La pandemia agisce come disvelamento: mettendoci in condizione di comprendere che da tempo viviamo entro la carcassa del capitalismo neoliberale, che non smette, per quanto defunto, di imporre le sue regole: privatizzazione, competizione, primato del profitto sull’interesse sociale, devastazione dell’ambiente, iper-sfruttamento delle energie mentali, burnout.
Ma non basta comprendere che siamo in una trappola per uscirne. Uscire dalla trappola tecno-finanziaria richiede infatti una strategia politica e soprattutto una solidarietà sociale fondata su un processo di soggettivazione che al momento, nella tempesta pandemica, appare esitante e depresso. L’apocalisse pandemica ha reso evidente che la società non può sopravvivere senza liberarsi dalla regola neoliberale, ma ha indebolito, e forse paralizzato le energie psichiche necessarie per attivare un processo di soggettivazione solidale.
Entro questo contesto un gruppo di ricercatori che operano prevalentemente nel campo della psicoterapia mette all’ordine del giorno la necessità di creare e moltiplicare luoghi di riflessione psicoterapeutica comune, luoghi di respiro che si sottraggano al soffocamento sistemico, per cercare al tempo stesso la via per l’emancipazione dal dominio tecno-finanziario.
Il 25 ottobre in Cile si tiene il referendum che deve decidere se rimanere per sempre dentro la gabbia della costituzione fascista e ultra-liberale promulgata negli anni di Pinochet e di Kissinger, o se usare la forza costituente della lotta e del voto per uscirne, aprendo la strada a un modello sociale egualitario, e frugale, cioè fondato sull’utile collettivo e non sull’astrazione finanziaria e il consumismo indotto dalla pubblicità.
Il Cile è il luogo in cui la dittatura liberista cominciò con un colpo di stato fascista e con un massacro. Il Cile può essere il luogo da cui inizia il processo di smantellamento della dittatura liberista. Ma il voto sarà solo la condizione formale cui deve seguire un processo di soggettivazione solidale e autonoma.
Della lotta politica in corso in diversi paesi latino-americani, Bolivia, Colombia, Argentina, oltre al Cile, possiamo essere soltanto spettatori. Ma possiamo e dobbiamo essere attori dell’opera di ricomposizione della soggettività sociale che precarietà e accelerazione competizione hanno aggredito e infettato profondamente, e che ora, per effetto della pandemia, dell’isolamento, della paura, del distanziamento sembra sprofondare in una sorta di depressione di lungo periodo.
La pandemia agisce come un catalizzatore di processi catastrofici da lungo tempo in corso: la stagnazione economica, la precarietà dilagante del lavoro, la devastazione ambientale, il burnout da super-lavoro dell’attenzione, la depressione, il panico. Poiché questi processi precipitano tutti insieme, l’orizzonte che si intravvede oltre l’apocalisse pandemica, è quella dell’estinzione del genere umano, mentre la disgregazione della civiltà è ormai ad un punto piuttosto avanzato, e la guerra, la fame, la violenza razzista si diffondono.
Ma non è possibile ragionare proficuamente delle possibilità di sventare la prospettiva estrema dell’estinzione se la mente collettiva è invasa dai fantasmi della paura, dell’angoscia, se il corpo dell’altro è percepito come un pericolo e l’erotismo è bandito dalla vita sociale.
Nuovi profili di sofferenza psichica vanno emergendo: l’erotismo entra in una zona oscura di sensibilizzazione fobica al corpo dell’altro, a causa del trauma del distanziamento e dell’invasione di flussi di perturbante entro lo spazio della vita quotidiana.
Il nostro specifico compito e la nostra intenzione è cartografare il continente emergente dell’inconscio in oscillante ambigua mutazione, per creare moltiplicare luoghi di respiro e collettivi di enunciazione (auto)terapeutica.
E’ possibile vita felice nell’orizzonte dell’estinzione?
Può parere una domanda paradossale, ma è invece cruciale, perché solo se riusciamo a rispondere sì a questa domanda, solo se riusciamo a creare spazi di respiro tranquillo e di relazione felice nel corso della tempesta epidemica e sociale, possiamo trovare la via di fuga da quello stesso orizzonte.
Solo affrontando in modo collettivo la coscienza dell’impermanenza di ogni essere, del nostro esistere singolare e del genere umano come insieme bio-storico, possiamo dissipare il panico, e attivare le dinamiche della creatività e dell’invenzione.
Per questo riteniamo che sia urgente la formazione e proliferazione di luoghi di respiro collettivo, di meditazione sull’impermanenza e di sperimentazione di nuove forme di vita sociale.
Per il gruppo di ricerca
Franco Berardi
16 ottobre 2020
Per aderire, mandare una mail a Leonardo Montecchi: lmontecc@me.com
L’Assemblea Internazionale è aperta a tutti e ci colleghiamo attraverso la piattaforma Zoom
il 25 ottobre dalle 16 alle 19 ( ora di Roma)
Per collegarsi su Zoom:
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password 004481
A presto
Riccione – E’ Alessandro Guagneli il campione 2020 delle gare di pesca al pesce più grosso al Lago Arcobaleno di Riccione. Guagneli si è aggiudicato il titolo durante la finale che vedeva sulle rive della struttura sportiva in via Murano, 47a San Lorenzo i 28 pescatori che si sono aggiudicati almeno una gara nel corso dell’anno.
Ha vinto Alessandro Guagneli, al quale è andato il prosciutto San Daniele in palio, secondo Alex Lisi un prosciutto crudo di Parma, terzo classificato Simone Mosconi, anche a lui un prosciutto intero, con morsa e coltelli. Al quarto e quinto posto Franco e Alessandro Vandi.
