ruolo (tra chi e chi) e il compito (per fare che cosa).
Immaginatevi che cosa accadde… riconoscere una contrattualità a pazienti quasi sempre affetti da quadri psicotici… ed in più… in fase di scompenso!
Ovviamente le resistenze non riguardavano solo i pazienti ed i loro famigliari… ma per noi questo passaggio rivestiva una valenza fondamentale; rappresentava una pre-condizione irrinunciabile per l’avvio di qualsiasi rapporto che avesse almeno l’aspirazione di svolgere una funzione terapeutica!
L’incontro, una volta istituito, aveva la durata di un’ora e mezza; si teneva tutte le mattine, dal lunedì al sabato, e vi prendevano parte, oltre alle pazienti ricoverate nella notte o il giorno precedente, anche tutte quelle pazienti, già ricoverate, con le quali non si era ancora giunti alla definizione di un “contratto di ricovero”; all’incontro erano invitati a partecipare, oltre ai famigliari delle pazienti, anche gli operatori dei Servizi di riferimento.
Per avere un’idea di quanto potesse essere “dirompente”, al tempo, questo tipo di approccio è sufficiente pensare a cosa accadrebbe, ancora oggi, se per esempio i colloqui che si tengono a scuola tra insegnanti e genitori cominciassero ad includere gli allievi… ed assumessero la forma della multifamigliarità!!
In questo spazio assai particolare, attraversato da transferts, controtransferts e proiezioni multiple, la natura delle “crisi dei sistemi famigliari” tendeva a mostrarsi in modo così intellegibile e rapido (… e non solo per gli operatori ma per tutti i partecipanti, non foss’altro per la forma drammatico – didascalica con la quale le crisi venivano per così dire… “messe in scena”…) da rendere assai spesso del tutto ingiustificato il prolungarsi dei ricoveri.
L’incontro di counseling con i famigliari
L’attivazione di questo dispositivo, che si teneva una volta alla settimana, per la durata di un’ora e mezza, discendeva, come ormai si sarà capito, dall’importanza che noi annettevamo al coinvolgimento della rete famigliare nel processo di cura.
L’incontro era pensato come uno spazio di ascolto per i famigliari che fosse in grado di accogliere ed elaborare richieste, ansie, transferenze e proiezioni in modo tale da favorire una rimodulazione, in termini meno stereotipati, dei ruoli “aggiudicati ed assunti” dai vari membri, all’interno di ciascun gruppo famigliare.
I famigliari delle ricoverate venivano invitati a partecipare agli incontri già in fase di accoglimento; nella “consegna” di avvio del gruppo veniva chiarito che, per motivi di riservatezza, non sarebbero state fornite informazioni riguardanti le persone ricoverate; anzi, per tutto quanto concerneva il loro stato di salute si rinviava direttamente alle interessate che, si sottolineava, erano perfettamente al corrente di ogni aspetto che riguardasse il loro programma di cura: terapie seguite, risultati di esami, durata presumibile del ricovero, eventuale data della dimissione, ecc. ecc.
Anche qui si può immaginare la reazione dei famigliari. “… Ma allora questo incontro è per noi!!… ma noi non siamo mica malati!!… voi dovete dirci come stanno!!… ve le abbiamo portate per curarle… non siamo mica noi quelli da curare!!…”
Nonostante queste vivaci reazioni e le indignate proteste al Direttore della Clinica e sin anche alla Direzione Sanitaria del Policlinico, lo staff, senza arretramenti sul piano del rispetto del segreto professionale nei confronti delle signore ricoverate, ribadiva con fermezza che l’incontro non era finalizzato a fornire informazioni, bensì a condividere le difficoltà che un gruppo famigliare si può trovare ad affrontare in occasione del ricovero di uno dei suoi membri.
Il nostro obiettivo era quello di “spingere” i famigliari a ripensare le loro congiunte ricoverate, non come delle “pazienti” (come loro stessi ormai le definivano) ma come figlie, madri, mogli, ecc., momentaneamente in difficoltà; perciò rifiutavamo con forza quella richiesta di “alleanza”, alle loro spalle, che i famigliari ci riproponevano costantemente.
L’incontro di discussione clinica e di supervisione
Dopo ognuna delle riunioni descritte l’équipe di Reparto si ritrovava in un post-riunione, come lo chiamavamo allora, che aveva la durata di un’ora, per discutere e riflettere sugli accadimenti che le avevano caratterizzate.
Una volta alla settimana le situazioni più problematiche venivano affrontate all’interno di una supervisione con un collega psicoanalista esterno alle attività del Reparto.
Se la riunione con le ricoverate costituiva certamente “il cuore” del processo terapeutico, il post-riunione rappresentò, altrettanto certamente, “il cuore” del processo formativo di tutta l’équipe di Reparto.
Con questo assetto: riunione d’équipe – incontro di accoglimento – riunione con le pazienti – incontro di counseling con i famigliari – incontro di discussione clinica e di supervisione, il Reparto andò avanti per alcuni anni.
Anni durante i quali maturarono e soprattutto si trasformarono profondamente la cultura e l’operatività di tutta l’équipe del Reparto.
La riflessione sulla interazione tra sistema famigliare e sistema istituzionale di cura, facilitata dai dispositivi gruppali che avevamo posto in essere, ci permise di renderci conto della inadeguatezza dei paradigmi concettuali con i quali operavamo e stimolò in noi la ricerca di nuove forme di approccio alle gravi situazioni di scompenso psichiatrico che giungevano alla nostra osservazione; le strade individuate tramite quell’impegno di ricerca ci condussero all’abbandono della “cultura” dell’intervento “sul” paziente a vantaggio di una pratica di lavoro “con” il paziente ed il suo contesto.
In particolare ricordo che andarono in pezzi due classici approcci molto “di moda” in quel periodo: quello caratterizzato dalla cosiddetta “alleanza tra sani”, cioè tra famigliari e terapeuti, di cui fu possibile comprendere appieno la negatività rispetto ai percorsi di crescita psicologica delle pazienti e quello, sviluppatosi in opposizione al primo, caratterizzato dall’alleanza tra pazienti e terapeuti sullo stile “… lei è così perché ha avuto i famigliari che ha… ma vedrà… con noi sarà diverso…”
L’uscita da queste forme di “collusività”, proprie di certa “psichiatria paternalistica” del tempo, ci permise di collocarci in una nuova e diversa posizione che per essere mantenuta necessitava però di ulteriore studio e formazione.
Lo studio della psicoanalisi ed in particolare del pensiero di Bion e di Pichon Rivière, nutrì la prima delle due esigenze, mentre la seconda trovò risposta nell’incontro con Armando Bauleo.
Alla luce del nuovo armamentario culturale di cui ci stavamo dotando, ci apparve chiaro che i diversi dispositivi che avevamo mano a mano impiantato, altro non erano se non apparati con i quali avevamo cercato di “trattare”, in maniera “separata”, i diversi aspetti di quel fenomeno, “complesso ma unitario”, rappresentato dalla malattia mentale.
Ciò che i dispositivi gruppali ci avevano consentito di “vedere” contribuì in maniera decisiva alla trasformazione del nostro modo di “pensare” il rapporto malato – malattia; dovemmo così accettare che la malattia mentale, contrariamente a quanto sostenuto dalla Psichiatria classica, non si esauriva “nel” malato, rappresentando un fenomeno di assai più ampia dimensione, in grado di interessare tutto il contesto storico e relazionale del soggetto.
Voglio dire che l’esercizio di queste pratiche terapeutiche ci aiutò a comprendere che la salute e la malattia mentale non sono fenomenologie “chiuse” nella dimensione intra-soggettiva, o addirittura intra-cerebrale, come sostenuto da certa psichiatria organicistica, bensì “aperte” alla dimensione inter-soggettiva e di contesto.
Alla rilettura delle evidenze che ci provenivano dalla clinica non potevano non fare seguito consequenziali trasformazioni sul piano dell’operatività; trasformazioni che in effetti non tardarono ad apparire, spingendo il Reparto Donne ad abbandonare la sua tradizionale organizzazione ospedaliera per trasformarsi in una realtà terapeutica, del tutto sui generis, di centro psichiatrico per le crisi; un’esperienza a tutt’oggi mai più replicata.
