Il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (CNCA) e il CNCA Puglia aderiscono al sit -in di solidarietà per l’inviata del Tg1 Maria Grazia Mazzola, vittima di una brutale aggressione da parte della moglie di un boss mafioso avvenuta nel quartiere Libertà del capoluogo pugliese due anni fa, mentre svolgeva il suo lavoro di giornalista.
Il CNCA domani mattina sarà vicino a Maria Grazia Mazzola in occasione dell’udienza preliminare di rinvio a giudizio che si terrà al tribunale di Bari, alla quale la giornalista partecipa in qualità di parte offesa.
“Bari non dimentica”, dichiarano Riccardo De Facci, presidente del CNCA, e Vito Mariella, presidente del CNCA Puglia. “L’aggressione subita da Mazzola ribadisce la necessità di mantenere alta l’attenzione sui fenomeni mafiosi presenti in città. Si combatte la criminalità organizzata con il duro lavoro delle forze dell’ordine e della magistratura in stretta sinergia con le associazioni e i cittadini che ogni giorno si adoperano per un cambiamento culturale e sociale. Ed esponenti della stampa come Mazzola, che svolgono un ruolo prezioso nel documentare le realtà di mafia, devono contare sull’appoggio delle istituzioni e della società civile”.
L'articolo CNCA: solidali con Maria Grazia Mazzola, la giornalista Rai aggredita a Bari due anni fa. Domani l’udienza preliminare. proviene da Cento Fiori, Rimini.
Il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (CNCA), la più grande rete di comunità di accoglienza e di recupero dalle dipendenze del terzo settore italiano, alla quale ha aderito anche la Cooperativa Sociale Cento Fiori, non si sente in alcun modo rappresentato dall’ex ministro Salvini e dalle sue posizioni sulla cannabis light.
“Sono ben altri i problemi che il sistema dei servizi deve affrontare,” dichiara Riccardo De Facci, presidente del CNCA, “questioni che si sono aggravate durante il periodo in cui Salvini ha fatto parte del governo: l’aumento del consumo di eroina, delle morti per overdose e le decine di nuove sostanze che hanno inondato il mercato. Noi crediamo in una politica sulle droghe radicalmente diversa da quella espressa dal leader della Lega. Non cerchi di farci passare per suoi complici in una ‘guerra alla droga’ fallimentare e dannosa.”
L'articolo Cnca: «Non in mio nome. Salvini sulla cannabis light non ci rappresenta. Il leader della Lega non cerchi di farci passare per suoi complici in una “guerra alla droga” fallimentare e dannosa». proviene da Cento Fiori, Rimini.
Santarcangelo / Verucchio – “Connessioni Invisibili” è il titolo della rassegna gratuita che a partire da giovedì 12 dicembre propone presentazioni di libri, musica, cibo, film e teatro come linguaggi comuni per svelare i legami nascosti tra persone e culture. Promossa da SPRAR Valmarecchia, Servizi sociali dell’Unione di Comuni Valmarecchia e le cooperative sociali Il Millepiedi e Cento Fiori, l’iniziativa è realizzata per celebrare la Giornata Mondiale dei Diritti Umani, che ricorre il 10 dicembre, e per vivere le festività natalizie all’insegna della solidarietà.
Giovedì 12 dicembre alle ore 21 in biblioteca Gando Diallo presenta il suo libro autobiografico “Un amore costoso” che racconta la sua storia – dalla nascita in Guinea fino alla sua vita in Italia – in un dialogo con Federica Soglia, operatrice SPRAR-SIPROIMI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per i minori stranieri non accompagnati). L’attore Francesco Montanari leggerà alcuni brani tratti dal libro.
“Connessioni Invisibili” prosegue sabato 14 allo Spazio Saigi (via de Garattoni, 5, Santarcangelo) dove, a partire dalle ore 19,30 è in programma una serata all’insegna della contaminazione con musica, cibo e danze da tutto il mondo. I musicisti Kalifa Kone che suona i djembé, tamà, kamalen n’goni, il flautista Fabio Mina, che suonerà anche in bass sint e al dan moi, e infine Marco Zanotti alla batteria preparata, tambora, pandeiro, batà. I quali si cimenteranno in alcune improvvisazioni dimostrando come la musica sia un linguaggio universale che non conosce barriere linguistiche, spaziali e temporali ma che, anzi, migliora e si completa con la contaminazione di stili e culture differenti. La serata proseguirà poi con il dj set di Goldstone con musica reggae e afrobeat dal SeneGambia e con un ricco buffet con piatti provenienti da tutto il mondo a cura dei ragazzi del progetto SPRAR-SIPROIMI.
Due film proseguono la rassegna: lunedì 16 dicembre alle ore 21 al Supercinema di Santarcamgelo è in programma la proiezione del film “Fuocoammare” con il quale il regista Gianfranco Rosi ha vinto l’Orso d’oro al Festival di Berlino. Lunedì 23 dicembre, sempre alle ore 21 al Supercinema, sarà la volta della commedia “L’ospite inatteso” di Tom McCarthy.
La rassegna si conclude venerdì 20 dicembre presso la Sala Romagna Mia in via Casale (Marecchiese) 103, Villa Verucchio alle 19.45 ricco buffet, in attesa alle 20.30 dello spettacolo di PlayBack Theatre “ARRIVI E PARTENZE” della compagnia C’erac’è. Il Playback Theatre è una forma originale di improvvisazione teatrale che si esprime attraverso una speciale collaborazione tra performer e pubblico: gli stimoli raccolti al momento prendono forma immediatamente attraverso una rappresentazione scenica e musicale curata dagli attori. Sarà l’occasione per il pubblico di vedere in scena sensazioni, emozioni, aneddoti e brevi storie legate al titolo della serata e di scoprire connessioni invisibili.
“Abbiamo ideato la rassegna ‘Connessioni Invisibili’ in occasione della Giornata Mondiale dei Diritti Umani” con il prezioso apporto di SPRAR-SIPROIMI e le cooperative Il Millepiedi e Cento Fiori, afferma Danilo Rinaldi, assessore ai Servizi Sociali e ai rapporti con l’Unione di Comuni del Comune di Santarcangelo. “L’intento è quello di utilizzare linguaggi universali come la musica, la cultura, la cucina e l’arte in generale per svelare i legami nascosti tra le persone, le connessioni invisibili appunto, come già abbiamo fatto in passato con altre iniziative come Azdòura Remix e Ingranaggi Musicali”.
L'articolo “Connessioni Invisibili”: dal 12 dicembre libri, musica, cibo, cinema e teatro svelano i legami nascosti tra le persone proviene da Cento Fiori, Rimini.
Rimini – Il viaggio come comunanza tra migranti e giovani studenti: i primi attraverso la loro migrazione, i secondi attraverso il loro percorso di trasformazione – e quindi viaggio – verso l’età adulta. Questa comunanza diventerà spettacolo al Teatro degli Atti attraverso le letture sceniche del 9 dicembre 2019 alle ore 21 (ingresso libero). E’ “Voci di stra/ordinaria umanità”, spettacolo patrocinato dal Comune di Rimini che rappresenta l’esito di diversi laboratori creativi condotti dagli attori Maria Costantini e Francesco Montanari. I quali hanno coinvolto studenti del liceo classico e di scienze umane Giulio Cesare – Manara Valgimigli di Rimini e del liceo scientifico e artistico Alessandro Volta – Federico Fellini di Riccione. I ragazzi, nel corso dell’anno scolastico 2018/19, sono stati impegnati in laboratori di scrittura e di lettura scenica, insieme ad un gruppo coetanei migranti ospiti delle cooperative sociali Cento Fiori e CAD di Rimini.
Il lavoro è parte del Progetto Regionale di Accoglienza e integrazione: “Racconti senza confini, un progetto di scambio e inclusione attraverso la narrazione” (capofila Cooperativa Sociale Cento Fiori). Alla realizzazione del progetto molto articolato, partito nel 2018 e che comprende diverse iniziative, hanno partecipato Psicoanaliste SPI, Psicoterapeute SIPsA – COIRAG, Antropologhe, Insegnanti ed Educatori. A partire da un pensiero psicologico e sociale, è stata sviluppata la possibilità di prendere parola rispetto al particolare momento storico che stiamo vivendo. Si è raggiunto l’obiettivo di collaborare con gli altri per riconoscere il disagio nel cambiamento adolescenziale, imparare a prendersi cura di sé e dell’altro, sensibilizzare ed educare alla cittadinanza attiva, promuovendo conoscenze e comportamenti adeguati per una convivenza civile e interculturale.
Hanno collaborato al progetto: Cinzia Carnevali, Laura Ravaioli, Gabriella Vandi Psicoanaliste SPI del gruppo nazionale PER (Psicoanalisti europei per i rifugiati). Sonia Saponi, Silvia Cicchetti, Stefania Fabbri, Rita Arianna Belpassi, Roberta Savioli, Roberta Secchiaroli Psicoterapeute SIPsA – COIRAG, Giorgia Guenci Villa Antropologa Associazione Margaret, Sandra Villa, dirigente scolastico liceo Giulio Cesare – Manara Valgimigli Rimini, Paride Principi dirigente scolastico liceo Alessandro Volta – Federico Fellini Riccione, Monica Ciavatta (Coop. Cento Fiori), Daniela Balducci (Coop. CAD), Valentina Di Cesare, Erika Romagnoli coordinatrici progetti Associazione Arcobaleno, Giovanni Ceccarelli e Carlo Pantaleo, rispettivamente presidente e coordinatore di progetti sociali e alternanza Scuola Lavoro Istituto Scienze dell’Uomo – Progetto Interazioni.
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Una partnership logistica è come un amore: da una forte spinta per fare cose nuove, porta a rivedere vecchie abitudini per costruirne di nuove. Porta anche a dimagrire, qualche volta. La storia della partnership tra Target Sinergie e Blubai, quest’ultima azienda di distribuzione di food & beverage di Cesenatico con oltre 4 mila clienti tra Emilia - Romagna e Marche, non è sfuggita agli assunti “amorosi”. In particolare alla parte che riguarda il dimagrimento. E sì, perché l’azienda in questione aveva, fino a pochi mesi fa, due magazzini, uno principale a Villalta di Cesenatico, l’altro, speculare ma più piccolo, a Fano, che serviva i clienti del litorale marchigiano. Magazzino che ora non è più tale. E questa la nuova storia che vi raccontiamo.