Le gare al pesce più grosso, naturalmente “no kill” come tutte le competizioni al lago Arcobaleno, si tengono normalmente sabato e domenica a partire dalle ore 14, mentre nel periodo estivo al calendario vengono aggiunti i giovedì sera dalle ore 20,30. Regolamento ed iscrizioni sul sito del lago Arcobaleno, www.lagoarcobaleno.com, dove ci si può aggiornare su eventi e competizioni insieme alle pagine Facebook e Instagram.
L'articolo E’ Alessandro Guagneli il campione 2020 del “pesce più grosso” del Lago Arcobaleno di Riccione. In finale batte Alex Lisi e Simone Mosconi. proviene da Cento Fiori, Rimini.
di Annalisa Valeri
(La lezione si tiene all’interno di un corso di formazione sulla Concezione Operativa di Gruppo ed è la seconda di un ciclo. Dopo l’informazione gli ascoltatori si riuniscono in un gruppo, coordinato e osservato da docenti della Scuola Bleger)
Partiamo da alcuni concetti che definiscono che cos’è un gruppo.
Pichon Rivière definisce un gruppo operativo come quell’insieme di persone riunite dentro una cornice di variabili costanti, che si integrano fra di loro attraverso una mutua rappresentazione interna e che si prefiggono un compito. Il compito è l’elemento di urgenza, di necessità che convoca le persone a raggrupparsi e ad iniziare un lavoro comune.
Per farlo il gruppo ha bisogno di una cornice stabile, all’interno della quale sviluppare il proprio processo gruppale. Alcuni elementi costituiscono un contenitore solido e stabile nel quale le persone possono trovarsi, vale a dire uno spazio, un tempo, dei ruoli e un compito.
Questo è il setting, condizione necessaria perché possa avvenire il lavoro del gruppo.Ha la stessa importanza dell’allestimento di una sala operatoria, con la sterilizzazione degli strumenti, la preparazione di un posto protetto, all’interno del quale possa avvenire, in condizioni di sicurezza, l’intervento. La cornice di variabili costanti è proprio questo. All’interno dell’esperienza on line che stiamo vivendo è già avvenuta un’importante modifica rispetto allo spazio. Non siamo più in un luogo fisico tutti insieme. Ognuno accede a questo spazio da un ingresso differente e personale. Che spazio è questo in cui ci stiamo riunendo? Dove siamo? Che caratteristiche ha questo cyber spazio in cui siamo? Qualcuno di voi può avere un gatto sulle ginocchia, un bimbo che si intrufola per curiosità e viene a vedere lo schermo, un campanello che suona. Sono tutti elementi che rendono differente lo spazio, lo hanno trasformato. Il nostro insieme di variabili costanti ha subito un cambiamento che non abbiamo scelto, ma di cui dobbiamo tenere conto. Nel senso che influenzerà il processo gruppale, entrerà a farne parte. Anche il tempo subisce un cambiamento. Il tempo cronologico dell’orologio assume un significato diverso quando lo si sperimenta on line. Potrebbe sembrare più lungo o più intenso. Il ruolo che avranno i coordinatori subirà delle modifiche: come si interpreta, cosa si osserva in una modalità on line? Come passano le informazioni e le emozioni con questo strumento? Stiamo sperimentando e siamo tutti, voi inclusi, ricercatori.
Ma veniamo al tema dell’informazione di oggi. Nella definizione di gruppo oltre che del setting si parla di mutua rappresentazione interna. Questo sarà il tema su cui ci soffermeremo, che costituisce uno strumento di lavoro per il gruppo. E’ un prodotto del gruppo e lo strumento attraverso cui il gruppo può affrontare la realtà, occuparsi del suo compito concreto, comunicare.
L’ECRO o mutua rappresentazione interna, è uno strumento che serve all’apprendimento.
Torniamo per un attimo al racconto dell’avvio della Concezione Operativa, che è avvenuta all’interno di un’esperienza concreta all’Ospedale Las Mercedes di Buenos Aires. Questa situazione di necessità, che ha spinto Pichon Rivière a formare i primi gruppi, ci serve per chiarire l’idea dell’apprendimento e della conoscenza all’interno della Concezione Operativa. Il tipo di apprendimento che vuole sviluppare la Concezione Operativa nasce dalla prassi, dall’esperienza concreta.
L’esperienza dei gruppi all’interno dell’Ospedale Las Mercedes, ad esempio, ha permesso una prima elaborazione teorica di che cosa sono i gruppi, qual è il loro compito, elaborazione che deve trovare riscontri nella pratica, per poi poter essere ulteriormente modificata e arricchita a livello teorico.
L’idea dell’apprendimento e della conoscenza è quindi un percorso a spirale, che nasce dalla pratica, diventa teoria e ritorna nella pratica, in un processo senza fine. Questo è il modello di apprendimento che vi proponiamo sia teoricamente che praticamente, attraverso l’esperienza che farete.
L’idea dell’apprendimento da cui prende le distanze la Concezione Operativa è quella relativa ad una trasmissione di contenuti che dovrebbero semplicemente passare dall’insegnante, nella figura di supposto sapere, all’allievo che dovrebbe incamerare abilità, informazioni, valori ed adattarsi passivamente alla struttura sociale di cui
fa parte.