L’incontro di accoglimento permanente
Il nuovo strumento terapeutico, pensato per riunificare tutti i dispositivi terapeutici precedenti, prese il nome di accoglimento permanente; aveva la durata di due ore e si teneva tutte le mattine dal Lunedì al Sabato; un medico coordinava l’incontro mentre gli altri componenti dello staff, tranne un’infermiera che a turno restava fuori, svolgevano il ruolo di osservatori partecipanti.
Al gruppo partecipavano, oltre alle pazienti ricoverate, i loro famigliari e, quando possibile, anche gli operatori dei servizi di riferimento territoriale.
Il compito manifesto, esplicitato nella consegna, si componeva di due parti; la prima riguardava il come mai erano lì… il che cosa era accaduto; la seconda riguardava il che cosa pensavano di fare.
Il lavoro del gruppo prendeva le mosse dalla situazione presente, quindi muoveva verso il passato, e da qui piegava verso il futuro; poi tornava al presente, di nuovo al passato, di nuovo al futuro…
In questo andare e venire il gruppo raccontava le sue storie; i soggetti entravano nei loro ruoli, a volte se li scambiavano, si confondevano, sparivano e riapparivano; i confini famigliari si sfumavano, si rimodellavano, a volte i membri di una famiglia “entravano a far parte” di un’altra e viceversa, tutto si metteva in movimento, era come una grande rappresentazione teatrale in cui tutti gli attori (pazienti, famigliari e terapeuti) contribuivano alla costruzione di una trama continuamente rimodulata; quando il gruppo terminava, foss’anche solo per un piccolissimo aspetto, nessuno, e questo valeva anche per i terapeuti, poteva sentirsi uguale a prima.
Dopo un lungo cercare ci eravamo finalmente imbattuti in questo fantastico strumento di cura; una grande “giostra ricombinante” dove, in un intergioco di fenomeni transferali, controtranferali, proiettivi ed introiettivi, era possibile, per tutti i soggetti, rimettere in gioco la forma dei propri vincoli interni.
Il setting assunto dal centro crisi permise alla nuova struttura di svolgere quella necessaria funzione di “contenitore”, di “non processo”, che consentiva il dispiegarsi di “processi terapeutici” in grado di abbracciare contemporaneamente la dimensione individuale, famigliare e istituzionale.
Tutto ciò si tradusse in un’ accelerazione dei tempi di risoluzione delle crisi tanto vertiginosa che la presenza media giornaliera delle ricoverate, già fortemente calata con gli assetti che il Reparto era venuto mano a mano assumendo, raggiunse i valori record di 5/6 presenze medie giornaliere!!
Ma nonostante gli importanti risultati sul piano clinico non tutto andò per il meglio.
Se, infatti, le precedenti trasformazioni istituzionali che avevano interessato il Reparto non ne avevano mai realmente messo in discussione la “sopravvivenza”, ora le cose cominciavano a prendere una piega diversa… quei dati, quei numeri, se da un lato parlavano di un’incontestabile riuscita, dall’altro aprivano la porta a scenari nuovi, inimmaginabili sino ad allora.
Il ricovero, come lo si pensava solo pochi anni prima, almeno da noi, non esisteva più, né nei numeri né nella durata né nelle finalità.
Il Reparto stesso, con le sue stanze sempre più vuote, “risuonava come un luogo del passato”… finanche il numero dei sanitari, che ai tempi delle 30 ricoverate e dei colloqui individuali era decisamente insufficiente, ora iniziava ad apparire inutilmente sovradimensionato per questa funzione.
La percezione, ancorchè confusa, del fatto che la somma di tutti i cambiamenti realizzati nel corso degli anni stava producendo una trasformazione che andava ben al di là dell’assetto organizzativo del Reparto, investendo alla radice la nostra concezione della cura in Psichiatria, iniziò a produrre in noi reazioni inconsapevoli e scomposte.
La resistenza al cambiamento, che era sempre stata espressa soprattutto dalla Direzione della Clinica, dalla Direzione Ospedaliera, dai Servizi Territoriali, dai pazienti e dai famigliari, improvvisamente passò ad essere “interna” al gruppo dei medici e delle infermiere che sino ad allora avevano combattuto per il cambiamento: “… si però… adesso basta… dove dobbiamo arrivare?… basta!…”. Frenavano, volevano tornare indietro…
Non me lo sarei mai aspettato; proprio ora che le cose cominciavano a cambiare veramente.
Cercai in ogni modo di ricomporre il gruppo, ma non ci fu verso: il “vento controrivoluzionario” spirava forte e la mia capacità di comprendere ed intervenire nelle dinamiche istituzionali non fu all’altezza della situazione.
Mi sentii tradito, deluso e sospinto anche da altre conflittualità sul piano professionale, decisi di andarmene… aggiungendo così anche il mio contributo alla causa della resistenza al cambiamento!
Piano piano l’esperienza regredì e fu riassorbita, col tempo cambiò anche parte del personale ed un po’ alla volta… fu dimenticata… ma non tutto è stato dimenticato!
Riassunto
L’Autore riferisce, in questa comunicazione, di un’originale esperienza di lavoro condotta nel Reparto femminile della Clinica Psichiatrica dell’Università di Modena.
Vengono ripercorse alcune delle fasi più significative di questa esperienza che, lungo l’arco di un decennio (dal 1977 al 1987), condussero il Reparto Donne della Clinica ad abbandonare la sua tradizionale organizzazione ospedaliera per trasformarsi in una realtà terapeutica sui generis.
Le progressive introduzioni, nella realtà operativa del Reparto, di dispositivi gruppali quali la riunione d’équipe, la riunione con le pazienti ricoverate, l’incontro di counseling famigliare, il gruppo di accoglimento e la supervisione periodica di gruppo, rappresentarono “la chiave di volta” di un profondo cambiamento nella maniera di “leggere” la malattia e nel modo stesso di pensare il ricovero.
L’interazione tra sistema famigliare e sistema istituzionale, filtrata dai dispositivi gruppali, pose presto in evidenza la stereotipia operativo – concettuale che caratterizzava lo stile di lavoro del Reparto stimolando la ricerca di nuove forme di approccio alle gravi situazioni di scompenso psichiatrico; le strade individuate tramite quella ricerca segnarono l’abbandono della “cultura” dell’intervento “sul” paziente per passare ad una pratica di lavoro “con” il paziente ed il suo contesto.
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Hanno cominciato smontando un computer, per vedere come è fatto e capire, poi, meglio, come funziona. Poi, passo a passo, si sono avventurati nell’informatica: sono stati i primi allievi del corso di base organizzato alla Comunità Terapeutica di Vallecchio. Tutto è nato dalla donazione di SGR Group di una decina di PC, macchine non nuovissime ma complete e perfettamente funzionanti. Sulle quali, una volta installato il sistema operativo open source Linux, chiunque potrà utilizzarne i software per lavoro e per il tempo libero.
Dalla configurazione dell’hardware al funzionamento del sistema operativo, dal byte alla gestione dei file, da come si scrive un testo a come si salva: tutte le nozioni e le operazioni di base sono state passate in rassegna. «Non è stata una passeggiata per i pazienti», dice Enrico Rotelli, responsabile della Comunicazione della Cooperativa Sociale Cento Fiori e curatore del progetto. «Assimilare nozioni complesse mentre si è impegnati in una delle prove più difficili per una persona, l’emanciparsi da una dipendenza, è una prova da far tremare i polsi. E infatti, dei cinque che hanno iniziato solo in due sono arrivati alla fine del corso. Ma vedere persone che non avevano mai acceso un computer stampare, dopo poche settimane, il proprio curriculum è stato motivo di orgoglio».