Il rapporto con Blubai nell’esternalizzare la gestione del magazzino è stato così proficuo che in azienda hanno deciso di affidare a Target Sinergie la revisione delle funzioni del deposito di Fano. Il quale era una sorta di “doppione” logistico - commerciale della sede principale. Il concetto intorno al quale far ruotare la trasformazione è stato relativamente semplice: l’evasione degli ordini con i nuovi sistemi di voice picking ha raggiunto un livello così soddisfacente che possiamo trasformare Fano in un transit point per gli ordini destinati a tutti i clienti marchigiani, da Gabicce ad Ancona.
Gli ordini vengono gestiti da Villalta. E per migliorare il rapporto con gli utenti, è stato modificato il cut off, introducendo degli orari dedicati ai clienti marchigiani. L’orario di apertura del magazzino di Villalta ha subito dei cambiamenti in estensione. In questo modo gli ordini vengono preparati e inviati al transit point con camion – navetta, dal quale poi ripartono verso i clienti finali con i furgoni attrezzati.
La capillarità del servizio resta immutata, mentre ci sono stati segnali interessanti di un’aumentata percezione del servizio da parte del cliente. Di sicuro si è ottimizzato il lavoro nella sede principale e snellito quello nella sede marchigiana. Per non parlare dei vantaggi in termini economici, logistici e, non meno importanti, ecologici. Il risparmio in termini di gestione è evidente: un solo magazzino dove vengono centralizzati gli arrivi, lo stoccaggio, il picking e, ovviamente, tutta la parte amministrativa che ne consegue.
carri_pionieri_nord_america_california_trail.png Notizie LogisticaL’attore cesenate Roberto Mercadini torna al teatro civile e affronta, in uno spettacolo inedito, uno dei temi più complessi della modernità: le migrazioni. Condurrà lo spettatore lungo il percorso, intimo e collettivo, di coloro che scappano da guerre, carestie e violenze e arrivano a incontrare la realtà italiana. “Odissee anonime” tratta di storie vere di due migranti i cui nomi non vengono rivelati: uno nato in Afghanistan, l’altro in Costa D’Avorio; dal loro paese alla destinazione di un primo viaggio, da lì ad un paese che si affaccia sul Mediterraneo, da lì all’Italia.
Dal viaggio per la salvezza si passerà a quello, non meno caotico, nella rete di accoglienza del nostro Paese: un sentiero spesso tortuoso in cui migranti (e autoctoni) si aspetterebbero di trovare risposte e organizzazione ma in cui, molto spesso, regnano burocrazia e caos, un mix che la vena ironica dell’autore romagnolo non mancherà di porre in evidenza.
Lo spettacolo, proposto nell’ambito del progetto di accoglienza Siproimi (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) dell’Unione di Comuni Valmarecchia, gestito dalle cooperative sociali Cento Fiori e Il Millepiedi, è stato ideato con il contributo di alcuni ragazzi accolti nel progetto Siproimi, verrà realizzato il 13 novembre 2019, presso il Teatro Pazzini di Verucchio, ore 21.00, ingresso libero (senza prenotazione).
Per informazioni: sprar1@cooperativailmillepiedi.org
L'articolo Odissee anonime: Roberto Mercadini il 13 novembre mette in scena il monologo sull’integrazione al teatro Pazzini di Verucchio proviene da Cento Fiori, Rimini.
Riviera Banca sostiene l’impegno della Cooperativa Sociale In Opera nell’inserimento di due persone svantaggiate. L’istituto bancario riminese ha finanziamento le azioni di accompagnamento e affiancamento che la cooperativa sociale ha messo in atto recentemente per due giovani soggetti in situazione di svantaggio, già in carico ai servizi pubblici, ma che sono impiegate con successo in attività lavorative.
La cooperativa sociale In Opera dal 1999 impiega personale svantaggiato in diverse tipologie di servizi, in ambito privato e pubblico. Tra queste attività troviamo la Logistica, i servizi di centralino e reception per istituzioni pubbliche o aziende private nonché la gestione delle relazioni con i clienti, le pulizie civili e industriali, la prenotazione di prestazioni sanitarie a sportello o telefoniche, le pratiche relative a contravvenzioni e tributi locali.
E proprio in uno di questi settori, a sostegno di due lavoratrici che RivieraBanca è intervenuta, finanziando la formazione rivolta a personale con compiti di coordinamento, affinando la capacità di interagire adeguatamente con persone in situazione di svantaggio. Il progetto educativo proposto da cooperativa In Opera nasce dalla constatazione che la risposta al singolo bisogno da solo non basta all’integrazione ed al recupero della persona: occorrono relazioni umane che introducano alla realtà nel suo significato più complesso.
Il primo passo del progetto finanziato da RivieraBanca è stato l’accompagnamento della persona dipendente verso la presa di coscienza di chi è e di cosa può e vorrebbe fare. La seconda componente della realtà è il lavoro e le sue “regole”, ovvero contratto, orari, abbigliamento previsto, comportamenti in caso di assenza, ferie, malattie, espletamento delle mansioni e dei compiti affidati, relazioni con i colleghi, i superiori o i subalterni. La terza componente del progetto è la relazione che si instaura con chi guida: i responsabili dei servizi dove le persone sono impiegate ed i referenti di In Opera, in modo integrato, svolgono una funzione di sostegno e tutoraggio educativo, che accompagna la persona nell’affrontare i problemi e le sfide. Si propone un rapporto di fiducia e stima reciproca, una relazione “certa”.
rivierabanca_finanzia_progetto_in_opera.jpg Notizie Facility Management Igiene e pulizie LogisticaRimini – Si è costituito anche a Rimini il comitato locale della campagna nazionale #IO ACCOLGO, l’appello che si prefigge l’abrogazione dei due decreti sicurezza e l’annullamento degli accordi con la Libia. Lanciata presentando l’appello al Governo il 24 settembre e a papa Francesco nella Giornata del migrante il 29 settembre, la campagna a Rimini comprende nel comitato promotore Arci, Ardea, Anolf, Anpi, Caritas, Cgil, Cooperativa Sociale Cento Fiori, Legambiente, Libera, Libertà e Giustizia, Papa Giovanni XXIII, Uil, Unione degli Studenti, Unione degli Universitari, Vite in Transito. Ma il comitato è aperto anche ai singoli individui del nostro territorio.
L’impegno delle associazioni e di chi aderirà è di riaprire il dibattito nella società per modificare il sentire comune e le norme che negli ultimi anni stanno producendo effetti devastanti, in termini di violazioni dei diritti umani e di esclusione sociale dei richiedenti asilo e titolari di protezione, ed in termini di solidarietà e considerazione del prossimo nella vita quotidiana.
Il comitato locale #IO ACCOLGO di Rimini invita tutte le associazioni ed i cittadini del nostro territorio ad aderire alla campagna e sottoscrivere l’appello, online sul sito http://ioaccolgo.it o fisicamente presso le sedi locali delle associazioni del comitato locale di Rimini.
La campagna è facilmente riconoscibile dal simbolo adottato, che da oggi trovate esposto in tutte le sedi delle associazioni locali: la coperta termica dorata, la stessa che viene data dai soccorritori ai richiedenti asilo al loro arrivo.
Nei giorni scorsi #IO ACCOLGO RIMINI ha invitato tutti i Comuni della nostra provincia ad aderire alla campagna, attraverso una lettera inviata ai Sindaci che chiede di sottoscrivere l’appello e di esporre la coperta termica.
L'articolo #IoAccolgo: Cento Fiori tra i fondatori del comitato di Rimini, insieme a organizzazioni no profit e sindacati, per abrogare i due decreti sicurezza e gli accordi con la Libia. proviene da Cento Fiori, Rimini.
La Regione Emilia Romagna al fianco delle PMI per favorire e aiutare la loro crescita dimensionale attraverso un bando di finanziamento a fondo perduto.
Con Delibera di Giunta regionale n. 1266 del 22 luglio 2019 sono state approvate, infatti, misure di sostegno rivolte alla piccole e medie imprese impegnate in percorsi di innovazione tecnologica e diversificazione dei propri prodotti e/o servizi, con l'obiettivo di accrescere la quota di mercato o di penetrare in nuovi mercati.La Regione Emilia Romagna sostiene progetti basati sull’acquisto dei seguenti servizi:La Regione Emilia Romagna al fianco delle PMI per favorire e aiutare la loro crescita dimensionale attraverso un bando di finanziamento a fondo perduto.
Con Delibera di Giunta regionale n. 1266 del 22 luglio 2019 sono state approvate, infatti, misure di sostegno rivolte alla piccole e medie imprese impegnate in percorsi di innovazione tecnologica e diversificazione dei propri prodotti e/o servizi, con l'obiettivo di accrescere la quota di mercato o di penetrare in nuovi mercati.La Regione Emilia Romagna sostiene progetti basati sull’acquisto dei seguenti servizi:Due giorni di bora, certo non inaspettati ma pur sempre impegnativi, hanno segnato l’ultima crociera terapeutica in barca a vela per i pazienti del Centro Osservazione e Diagnosi di Vallecchio, della Cooperativa Sociale Cento Fiori. Il maltempo lungo la costa croata ha raggiunto la barca del progetto Ulisse, timonata dall’educatore Andrea Ambrosani, vicino all’isola di Ist. Due giorni al riparo nel porto per i sette pazienti e l’equipaggio, per questo viaggio formato dall’educatore Eugenio Pari e dal fondatore del progetto Ulisse (e della cooperativa sociale), Werther Mussoni. Che con l’inseparabile fisarmonica e la sua proverbiale bonomia è riuscito a far risuonare le note di Bella ciao anche nei ristoranti della terra degli Ustascia.
«E’ stato un viaggio un poco più impegnativo del precedente qui in Croazia, con diversi imprevisti che per i ragazzi hanno però assunto il forte sapore dell’avventura – ha detto lo skipper Andrea Ambrosani al ritorno – Ci aspettavamo la bora e abbiamo affrontato i 20 e passa nodi di vento (circa 40 km all’ora) senza problemi riparando a Ist. Per i pazienti c’è stato il problema dell’acqua: a Ist scarseggiava e abbiamo dovuto fronteggiare il razionamento, una situazione inusuale per tutti, figuriamoci in spazi angusti come una barca. Ma i ragazzi l’hanno superata. Anche a Sman, altra isola visitata, non è stato facile rifornirsi di acqua, tutti problemi superati a Bozava».