Pichon Riviere definisce la salute mentale e la malattia in termini relativi e situazionali ed in relazione ad un adattamento passivo o attivo della realtà. Il soggetto sano è colui che prende l’informazione, la destruttura, aggiunge, la trasforma e la usa poi nella realtà per modificarla. Se la persona apprende dovrebbe essere in grado di applicare le proprie
conoscenze alla realtà concreta, di cambiarla e allo stesso modo di poter cambiare internamente. L’insegnamento deve quindi permettere che si elaborino contraddizioni e conflitti presenti durante il processo di apprendimento per poter applicare le conoscenze alla pratica.
La conoscenza non avviene con un’idea cumulativa delle informazioni.
Questo significa che per esempio l’informazione che state sentendo non può essere pensata come un “libro” da aggiungere alla vostra biblioteca di informazioni, se per biblioteca intendiamo l’insieme di conoscenze che ci caratterizzano. Non possiamo semplicemente aggiungere un elemento e tenere tutti gli altri elementi di conoscenza immobili. Perché avvenga un reale apprendimento dobbiamo rifarci ad un’idea geometrica. Perché un’informazione venga realmente appresa occorre farle spazio,
modificare tutto l’insieme di informazioni che abbiamo, buttare alcune cose, tenerne delle altre, modificare i rapporti fra l’una e l’altra, come un mobile che vogliamo disporre in modo armonico all’interno di uno spazio già pieno. Questo ci porta alla consapevolezza che questo processo non è semplice, non è neutro, suscita difficoltà, emozioni, resistenze.
Nella Concezione Operativa l’idea è che la conoscenza avviene attraverso un’interdisciplinarietà, un’Epistemologia Convergente. Alcuni concetti di una scienza possono servire all’apprendimento di un’altra scienza, con un’idea di travaso fra una disciplina ed un’altra. Ogni disciplina cioè ha dei nuclei di base che possono essere utili anche nelle altre scienze. Ecco perché le scienze così riunite, possono apportare elementi per la creazione di uno strumento unico concettuale e operativo con cui affrontare la realtà.
Il gruppo che andrete a fare ed in generale i gruppi di apprendimento si situano intorno all’informazione, lo affrontano da vari punti di vista.
L’informazione che vi sto portando costituisce una situazione intorno alla quale ognuno di voi potrà contribuire da una visuale differente. La Concezione Operativa prevede che il lavoro gruppale sarà tanto più ricco quanto più, rispetto all’omogeneità del compito, ci sia un’eterogeneità dei partecipanti. Ognuno potrà portare visuali differenti che arricchiscono
il lavoro sul compito. L’apprendimento in gruppo è qualcosa di diverso rispetto all’apprendimento individuale. Teniamo presente questo concetto rispetto all’Ecro, di cui andiamo a parlare ora.
La parola E.C.R.O significa Esquema Conceptual Referencial y Operativo, in italiano Schema Concettuale di Riferimento operativo, ed è l’insieme di tutte le conoscenze, esperienze, sentimenti con cui guardiamo il mondo, pensiamo ed agiamo. E’ cioè una griglia con cui interpretiamo la realtà che si crea nel corso del tempo. E’ uno schema cognitivo ed affettivo, contiene informazioni ma anche emozioni e sentimenti. Ha a che fare con la nostra identità.
Ognuno di noi struttura nel tempo un proprio schema di riferimento che nasce dalle esperienze all’interno della famiglia, del proprio tessuto sociale, dalle informazioni che si apprendono nel corso del tempo e che vanno a strutturare una griglia, un filtro con cui si interpreta la realtà e si comunica con gli altri. L’humus da cui nasce è la famiglia, il primo ambito di esperienza della persona. Nel corso del tempo questo schema cambia, attraverso altre esperienze, conoscenze apprese, situazioni vissute. Dalla famiglia per esempio, lo schema può modificarsi con la partecipazione ad un gruppo di amici, da cui si apprendono cose diverse, parole che si condividono solo all’interno del gruppo e che rappresentano aneddoti, valori, ricordi. Tutte queste cose vanno ad arricchire e modificare il nostro
schema di riferimento, l’ECRO.
Un altro concetto utilizzato dalla Concezione Operativa è quella di gruppo interno. Un gruppo è composto da personaggi, ma anche da oggetti parziali, situazioni ed emozioni. La persona dall’infanzia internalizza personaggi della sua vita, emozioni, vincoli e inizia a dialogare con il proprio gruppo interno, che nel corso del tempo può ampliarsi, modificarsi. Alcune voci saranno molto forti e influenzeranno prepotentemente i nostri pensieri e comportamenti, altre entreranno nel corso del tempo, mitigheranno alcuni dialoghi, li trasformeranno. In una terapia familiare che ho seguito si parlava di un nonno che si era innamorato di una ragazza benestante del paese e del fatto che il padre della ragazza aveva espresso il proprio rifiuto dicendo che il nonno non era abbastanza ricco e abbastanza colto. Per tutta la vita il nonno aveva continuato a cercare di affermarsi economicamente, aveva spinto fortemente perché le figlie andassero a scuola. Nel gruppo interno di quest’uomo la voce del padre della ragazza era stata estremamente influente e l’uomo si era trovato a dialogare con questa voce un po’ persecutoria per tutta la vita.
Un individuo è sano se mantiene un intergioco costante fra la realtà che vive ed il proprio schema di riferimento, il quale deve modificarsi, in modo complessivo, in base all’esperienza pratica e fornire la possibilità di interpretare la realtà ad un livello più elevato, in un processo a spirale.