Notevole anche lo sforzo dello staff della Comunità Terapeutica di Vallecchio, dagli educatori al personale organizzativo. «Le ore di lezione che si tenevano al sabato – dice ancora Rotelli – in realtà sono state precedute dall’allestimento dell’aula studi, ricavata dalla biblioteca. Ma soprattutto dai numerosi consigli che ho ricevuto. In parte per cercare di rendere questo esperimento più proficuo possibile, in parte per mettermi nelle condizioni di essere efficace. Un conto è insegnare i rudimenti di informatica a un corso di formazione, un conto è confrontarsi con i pazienti in fase di recupero. E’ una prova alla quale non ero preparato e che mi ha permesso di cominciare a intuire quanta professionalità e quanta fatica c’è dietro ogni ruolo in una comunità terapeutica o in un Sert. E’ stato un bagno di realtà, nella vita dei pazienti e nel lavoro di educatori e psicoterapeuti».
Alcuni degli allievi non avevano mai usato un Pc, solo smartphone, scontrandosi con l’uso non semplice del mouse. «Per ovviare al problema, li abbiamo fatti giocare un po’ a “campo minato” e, con un po’ di pratica, anche il mouse è diventato familiare. Abbiamo dedicato molta attenzione alle nozioni che potevano esser utili nella vita di tutti i giorni. Ad esempio come creare un account con una password “robusta” che protegga i nostri dati, cosa significano in pratica le parole gigabyte e ram, nozioni utili davanti al Pc ma anche quando si compra un piano tariffario o un cellulare. L’obbiettivo era lavorare insieme per il futuro, una volta fuori dalla comunità, nel lavoro e nel tempo libero».
«Il primo corso si è naturalmente esaurito, ora cercheremo di far fare pratica a chi l’ha completato. Nella pausa estiva ragioneremo come rilanciarlo – dice Gabriella Maggioli, vicepresidente della cooperativa sociale Cento Fiori e viceresponsabile della Comunità – probabilmente sarà utile organizzarlo a cicli, seguendo il naturale ricambio dei pazienti delle due strutture di Vallecchio, il Centro Osservazione e Diagnosi e la Comunità Terapeutica. E’ certo comunque che la formazione dei pazienti è uno degli aspetti più importanti per noi della Cento Fiori».
L'articolo Viaggio nell’informatica alla Comunità Terapeutica di Vallecchio: nell’aula studi donata da Sgr group Rimini concluso il primo ciclo di lezioni proviene da Cento Fiori, Rimini.
Rimini – Continua il viaggio di Ulisse, il progetto terapeutico “outdoor” delle crociere in barca a vela della Cooperativa Sociale Cento Fiori: è salpata infatti la barca a vela che ospita 7 pazienti della Comunità Terapeutica di Vallecchio. Dal porto di Rimini la barca, condotta dall’educatore – skipper Andrea Ambrosani, raggiungerà le coste della Croazia, per una viaggio della durata di una settimana. Insieme ad Ambrosani sono salpate le due educatrici Chiara Gentili ed Elisabetta Boffa, che assisteranno i pazienti della comunità in questa esperienza.
«Per gli educatori lo scopo principale della crociera è l’osservazione degli utenti – dice Michele Maurizio D’Alessio, psicologo della Cooperativa Sociale Cento Fiori – ma per i pazienti è un’esperienza formativa perché è la realtà stessa (il vento, il mare, la convivenza in uno spazio particolare come una barca) a regolarizzare i rapporti: la realtà ci detta delle priorità. Il gruppo dei pazienti trova quindi un suo equilibrio nel corso della crociera».
Per Elisabetta Boffa è la prima crociera terapeutica. Circa due anni fa, studentessa all’Università di Bologna, venne a conoscenza durante un convegno di questo intervento educativo “outdoor”. «All’epoca dovevo scegliere dove fare il tirocinio e l’incontro con il progetto della Cento Fiori è stato un fattore determinante. Ho fatto il tirocinio, sono stata assunta e ora sono io a salpare, per la prima volta. Dopo due anni da quel seminario all’università».
Chiara Gentili invece è alla seconda esperienza. Il battesimo della crociera è avvenuto lo scorso anno, «con il viaggio degli utenti del Centro Osservazione e diagnosi. Non volevo partire: non ero mai stata in barca, ero terrorizzata dagli spazi piccoli, dal fatto di dover convivere… Alla fine è stata una crociera terapeutica per me, oltre che per i pazienti. Mi è piaciuta tanto che ho fatto esperienze per conto mio. Ho capito che è una cosa bellissima, e il senso di libertà che ti da la barca. Ho visto anche i grandi cambiamenti nei pazienti, in particolare in uno ho assistito ad un vero e proprio risveglio: è una terapia che funziona».
Andrea Ambrosani è ormai un veterano delle crociere terapeutiche. La cerata del capitano l’ha ereditata da Werther Mussoni, fondatore della Cooperativa Sociale Cento Fiori e “inventore” del progetto Ulisse, che da ormai 20 anni solca i mari. All’inizio con una goletta in legno, il Catholica, un ex peschereccio cattolichino restaurato dagli ospiti della Comunità Terapeutica di Vallecchio, poi diventata la Goletta Verde di Legambiente. All’epoca le crociere duravano settimane e toccavano il mar Ionio e poi le coste della Sicilia. Ora l’esperienza si gioca tra le due traversate e la costa croata. Forse crociere meno lunghe, ma non meno intense per i pazienti.
«Abbiamo la fortuna di fare queste esperienze che sono, emotivamente, molto forti. – spiega lo skipper – educatore Andrea Ambrosani – Un sociologo spiegava che si doveva sostituire la forza dell’eroina con qualche altra esperienza dirompente. La barca riesce in pieno a farlo, perché ci sono diversi elementi, tra cui il mare, la natura che non sono da noi controllabili». L’esperienza è strettamente legata alla terapia. «Non è solo un bel viaggio con i nostri utenti, tutto ciò che accade è iscritto in un quadro di lettura, che ci consente da un lato di rilevare elementi in più sulle persone in terapia e dall’altro di fornire loro un’esperienza intensa di crescita di gruppo e personale. Perché, come dice Werther Mussoni, “in barca non ci si nasconde”».
L'articolo Di nuovo in mare la crociera terapeutica della Cento Fiori. Hanno salpato sette pazienti della Comunità Terapeutica di Vallecchio, destinazione: Croazia. proviene da Cento Fiori, Rimini.
Il mio nuovo cell (cinese), preso dopo che lo schermo del vecchio si è crepato come lo specchio della matrigna di Biancaneve, ci ha la home che non mostra le app di sistema. Per cui, al fatto di parlare a una sottiletta di mezzo metro quadro, dovevo pure aggiungere le grida «Ok google, voglio fare una foto» ogni volta che mi serviva la fotocamera. Mi vedevo già, sulla pista del Marecchia, mentre il merlo di turno mi additava alla merla come un pirla che perdeva un’ora per prendere la foto del falco pescatore già passato.
Pistola che ti pistola, le app non comparivano. Vado dal tennico ma, Prima gli italiani!, in ossequio al motto imperante. Entro dal tennico che invece è una tennica alla quale chiedo una «consulenza sul software». «Che cos’è una consulenza?» mi fa. Una consulenza: come la chiama lei quando uno le chiede qualcosa sul funzionamento del cellulare? Vabbé, scusi, lasciamo perdere. Non trovo più le icone delle app del sistema. Se devo usare un’app, mi tocca chiedere all’assistente di google. Guardi: «Ok google: voglio fare una foto». E compare il programma apposito. «Funziona», mi dice. Sì, ma io vorrei che funzionasse senza dover gridare ogni volta «Ok Google». Dov’è l’icona per farla funzionare senza gridare?
La tennica prende il cell con dita affusolatissime e ben curate, pistoletta un po’, poi mi guarda e dice: «dove sono le impostazioni»? He, sono qui da lei per questo: non trovo le icone per accedervi dallo schermo. Per arrivare alle impostazioni deve passare da qui. E le apro IO le impostazioni. Alla tennica. Questa spippola un altro po’, ha delle dita bellissime, poi si stufa e mi dice: «guardi, dovrebbe lasciarmelo qui, lo faccio vedere, ma potrebbe costarle 70 euro. Oppure va all’altro nostro negozio di via [omissis]». Grazie, provo a chiedere ancora a Ok Google un altro po’.