Se il tempo a tratti non è stato clemente, l’Adriatico in compenso ha offerto degli spettacoli inusuali. L’incontro con i delfini o con una tartaruga ha animato il viaggio. Ma sopratutto un branco di tonni ha attirato l’attenzione dell’equipaggio del progetto Ulisse. Nella traversata di ritorno la barca è passata vicino a una grande rete da posta strappata via probabilmente dal maltempo che, aggrovigliata, in parte gialleggiava e in parte colava a picco per oltre una decina di metri verso il fondo. «Impossibile per noi da recuperare, vista l’estensione e il peso: le reti da posta hanno dei galleggianti nella parte superiore ma anche dei pesi nella parte inferiore e si estendono per decine di metri. Ebbene, questo groviglio di reti e pesci intrappolati è diventata un enorme “pastura”, cioè attirava i predatori che accorrevano a mangiare i pesci intrappolati. E tra questi predatori c’era un branco di tonni che schiumavano le acque, affannandosi a mangiare».
Foto di copertina gentilmente concessa da Giuseppe Marzi.
L'articolo La Bora, i delfini e i branchi di tonni: le piccole avventure in Adriatico per i pazienti del progetto Ulisse della Cooperativa Sociale Cento Fiori proviene da Cento Fiori, Rimini.
Un fine settimana al largo del Conero per sette utenti del Centro Diurno della Cooperativa Sociale Cento Fiori: è stata la seconda crociera terapeutica del 2019 quella partita giovedì da Rimini, con a bordo della barca a vela Fiona l’educatrice Fabiola Gomez. La barca ospitante è stata messa a disposizione dell’associazione Marinando, la onlus che si occupa di «programmi di recupero rivolti a categorie sociali disagiate o a rischio di devianze e di progetti didattici per le scuole attraverso la vita in mare e la pratica della navigazione a vela», come scrive l’associazione sul suo sito.
Quattro giorni in mare diventati si un periodo di vacanza, ma anche una sfida per gli utenti del Centro Diurno, diversi dei quali non avevano mai fatto una esperienza in barca. Non una semplice passeggiata, quindi. Infatti, è vero che vivono già un’esperienza di tipo comunitario – nel Centro c’è chi cucina, chi provvede a pulire gli ambienti comuni, si mangia insieme – ed insieme fruiscono dei servizi di tipo socio-sanitario, in una struttura semiresidenziale, destinati ad utenti con situazioni di dipendenza patologica che necessitano di intervento psicoterapico o a un’utenza che proviene da altri programmi terapeutici e che necessitano di una fase di accompagnamento, prima del reinserimento.
E’ anche vero però che i sette si sono confrontati con gli spazi decisamente angusti di una barca, che rendono l’escursione una esperienza decisamente più impegnativa. Impegno che diventa però percorso educativo. Spiega infatti Laura Grossi, responsabile del Centro Diurno: «La differenza tra attività ludica e l’attività educativa, è nell’elaborazione dell’esperienza. Tutti gli utenti sono chiamati a scrivere il proprio Diario di bordo, dove annotano ciò che accade, le loro sensazioni e come vivono l’esperienza. Tutto materiale che viene poi discusso in un gruppo terapeutico, nel qual esi ragiona insieme sulle cose emerse».
«Il capitano Gianfranco Rossi è stato un elemento importante per la riuscita di questa esperienza. – dice Fabiola Gomez – I ragazzi del Centro Diurno si sono confrontati con una figura esterna stabilendo un’ottima relazione. Tutti ci siamo divertiti e ci siamo conosciuti meglio in questi quattro giorni di convivenza così ristretta. Abbiamo anche imparato tanto della vita in mare grazie al nostro capitano».
L'articolo Insieme a Marinando è partita la seconda crociera terapeutica Cento Fiori, con gli utenti del Centro Diurno proviene da Cento Fiori, Rimini.
Rimini – Cento Fiori sostiene Humus_Altro Festival, il contributo che i giovani dell’associazione Pacha Mama offrono alla scena culturale della nostra città. Il festival è intimamente legato al luogo in cui si svolge il giardino della Casa dell’Editore un accogliente “Book and Breakfast” sul bellissimo colle di Covignano, a 10 minuti dal centro di Rimini.
Venerdì 13 e sabato 14 settembre concerti, tavoli di approfondimento, presentazioni di libri e monologhi teatrali animeranno la campagna riminese creando una meravigliosa cornice a ciò che sarà al centro della manifestazione: un percorso fotografico ed esperienziale su quattro importanti temi ” abitare se stessi“, “abitare la propria casa “, “abitare il proprio Stato “, “abitare il mondo “, 4 temi attuali inquadrati da un punto di vista alternativo, trasgressivo e disobbediente.
Chi c’è dietro questo progetto? Pacha Mama è un’associazione di volontariato che opera dal 1992 nella provincia di Rimini per promuovere, insieme all’omonima cooperativa il commercio equo e solidale e i valori di trasparenza, dialogo e rispetto. “Pacha Mama“ significa “madre terra” in lingua quechua e da solo riesce a veicolare due importanti valori che ci hanno ispirato: il forte legame con il terreno e il rispetto per il mondo in cui viviamo, mentre la lingua sudamericana esprime una forte propensione all’internazionalità e una spiccata curiosità per il diverso.
Molti degli attuali attivisti dell’associazione non erano nemmeno nati quando questa cominciava a diventare parte integrante del tessuto sociale di Rimini, eppure la domanda che muove l’azione collettiva degli associati è sempre la stessa: “come costruire un mondo equo sostenibile dove le culture popolari, le conoscenze, le competenze, i progetti e le ambizioni possono essere condivise dentro un’unica cultura del rispetto reciproco?”. Questa è, decisamente, una domanda troppo grande per una piccola associazione. Ma non è una domanda impossibile!
Pacha Mama ha pensato a “Humus” come ad una etichetta, e le sue iniziative sono la risposta del sincero impegno dei suoi volontari. Sono l’occasione che l’associazione offre per incontrarsi e lavorare insieme sul proprio senso di appartenenza alla dimensione pubblica cittadina.
ProgrammaIl festival è nato e si è sviluppato grazie alle forze dei circa 40 volontari che sono stati coinvolti nell’organizzazione, nella progettazione e nella comunicazione delle attività del festival. Humus si sviluppa su due giornate e ci sarà la possibilità di dissetarsi e mangiare.
Venerdì 13 settembre: 16.00 apertura festival
18.00 spettacolo teatrale di Margherita e Damiano Tercon
20.00 concerti: the Urgonauts, Camillas, Espana Circo Este
23.30 dj set di H.1
11.00 apertura festival e giardino, possibilità di ristorazione.
15.30 inizio attività divulgative con quattro tavoli di approfondimento: Abitare se stessi – Margherita e Damiano Tercon; Abitare la propria casa – Dijana Pavlovic, Giorgio Beretta, Casa Madiba Network; Abitare il proprio stato – Libera Rimini, Mario Galasso, Corridoi Umanitari Papa Giovanni XXIII; Abitare il mondo – Fridays for future Rimini, Extintion Rebellion Bologna, Banca Etica, Pacha Mama.
19.00
concerto acustico: Nel
Caso
20.00
presentazione del libro degli Zen
Circus (con gli Zen Circus!!)
21.30
concerti: band del Circo
Paniko, Falafel Fazz Familia
23.30
dj set di Savignao-oh
PROGRAMMA IN EVOLUZIONE RESTA AGGIORNATO>>: https://www.facebook.com/events/523331768503815/
SOSTIENI HUMUS DAL BASSO CON UNA DONAZIONE>> (o anticipa la tua quota di iscrizione min di 5 euro) https://www.produzionidalbasso.com/project/humus-altro-festival
L'articolo Cento Fiori sostiene Humus_Altro Festival, il 13 e 14 settembre a Rimini proviene da Cento Fiori, Rimini.
di Marco Caligari
“Stavo stretto stretto, e allora gli ho chiesto se potessi cambiare posto. Mi ha mandato dietro negli ultimi posti. Mi sono messo le cuffie nelle orecchie e mi sono addormentato ascoltando musica. Ho aperto gli occhi e ho sentito che stavano contando i morti ed ho capito che erano morte sei persone”. L’ascolto di questa testimonianza di Alagie Saho ha rappresentato il momento più emozionante della marcia contro lo sfruttamento svolta il 06 Agosto 2019 a Rimini. Sono le parole pronunciate dall’unico superstite all’incidente avvenuto un anno prima durante il trasporto dei braccianti nelle campagne di Foggia, dove hanno incontrato la morte i lavoratori. Tre di loro, Bafodè, Ebere e Romanus, erano persone che vivevano nella città di Rimini e sono andati a lavorare come braccianti nella provincia di Foggia. Un territorio caratterizzato dai ghetti per i lavoratori migranti e da decine di morti violente, dove il contesto culturale rende complessa la costruzione di
percorsi di solidarietà, come racconta Alessandro Dal Grande: “Anche quando parlano la stessa lingua, costretti come sono da un lavoro estenuante, i lavoratori sono incapaci di stringere legami e di aprirsi a una minima forma di relazione umana. La difficoltà nel ricostruire le storie di vita dei lavoratori stagionali nasce anche da quest’assenza di legami”.
La marcia era chiamata a ricordare la morte di esseri umani, che per la loro condizione di migranti africani o di persone povere non trovano la dimensione di rispetto sia in vita sia dopo la morte. In ospedale dopo l’incidente, Saho fu ascoltato da diverse operatrici sociali, tra cui Nicoletta Russo. “Come operatrice dell’accoglienza mi sono chiesta tante volte quale potesse essere la nostra di resistenza, in un sistema che ci vorrebbe vedere gestire numeri e non persone; che ci vorrebbe carrarmati, in grado di passare sui corpi umani che incontriamo con indifferenza” con queste parole Russo esprime chiaramente la difficoltà umana e professionale di essere quotidianamente mossa da due principi contrastanti. Da un lato, la propria umanità e professionalità, attraverso cui costruisce una relazione con i richiedenti asilo politico e favorisce un processo di soggettivazione degli sfruttati. Dall’altro, le indicazioni delle leggi in materia di migrazioni, che producono meccanismi di colpevolizzazione degli stranieri e delle ONG. Ad ascoltare le parole di Russo, tornano alla mente le teorie di Achille Mbembe, che analizza come la proiezione della razza sulla
società separi l’umanità nella società, oltre che produrre semplicemente segmentazione. Lo studioso camerunense sviluppò le proprie teorie all’interno di contesti coloniali dell’Africa. Non è legittimo pensare che tali processi di “disumanizzazione” si stiano sviluppando oggi giorno in alcune zone dell’Europa, ad esempio nel Mar Mediterraneo o nei ghetti dei braccianti in Puglia? Il medesimo appello di lancio della Marcia contro lo Sfruttamento evoca tale connessione, quando afferma che “da Salvini a Bolsonaro passando per Trump, è in atto una sempre più forte legittimazione della morte di chi è considerato altro, estraneo, straniero, nemico”.