Per capire questo vi riporto l’esempio di Keplero (1600), il quale trova dei dati che non confermano la teoria delle orbite circolari dei pianeti del sistema solare. Questa informazione, proveniente dalla realtà, è in contrasto con lo schema di riferimento. Allora, avviene un apprendimento se la persona è in grado di modificare in modo complessivo il proprio schema di riferimento (come per far entrare il mobile di cui parlavamo prima nella stanza ammobiliata). Se questo non succede l’informazione può anche essere incamerata, ma verrà trattata come una bizzarria, una stranezza all’interno di uno schema di riferimento rigido.
Un altro esempio può essere rappresentato dalla dott.ssa Malara che scopre il paziente 1 ammalato di Covid a Cremona. Lo schema di riferimento medico non prevedeva la presenza del Covid in Italia. Ma i dati davano un quadro del paziente che non si spiegava con le conoscenze ed i protocolli istituiti. Allora, la presenza di un elemento nella realtà che non corrispondeva allo schema di riferimento, ha prodotto una pressione che poi ha portato la dott.ssa a forzare il protocollo e scoprire il paziente 1. Non è stato un processo semplice, la dott.ssa ha incontrato resistenze e critiche, ha dovuto assumersi la responsabilità di fare il tampone e permettere la modifica dello schema di riferimento (e anche di salvare la vita del paziente 1).
Se lo schema si sclerotizza la persona si “ammala”, non è più in grado di apprendere dall’esperienza e proietta sul mondo reale il proprio mondo interno in maniera rigida e ripetitiva. Si potrebbe anche dire che se il gruppo interno non riesce più a modificarsi, aggiungere voci e cambiare, la persona non apprenderà più dall’esperienza e riprodurrà in modo stereotipato il proprio mondo interno.
Pichon Riviere dice che per esempio i disturbi di personalità sono tutti disturbi dell’apprendimento.
Anche in questo caso facciamo un esempio. Se nella vita in famiglia una persona vive un vincolo di sfiducia nei confronti delle figure genitoriali questo entra a far parte del suo schema di riferimento. Se nel corso della vita questo schema si irrigidisce, le persone che incontra e che potrebbero modificare l’esperienza vissuta vengono vissute in maniera
distorta, la comunicazione male interpretata e alla fine si riconferma continuamente lo schema di riferimento iniziale. Questo produce un non apprendimento e, a seconda del grado di rigidità, problematiche alla persona in questione che potrebbe continuare a creare relazioni caratterizzate da sfiducia, delusione e allontanamento, appena l’altro commette degli errori.
L’ECRO ha aspetti manifesti, di cui il soggetto è consapevole ed aspetti latenti che agiscono, ma di cui la persona non è consapevole.
Quando entriamo in un gruppo ognuno di noi porta il proprio Ecro, una personale modalità di interpretare il mondo, che nasce dalle esperienze vissute, dalla partecipazione ad altri gruppi a cui abbiamo aderito.
Potremmo dire anche che entriamo con il nostro gruppo interno. La nostra aspettativa è che si sperimenti una situazione più o meno simile a quelle che conosciamo. Ma, se un gruppo inizia a funzionare, le aspettative iniziali non vengono soddisfatte. Il gruppo, nel qui e ora, inizia a funzionare in una direzione differente rispetto a quella pensata da
ognuno dei membri.
Il proprio schema di riferimento, nell’interazione con gli altri integranti che hanno un altro schema di riferimento e nel lavoro sul compito subisce una pressione, una tensione a modificarsi. Il gruppo interno inizia a incontrarsi, scontrarsi con il gruppo esterno.
Potremmo fare l’esempio della persona che ha interiorizzato figure genitoriali di cui non ci si può fidare, che fanno parte del suo Ecro. Nel corso della discussione di gruppo la persona può trovarsi davanti ad un altro membro che le ricorda la madre ed iniziare a provare sentimenti che prova per la madre (rabbia, desiderio di essere ascoltato). Proietta nel proprio comportamento il vincolo che ha con la madre, ma dall’altra parte l’integrante risponde in maniera diversa. Se per esempio la madre si allontana tutte le volte che c’è una discussione, potrebbe succedere invece che l’integrante risponda, stia nella discussione. Questo evento sorprendente produce una pressione nel proprio Ecro, una tensione al
cambiamento.
Questo processo, come dicevamo, non è affatto semplice, non è neutro.
Sviluppa ansie che vengono vissute concretamente all’interno del gruppo.
Se ne parlava già nella informazione precedente, quello che accade è che l’informazione e l’esperienza di gruppo entrano nello schema di riferimento e premono perché alcune idee, concetti si modifichino.
Si può allora sentire un’ansia legata alla confusione (la sensazione di non capire cosa si sta facendo, cosa c’entra l’informazione con quello che si è e che si deve fare, la difficoltà a comprendere che suscita fastidio) oppure più avanti un’ansietà persecutoria (cioè la sensazione di essere sprovvisti di strumenti per affrontare la situazione, la sensazione che non si riuscirà ad affrontarla bene, la diffidenza, la rabbia) e un’ansia depressiva (la difficoltà, il fastidio al pensiero di dover abbandonare delle certezze, strumenti, conoscenze). Queste sensazioni fanno parte dello svilupparsi del processo gruppale, sono necessarie se si vuole produrre apprendimento, cambiamento. La quota di ansia deve essere tenuta dal coordinatore ad un livello ottimale, nel senso che non deve arrivare a
livelli troppo alti disorganizzando il gruppo o attivando blocchi e stereotipie massicce ma non deve essere neanche nulla, segno di un mancato coinvolgimento affettivo, perché non si produrrebbe nessuna variazione, nessun apprendimento.