E mi avvio a cercare un altro tennico. Finisco in via Gambalunga, in un negozio mai visitato. Dentro, in un tripudio di ammennicoli hi tech e cover c’è un signore bangladese seduto dietro al banco, spazzato dal vento di un ventilatore. Sperando di non aver problemi con la lingua gli spiego il mio problema: dove sono finite le icone delle app? L’ometto - sarà alto quanto me, ma la metà di diametro - spippola un po’ con le sue dita sicuramente più brutte della tennica, poi alza gli occhi e mi dice: «ha solo la home di Google. Basta scaricare un’altra app della home». Cosa mi costa? «Niente» Le lascio qualcosa per il caffé. Ma lui già non mi guarda più, è entrata la moglie con il bambino di pochi giorni, che lui tiene in mano ad altezza mento. «Faccia un’offerta per la moschea», mi dice. Ho fatto l’offerta per la moschea.
Argomenti: BloggingEx cava di argilla, ora è un piccolo eden. Gli albergatori lo segnalano ai clienti appassionati, ma molti pescatori vengono da Emilia, Marche e Umbria. I segreti: pesca no kill, gare, un ecosistema curato e tanta pace.
Riccione – Da cava di argilla a meta del turismo di pesca sportivo alla carpa e area protetta. E’ la curiosa parabola del lago Arcobaleno, una volta cava per fare i mattoni e cuocerli nella vicina fornace, ai confini di Riccione, nella località Case Fornace, appunto. Ora invece festeggia i 10 di fortunata gestione della Cooperativa Sociale Cento Fiori in collaborazione con la ASD Lago Arcobaleno, che l’hanno trasformata in una meta apprezzata da pescatori vacanzieri e non, italiani e stranieri, grazie al calendario gare e alle prede davvero notevoli. Ma anche meta per famiglie e qualche volta luogo adatto ad eventi culturali.
I rappresentanti della Cooperativa Sociale Cento Fiori e dell’ASD Lago Arcobaleno, gestori della struttura di pesca sportiva di Riccione, durante la festa per il decennale.Provate a immaginare un luogo polveroso trasformato in eden e, beh, ci siete andati vicini. Tanto che sono gli stessi albergatori a indirizzare i loro clienti appassionati di pesca verso la piccola struttura poco fuori San Lorenzo. «Vengono in vacanza a Riccione e decidono di passare qualche ora da noi, con il loro hobby preferito – dice Ilaria Bartolini, che con Marco Samuelli gestisce il centro sportivo e ricreativo da 10 anni – italiani per lo più, ma abbiamo avuto anche svizzeri e russi. Qualcuno ci conosce attraverso Internet, altri sono indirizzati dagli stessi albergatori. Qualcuno porta la moglie a prendere il sole sul prato che circonda il lago, mentre i bambini giocano nel parco giochi, altri lasciano le famiglie tra spiaggia e shopping in viale Ceccarini, mentre si divertono a pescare le carpe. Molti dei turisti non portano l’attrezzatura in vacanza e quindi ci siamo attrezzati per affittargliela».
«E’ accaduto anche il contrario, un gruppo di perugini che per partecipare alle nostre gare hanno poi deciso di fermarsi per fare una piccola vacanza. Poi ci sono quelli che vengono da Bologna, da Pesaro e dalle Marche. Insomma, in dieci anni le nostre carpe si sono fatte un bel nome. E questa oasi è cresciuta con loro». La pesca è rigorosamente “no kill”: si cattura la preda, il tempo di fare una bella foto ricordo e via, di nuovo nel lago. Parliamo di carpe che hanno raggiunto i 17 chilogrammi. «Siamo orgogliosi dell’ecosistema che si è creato – continua Ilaria – due anni fa addirittura sono nati dei piccoli, segno che il lago è in ottima salute. Merito dei biologi che ci aiutano a tenerlo sotto controllo e dei pescatori e degli ospiti che lo frequentano, che lo trattano con il dovuto rispetto».
E accanto ai pescatori, arrivano altri ospiti, attirati dalla pace che vi regna, di giorno e la sera. E dalla cucina. «Chi viene qui apprezza sopratutto i rumori della natura: niente motori, niente clacson, solo i canti degli uccellini o delle cicale quando è caldo. Ma con i tanti alberi che abbiamo qui di sicuro l’afa non la soffriamo». E la sera sono molti i riccionesi pescatori e non che vengono a godersi il fresco e la pace del lago, insieme a un buon piatto di pasta fresca, qualche piadina e per i più piccoli hamburger e hot dog. E anche qualche fuori programma: un concertino ogni tanto e, una volta, anche una presentazione di un libro. Insomma, 10 anni di vita pacifica ma certamente non monotona, se si amano i semplici ingredienti della natura. Tanti auguri, lago Arcobaleno.
L'articolo Dieci anni di turismo sportivo silenzioso nell’area protetta di Riccione: il lago Arcobaleno tra carpe di 17 chili e cucina romagnola. proviene da Cento Fiori, Rimini.
«Cento Fiori, grazie di cuore! E’ con l’immagine di un’esplosione di colori e divertimento ancora davanti agli occhi che vogliamo ringraziarvi per questa 2° edizione di Diabete Beach Tennis: un grande successo di partecipanti ed entusiasmo! Domenica pomeriggio il Riccione Beach Arena era un arcobaleno di colori: rosa, giallo e blu come le magliette indossate da ognuno, con il simbolico Mister One, che rappresenta il diabete Tipo 1, quello che colpisce i bambini. Tantissimi giocatori si sono sfidati fino a sera, giocando con il sorriso e con il cuore per regalare speranza ai bambini e alle loro famiglie che convivono ogni giorno con il diabete e per costruire insieme un mondo in cui il diabete non sia più d’ostacolo alle passioni ed ai sogni di nessuno.
E’ stato un pomeriggio davvero emozionante, di sport e divertimento ma anche di grande solidarietà. Tanti infatti sono stati i partecipanti accolti con il sorriso dai volontari di Diabete Romagna, che con la forza e la determinazione che li contraddistingue, hanno fatto sentire a casa tutti coloro che sono stati con noi in questo pomeriggio di festa.
Desideriamo ringraziarvi di cuore per essere al nostro fianco, anno dopo anno, e per essere stati con noi in questa seconda edizione di Diabete Beach Tennis, che è ormai diventato un appuntamento fisso con l’estate di Riccione. Grazie davvero perché con il sostegno di Cooperativa Cento Fiori i bambini come Andrea, che ha il diabete da quando era molto piccolo e che da grande sogna di fare il tennista, possono affrontare le sfide di ogni giorno con la loro famiglia, con il sorriso che avete regalato loro.
A questo link trovate la gallery con tutte le foto. Ci teniamo
davvero a ringraziarvi attraverso i volti dei partecipanti e dei
volontari, sorrisi e divertimento di una bellissima domenica
trascorsa insieme:
https://flic.kr/s/aHsmF8WtfB»
Un caro saluto da tutta l’associazione
dott.ssa Judith Mongiello
Coordinamento e Organizzazione
Associazione Diabete Romagna Onlus
L'articolo Conclusa la seconda edizione di Diabete Beach Tennis, al quale ha partecipato anche Cento Fiori. La lettera di Diabete Romagna. proviene da Cento Fiori, Rimini.
E’ poco più di un mese che ho trasformato la mia bicicletta da città in una ebike. Ho comprato un kit di trasformazione Bafang, uno di quelli che sfili i pedali e la meccanica del mozzo e al loro posto metti un motore elettrico (mid drive). Il motore l’ho comprato su Alibaba, direttamente in Cina. Ho speso meno che su Amazon, 351 euro, tasse di importazione e spedizione inclusi. La batteria l’ho comprata in Italia, senza nemmeno cercare alternative, temendo che il trasporto di un materiale esplodente – quale è la batteria - mi costasse una follia. Me la sono cavata con 320 euro, compreso il guscio, per una 14,5 Ampere, ovvero un centinaio di chilometri di autonomia, se non si esagera con il livello di assistenza alla pedalata.