Certamente comparare i campi dei braccianti agricoli in Puglia con il lavoro negli alberghi sarebbe un’operazione molto discutibile. Al medesimo tempo, è legittimo ricordare come la morte violenta di una donna rumena trovata nell’estate 2009. Si chiamava Eva Ana Bocean ed “il 19 agosto fu trovata agonizzante, da un passante, distesa a terra e morì poco dopo all’ospedale. Le furono trovate diverse emorragie e ferite ai polsi e alle caviglie. L’albergatore, le sue colleghe, e Riccardo Muzzioli, titolare dell’agenzia rumena rilasciarono le loro testimonianze agli investigatori. Il datore di lavoro e le colleghe riportarono la medesima versione, ovvero che la lavoratrice vedeva i fantasmi e parlava del diavolo, conseguentemente fu descritta come una persona psichicamente disturbata. Una donna morta in dinamiche misteriose, reclutata attraverso un’agenzia internazionale
e presente presso tale albergo senza regolare contratto fu considerata come persone pericolosa e non destò nell’opinione pubblica e nelle istituzioni un momento di riflessione e di lutto.
Prospettiva femminista e il lavoro delle donne
In merito alla condizione di colpevolizzazione della vittima di incidente o di violenza eterodiretta riflette la comunicazione dell’attivista di Non Una di Meno, attraverso le seguenti parole “viviamo in un’epoca in cui la vittima, sia essa un lavoratore pesantemente sfruttato, una donna stuprata viene sistematicamente criminalizzata e colpevolizzata” solitamente ci si chiede “Se si fosse comportata in una maniera corretta, se avesse studiato per avere un lavoro migliore, se non avesse provocato con abiti succinti e atteggiamenti ammiccanti”.
La dimensione di genere riveste una notevole importanza, visto che le lavoratrici che nel 2014 contano per il 59,4% degli avviamenti al lavoro sono prevalentemente assunte per mansioni di media o bassa qualifica quali cameriere, segretarie e addette al ricevimento; laddove gli uomini sono un’ampia maggioranza tra i portieri di notte, i cuochi e i maître d’hotel (Cpi Rimini, 2015, 35-36). All’interno della forza lavoro migrante, le donne sono il 77% degli assunti romeni, il 71,8% dei moldavi, l’80% dei polacchi mentre rappresentano una minoranza tra i senegalesi (11,9%) e tra i marocchini (36,1%) (Cpi Rimini, 2015, 53).
In tale contesto, si inserisce l’ultimo caso di donna migrante che ha subito violenza da parte del titolare dell’azienda dove era impiegata. La lavoratrice racconta al segretario della CGIL “mi ha colpito sulla testa con una zuppiera di plastica mezza piena di besciamella. Poi mi ha strattonato tenendomi per il collo. È la storia di Boguslawa, percossa dal padrone dell’albergo perché riteneva il suo lavoro imperfetto”. In questo caso, la violenza di genere è evidente e la donna espone chiaramente i postumi, diversi giorni dopo aver subito l’attacco dell’uomo.
La marcia contro lo sfruttamento del 6 agosto 2019 ha rappresentato a livello qualitativo e
quantitativo una novità all’interno del contesto del distretto del turismo, visto che oltre 500 persone sono scese in strada, con il coinvolgimento di cittadini di tutte le età e con una forte componente di migranti in testa al corteo. Si possono segnalare alcuni limiti, tra cui sicuramente la mancanza delle lavoratrici giunte a Rimini dalle nazioni dell’Est Europa. Un dato fattuale, a cui è difficile ora fornire interpretazioni. Una donna rumena, in particolare da Cruj, mi ha narrato le sue condizioni di lavoro con le seguenti parole “Io lavoro dalle 7 e mezzo del mattino fino alle 10 di sera e faccio 2 ore di pausa nel pomeriggio, poi dipende sempre da come siamo messi. Ho diciotto camere da fare
dalle 8.30 alle 13.30 e non riesco a fumare nemmeno una sigaretta… dopo scendo giù in cucina e do una mano alla cuoca e lavo i tegami mentre l’altra lava i piatti, fino alle 3 – 3 e mezza; vado via e poi torno alle 6 e lavoro in cucina, aiuto cuoco o lavapiatti, fino alle 10 o 10 e mezza”. Altri incontro dopo l’intervista mi ha dato l’occasione di apprendere che all’Ispettore del Lavoro aveva raccontato condizioni di lavoro legali e rispettose del Contratto di Lavoro del Turismo.
Le vertenze
Un secondo dato da raccogliere è relativo al fatto che i diversi interventi all’interno della marcia
contro lo sfruttamento sono stati in prevalenza da attivisti di decine di associazioni, singoli
antirazzisti e sindacati. Oltre alla testimonianza del bracciante agricolo Saho, si segnala la
mancanza della presa di parola di lavoratori per narrare la propria condizione di lavoro o vertenza lavorativa. In questa dimensione del corteo, rappresenta un’anomalia la comunicazione di un educatore sociale. Il lavoratore ha raccontato la mobilitazione dei propri colleghi contro il contratto di lavoro recentemente firmato dai sindacati confederali, ma aspramente criticato dai medesimi educatori sociali per diversi aspetti, tra cui il basso salario, che non li mette in condizioni di vivere una vita dignitosa e potersi percepire come soggetti qualificati e valorizzati dalle istituzioni locali.
Al medesimo tempo, durante il corteo Stella Mecozzi (Mani Tese) ha comunicato come “non sia sufficiente una manifestazione”, ma “è necessario un intervento culturale quotidiano per far rispettare i diritti umani”. Tale considerazione di realismo, alla fine della manifestazione si è intrecciata alla consapevolezza che le strade principali del distretto del turismo riminese, tra “ le bandiere ed i gelati” non erano attraversate da un corteo contro lo sfruttamento con tale partecipazione da diversi decenni, raccogliendo la curiosità di alcune lavoratrici e tantissimi turisti. Nella parte conclusiva del suo intervento, il signor Saho ci conduce alla volontà di costruire la memoria collettiva “erano miei fratelli. Mangiavamo insieme e dormivamo insieme. Non posso dimenticare. Non voglio”.
Marco Caligari, Genova, 09 Agosto 2019.
Il mondo riminese della lotta alle dipendenze, e con esso la Cooperativa Sociale Cento Fiori, è in lutto: è spirato questa mattina Sergio Semprini Cesari, uno dei perni intorno ai quali si sono create tutte le politiche di prevenzione e di lotta alla droga dalla fine degli anni ‘70 ad oggi. Sociologo, dirigente del Cmas, prima denominazione del Servizio Tossicodipendenza dell’allora Azienda Usl Rimini Nord, ha portato il suo attivismo fuori dall’ambito sanitario per farlo approdare nella cosiddetta società civile. Gettando le basi per la nascita della Cooperativa Sociale Cento Fiori prima e della Comunità terapeutica di Vallecchio poi. Una storia lunga circa quarant’anni di impegno sanitario, politico, sociale che ha permeato profondamente la storia di Rimini, per lasciarla ora sgomenta nel dolore. «Cara Caterina – hanno scritto gli operatori della Cooperativa Sociale Cento Fiori alla moglie – in questo triste momento siamo vicini a te e famiglia nel dolore per la scomparsa del caro Sergio». Mentre la famiglia invita «chi volesse passare a fare un saluto, le esequie ci saranno venerdì dalle 16 alle 17 alla camera ardente del Cimitero di Rimini. Buona vita a tutti».
Il suo impegno sociale viene dal 1968. Leonardo Montecchi, psichiatra del Sert e collega da decenni, lo ricorda come «una persona molto attiva e passionale, appassionato di musica, di tendenze giovanili, appassionato al lavoro che faceva: ci credeva pienamente. E nel Movimento si era ritagliato un suo ruolo. Dopo la riforma sanitaria si è occupato sia del Consultorio sia del servizio dipendenze, che si chiamava Cmas. Con la sua spinta è riuscito a creare un clima di interesse, per cui le persone venivano, sentivano che c’era questa volontà di cambiamento e di fare, percepivano un agire completamente antiburocratico».
Montecchi ricorda che Semprini Cesari «era un esponente importante del Pci della sezione Nicolò – Tre Martiri. Organizzò un Festival dell’Unità a Marina centro con un concerto memorabile del jazzista di fama mondiale Don Cherry. Riusciva a cogliere aspetti culturali e politici e faceva le sue battaglie, per avere un partito più vicino ai movimenti, a quel tempo. Non era certamente un burocrate, come struttura intellettuale: era un uomo d’azione ma anche di pensiero. Ricordo i libri che abbiamo fatto insieme, il primo è Rimini una città contro la droga, e poi Cambiare. Il modello operativo del Sert di Rimini, con Massimo Ferrari».
Nel 1980 non si parlava ancora di Sussidiarietà. Il tema della droga si giocava su due ambiti separati. Da una parte i servizi pubblici, dall’altra le comunità terapeutiche. Questo modello però viene messo in discussione proprio a Rimini, con il Cmas di Sergio Semprini Cesari in prima fila. Ricorda Werther Mussoni, fondatore della Cooperativa Sociale Cento Fiori e della Comunità Terapeutica di Vallecchio: «la collaborazione tra pubblico e privato è stata la prima in Italia, tant’è che è diventata un modello. Prima fra tutte per la Regione Emilia Romagna, che l’ha preso come modo di gestire le comunità terapeutiche, definendole come “enti ausiliari”. Quindi un ruolo attivo».