Ecco allora che una conoscenza, un’esperienza perché produca apprendimento deve mobilizzare, cambiare in modo più globale lo schema con cui interpretiamo il mondo. La difficoltà a mobilizzare il proprio schema di riferimento è spesso legato alla connotazione affettiva, legate all’identità, che hanno per noi alcune informazioni, conoscenze, esperienze: ci teniamo ancorati a certe idee senza permettere che ne entrino di nuove perché le precedenti sono estremamente significative.
Allo stesso tempo però nel gruppo si sperimentano anche altre emozioni, relative ad un vissuto di appartenenza, di affiliazione con gli altri, di collaborazione, di piacere per la condivisione delle conoscenze e delle esperienze degli integranti che può facilitare la strutturazione di un tessuto comune di cui ci si riconosce parte.
Il gruppo lavora se riesce a superare le situazioni dilemmatiche e procedere oltre, con una modalità dialettica. Per farlo è necessario che ognuno perda pezzi di certezza, che sperimenti contraddizioni che creano varchi. In questo modo il gruppo inizia a costruire il proprio schema di riferimento comune, la mutua rappresentazione interna. All’interno di
questo nuovo ECRO ci saranno esperienze vissute nel gruppo, conoscenze, emozioni, sentimenti, di vissuti, di vincoli. E’ ciò che definisce, come è stato detto nella lezione precedente, un noi che ogni persona si porta dentro e con cui affronta la realtà. Possiamo anche dire che l’ECRO corrisponde al gruppo interno, con il quale dialoghiamo
continuamente nel corso della vita.
E’ chiaro allora che maggiore è l’eterogeneità del gruppo, la ricchezza delle conoscenze portate, maggiore sarà, se si riesce a lavorare in modo coeso sul compito, l’articolazione e la varietà dello schema di riferimento gruppale.
Tutto ciò è necessario perché il gruppo possa comunicare con un linguaggio comune. Le persone potranno comunicare se danno lo stesso significato alle parole, ai concetti di cui hanno appreso il senso durante il processo gruppale, riuscendo a non sviluppare malintesi, distorsioni nella comunicazione.
Il gruppo è un altrove. Perché si crei un altrove è necessario uno straniamento, uno spaesamento che per esempio si crea costruendo uno spazio ad hoc per il gruppo, come dicevamo all’inizio relativamente al setting. Lo spazio deve essere qualcosa di un po’ diverso da quella che è la quotidianità, un altrove dove arriva l’informazione ed il gruppo la può “mangiare”, “digerirsela”. Questo altrove è uno spazio reale ma anche uno spazio interno, una zona intermedia libera e protetta (dal setting) in cui il gruppo può giocare con l’informazione, associare, portare liberamente idee, lasciarsi andare e contribuire ad un processo che nessuno, nemmeno il coordinatore, sa dove arriverà.
A mobilizzare gli schemi di riferimento del gruppo saranno le problematiche affrontate che mettono in discussione, creano conflitti, dubbi, apportano conoscenze. Ogni individuo, come abbiamo detto sopra, entra nel gruppo con la propria storia, il proprio schema. A livello grafico potremmo parlare di una dimensione verticale. La dimensione verticale di ciascun integrante si interseca con la realtà del gruppo, quello che avviene nel presente e che viene definita la dimensione orizzontale del gruppo. Oltre a queste due dimensioni c’è quella trasversale, rappresentata dagli avvenimenti istituzionali, storici, politici che accadono e che influenzano in modo significativo le altre due dimensioni e lo schema di riferimento del gruppo.
Possiamo per esempio dire che gli avvenimenti che abbiamo vissuto in questi tre mesi costituiscono parte della dimensione trasversale che influenzano il processo gruppale, lo schema di riferimento comune sia a livello cosciente che latente. La dimensione trasversale è importante, influenza profondamente le altre due, a volte consapevolmente, a volte in modo inconsapevole. Tenere conto degli aspetti istituzionali, sociali, globali è fondamentale per comprendere il processo gruppale e le influenze sullo schema di riferimento. Questo gruppo ad esempio non è quello di prima del Covid, le esperienze, conoscenze che ci hanno attraversato in questi mesi cambiano necessariamente l’ECRO.
Pensate, per esempio, che ansie avete provato rispetto all’utilizzo della modalità on line. Alcuni di voi magari erano già abituati, per altri sarà stato una novità assoluta che può aver prodotto rabbia, diffidenza, tristezza per le parti perse relativamente alle modalità dal vivo, confusione. Possiamo rifiutare completamente queste conoscenze che derivano dalla realtà odierna ed sperare di tornare a prima del Covid, oppure si può provare a integrare alcuni aspetti nuovi con le conoscenze che già avevamo, cercando di creare un nuovo schema che comprenda i nuovi concetti emersi.
Nel lavoro di gruppo emergono STEREOTIPI che sono delle modalità rigide di pensiero, modalità apprese che però sono diventate impermeabili all’esperienza e si riproducono sempre uguali. Possiamo dire che esistono stereotipi individuali, vali a dire quelli che ci portiamo dalla nostra esperienza di vita e con i quali entriamo in gruppo e stereotipi gruppali che devono essere superati se vogliamo produrre pensiero nuovo.