Ho scelto il kit non perché avessi una bicicletta di valore. Anzi, ho scoperto di avere un vero catorcio, in questo mese e mezzo. Semplicemente non potevo permettermi come spazio un’altra bicicletta. Come costi, infatti, per rendere efficiente la bicicletta che avevo (si consumano di più la catena, i pignoni, i copertoni, si è spaccato prima il mozzo.... avoglia te….) alla fine ho speso come una ebike da città a livello base, sempre mid drive (con il motore alla ruota i costi sono ancora più bassi). Ho scelto il kit mid drive perché mi intrigava, e continua a intrigarmi, l’idea di dare una nuova vita alla bicicletta “tradizionale”. Sfili il meccanismo dei pedali, inserisci il motore, fissi con due viti la batteria al posto del portaborraccia e accendi. Vuoi cambiare bicicletta? Sfili il motore e rimetti i pedali. In due ore ti cambia bici e vita.
In un mese e mezzo ho fatto quasi mille chilometri. Alla fine dell’anno, se continuo con questi ritmi, farò il doppio dei chilometri che facevo in auto. E, quando vado al lavoro, ho tagliato della metà il sudore. Lavoro in due uffici e in entrambi dovevo avere un cambio di intimo, di camicie e un asciugamano. Sembra una patacata, ma i chilometri di tragitto casa – lavoro mi sono costati in sudore diversi raffreddori e varie influenze negli inverni scorsi. Per non parlare del tempo. In auto ci perdevo mezz’ora a viaggio, in bici 15 minuti, in ebike arrivo a 10, con meno fatica e la stessa sicurezza. Questo per gli otto chilometri del lavoro. Poi ci sono gli altri 12, per arrivare alla media…
Fare meno fatica in bicicletta non ha coinciso con l’impigrirsi. Al contrario, è scattato un curioso meccanismo mentale che mi porta a non sopravvalutare le distanze. Lo percepisco: lo spazio si è ristretto, i luoghi sono più vicini. Ne raggiungi uno e già ti poni l’obbiettivo di aggiungere qualche altra manciata di chilometri, se non questa volta magari alla prossima. Arrivi a Ponte Verucchio giovedì, domenica vuoi raggiungere Saiano. Lo raggiungi, ti sporgi dalla genga che domina il Marecchia e pensi: la prossima volta arrivo lì, a Pietracuta. E invece arrivi più in là. E non aumento il livello di assistenza del motore. Anzi, quando posso lo diminuisco. Sferragliando, percorro la ciclabile con la mia bici da città. Alla quale ho dovuto regalare una ruota più robusta, dei freni migliori, un copertone nuovo. Ma sono lì, a godermi i merli o le upupe che scappano via dalla pista, a evitare le lucertoline spaventate, a rimirare il volo di un falco che forse ho disturbato forse cerca una preda.
Certo, i puristi storcono il naso: “con l’ebike...”. Vabbé, che dicano pure: son tutti fenomeni quando si parla delle fatiche degli altri. Intanto io, con due infarti, ora esco quasi tutti i giorni e non sono per niente spaventato, né dalle distanze né dal caldo né dalla solitudine. Ogni settimana faccio uscite da 40 a 60 km, intervallate da giri più piccoli. Con la bicicletta da trekking dopo ogni uscita da 40 o 60 dovevo stare fermo un giorno. Faccio più chilometri, meno fatica, dimagrisco forse meno ma faccio la stessa strada di tanti mountainbikers con il mio catorcino. E mi conquisto scorci che il mio cuoricino pensava di non poter guadagnare. Butta via...
Argomenti: BloggingNon è originario dell’Italia, ma ne è diventato un’icona, tanto da essere celebrato, letteralmente, in tutte le salse: il pomodoro. Dal Gianburrasca – Rita Pavone che canticchia “Viva la pappapappa col pomopomopomodoro” al “tomato” di Peter Clemenza che ne Il padrino insegna al giovane Michael come si fa a fare il sugo per gli uomini “scesi ai materassi” (la guerra dei mafiosi), il pomodoro è parte del Made in Italy. E un terzo di questa icona viene dall’Emilia, dal cosiddetto distretto del pomodoro industriale. Mentre le rosse bacche completano la loro maturazione nei campi padani, l’industria della lavorazione alimentare comincia a prepararsi per il massiccio lavoro che la investirà fino a settembre. E che rivoluzionerà, almeno per poche settimane, l’organizzazione delle singole aziende.
Noi ci soffermiamo su Medolla, Modena, sede della Menù, una delle più interessanti realtà di produzione di semilavorati per la ristorazione. Target Sinergie da anni assiste Menù nell’ambito delle sanificazioni dei reparti produttivi e delle pulizie di alcuni degli ambienti di stoccaggio. Flessibilità è la parola d’ordine nell’ambiente produttivo agroalimentare. Durante l'anno l’attività ordinaria, se così si può definire, di Target Sinergie è asservita alle operazioni di sanificazione dei macchinari impegnati nelle diverse produzioni. Produzioni che variano e si alternano ad un ritmo sostenuto durante tutti i giorni della settimana. Il catalogo dei prodotti Menù infatti è molto ampio: l’azienda serve il mondo Horeca con specialità alimentari come condimenti, salse, creme, primi piatti, e prodotti alimentari semilavorati per la ristorazione professionale.
A luglio lo stabilimento di Medolla si trasforma per accogliere e trasformare il raccolto di pomodori proveniente dai territori limitrofi. In un’epoca di globalizzazione qui si può parlare di un prodotto praticamente a km 0. Di fatto il pomodoro è il prodotto di punta della Menù, che viene utilizzato sia per preparazioni a marchio, sia venduto come semilavorato. Durante la stagione del pomodoro il ciclo produttivo passa da diurno ad h24 e le attività di igienizzazione vanno asservite alle linee di produzione mentre le altre attività di pulizia si concentrano a stabilimento fermo al sabato, con una squadra di lavoro molto più consistente.
«Uno dei fattori decisivi per la conquista e il mantenimento della commessa – dice Davide Zamagni, presidente di Target Sinergie - è stata l'introduzione di una figura non operativa con funzioni di coordinamento e controllo sul lavoro. Nello stesso tempo si interfaccia con il cliente per organizzare la forte variabilità delle lavorazioni, garantendo una qualità del servizio adeguata all'ambiente alimentare. Abbiamo poi aggiunto un consulente esterno specializzato sui protocolli di sanificazione e controllo qualità in ambito alimentare, che ci aiuta nella redazione di nuove istruzioni operative, definizione di nuovi standard qualitativi e di conseguenza azioni migliorative mirate».
Durante l’anno la giornata ordinaria della commessa Target Sinergie di sanificazione industriale segue la parabola del sole. Di giorno assistenza alla produzione per seguire i cambi di lavorazione alle macchine, che devono essere pulite e sanificate per dare spazio a nuove lavorazioni. La sera, a stabilimento fermo si fa la pulizia totale per il settore produttivo e tutti gli altri settori collaterali. Tutto questo finché non maturano i pomodori: da luglio a settembre, come avete letto, cambia la musica.
pappa_col_pomodoro.jpg Notizie Igiene e pulizieRimini – «Cara Silvia “Freaky Candy” Capannini, desidero ringraziarti per la generosa donazione che l’associazione da te presieduta [Cuore e Burlesque ASD ndr] ha fatto alla nostra cooperativa. La interpreto come un forte segnale di vicinanza all’opera di accoglienza che facciamo, ma sopratutto come un legame civile, etico e morale tra le nostre organizzazioni. Un legame che vede nell’antirazzismo, nell’accoglienza del diverso, nel dovere di aiuto verso chi fugge da situazioni drammatiche e nello scambio culturale i principi fondanti». Cristian Tamagnini, presidente della Cento Fiori, scrive così in una lettera dopo la cospicua donazione, 2192,34 euro, frutto dello spettacolo Freaky Candy Burlesque Expo 2019, svoltosi al Teatro degli Atti.