Ma quale era la situazione riminese nell’ambito delle dipendenze? Un quadro viene da un volantino firmato dagli operatori del Cmas, da giovani e dalle famiglie di tossicodipendenti di Rimini, chiamando a raccolta per una manifestazione cittadina contro la droga: «“Esistono due tipi di assuefazione all’eroina: l’assuefazione del tossicomane e l’assuefazione dell’opinione pubblica. Un’efficace attività preventiva deve combattere questo secondo tipo di abitudine. L’eroina a Rimini nel giro di tre anni ha assunto dimensioni preoccupanti. I tossicomani che si sono rivolti al C.M.A.S (Centro Medico di Assistenza Sociale) per disintossicarsi sono in continuo aumento. L’incremento nel periodo 30/9/1979-30/4/1980 è stato del 187% di eroinomani al di sotto dei 20 anni, del 9.5% tra i 20 e i 24 anni e del 51% al di sopra dei 25 anni. Da questi dati si può notare che il mercato punti decisamente sugli adolescenti e di come questi caschino nella rete. […] A Rimini e circondario esistono circa 600 tossicomani, comperano in media 50mila lire di eroina al giorno. Con una semplice operazione scopriamo che il mercato è di 30 milioni al giorno, 900 milioni al mese, circa 12 miliardi all’anno”.
«Avevamo capito che Rimini non si rendeva conto di cosa stava succedendo – ricorda Leonardo Montecchi, psichiatra all’epoca in forza al Cmas insieme a Sergio Semprini Cesari e Massimo Ferrari, ora al Sert – alla fine degli anni ’70 arrivava al Centro per curarsi un sacco di gente, eravamo pochi e con pochi mezzi». «C’era un movimento di massa che spingeva per trovare soluzioni al problema droga diverse da quelle esistenti – dice Werther Mussoni – per i non credenti la comunità della Papa Giovanni XXIII poteva non essere adatta. Così come non lo era una comunità come San Patrignano dove una figura carismatica sostituiva il Cristo, ovvero il Santone, convinti come eravamo che per aggredire il problema della droga ognuno doveva trovare le risposte dentro di sé».
Il Cmas, con Sergio Semprini Cesari e il gruppo di lavoro che si era formato intorno a lui, per tenere sotto controllo il fenomeno e per arginare l’eroina accentra su di sé la distribuzione del metadone, distribuendolo come terapia. Nel centro di via Bonsi non si distribuisce solo metadone. Si fa attività di Centro Diurno con i pazienti, le loro famiglie. Il comitato genitori, l’assemblea degli utenti e gli operatori stampano volantini, pubblicano la rivista «Giù la maschera» e il giornale «Centolire».Per completare questo modello riminese, all’ambulatorio e al centro diurno manca la terza struttura, la comunità. È attraverso quella che si può completare il lavoro sui pazienti, distogliendoli dal richiamo della «piazza». Dentro al Cmas nasce la cooperativa Sociale Cento Fiori, primo presidente il dottor William Raffaeli, pochi mesi dopo prende il suo posto Werther Mussoni. Ma «una cooperativa non poteva essere una risposta – dice Mussoni – sì, c’era qualche attività artigianale, ma avevamo bisogno di una struttura che “troncasse” con la piazza».
Sergio Semprini Cesari cercò tra i terreni pubblici e trovò il podere Fonte a Vallecchio, che era dell’ospedale Fantini di Montescudo. Cominciammo un’operazione per mettere d’accordo tutti, Circondario (l’equivalente istituzionale della Provincia di oggi) e Comuni volevano una comunità di tipo pubblico, gestita da un privato cooperativo. Occorreva convincere Montescudo a «mollare» e lo fece in cambio di un servizio di trasporto scolastico e una nuova destinazione per l’ospedale. «E mentre la trattativa tra le istituzioni procedeva – ricorda Mussoni – per stimolare enti locali e burocrazia occupammo il podere e iniziammo i lavori». Il 23 maggio del 1984 firmarono la convenzione i Comuni di Montescudo, Rimini e la cooperativa. «Tutta questa voglia di fare ha realizzato qualcosa perché le Amministrazioni locali non ne volevano sapere di una nuova comunità organizzata come un Principato, con proprie frontiere e regole. Pubblico e privato volevano qualcosa di trasparente, con metodi conosciuti, condivisi, democratici, dove chiunque poteva entrare e vedere cosa stesse accadendo dentro. Creammo per la prima volta ciò che oggi chiamano «sussidiarietà». Ciascuno dava il meglio di quello che aveva: l’Ausl il Cmas, la cooperativa spirito di avventura, voglia di fare e le capacità imprenditoriale e di adeguarsi».
«Era un grande appassionato di mare – ricorda Montecchi – si è battuto per la nascita del progetto Ulisse, per restaurare la goletta Catholica e per farne un progetto che potesse coinvolgere le persone che stavano in comunità, evidenziando come un gruppo nella barca potesse essere uno strumento terapeutico». Un progetto che continua tutt’ora con le crociere terapeutiche – catalogate in ambito universitario come esperienze di “outdoor education” – anche se con altre tipologie di barche. Ma andava anche oltre il progetto Ulisse: «aveva creato un equipaggio con i ragazzi della comunità terapeutica di Vallecchio – ricorda Mussoni – e con loro sul Chicaboba II aveva fatto la regata Rimini Corfù Rimini, organizzata dal Circolo Velico Riminese». «Lui era così – dice Montecchi – questo spirito di libertà che trasferiva alla persone. Penso che c’era una identificazione nel nome che aveva dato al progetto, Ulisse, con il suo personaggio».
L'articolo Scomparso Sergio Semprini Cesari, pioniere della lotta alla droga riminese e della sussidiarietà, fu tra i fondatori del modello Comunità Terapeutica di Vallecchio. proviene da Cento Fiori, Rimini.
«A pochi passi dalla splendida cittadina romagnola di Riccione c’è una piccola oasi luogo ideale per trascorrere qualche ora di pesca e relax insieme a tutta la famiglia, è il “Lago Arcobaleno” un impianto di pesca sportiva immerso nel verde dotato di ogni comfort, all’interno della struttura troverete un parco giochi per i più piccoli, un bar dove è possibile degustare le tante specialità della cucina romagnola, e soprattutto un angolo fornitissimo di attrezzature da pesca». E’ il lusinghiero “attacco” dell’articolo che la rivista Match Fishing Italia, una delle più seguite riviste on line di settore, dedica al lago Arcobaleno, la struttura di pesca sportiva che la cooperativa sociale Cento Fiori gestisce con l’omonima ASD.
Nei giorni scorsi l’articolista Giuseppe Trani, insieme a «Damiano Bottegoni alfiere del GPS Mondolfo nonché Rappresentante di zona della Tubertini e il presidentissimo del Team Romagna Cesare Genchini» sono scesi al lago Arcobaleno. Scrive Trani: «occasione ghiottissima per carpire qualche segreto della pesca alla Carpa in laghetto, che sarà oggetto di un video tutorial che pubblicheremo a breve sui nostri canali social, e dal quale abbiamo estrapolato qualche fermo immagine». Fermi immagine che potete guardare nell’articolo pubblicato dalla popolare rivista on line.
«Damiano e Cesare hanno affrontato questo specchio d’acqua, popolato di carpe e amur veramente cattive e combattive, con due approcci differenti, Damiano ha optato per la pesca sottosponda sul fondo, innescando i pellet forniti dai gestori del lago». Alla fine della sessione di pesca e della documentazione, foto di gruppo con i due pescatori e i nostri Ilaria Bartolini e Marco Samuelli.
L'articolo Match Fishing Italia sceglie il lago Arcobaleno Riccione per ambientare un videotutorial su diverse tecniche di carpfishing proviene da Cento Fiori, Rimini.
Rimini (comunicato stampa) – Dalla chiusura dei porti alla criminalizzazione delle Ong, dal disprezzo dei poveri all’attacco frontale al mondo del no profit e del volontariato accusato di buonismo, se non di aperta inutilità.
Non c’era bisogno dell’ultimo decreto “Sicurezza bis,” che introduce nel nostro ordinamento il nuovo reato di umanità (salvare vite umane è diventato un crimine), per comprendere la deriva autoritaria su cui si sta avviando il nostro paese. Nell’indifferenza, o peggio con il favore di larghe fette di popolazione, anche dentro i confini della Chiesa, affascinati dal leader forte a contatto diretto col popolo…
A parlare di questa specie di mutazione antropologica oggi in atto in Italia sarà il prof. Stefano Zamagni, economista riminese conosciutissimo per i suoi studi in materia di economia sociale e, dal marzo scorso, presidente della Pontificia accademia delle Scienze sociali.
Invitato a Viserba dalla parrocchia di Santa Maria al Mare nell’ambito del ciclo di incontri estivi del lunedì sera, Zamagni spiegherà il disegno che sempre più chiaramente sta prendendo forma nel nostro paese: “Quello di una società civile che si vuole sempre più schiacciata tra le forze dello Stato e del mercato, con l’obiettivo non dichiarato di mettere sotto tutela gli enti del terzo settore, in termini sia di fondi da utilizzare (sempre di meno) che di progetti da realizzare”. Per questo, come ha spiegato in una recente intervista, “è necessario che i cattolici, a cui è legato in termini ideali il 70% delle organizzazioni attualmente presenti nella società civile e nel volontariato, non si tirino più indietro, si assumano le loro responsabilità e comincino a fare massa critica per poter incidere sulle scelte che davvero contano. Non farlo sarebbe peccato di omissione”.
L’appuntamento con il prof. Stefano Zamagni è in programma Lunedì 12 agosto alle ore 21 in Piazza Pascoli a Viserba (ingresso gratuito). Al termine, il relatore sarà disponibile per le domande del pubblico.
Per info: Don Aldo Fonti, Parroco di Santa Maria a mare, Viserba (RN)
L'articolo «Il mondo della solidarietà sotto attacco. Contro la deriva autoritaria in atto in Italia», incontro con il prof. Stefano Zamagni proviene da Cento Fiori, Rimini.
C’è un antropologa che a Palermo da anni si occupa di cercare di dare un nome a tutte le vittime del mediterraneo. E’ un lavoro difficile e meticoloso. Si chiama Giorgia Mirto ed è questa la sua resistenza: rendere umano ciò che si vorrebbe disumanizzare, anche nella morte.
Come operatrice dell’accoglienza mi sono chiesta tante volte quale potesse essere la nostra di resistenza, in un sistema che ci vorrebbe vedere gestire numeri e non persone; che ci vorrebbe carrarmati, in grado di passare sui corpi umani che incontriamo con indifferenza; un sistema dove le lacrime sono considerate deboli e poco professionali; dove ogni atto violento e razzista subito è etichettato come bravata o fatto di poco conto.