Vi faccio un esempio, per chiarire. In un lavoro fatto anni fa insieme al Dott. Montecchi all’interno di una comunità terapeutica per tossicodipendenti, abbiamo analizzato il materiale del gruppo per un periodo di un anno ed abbiamo ipotizzato che il lavoro sulla cura della propria tossicodipendenza si scontrava con la presenza di ostacoli importanti, in parte consapevoli ed in parte inconsapevoli. Un primo stereotipo era l’idea che ci fosse un destino per cui erano caduti nella tossicodipendenza, che ci fosse una forza più grande di loro che aveva prodotto la situazione in cui erano. Questo ostacolo era particolarmente ostico, perché allora riunirsi in gruppo, lavorare all’interno della comunità, sforzarsi di cambiare non aveva senso e lo stereotipo poteva costituire un alibi perfetto per lasciarsi andare e non produrre cambiamento. Un altro stereotipo era che sarebbero guariti se avessero incontrato l’amore. Essendo una comunità mista c’era la possibilità di innamorarsi, costituendo delle coppie. Questa modalità di pensiero, per cui la tossicodipendenza era dovuta ad una mancanza di affetto e che si sarebbe risolta incontrando la persona giusta, produceva in alcuni casi una resistenza al lavoro gruppale prima o una volta fidanzati, una chiusura in una dimensione a due che non permetteva apprendimento gruppale.
Il processo gruppale funziona se gli stereotipi possono diventare consapevoli e possono essere messi in discussione, schiudersi come uova e lasciare libero il pensiero. La forza del lavoro gruppale può permettere questa rottura. Lo descriviamo facendo riferimento a forze, pressioni, tensioni per ribadire l’idea che non è un processo innocuo, ma che, quando funziona produce un pensiero nuovo. Parliamo di un pensiero creativo, perturbante. Il concetto di perturbante, che viene da Freud, indica la possibilità di vedere qualcosa di non familiare, di estraneo nel conosciuto. Quello che può succedere nel processo gruppale è di rivedere con occhi nuovi concetti, conoscenze, esperienze conosciute. Il lavoro del gruppo produce un nuovo ordine simbolico, che può prendere le distanze dall’ordine simbolico dominante che ci attraversa culturalmente. Ci si riesce a distaccare dalle ripetizioni, quando le ripetizioni del fare si possono distanziare e ci appaiono perturbanti. Questo accade perché ci vediamo come da fuori ed assumiamo in questo la tematica del doppio. Proprio ieri in un gruppo un integrante diceva : “nel lockdown mi sono fermata, ho guardato quello che facevo e l’ho trovato assurdo”. Anche il lockdown è un altrove e allo stesso modo l’altrove del gruppo può portare alla presa di coscienza di certe routines, ripetizioni per poter produrre un immaginario gruppale nuovo.
Lo schema di riferimento deve essere uno strumento di lavoro, che si può applicare nel pratico e nell’operativo dal gruppo, che puè permettere alle persone di comunicare ed evitare malintesi. Vi porto un altro esempio, che proviene sempre dalla clinica. Un paziente psicotico che avevamo nel gruppo spesso parlava “del fenomeno” come la causa dei suoi mali. Nel lavoro gruppale il gruppo ha compreso quello che prima era un concetto
bizzarro e per certi versi incomprensibile: il “fenomeno” rappresentava una sorta di Dio, ma un Dio minore che invece di sostenere ed aiutare aveva prodotto una serie di sciagure, fra cui la morte del padre del paziente. A poco a poco il concetto di “fenomeno” ha iniziato a far parte dello schema di riferimento del gruppo, che lo utilizzava all’interno delle discussioni, appropriandosene. La modalità di comunicazione incomprensibile aveva lasciato il passo alla socializzazione del concetto che ha aperto il pensiero e che per il gruppo, e solo per quel gruppo con quello specifico processo gruppale, costituiva una parola di senso dell’ECRO gruppale.
Se il gruppo si apre al pensiero anche i ruoli si modificano nel senso che si mobilizzano, si arricchiscono le possibilità personali e producono comportamenti differenti. Nella lezione precedente vi era stato detto che spesso si entra in un gruppo di apprendimento con i propri ruoli istituzionali. Nel corso del lavoro di gruppo però le cose cambiano, emergono aspetti differenti, che connettono il cognitivo con l’affettivo, che dischiudono a modalità diverse di essere. Vi porto un’esperienza in un gruppo di apprendimento della non riuscita di questo processo. Un medico con molti anni di esperienza ha preso parte ad un corso di
formazione. Arrivava al corso sempre in giacca e portava la sua parte istituzionale, i casi clinici, la sua professionalità. Nel corso del tempo non è cambiato questo modo di porsi, non sono emerse altre parti della personalità, altri modi di essere. A livello simbolico notavamo che, mentre gli altri integranti si lasciavano andare, si rilassavano, mettevano a nudo alcune parti di sé, il medico teneva sempre la giacca, anche in estate. Questa ci è sembrata una forte resistenza alla possibilità di sperimentare parti differenti e di arricchire il proprio pensiero. La possibilità di passare da medico ad alunno, che avrebbe permesso il riaffiorare di ricordi del passato, di rivisitare il ruolo di alunno, di pensare ad altri aspetti non è potuto avvenire.
Un’altra situazione è rappresentata da gruppi di genitori e figli, nei quali per esempio all’inizio del processo un genitore si presenta come “sono il padre di Giulia”. Queste appartenenze generazionali danno il via all’emergere di stereotipi su noi-genitori e voi-figli, che è un momento naturale del gruppo ma che deve essere superato se vogliamo dar vita a qualcosa di nuovo. Quando un genitore inizia a pensare di essere stato anche figlio, come il ragazzo di fronte che sta parlando o fratello o amico, può mobilizzare alcune parti del suo Ecro e produrre pensiero nuovo, uscendo da una situazione stereotipata.