Uno spettacolo di grande successo, visto il “sold out” dei biglietti, e che a detta degli stessi spettatori è stato “uno show divertente, con numeri di grande classe e dall’evidente alto tenore professionale”. Difficile insomma considerarlo un “semplice” saggio delle allieve del Cuore e Brulesque ASD. Scrivevano infatti con orgoglio gli organizzatori che «dopo un intenso anno di lavoro tra glitter, tacchi e soffici piume di struzzo, Freaky Candy ha l’onore di presentare le starlettes di Cuore e Burlesque in uno show a dir poco spaziale». Sul palco «numeri personali e di gruppo, stili diversissimi tra di loro, costumi realizzati e decorati interamente a mano, frutto della fantasia e della passione delle allieve e della loro folle guida Freaky Candy».
Ma come è nata questa curiosa – e benefica – relazione tra un’associazione che si occupa di burlesque e una cooperativa sociale che accoglie migranti (oltre a gestire strutture terapeutiche contro le dipendenza da sostanze stupefacenti)? «Tutto è nato lo scorso anno durante la Giornata Mondiale contro l’omo-bi-transfobia, – dice Federica Soglia, educatrice del settore Migranti della Cento Fiori – alla quale ha partecipato il coro de I Mondani, il gruppo di richiedenti asilo ospiti delle strutture Cento Fiori che, grazie all’associazione Pinkabbestia, studiano i canti tradizionali popolari italiani come attività per conoscere meglio la lingua e il paese che li sta ospitando. L’incontro tra Cuore e Burlesque asd e I Mondani ha evidentemente lasciato il segno se l’edizione 2019 del saggio è stata finalizzata a sostenere le loro e le altre attività culturali organizzate nelle residenze gestire dalla Cento Fiori».
Nel ringraziare la presidente Silvia Capannini, le protagoniste dello show e chi lo ha reso possibile da dietro le quinte, Cristian Tamagnini si è congedato «con la promessa che vi manterremo aggiornati sull’uso che faremo del vostro generoso contributo e sui frutti che darà in iniziative culturali dedicate ai nostri ospiti richiedenti asilo».
L'articolo Un Burlesque dal Cuore antirazzista: dal Freaky Candy Burlesque Expo 2019 quasi 2200 euro di donazione per iniziative culturali dei richiedenti asilo ospiti della Cento Fiori proviene da Cento Fiori, Rimini.
Rimini – Dieci personal computer donati dal gruppo Sgr che diventeranno, opportunamente messi in rete tra loro, la prima aula studi di informatica della Comunità Terapeutica e del Centro Osservazione e diagnosi di Vallecchio. Il cospicuo dono è stato consegnato nei giorni scorsi dall’ingegner Bruno Tani, amministratore delegato di Sgr, a Cristian Tamagnini, il presidente della Cooperativa Sociale Cento Fiori di Rimini.
«La nostra azienda è sempre attenta al sociale e quando può aiuta le organizzazioni e le associazioni che sono attive in maniera efficace – ha detto Bruno Tani, durante l’incontro tra le due realtà – Conosciamo la Cento Fiori dalla sua nascita, e il suo fondatore Werther Mussoni. Abbiamo sempre seguito le sue attività e abbiamo periodicamente usufruito dei servizi della Cento fiori che peraltro sono molto ben fatti. E che si avvia ormai verso i 40 anni”.
«Siamo grati per questo importante aiuto a Sgr, che si conferma come un’azienda dalla forte responsabilità sociale. La donazione di PC ci permette di continuare sulla strada dell’innovazione nella nostra attività in Comunità Terapeutica e nel Centro di Osservazione e diagnosi a Vallecchio – dice Cristian Tamagnini, presidente della Cento Fiori – Aggiungeremo infatti tasselli di formazione informatica ai nostri programmi terapeutici, che già si connotano con peculiarità quali le terapie per coppie, i moduli per le dipendenze da cocaina e i tempi ridotti di permanenza in struttura, da sempre uno dei nostri obbiettivi. L’aula studi di informatica ci permetterà di allargare gli orizzonti professionali dei nostri ospiti, una volta dimessi dalle nostre strutture».
I dieci pc, tutti revisionati dall’area IT del gruppo multiservizi riminese, sono ora nella comunità di Vallecchio, dove sarà installato in ciascuno il sistema operativo linux nella distribuzione Xubuntu, una delle versioni più leggere e adatte anche ai computer meno aggiornati tecnologicamente, ma non per questo meno accessoriati come software. «Abbiamo fatto una scelta di cultura informatica – dice Enrico Rotelli, responsabile Comunicazione della cooperativa Cento Fiori e ideatore del progetto – sposando il software libero e valorizzando chi mette le proprie competenze a disposizione della collettività, in un’ottica di collaborazione. Il gesto di Sgr va in questa direzione, noi proseguiremo chiedendo il coinvolgimento dell’associazionismo che gravita intorno al mondo linux. Intanto stiamo partendo con i corsi di informatica di base e poi… chissà».
L'articolo SGR dona 10 computer alla Cooperativa Sociale Cento Fiori: nasce l’aula studi di informatica della Comunità Terapeutica di Vallecchio proviene da Cento Fiori, Rimini.
La Regione Emilia Romagna eroga un contributo a fondo perduto per i commercianti al dettaglio e lo fa attraverso la delibera di Giunta regionale n. 586 del 15 aprile 2019 Obiettivo dichiarato è quello di agevolare un nuovo posizionamento delle attività di vendita al dettaglio, promuovendo un cambiamento strutturale finalizzato all’accrescimento della competitività delle imprese del settore. In particolare la volontà della Regione Emilia Romagna è quella di supportare le imprese commerciali, e in particolare i piccoli esercizi di vicinato, nei processi di cambiamento e innovazione, soprattutto nell’ambito digitale e tecnologico, che sono necessari per affrontare la trasformazione dei mercati nonché per intercettare le nuove tendenze nei comportamenti dei consumatori.
BENEFICIARII beneficiari dell’iniziativa sono le micro, le piccole e le medie imprese che esercitano attività commerciale al dettaglio in sede fissa e che hanno i requisiti di esercizio di vicinato ai sensi della vigente normativa (art. 4, comma 1, lettera d del D. Lgs. 114/1998 e smi). Più in particolare tutte le attività che rientrano nella sezione G47 dei settori di attività economica Ateco 2007, con esclusione dei seguenti gruppi e sottogruppi:
47.11.1 “Ipermercati”; 47.11.2 “Supermercati”; 47.3 “Commercio al dettaglio di carburante per autotrazione”; 47.8 “Commercio al dettaglio ambulante”; 47.9 “Commercio al dettaglio al di fuori di negozi, banchi e mercati”)
L’agevolazione consiste nell’erogazione di un contributo a fondo perduto nella misura del 40% della spesa ammessa che potrà essere aumentato con le seguenti premialità:
I progetti finanziabili con il bando devono essere realizzati all’interno di unità locali situate in Emilia Romagna e devono prevedere la realizzazione di interventi finalizzati all’innovazione gestionale, alla creazione di nuovi sistemi di vendita e di servizio che prevedano l’impiego delle moderne moderne tecnologie digitali. In particolare:
I progetti dovranno prevedere un investimento non inferiore ad € 10.000 esclusa IVA
SPESE AMMISSIBILILe spese ammissibili sono le seguenti:
Le domande possono essere presentate dalle ore 10.00 del giorno 20/05/2019 alle ore 13.00 del giorno 11/07/2019.
I progetti dovranno essere avviati dalla data della domanda e fino al giorno 31.12.2019.
Altre informazioni sul bando potranno essere richieste allo Studio.