Come rendere umano tutto questo disumano?
Una risposta l’ho trovata negli occhi di Alagie un anno fa, il giorno in cui siamo arrivate [l’autrice e due colleghe della cooperativa, Federica Soglia e Camilla Pacassoni ndr] a trovarlo a Foggia dopo l’incidente.
Quando siamo entrate nella sua stanza, si è tolto la maschera dell’ossigeno che lo aiutava a respirare e ci ha detto: «Ebere, Bafode e Romanus, sono morti».
Alagie ha scandito quei nomi con tanta fatica e con altrettanta solennità. Pronunciare quei nomi è stato ed è per lui un obbligo, un dovere. L’impegno a non dimenticare quegli uomini.
Credo che non dimenticare significhi allora avere quello stesso coraggio che ha avuto Alagie nel dire che quegli uomini avevano un nome e di pronunciare quei nomi ogni giorno.
Credo che significhi, in un sistema che tenta di annientare l’altro nella sua dimensione di essere umano, impegnarci a riconoscere ogni uomo e donna come tale perché nel nostro riconoscimento possa sentirsi a sua volta uomo o donna con dignità e diritti, indipendentemente da provenienza o colore della pelle.
Credo che significhi tornare a chiederci
se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no
Per noi oggi questa marcia e lo spazio comune con cui continueremo da domani rappresenta questo: partire dal lavoro per ridare un nome e con esso dignità e umanità a chi di lavoro è morto e a chi, di lavoro e di confini, continua a morire ogni giorno.
Tratto dalla pagina facebook della manifestazione Dalle radici alle stelle. Marcia per i diritti contro lo sfruttamento
L'articolo Quale può essere la nostra di resistenza? proviene da Cento Fiori, Rimini.
di Massimo De Berardinis
“Nella vita psichica individuale l’altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come amico o avversario e in questo modo la psicologia individuale è allo stesso tempo e fin dall’inizio, psicologia sociale, in senso lato, ma pienamente giustificato”
Quando iniziai il mio percorso di formazione specialistica alla Clinica Psichiatrica dell’Università di Modena … correva l’anno… 1977.
Il Reparto femminile, cui ero stato assegnato, contava su una dotazione ufficiale di 19 posti letto che, di fatto, a causa delle numerosissime richieste di ricovero, non scendeva mai al di sotto dei 25 letti, con momenti di sovraffollamento in cui si superavano anche i 30 posti letto.
Le degenti, tutte rigidamente in vestaglia, trascorrevano la maggior parte del tempo nelle loro stanze, a letto; l’alternativa allo stare in camera era rappresentata dal camminare avanti e indietro per il lungo corridoio.
Le infermiere se ne stavano in guardiola a fare le loro cose, come dicevano le ricoverate, oppure agivano una stereotipata ritualità di atti quotidiani (sveglia, distribuzione delle terapie, carrello della colazione, ecc., ecc.) che si ripetevano sempre uguali; quando entravano in contatto con le pazienti lo facevano attraverso l’assunzione di un petulante “ruolo genitoriale, inappropriatamente “infantilizzante”.
“… vieni qui da me Paolina, vieni …”, “…mangia Paolina … mangia … lo sai che ti fa bene …”; era la loro maniera di “accudire” le ricoverate; non conoscevano altri modi ma erano in buona fede e le pazienti sembravano capirlo.
I medici, dal canto loro, erano sempre “di corsa”; attraversavano veloci il corridoio tagliando con sapiente perizia la folla delle “questuanti”: “… dottore… dottore… mi ascolti dottore …”, sino a raggiungere gli ambulatori cui le pazienti potevano accedere solo su chiamata ed accompagnate dalle infermiere.
Le stesse infermiere venivano chiamate con un campanello che trillava direttamente nella “guardiola”.
Dopo tempi imprevedibili il campanello cessava di suonare ed i medici “riemergevano” dagli ambulatori per sparire definitivamente, in fondo al corridoio, al di là della porta che separava il Reparto dal “mondo di fuori”.
In quest’atmosfera spersonalizzata e regressiva, il tempo scorreva con una tranquillità innaturale, interrotta, ogni tanto, solo da urla improvvise, sbattimenti di porte e veloci tramestii di passi; poi… tutto tornava come prima, come se nulla fosse accaduto.
Le pazienti, che vivevano in questo stato di “sospensione”, sembravano aver trovato “nell’aspettare” il senso del loro stare in Reparto: aspettavano che arrivasse il carrello dei pasti; aspettavano di fumare le sigarette che le infermiere concedevano loro… una alla volta; aspettavano la visita dei famigliari; aspettavano in fila per andare in bagno; aspettavano la somministrazione delle terapie… ma soprattutto… aspettavano di essere chiamate dal medico per “il colloquio”… il mitico colloquio!
In Clinica, infatti, i medici, non senza una punta di orgoglio, avevano da tempo abbandonato il classico “giro” al letto delle malate per sostituirlo con momenti di colloquio.
Al tempo i colloqui erano fondamentalmente di due tipi: uno era il colloquio con i famigliari, al quale le ricoverate erano ammesse solo alla fine per essere informate, “in modo semplice”, delle decisioni che erano state prese sul loro conto; l’altro era quello con le pazienti ed era soprattutto orientato ad una valutazione medico comportamentale: dorme, non dorme, mangia, va di corpo, delira, è allucinata, è aggressiva, rifiuta le terapie, ecc., ecc.
Ora qui sarebbe lungo addentrarsi nel dettaglio delle vicende che, a partire da questa realtà, consentirono la progressiva trasformazione del Reparto, per cui citerò solo alcuni dei passaggi, per me più significativi, di quel percorso.
Il primo elemento di cambiamento, preliminare a tutto il seguito, consistette nell’adibire una grande stanza ad otto letti a sala da pranzo e di intrattenimento; questo cambiamento, apparentemente banale, fu quello che permise i miei primi avvicinamenti alla vita delle ricoverate.
Era solitamente di pomeriggio, sotto lo sguardo un po’ contrariato (perché “turbava” la routine del Reparto) ma insieme anche curioso delle infermiere, che cominciai a prendere l’abitudine di mettermi a sedere ad un tavolo della nuova sala; me ne stavo lì, guardandomi intorno, finchè qualche paziente, con fare un po’ incerto, si avvicinava, si sedeva e cominciava a parlarmi; poi se ne avvicinava un’altra e un’altra ancora, così, piano piano, si formava un gruppetto “di chiacchiera”. Il giorno successivo la scena si ripeteva ed il gruppo si ricomponeva… gli argomenti erano quelli della quotidianità, i figli, i problemi di lavoro… i soldi… ecc., ed io… “nuovo del mestiere”… restavo colpito da questi momenti in cui le pazienti “quasi non sembravano pazienti”, come invece avveniva negli altri momenti di incontro “ufficiale” con il medico.
Il secondo elemento di cambiamento riguardò la trasformazione dello spazio mattutino delle cosiddette “consegne”; uno spazio che noi specializzandi avevamo ribattezzato dispregiativamente “riunione cacca e piscio” perché essenzialmente deputato ad acquisire informazioni, tramite le infermiere, sull’andamento di queste funzioni corporali e sugli aspetti più grossolanamente comportamentali delle ricoverate: ha dormito, non ha dormito, è andata di corpo, non è andata di corpo, ha preso le medicine, non ha preso le medicine…
L’aspirazione del nostro gruppo era invece quello di dare vita ad una riunione d’équipe nella quale, accanto alle questioni di ordine organizzativo-gestionale della quotidianità spicciola, si potessero sviluppare discussioni cliniche sul funzionamento psicologico delle pazienti, sull’andamento delle loro storie famigliari, sul tipo di trattamento da condurre in Reparto, ecc.; ma il conseguimento di questo obiettivo ci impegnò a lungo, vista anche l’evidente sperequazione di potere decisionale che caratterizzava inizialmente la nostra posizione: all’inizio nessuno di noi era “strutturato”.
In quegli anni, quando si parlava di riunioni, ci si riferiva ovviamente a riunioni tra operatori; infatti, se si eccettuano le esperienze assembleari che si erano tenute in alcuni Ospedali Psichiatrici, come a Gorizia, Trieste, Arezzo ed in poche altre realtà, vi erano in Italia rarissime esperienze di attività di gruppo con pazienti ricoverati.
A noi, del Reparto Donne, così ci chiamavamo, occorsero più di due anni prima di poter riuscire ad organizzare delle riunioni a cadenza regolare con le ricoverate.
Queste riunioni, che pure si rivelarono già da subito come un potente strumento in grado di ridurre l’aggressività e dare un senso al tempo trascorso all’interno del Reparto, dovettero convivere a lungo con la “ritualità” dei colloqui individuali, cui restavano fortemente legati non solo le pazienti ma anche i medici e le infermiere che, con il loro abbandono, temevano di perdere anche un pezzo della loro identità professionale.
La sostituzione dei colloqui individuali con le riunioni quotidiane con le pazienti, rappresentò quindi una tappa che richiese molto tempo e molta “pazienza” ed il cui conseguimento fu possibile solo grazie all’evidenza con la quale le pazienti che partecipavano ai gruppi presentavano miglioramenti clinici più significativi e più rapidi rispetto a quelle “seguite”con colloqui individuali.
Fu così che, pur tra mille difficoltà e resistenze, piano piano la riunione con le pazienti divenne il momento centrale dell’attività terapeutica del Reparto.
Si teneva tutte le mattine, dal lunedì al venerdì, per la durata di un’ora e mezza; vi partecipavano tutte le ricoverate e lo staff di Reparto, tranne un’infermiera che, a turno, restava “fuori” disponibile per le eventuali chiamate telefoniche, ritiro di esami, nuovi ingressi, ecc. e soprattutto per consentire a quelli che stavano “dentro” una sufficiente tranquillità per potersi concentrare su quanto avveniva nella riunione.
Un medico coordinava l’incontro mentre gli altri operatori fungevano da osservatori partecipanti. La discussione era a tema libero e la finalità ricercata, in particolare agli inizi, mirava a favorire una democraticità relazionale ispirata alle comunità terapeutiche di Maxwell Jones, ma anche un’attenuazione delle ansie ed un contenimento della frammentazione psicotica soprattutto nelle pazienti in fase di grave scompenso.