Per concludere, l’Ecro è uno strumento che il gruppo ha per poter lavorare poi nella pratica e produrre cambiamento. Questo è l’adattamento attivo alla realtà, la possibilità di intervenire sul reale, di non doverlo riprodurre tale e quale, di apportare qualcosa di nuovo. In questo senso il gruppo è una creatura viva, un soggetto e non un oggetto.
Nell’esperienza che stiamo facendo ora insieme per esempio la situazione di apprendimento è reciproca. Mentre voi ascoltate l’informazione e la elaborate nel corso del gruppo, noi apprendiamo dal vostro lavoro e ciò che producete può riversarsi sul dispositivo e produrre delle modifiche. E’ un processo circolare, o per meglio dire a spirale. Il gruppo in alcuni casi può costituire un aspetto istituente dell’istituzione, un motore di
cambiamento dell’istituzione stessa. Può essere una forza istituente che modifica l’istituito. Il gruppo apprende ed insegna, opera concreti cambiamenti nel reale.
Bibliografia
Bauleo, “Ideologia, gruppo e famiglia”
Bauleo e De Brasi, “Clinica gruppale, clinica istituzionale”, Il poligrafo
Marzotto, “I fondamenti della Concezione Operativa di Gruppo”, CLUEB Bologna
Montecchi, “Trasmissione e formazione”, on line
Montecchi, “Il gruppo operativo come produttore di ordine simbolico”, on line
Montecchi e Valeri, “Gruppi e istituzioni”, Areas 3 on line
Pichon Riviere, “Il processo gruppale”, Lauretana
Roma – Il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (CNCA), al quale è iscritta anche la Cooperativa Sociale Cento Fiori, esprime la propria soddisfazione per il decreto immigrazione approvato ieri in Consiglio dei ministri e chiede che si lavori subito a una nuova normativa sul fenomeno migrazioni.
“Siamo soddisfatti per i contenuti del decreto immigrazione”, dichiarano Riccardo De Facci, presidente del CNCA, e Stefano Trovato, coordinatore Area Migrazioni della federazione (e presidente della cooperativa sociale Polo 9). “Auspichiamo che il Parlamento non peggiori, nel suo esame, quanto contenuto nel testo del provvedimento. Tuttavia, consideriamo l’approvazione del decreto solo un primo passo verso una radicale riscrittura delle politiche sulle migrazioni. Il testo adottato dal governo mette fine a un approccio punitivo verso persone migranti e ong, fortemente voluto dal precedente ministro dell’Interno, che ha purtroppo facilitato le morti di migranti nel Mediterraneo e le possibili speculazioni legate ai grandi centri di accoglienza».
«Ma è la legge Bossi-Fini sull’immigrazione che dobbiamo superare al più presto, una normativa lesiva dei diritti delle persone migranti e incapace di fare i conti con la realtà della globalizzazione e dei processi di migrazione a essa collegati. Se il governo vorrà aprire questo processo il CNCA, e le altre organizzazioni civiche impegnate su questi temi, saranno pronte a portare al tavolo le loro analisi e proposte».
La Cooperativa Sociale Cento Fiori è particolarmente sensibile al tema della migrazine, e attualmente attraverso il settore Migranti e i suoi qualificati operatori offre numerosi servizi di accoglienza aderendo ai progetti Sproimi e Sprar.
L'articolo Cnca, bene il decreto immigrazione, ora superare la legge Bossi-Fini. proviene da Cento Fiori, Rimini.
Rimini – Un pomeriggio dedicato alla rigenerazione, del corpo e dello spirito, dove arte e natura scandiranno parallelamente le ore dalle 16 al tramonto di venerdì 11, nell’area della Serra Cento Fiori, nell’alveo del Parco XXV aprile.
Marecchia Social Fest – Live painting. Orto. Sonorità.E’ il Marecchia Social Fest dedicato questa volta a “Live painting. Orto. Sonorità”, che vede coinvolti, in un progetto de La bottega Culturale, la Cooperativa Sociale Cento Fiori, i writers Burla e Mozone, l’associazione Civiltà contadina, il progetto dedicato ai giovani “Piantiamola – Ragazzi che cambiano il clima” e l’associazione Tassello mancante.
Programma Marecchia Social Fest – Live painting. Orto. Sonorità.La prima voce del trittico che da il nome all’evento, live painting, aprirà il pomeriggio alle 16, con la rigenerazione di un vecchio edificio dell’area vivaistica del parco XXV aprile (o parco Marecchia come lo chiamano ancora i riminesi) attraverso i graffiti. Burla e Mozone, due presenze importanti nel panorama della street art riminese, disegneranno su uno degli edifici del vivaio che si affaccia sul parco Marecchia, di fianco a La Serra Cento Fiori (ingresso parcheggio da via Galliano 19 o da via padre Tosi).
I due writers nei giorni scorsi hanno dipinto due soggetti nella ex scuola di via Marecchiese a Spadarolo, e venerdì rinnoveranno la collaborazione con la Cooperativa Sociale Cento Fiori con il live painting fino al tramonto.
Orto sinergico presso La Serra Cento FioriIl programma proseguirà alle 17.30 con “Il piccolo grande orto antico”, ovvero la creazione di un orto sinergico speciale, piantando semi autoctoni. L’evento, a cura di Civiltà contadina, è dedicato a grandi e piccini e va a irrobustire la presenza di piante nell’area. L’orto infatti sarà preparato in una delle aree dove non crescono le oltre 300 essenze arboree piantate da La Serra Cento Fiori.