Notizie Newsletter Grassi Benaglia Moretti, avvocati & commercialistiRimini – «E’ un bilancio positivo, il 2018, nel quale il lavoro di soci e dipendenti ci ha consegnato una crescita nell’occupazione e nel fatturato, se guardiamo con i soli occhi dell’azienda. Ma noi allarghiamo lo sguardo anche alla nostra coscienza sociale, e il 2018 ci ha dato una crescita per quanto riguarda la lotta alle dipendenze da sostanze e l’inclusione delle persone svantaggiate. E una crescita anche nella percezione all’esterno del modello Cento Fiori». Cristian Tamagnini, presidente della cooperativa sociale Cento Fiori, commenta il bilancio 2018 approvato nei giorni scorsi dall’assemblea dei soci.
Un bilancio con diverse voci nel segno del più. I dipendenti, per iniziare, passati da 59 a 77, ma anche nel fatturato, che ha sfiorato i 4 milioni di euro. «E tutto ciò in un clima aziendale positivo, come ci dice il questionario che abbiamo somministrato ai dipendenti, che ci ha restituito l’immagine di un forte senso di appartenenza e di ottimi rapporti tra colleghi. Non è poco per noi». Diversi gli aspetti qualitativi che contraddistinguono il 2018, «al di là dei semplici numeri contabili», dice Tamagnini. «Il modello Cento Fiori si sta affermando e e sta acquisendo maggiore visibilità all’esterno. Certo si stanno sentendo gli effetti dell’investimento in comunicazione. Ma notiamo anche una maggiore attenzione da parte di istituzioni come l’Università di Bologna, sia sui nostri progetti terapeutici contro le dipendenze, sia come interventi educativi nel disagio sociale. Così come si stanno ampliando i progetti di prevenzione contro la droga con le scuole superiori del riminese».
«Che sia una cooperativa solida non lo dico io ma lo dicono i numeri. – aggiunge Domenico Diotalevi, direttore amministrativo della Cento Fiori – Il patrimonio netto ha superato i 2 milioni di euro, sono aumentati i soci lavoratori diventati 36, 47 soci sovventori sono persone fisiche, 12 soci sovventori sono persona giuridiche, abbiamo 13 soci volontari. I numeri ci dicono che abbiamo rafforzato i settori principali, legati alla recupero dalle dipendenze e consolidato i progetti in ambito di emergenza e gestione migranti. Oltre a diversificare in progetti sociali a favore del territorio e a sostenere gli storici settori di inserimento lavorativo di persone svantaggiate quali La Serra e il Centro stampa».
L’approvazione del bilancio della cooperativa avviene come prassi ad anno inoltrato, e Tamagnini approfitta dell’occasione per parlare dei progetti in atto nel 2019 e quelli futuri. Tra questi ricorda «l’apertura di un gruppo appartamento, rivolto alle persone in uscita dal percorso di recupero, in modalità H6, ovvero con una maggiore presenza degli educatori. Prosegue il percorso di accreditamento presso la Regione ed entro la fine dell’anno intendiamo varare nuovi moduli terapeutici per i giovani in doppia diagnosi in accordo con l’Ausl Area Vasta Romagna e il Centro di Salute Mentale. Senza tralasciare il completamento e l’efficientamento delle strutture terapeutiche di Vallecchio».
«Stiamo consolidando il settore dei Migranti – prosegue Tamagnini – attraverso la differenziazione dell’offerta, sia partecipando ai bandi europei, sia ai nuovi progetti Sprar e al Bando nazionale per l’innovazione sociale. Infine stiamo dedicando molta attenzione alla formazione professionale, sia interna, sia come formatori all’esterno».
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Rimini – Dopo un intenso anno di lavoro tra glitter, tacchi e soffici piume di struzzo, Freaky Candy ha l’onore di presentare le Starlettes di Cuore e Burlesque in uno show a dir poco spaziale: il Freaky Candy Burlesque Expo.
Si alterneranno sul palco del Teatro degli Atti sabato 25 maggio dalle ore 21 numeri personali e di gruppo, stili diversissimi tra di loro, costumi realizzati e decorati interamente a mano, frutto della fantasia e della passione delle allieve e della loro folle guida Freaky Candy.
I ricavi dello show verranno devoluti alla Cooperativa sociale Cento Fiori di Rimini a sostegno, nello specifico, dell’area Migranti.
«Tutto è nato lo scorso anno durante la Giornata Mondiale contro l’omo-bi-transfobia, – dicono dalla cooperativa sociale – alla quale ha partecipato il coro dei Mondani, il gruppo di richiedenti asilo ospiti delle strutture Cento Fiori che, grazie all’associazione Pinkabbestia, studiano i canti tradizionali popolari italiani come attività per conoscere meglio la lingua e il paese che li sta ospitando. L’incontro tra Cuore e Burlesque asd e I Mondani ha evidentemente lasciato il segno se l’edizione 2019 del saggio, sabato prossimo, è finalizzata a sostenere le loro e le altre attività culturali organizzate nelle residenze gestire dalla Cento Fiori».
Non solo una donazione, ma una vera e propria presa di posizione ANTIRAZZISTA della comunità burlesque della riviera romagnola, Cuore e Burlesque, a sostegno di tutte e tutti coloro che ancora al giorno d’oggi vengono discriminate/i in base al colore della pelle o delle proprie origini.
In un periodo così buio dell’Italia, in cui atti di intolleranza e razzismo sono purtroppo sempre più frequenti, noi tutte ci stringiamo a sostegno dei migranti e della comunità POC locale.
Vi aspetta uno show frizzante ed irriverente, condotto da una scatenata Margherita Tercon ed una dispettosa ed imprevedibile Freaky Candy. Biglietti: 13,00 euro Per info e prevendite: cuoreeburlesque@gmail.com, cell 338 7467883. Il botteghino del teatro aprirà dalle ore 18:30.
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Il video che conclude il progetto “Adolescenti e Migranti: Narrazione e Identità”, che ha come obiettivo la prevenzione contro tutte le forme di violenza nei confronti dell’altro, il diverso, attraverso un intervento che renda consapevoli gli stereotipi e i pregiudizi personali, ai fini di creare un pensiero critico sui temi della migrazione, dell’interculturalità e dei diritti umani.
Il progetto, della durata annuale, è stato realizzato da Cinzia Carnevali, Mirella Montemurro, Laura Ravaioli e Gabriella Vandi della Società Psicoanalitica Italiana (Spi), in collaborazione con le colleghe di SIPsA (Società Italiana di Psicodramma Analitico)-COIRAG: Rita Arianna Belpassi, Silvia Cicchetti, Stefania Fabbri, Lidia Mulazzani, Sonia Saponi, Roberta Savioli e Roberta Secchiaroli; hanno condiviso il lavoro anche l’Associazione Margaret e Istituto Scienze dell’Uomo- progetto Interazioni nonchè l’Associazione Arcobaleno.
Le colleghe hanno ideato, coordinato e supervisionato il progetto, che ha previsto un lavoro condiviso tra gli studenti dei licei classico e scienze umane G.Cesare-Manara Valgimigli di Rimini e scientifico ed artistico Volta Fellini di Riccione e i giovani migranti, studenti della scuola di italiano dell’Associazione Arcobaleno e ospiti delle cooperative Cad e Cento Fiori.
Il Progetto “Adolescenti e Migranti: Narrazione e Identità” ha come obiettivo la prevenzione contro tutte le forme di violenza nei confronti dell’altro, il diverso, attraverso un intervento che renda consapevoli gli stereotipi e i pregiudizi personali, ai fini di creare un pensiero critico sui temi della migrazione, dell’interculturalità e dei diritti umani.
Scriveva Freud: “Nella vita psichica del singolo, l’Altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come soccorritore, come nemico, pertanto la psicologia individuale è al tempo stesso sin dall’inizio psicologia sociale”.
Le classi delle diverse scuole, grazie all’intermediazione dei loro insegnanti, sono state invitate a lavorare su alcuni testi narrativi: narrazione di Sé, del viaggio e dell’identità attraverso brevi racconti, poesie, testi musicali, video. Nel corso dei mesi scolastici, i giovani, studenti e migranti, si sono incontrati e hanno lavorato insieme con la voce e le parole, con il corpo e il movimento.
