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I "rave" romagnoli? Si chiamano Skeggia

Articolo a pagina 37 Corriere Romagna Cultura e spettacoli

Ballano sotto portici o in una piazza, stretti in coppie appassionate o in un composto vorticare, a decine in tondo cambiando partner ad ogni fraseggio musicale o inseguendosi in catene ritmate. Non stupitevi troppo se li vedete ballare al Voltone delle Molinelle a Faenza o in piazza Cavour a Rimini, al Chiostro di San Mercuriale a Forlì o sotto l’arco di Traiano ad Ancona: siete solo incappati in una Skeggia di balfolk, un varco spazio-temporale che si riappropria gioiosamente degli spazi pubblici, animato da ballerini di tutte le età (e di tutte le qualità), al suono dei balli popolari di tutta Europa.

Si parte dal passato, certamente, ritmi francesi, irlandesi, italiani, danze di coppia boeme o francesi dai nomi nordici, qualcuna immemore, molte ottocentesche, altre stravolte dalla rinascita che in tutta Europa il ballo folk sta vivendo attraverso festival e scuole. Ma per qualcuno è la Skeggia – nata giusto dieci anni fa in un parcheggio fuori Milano - il luogo privilegiato della rinascita delle danze tradizionali, il passaggio della conoscenza come avveniva nei paesi bretoni o pugliesi, che diventa passo studiato vivendolo: socialità, riso, sudore, divertimento, qualche volta passione. La skeggia come varco temporale dove ai suoni, ai passi della tradizione, custoditi dentro un tablet o un cellulare e rilanciati da una cassa amplificata a batteria comprata su Amazon, si miscelano i nuovi richiami a convegno degli adepti attraverso il web, pagine Facebook, WhatsApp.

Non c’è digital divide, non c’è gap generazionale, non ci sono divisioni sociali: la danza unisce, miscela e separa nell’arco di un’esecuzione generazioni, ruoli sociali, professioni. Come un cupido in vena di scherzi mette insieme la cardiologa fuori turno con l’attivista dei centri sociali, la studentessa universitaria e il capoturno in fabbrica, la maestra elementare e il funzionario della banca etica, la reduce delle stagioni punk in Dr. Martens e il professionista con le Church’s lucidate a specchio. E come cantava Angelo Branduardi, “il giro di una danza e poi un altro ancora e tu del tempo non sei più signora”.

Sono riti collettivi inclusivi, complice la semplicità dei balli. Di solito si comincia con le danze in cerchio, francesi per lo più, ma anche italiane, durante le quali ogni pochi passi si cambia partner. Nelle società ingessate europee dei secoli scorsi erano le uniche occasione lecite per sfiorare l’oggetto dei propri desideri. Oggi, a Forlì come davanti al Ponte di Tiberio, sono il modo migliore per entrare in un nuovo spirito della danza, dopo decenni di balli solitari tra le masse sui ritmi disco, post punk, drum ‘n bass o techno. E scoprirsi aspiranti ballerini di mazurke e valzer francesi o scottish senza passare dalle grinfie stereotipate di Romagna mia. Per ritrovarsi invece, per chi è più grande, a rinnovare i riti della notte, il nomadismo fatto di macchinate verso le destinazioni musicali e i ritorni accaldati, in compagnia dei fari e del russare leggero degli amici addormentati.

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