Questo assetto era reso possibile dall’atteggiamento, mantenuto da tutti gli operatori, di convogliare sistematicamente nello spazio della riunione tutte le problematiche concernenti le pazienti. Fatte salve le situazioni d’urgenza, infatti, ogni tentativo di instaurare rapporti individuali con figure dello staff veniva cortesemente scoraggiato e rinviato allo spazio – tempo della riunione.
Col procedere dell’esperienza il lavoro con i gruppi ci pose sempre di più a contatto con le “parti sane” delle pazienti (aspetto questo fortemente sottovalutato nella cultura degli ambienti di ricovero psichiatrico del tempo) ed in certo senso ci “costrinse” a rivedere molte delle nostre idee sulla malattia mentale, sul significato e soprattutto sul modo di condurre un ricovero psichiatrico.
Di seguito descriverò brevemente “i dispositivi” che, nel tempo, si aggiunsero alla riunione d’équipe ed alla riunione con le pazienti e che contribuirono a determinare le più significative trasformazioni organizzativo-funzionali del Reparto.
L’incontro di accoglimento
Giungemmo alla sua istituzione perché non potevamo più accettare il fatto che i ricoveri venissero disposti, dal Pronto Soccorso, sulla base di consulenze nelle quali l’indicazione al ricovero era sostenuta, quasi esclusivamente, dal riscontro di una sintomatologia psichiatrica o, ancor peggio, dalle pressioni esercitate dal contesto famigliare o micro sociale del paziente; cioè senza alcuna analisi della richiesta: chi chiedeva? Cosa chiedeva? Quale sarebbe potuta essere la risposta più adeguata? Tutto questo non accadeva e neppure si poteva pensare, allora, che potesse accadere nella realtà compressa e convulsa del Pronto Soccorso di un grande Policlinico.
Il nuovo spazio dell’accoglimento avrebbe quindi dovuto assolvere alla finalità di sviluppare un’analisi della richiesta, raccogliere informazioni sulle vicende che avevano condotto le pazienti al ricovero, formulare ipotesi di orientamento diagnostico e soprattutto (cosa per noi più importante di ogni altra) consentire, laddove il ricovero ci fosse apparso indicato, di giungere alla definizione di un “contratto” che esplicitasse, in modo chiaro e realistico, “la compromissione” di pazienti, famigliari ed équipe curante relativamente al lavoro da svolgere durante il ricovero. Il nostro intento, insomma, era quello di dare un “setting” al ricovero, cioè definirne contrattualmente lo spazio (il dove), il tempo (il quando e per quanto tempo), il ruolo (tra chi e chi) e il compito (per fare che cosa).
Immaginatevi che cosa accadde… riconoscere una contrattualità a pazienti quasi sempre affetti da quadri psicotici… ed in più… in fase di scompenso!
Ovviamente le resistenze non riguardavano solo i pazienti ed i loro famigliari… ma per noi questo passaggio rivestiva una valenza fondamentale; rappresentava una pre-condizione irrinunciabile per l’avvio di qualsiasi rapporto che avesse almeno l’aspirazione di svolgere una funzione terapeutica!
L’incontro, una volta istituito, aveva la durata di un’ora e mezza; si teneva tutte le mattine, dal lunedì al sabato, e vi prendevano parte, oltre alle pazienti ricoverate nella notte o il giorno precedente, anche tutte quelle pazienti, già ricoverate, con le quali non si era ancora giunti alla definizione di un “contratto di ricovero”; all’incontro erano invitati a partecipare, oltre ai famigliari delle pazienti, anche gli operatori dei Servizi di riferimento.
Per avere un’idea di quanto potesse essere “dirompente”, al tempo, questo tipo di approccio è sufficiente pensare a cosa accadrebbe, ancora oggi, se per esempio i colloqui che si tengono a scuola tra insegnanti e genitori cominciassero ad includere gli allievi… ed assumessero la forma della multifamigliarità!!
In questo spazio assai particolare, attraversato da transferts, controtransferts e proiezioni multiple, la natura delle “crisi dei sistemi famigliari” tendeva a mostrarsi in modo così intellegibile e rapido (… e non solo per gli operatori ma per tutti i partecipanti, non foss’altro per la forma drammatico – didascalica con la quale le crisi venivano per così dire… “messe in scena”…) da rendere assai spesso del tutto ingiustificato il prolungarsi dei ricoveri.
L’incontro di counseling con i famigliari
L’attivazione di questo dispositivo, che si teneva una volta alla settimana, per la durata di un’ora e mezza, discendeva, come ormai si sarà capito, dall’importanza che noi annettevamo al coinvolgimento della rete famigliare nel processo di cura.
L’incontro era pensato come uno spazio di ascolto per i famigliari che fosse in grado di accogliere ed elaborare richieste, ansie, transferenze e proiezioni in modo tale da favorire una rimodulazione, in termini meno stereotipati, dei ruoli “aggiudicati ed assunti” dai vari membri, all’interno di ciascun gruppo famigliare.
I famigliari delle ricoverate venivano invitati a partecipare agli incontri già in fase di accoglimento; nella “consegna” di avvio del gruppo veniva chiarito che, per motivi di riservatezza, non sarebbero state fornite informazioni riguardanti le persone ricoverate; anzi, per tutto quanto concerneva il loro stato di salute si rinviava direttamente alle interessate che, si sottolineava, erano perfettamente al corrente di ogni aspetto che riguardasse il loro programma di cura: terapie seguite, risultati di esami, durata presumibile del ricovero, eventuale data della dimissione, ecc. ecc.
Anche qui si può immaginare la reazione dei famigliari. “… Ma allora questo incontro è per noi!!… ma noi non siamo mica malati!!… voi dovete dirci come stanno!!… ve le abbiamo portate per curarle… non siamo mica noi quelli da curare!!…”
Nonostante queste vivaci reazioni e le indignate proteste al Direttore della Clinica e sin anche alla Direzione Sanitaria del Policlinico, lo staff, senza arretramenti sul piano del rispetto del segreto professionale nei confronti delle signore ricoverate, ribadiva con fermezza che l’incontro non era finalizzato a fornire informazioni, bensì a condividere le difficoltà che un gruppo famigliare si può trovare ad affrontare in occasione del ricovero di uno dei suoi membri.
Il nostro obiettivo era quello di “spingere” i famigliari a ripensare le loro congiunte ricoverate, non come delle “pazienti” (come loro stessi ormai le definivano) ma come figlie, madri, mogli, ecc., momentaneamente in difficoltà; perciò rifiutavamo con forza quella richiesta di “alleanza”, alle loro spalle, che i famigliari ci riproponevano costantemente.
L’incontro di discussione clinica e di supervisione
Dopo ognuna delle riunioni descritte l’équipe di Reparto si ritrovava in un post-riunione, come lo chiamavamo allora, che aveva la durata di un’ora, per discutere e riflettere sugli accadimenti che le avevano caratterizzate.
Una volta alla settimana le situazioni più problematiche venivano affrontate all’interno di una supervisione con un collega psicoanalista esterno alle attività del Reparto.
Se la riunione con le ricoverate costituiva certamente “il cuore” del processo terapeutico, il post-riunione rappresentò, altrettanto certamente, “il cuore” del processo formativo di tutta l’équipe di Reparto.
Con questo assetto: riunione d’équipe – incontro di accoglimento – riunione con le pazienti – incontro di counseling con i famigliari – incontro di discussione clinica e di supervisione, il Reparto andò avanti per alcuni anni.
Anni durante i quali maturarono e soprattutto si trasformarono profondamente la cultura e l’operatività di tutta l’équipe del Reparto.
La riflessione sulla interazione tra sistema famigliare e sistema istituzionale di cura, facilitata dai dispositivi gruppali che avevamo posto in essere, ci permise di renderci conto della inadeguatezza dei paradigmi concettuali con i quali operavamo e stimolò in noi la ricerca di nuove forme di approccio alle gravi situazioni di scompenso psichiatrico che giungevano alla nostra osservazione; le strade individuate tramite quell’impegno di ricerca ci condussero all’abbandono della “cultura” dell’intervento “sul” paziente a vantaggio di una pratica di lavoro “con” il paziente ed il suo contesto.
In particolare ricordo che andarono in pezzi due classici approcci molto “di moda” in quel periodo: quello caratterizzato dalla cosiddetta “alleanza tra sani”, cioè tra famigliari e terapeuti, di cui fu possibile comprendere appieno la negatività rispetto ai percorsi di crescita psicologica delle pazienti e quello, sviluppatosi in opposizione al primo, caratterizzato dall’alleanza tra pazienti e terapeuti sullo stile “… lei è così perché ha avuto i famigliari che ha… ma vedrà… con noi sarà diverso…”
L’uscita da queste forme di “collusività”, proprie di certa “psichiatria paternalistica” del tempo, ci permise di collocarci in una nuova e diversa posizione che per essere mantenuta necessitava però di ulteriore studio e formazione.
Lo studio della psicoanalisi ed in particolare del pensiero di Bion e di Pichon Rivière, nutrì la prima delle due esigenze, mentre la seconda trovò risposta nell’incontro con Armando Bauleo.
Alla luce del nuovo armamentario culturale di cui ci stavamo dotando, ci apparve chiaro che i diversi dispositivi che avevamo mano a mano impiantato, altro non erano se non apparati con i quali avevamo cercato di “trattare”, in maniera “separata”, i diversi aspetti di quel fenomeno, “complesso ma unitario”, rappresentato dalla malattia mentale.
Ciò che i dispositivi gruppali ci avevano consentito di “vedere” contribuì in maniera decisiva alla trasformazione del nostro modo di “pensare” il rapporto malato – malattia; dovemmo così accettare che la malattia mentale, contrariamente a quanto sostenuto dalla Psichiatria classica, non si esauriva “nel” malato, rappresentando un fenomeno di assai più ampia dimensione, in grado di interessare tutto il contesto storico e relazionale del soggetto.
Voglio dire che l’esercizio di queste pratiche terapeutiche ci aiutò a comprendere che la salute e la malattia mentale non sono fenomenologie “chiuse” nella dimensione intra-soggettiva, o addirittura intra-cerebrale, come sostenuto da certa psichiatria organicistica, bensì “aperte” alla dimensione inter-soggettiva e di contesto.
