C'era una squadretta di giovani che si formava intorno alle pagine del Ponte. Parliamo del secolo scorso, fine anni '80, primi anni '90. Alcuni cercavano parole, Walter Dordoni immagini. Non era di qua, l'accento era milanese. Magari mi ha anche raccontato come c'è finito in riva all'Adriatico, più probabilmente no. O almeno così mi piace pensare. Però scattava, eccome. Prima del Ponte scattava al Carlino. Cronaca. In quella camera oscura attrezzata per il bianco e nero mi ha insegnato a sviluppare le pellicole, anche solo alcuni fotogrammi tagliati via al buio, a sviluppare le foto, le tecniche di base... Io scrivevo, ma ero curioso. Qualche volta abbiamo pure fatto coppia, io ai tasti lui agli scatti. Poi al Ponte, la sede nuova in via Santa Chiara, ha allestito la camera oscura. Ma io non c'ero più. Ormai agli sgoccioli con il giornalismo, abbiamo fatto altro: una foto e un racconto, impaginati da Monica Alfonsi su un manifesto, una fuga dalle colonne di carta verso qualcosa di un po' più artistico. O che credevamo tale. Perché poteva scattare per arte. E scattava, per arte: aveva uno sguardo sulle cose particolare, diverso da quello degli altri, capace di svelarti - o velarti - ciò che vedevi. Strano. Come il suo “vero” sguardo, melanconico che a tratti esplodeva in una risata un po' sardonica. Agra. Aveva talento. Come pochi. Da coltivare, ma ce l'aveva. Ma aveva anche bisogno di soldi: una famiglia da mandare avanti che mal si concilia con la gavetta a Rimini, lunga, dolorosa, interminabile. Una gavetta che può soffocare il talento, ucciderlo sotto una montagna di bisogni, piuttosto che aiutarti a coltivarlo. Un giorno ha attaccato la macchina al chiodo: venduta. Ho pensato: un momento di crisi, capita. Magari riprende a scattare tra poco, passato tutto. Che io sappia non ha ripreso. Quello sguardo, un po melanconico, è rimasto nei vecchi scatti in bianco e nero che ci ha lasciato. E nella sua immagine, un po' affaticata dagli anni, posta tra i fiori in mezzo a una navata, a San Mauro Pascoli.