Il percorso ha mirato a creare uno spazio espressivo attraverso vari linguaggi, che realizzassero un’esperienza di incontro e ascolto, rivolta alla conoscenza dell’Altro, mediante la produzione di opere individuali e/o di gruppo, a partire dalla lingua materna originaria usata nel racconto di sé e dell’esperienza del viaggio.
Una parte del progetto si inserisce all’interno della Rassegna “ Da qualche parte tra musica e Psicoanalisi. Narrazioni e Identità”, che ha previsto, in alcune delle serate allo Spazio Tondelli di Riccione, gli interventi di colleghe psicoanaliste e psicoterapeute e le rappresentazioni sceniche dei testi dei giovani alunni e migranti.
(Parziale rielaborazione dall’articolo di Manuela Martelli tratto dal sito del Centro Psicoanalitico Bolognese https://www.cepsibo.it/index.php?option=com_content&view=article&id=702-delme-report-frammenti-voci-di-stra-ordinaria-umanita-rimini-5-maggio-2019-manuela-martelli&catid=139&Itemid=645 )
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Sui colloqui clinici
(Progetto IRIFOR 2018)
Rimini – «A che età avete cominciato a fare uso di sostanze»? «Come hanno reagito e come hanno scoperto che usavi sostanze»? «La cocaina che effetto provoca? E’ simile a quello della “canna”»? Sono alcune delle domande di adolescenti, gli alunni delle prime classi del liceo Scienze Umane dell’istituto Giulio Cesare Manara Valgimigli di Rimini, rivolte agli ospiti della comunità terapeutica di Vallecchio. Gli incontri erano parte integrante del progetto “Io non dipendo”, di prevenzione e di informazione che da una parte ha coinvolto il personale e gli ospiti della Cooperativa Sociale Cento Fiori, dall’altra i giovani liceali di cinque classi, accompagnati dai loro insegnanti.
«L’approccio è stato di coniugare l’informazione professionale, scientifica ed educativa e quella del vissuto» ha detto Gabriella Maggioli, vicepresidente della Cento Fiori. E infatti, lei ha partecipato agli incontri con i ragazzi in qualità di psicologa e di psicoterapeuta. Accanto, alcuni degli utenti della Comunità Terapeutica di Vallecchio, che si sono prestati a raccontare ai ragazzi le loro esperienze.
«Sono stati incontri “senza rete” – ha raccontato Gabriella Maggioli – infatti per mettere a loro agio gli adolescenti, parliamo di ragazzi di 14 anni, abbiamo fatto scrivere loro le domande per poi metterle in un sacchetto ed estrarle». Gli studenti non si sono sottratti, dando fondo alle tante domande – da «Che tipo di sostanze avete usato la prima volta» a «che età avevate» – su un tema certamente complesso e non facile. Troppo spesso sconosciuto anche per chi è adulto e si suppone abbia gli strumenti per conoscerlo.
C’è stato chi ha chiesto «Oltre alle classiche (sic) compagnie sbagliate, quali sono le altre cause»? I percorsi di uscita dalla dipendenza sono stati oggetto di curiosità: «Vi ha aiutato qualcuno a decidere di uscire da queste dipendenze, oppure è stata una vostra scelta personale»? Uno (o una) studente ha chiesto se «Oltre agli educatori, avete trovato forza e determinazione nei vostri compagni all’interno del centro»? I ragazzi, aiutati dai bigliettini, sono andati anche sul personale chiedendo se «Avete figli»? O addirittura «se i tuoi figli cominciassero a fare uso…». Toccando con innocenza corde sensibili, commoventi per chi ha ricevuto la domanda: «Cosa hai perso nella vita da quando hai cominciato a drogarti»?
L'articolo «Io non dipendo»: le domande “senza rete” di liceali a ospiti e psicologa della Comunità Terapeutica di Vallecchio. Un progetto di prevenzione del Giulio Cesare – Manara Valgimigli di Rimini. proviene da Cento Fiori, Rimini.
I richiedenti asilo ospiti della cooperativa sociale Cad hanno vinto il primo campionato intercooperativo di calciotto di Rimini, mettendo in fila le cinque altre squadre contendenti. Ma se è stata una squadra la netta vincitrice – sei punti il distacco dalle inseguitrici – per tutti i giocatori e gli educatori la premiazione è stata una festa. Si è conclusa così tra musica, cibo cucinato nelle case dei richiedenti asilo e bibite, nel parco de La Serra Cento Fiori il primo campionato che vedeva scendere in campo le compagini delle cooperative sociali Cad (con due squadre), Ardea, Terre solidali, i padroni di casa Cento Fiori e la Croce Rossa.
«Una bella esperienza di collaborazione tra le cooperative sociali impegnate nell’accoglienza dei richiedenti asilo – ha commentato Monica Ciavatta responsabile dell’area Migranti della cooperativa sociale Cento Fiori – Ma sopratutto tante occasioni di divertimento per i richiedenti asilo. E poi diciamo che premiare i primi classificati del campionato è stato anche un premio per gli sforzi di tutte le educatrici e gli educatori impegnati, ciascuno nella propria realtà, nell’accoglienza e nell’aiuto ai migranti nella provincia di Rimini. Un lavoro non facile in questo clima sociale e che svolgono dimostrando sensibilità e cura verso il prossimo».
La squadra Cad 2 ha alzato la coppa del vincitore con 15 punti e un differenziale reti fatte / subite a +28, staccando le inseguitrici Ardea e Terre solidali. Quarti a pari merito Cad 1 e Cento Fiori, quinti Croce Rossa. Poi, tutti al banchetto, allietati da un attrezzatissimo dj set nel parco. Sport, musica e convivialità, i linguaggi che usano una grammatica senza confini.
L'articolo Cad vince il primo campionato intercooperativo di calciotto, ma è festa per tutti alla Serra Cento Fiori proviene da Cento Fiori, Rimini.
Il progetto Ulisse delle crociere terapeutiche della Cooperativa Sociale Cento Fiori approda all’Università di Bologna il 10 maggio 2019, durante il convegno “Facciamole Fuori. L’outdoor education nella lotta alle dipendenze”. L’esperienza ultraventennale della cooperativa sociale che coinvolge gli utenti della Comunità terapeutica di Vallecchio e dei Centri di Osservazione e diagnosi sarà presentata tra i diversi progetti educativi outdoor per la prevenzione e la lotta alle dipendenze, grazie all’iniziativa organizzata dal Centro di ricerca sull’Educazione e la Formazione Esperienziale e Outdoor (Cefeo), nell’ambito del dipartimento di Scienze dell’Educazione “Giovanni Maria Bertin” dell’Università di Bologna. A illustrare l’esperienza il fondatore del progetto (e della Cooperativa) Werther Mussoni e l’attuale skypper delle crociere (ed educatore) Andrea Ambrosani, che ha “ereditato” il ruolo da Mussoni.
Il convegno è finalizzato a dare visibilità alle metodologie educative realizzate in outdoor che mirano alla prevenzione e al contrasto delle dipendenze patologiche da sostanze, gioco e tecnologia. Queste pratiche d’intervento socio educativo prevedono la fruizione dell’ambiente naturale “selvaggio” (wild) per dare luogo ad esperienze di crescita, sviluppo e apprendimento individuale di gruppo e di comunità perché possono incidere sulla condizione esistenziale dei soggetti provocando cambiamenti significativi in senso psicofisico, cognitivo, relazionale e sociale.
L’obiettivo del convegno è quello di operare una riflessione su queste esperienze, ormai da tempo consolidate, per evidenziare i fondamenti psicopedagogici, gli aspetti metodologici, la definizione deI setting, l ‘efficacia degli interventi e le pratiche di valutazione, lo stato dell’arte delle pratiche in Italia. Il convegno si rivolge in particolare a educatori, operatori del settore socio educativo, insegnanti e studenti di Scienze dell’Educazione.
Il convegno si terrà presso l’aula 4 Via Zamboni 32, accesso consentito fino ad esaurimento posti, previa iscrizione gratuita obbligatoria al link: http://bit.ly/facciamole-fuori
Segreteria organizzativa: Isadora Merli – 051 2091413 i.merli@fondazionealmamater.it
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