Alla rilettura delle evidenze che ci provenivano dalla clinica non potevano non fare seguito consequenziali trasformazioni sul piano dell’operatività; trasformazioni che in effetti non tardarono ad apparire, spingendo il Reparto Donne ad abbandonare la sua tradizionale organizzazione ospedaliera per trasformarsi in una realtà terapeutica, del tutto sui generis, di centro psichiatrico per le crisi; un’esperienza a tutt’oggi mai più replicata.
L’incontro di accoglimento permanente
Il nuovo strumento terapeutico, pensato per riunificare tutti i dispositivi terapeutici precedenti, prese il nome di accoglimento permanente; aveva la durata di due ore e si teneva tutte le mattine dal Lunedì al Sabato; un medico coordinava l’incontro mentre gli altri componenti dello staff, tranne un’infermiera che a turno restava fuori, svolgevano il ruolo di osservatori partecipanti.
Al gruppo partecipavano, oltre alle pazienti ricoverate, i loro famigliari e, quando possibile, anche gli operatori dei servizi di riferimento territoriale.
Il compito manifesto, esplicitato nella consegna, si componeva di due parti; la prima riguardava il come mai erano lì… il che cosa era accaduto; la seconda riguardava il che cosa pensavano di fare.
Il lavoro del gruppo prendeva le mosse dalla situazione presente, quindi muoveva verso il passato, e da qui piegava verso il futuro; poi tornava al presente, di nuovo al passato, di nuovo al futuro…
In questo andare e venire il gruppo raccontava le sue storie; i soggetti entravano nei loro ruoli, a volte se li scambiavano, si confondevano, sparivano e riapparivano; i confini famigliari si sfumavano, si rimodellavano, a volte i membri di una famiglia “entravano a far parte” di un’altra e viceversa, tutto si metteva in movimento, era come una grande rappresentazione teatrale in cui tutti gli attori (pazienti, famigliari e terapeuti) contribuivano alla costruzione di una trama continuamente rimodulata; quando il gruppo terminava, foss’anche solo per un piccolissimo aspetto, nessuno, e questo valeva anche per i terapeuti, poteva sentirsi uguale a prima.
Dopo un lungo cercare ci eravamo finalmente imbattuti in questo fantastico strumento di cura; una grande “giostra ricombinante” dove, in un intergioco di fenomeni transferali, controtranferali, proiettivi ed introiettivi, era possibile, per tutti i soggetti, rimettere in gioco la forma dei propri vincoli interni.
Il setting assunto dal centro crisi permise alla nuova struttura di svolgere quella necessaria funzione di “contenitore”, di “non processo”, che consentiva il dispiegarsi di “processi terapeutici” in grado di abbracciare contemporaneamente la dimensione individuale, famigliare e istituzionale.
Tutto ciò si tradusse in un’ accelerazione dei tempi di risoluzione delle crisi tanto vertiginosa che la presenza media giornaliera delle ricoverate, già fortemente calata con gli assetti che il Reparto era venuto mano a mano assumendo, raggiunse i valori record di 5/6 presenze medie giornaliere!!
Ma nonostante gli importanti risultati sul piano clinico non tutto andò per il meglio.
Se, infatti, le precedenti trasformazioni istituzionali che avevano interessato il Reparto non ne avevano mai realmente messo in discussione la “sopravvivenza”, ora le cose cominciavano a prendere una piega diversa… quei dati, quei numeri, se da un lato parlavano di un’incontestabile riuscita, dall’altro aprivano la porta a scenari nuovi, inimmaginabili sino ad allora.
Il ricovero, come lo si pensava solo pochi anni prima, almeno da noi, non esisteva più, né nei numeri né nella durata né nelle finalità.
Il Reparto stesso, con le sue stanze sempre più vuote, “risuonava come un luogo del passato”… finanche il numero dei sanitari, che ai tempi delle 30 ricoverate e dei colloqui individuali era decisamente insufficiente, ora iniziava ad apparire inutilmente sovradimensionato per questa funzione.
La percezione, ancorchè confusa, del fatto che la somma di tutti i cambiamenti realizzati nel corso degli anni stava producendo una trasformazione che andava ben al di là dell’assetto organizzativo del Reparto, investendo alla radice la nostra concezione della cura in Psichiatria, iniziò a produrre in noi reazioni inconsapevoli e scomposte.
La resistenza al cambiamento, che era sempre stata espressa soprattutto dalla Direzione della Clinica, dalla Direzione Ospedaliera, dai Servizi Territoriali, dai pazienti e dai famigliari, improvvisamente passò ad essere “interna” al gruppo dei medici e delle infermiere che sino ad allora avevano combattuto per il cambiamento: “… si però… adesso basta… dove dobbiamo arrivare?… basta!…”. Frenavano, volevano tornare indietro…
Non me lo sarei mai aspettato; proprio ora che le cose cominciavano a cambiare veramente.
Cercai in ogni modo di ricomporre il gruppo, ma non ci fu verso: il “vento controrivoluzionario” spirava forte e la mia capacità di comprendere ed intervenire nelle dinamiche istituzionali non fu all’altezza della situazione.
Mi sentii tradito, deluso e sospinto anche da altre conflittualità sul piano professionale, decisi di andarmene… aggiungendo così anche il mio contributo alla causa della resistenza al cambiamento!
Piano piano l’esperienza regredì e fu riassorbita, col tempo cambiò anche parte del personale ed un po’ alla volta… fu dimenticata… ma non tutto è stato dimenticato!
Riassunto
L’Autore riferisce, in questa comunicazione, di un’originale esperienza di lavoro condotta nel Reparto femminile della Clinica Psichiatrica dell’Università di Modena.
Vengono ripercorse alcune delle fasi più significative di questa esperienza che, lungo l’arco di un decennio (dal 1977 al 1987), condussero il Reparto Donne della Clinica ad abbandonare la sua tradizionale organizzazione ospedaliera per trasformarsi in una realtà terapeutica sui generis.
Le progressive introduzioni, nella realtà operativa del Reparto, di dispositivi gruppali quali la riunione d’équipe, la riunione con le pazienti ricoverate, l’incontro di counseling famigliare, il gruppo di accoglimento e la supervisione periodica di gruppo, rappresentarono “la chiave di volta” di un profondo cambiamento nella maniera di “leggere” la malattia e nel modo stesso di pensare il ricovero.
L’interazione tra sistema famigliare e sistema istituzionale, filtrata dai dispositivi gruppali, pose presto in evidenza la stereotipia operativo – concettuale che caratterizzava lo stile di lavoro del Reparto stimolando la ricerca di nuove forme di approccio alle gravi situazioni di scompenso psichiatrico; le strade individuate tramite quella ricerca segnarono l’abbandono della “cultura” dell’intervento “sul” paziente per passare ad una pratica di lavoro “con” il paziente ed il suo contesto.
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Hanno cominciato smontando un computer, per vedere come è fatto e capire, poi, meglio, come funziona. Poi, passo a passo, si sono avventurati nell’informatica: sono stati i primi allievi del corso di base organizzato alla Comunità Terapeutica di Vallecchio. Tutto è nato dalla donazione di SGR Group di una decina di PC, macchine non nuovissime ma complete e perfettamente funzionanti. Sulle quali, una volta installato il sistema operativo open source Linux, chiunque potrà utilizzarne i software per lavoro e per il tempo libero.
Dalla configurazione dell’hardware al funzionamento del sistema operativo, dal byte alla gestione dei file, da come si scrive un testo a come si salva: tutte le nozioni e le operazioni di base sono state passate in rassegna. «Non è stata una passeggiata per i pazienti», dice Enrico Rotelli, responsabile della Comunicazione della Cooperativa Sociale Cento Fiori e curatore del progetto. «Assimilare nozioni complesse mentre si è impegnati in una delle prove più difficili per una persona, l’emanciparsi da una dipendenza, è una prova da far tremare i polsi. E infatti, dei cinque che hanno iniziato solo in due sono arrivati alla fine del corso. Ma vedere persone che non avevano mai acceso un computer stampare, dopo poche settimane, il proprio curriculum è stato motivo di orgoglio».
Notevole anche lo sforzo dello staff della Comunità Terapeutica di Vallecchio, dagli educatori al personale organizzativo. «Le ore di lezione che si tenevano al sabato – dice ancora Rotelli – in realtà sono state precedute dall’allestimento dell’aula studi, ricavata dalla biblioteca. Ma soprattutto dai numerosi consigli che ho ricevuto. In parte per cercare di rendere questo esperimento più proficuo possibile, in parte per mettermi nelle condizioni di essere efficace. Un conto è insegnare i rudimenti di informatica a un corso di formazione, un conto è confrontarsi con i pazienti in fase di recupero. E’ una prova alla quale non ero preparato e che mi ha permesso di cominciare a intuire quanta professionalità e quanta fatica c’è dietro ogni ruolo in una comunità terapeutica o in un Sert. E’ stato un bagno di realtà, nella vita dei pazienti e nel lavoro di educatori e psicoterapeuti».
Alcuni degli allievi non avevano mai usato un Pc, solo smartphone, scontrandosi con l’uso non semplice del mouse. «Per ovviare al problema, li abbiamo fatti giocare un po’ a “campo minato” e, con un po’ di pratica, anche il mouse è diventato familiare. Abbiamo dedicato molta attenzione alle nozioni che potevano esser utili nella vita di tutti i giorni. Ad esempio come creare un account con una password “robusta” che protegga i nostri dati, cosa significano in pratica le parole gigabyte e ram, nozioni utili davanti al Pc ma anche quando si compra un piano tariffario o un cellulare. L’obbiettivo era lavorare insieme per il futuro, una volta fuori dalla comunità, nel lavoro e nel tempo libero».
«Il primo corso si è naturalmente esaurito, ora cercheremo di far fare pratica a chi l’ha completato. Nella pausa estiva ragioneremo come rilanciarlo – dice Gabriella Maggioli, vicepresidente della cooperativa sociale Cento Fiori e viceresponsabile della Comunità – probabilmente sarà utile organizzarlo a cicli, seguendo il naturale ricambio dei pazienti delle due strutture di Vallecchio, il Centro Osservazione e Diagnosi e la Comunità Terapeutica. E’ certo comunque che la formazione dei pazienti è uno degli aspetti più importanti per noi della Cento Fiori».
L'articolo Viaggio nell’informatica alla Comunità Terapeutica di Vallecchio: nell’aula studi donata da Sgr group Rimini concluso il primo ciclo di lezioni proviene da Cento Fiori, Rimini.