A seguire la presentazione del progetto “Piantiamola – Ragazzi che cambiano il clima”, azione di rilevanza locale finanziata dalla Regione Emilia-Romagna e promosso da associazioni di volontariato e promozione sociale della provincia di Rimini. La presentazione sarà a cura di Stefano Parmeggiani, ingegnere e divulgatore ambientale, il quale partecipa come consulente a nome del progetto Sosteniamoci.
Conclusa la presentazione è previsto un “reading” a cura di Debora Grossi (associazione Tassello Mancante) di brani tratti dal libro “L’uomo che piantava gli alberi” di Jean Giono, letture accompagnate da sonorità a cura di Davide Clementi in arte Tritodetriti. Concluderà il tutto una piccola degustazione di prodotti green e, per chi vuole, la “ligaza” è benvenuta.
«Con questo giornata, realizzata grazie all’apporto de La Bottega Culturale e in particolare a Laura Moretti, e la disponibilità dei due writers Burla e Mozone, ampliamo la rigenerazione di quest’area del parco che gestiamo da alcuni anni – dice Giovanni Benaglia, direttore della Cooperativa Sociale Cento Fiori – Oltre a La Serra Cento Fiori, la cui nascita ha visto la ristrutturazione di due edifici che erano in preda al degrado, ora cerchiamo di rendere l’intero spazio di circa due ettari non solo fruibile al pubblico ma anche attivo attraverso singoli eventi e collaborazioni che inseriamo nel progetto Marecchia Social Fest».
L'articolo Live painting. Orto. Sonorità: street art e natura per un pomeriggio di rigenerazione umana e urbana a La Serra Cento Fiori. proviene da Cento Fiori, Rimini.
Riccione – Trentun bambini tra i 4 e i 12 anni hanno partecipato alla Gara del piccolo pescatore, al Lago Arcobaleno di Riccione. Gara naturalmente si fa per dire, poiché a tutti i partecipanti è andata la medaglia ricordo della Federazione Italiana Laghetti Pesca Sportiva (Filps) e, come dono, canna da pesca e filo offerti dallo sponsor tecnico, la Camor. I 31 bambini, in parte figli d’arte ma in buona parte curiosi di questa disciplina sportiva che hanno appreso della gara dai canali social Instagram, Facebook e Youtube del Lago Arcobaleno Asd, che gestisce la struttura insieme alla Cooperativa Sociale Cento Fiori.
Un pomeriggio di sport, terminato con la merenda a base di piada e nutella, all’insegna del rispetto dell’ambiente. Infatti la pesca è rigorosamente alla carpa “no kill” e, come ulteriore approccio positivo, i ragazzi competevano sul numero dei pesci pescati, che venivano immediatamente rilasciati, e non sul peso delle catture. Le esche invece erano il pellet fatto appositamente per il Lago Arcobaleno su ricetta del biologo che ne segue l’equilibrio biologico.
L'articolo Gara del piccolo pescatore al Lago Arcobaleno di Riccione: 31 premiati dal divertimento con canne da pesca Camor e medaglie ricordo Filps. proviene da Cento Fiori, Rimini.
Il Consorzio Sol.Co Mantova e la Scuola di Prevenzione “José Bleger” sono lieti di invitarvi al webinar:
Istituzioni e pandemia: elementi di
analisi istituzionale e gruppo
operativo
martedì 22 settembre 2020, dalle ore 16.00 alle ore 19.00
L’incontro intende affrontare gli elementi di base dell’analisi istituzionale e, attraverso alcuni cenni storici, riportarci all’attualità di questo dispositivo per leggere gli emergenti sociali nel tempo delicato e complesso che stiamo vivendo.
Durante il webinar interverranno esperti internazionali:
Patrick Boumard, docente di Antropologia dell’Educazione all’Université de la Bretagne Occidentale e presidente dell’Associazione Società Europea di Etnografia dell’Educazione (Saint-Senoux – Francia)
Remi Hess, scrittore e sociologo francese, docente di Scienze dell’Educazione all’Università Paris 8 (Reims – Francia)
Salvatore Inglese, etnopsichiatra e ricercatore in ambito antropologico (Catanzaro – Italia)
Leonardo Montecchi, psichiatra, psicoanalista e direttore della Scuola “José Bleger” (Rimini – Italia)
Osvaldo Saidon, psichiatra, psicoanalista, istituzionalista (Buenos Aires – Argentina)
Thomas Von Salis, neuropsichiatra e psicoanalista, studioso di analisi istituzionale (Zurigo – Svizzera)
Con loro dialogheranno Luciana Bianchera (psicopedagogista, formatrice, docente universitario di Psicologia del lavoro e metodi e tecniche dell’intervento educativo, responsabile scientifica di Solco Mantova), Lorenzo Sartini (psicologo, psicoterapeuta, formatore, supervisore e traduttore per l’Italia del testo “Psicologia de la conducta” di José Bleger), Giorgio Cavicchioli (psicologo, psicoterapeuta, formatore e supervisore) e Simona Di Marco (psichiatra, esperta in etnopsichiatria).
L’evento è gratuito ed è da considerarsi parte delle attività di ricerca sulle tematiche della cura delle istituzioni, dei compiti sociali e comunitari.
E’ possibile iscriversi sul sito di Sol.Co. Mantova al seguente link: https://www.solcomantova.it/iscrizione-webinaristituzioni-e-pandemia-elementi-di-analisi-istituzionale-e-gruppo-operativo/
L’incontro si svolgerà a distanza, in modalità sincrona, su piattaforma ZOOM.
Ad avvenuta iscrizione, riceverete automaticamente il link e i codici identificativi per accedere all’incontro.
Rimini – I suoi muri hanno accolto tante generazioni di alunni delle elementari delle zone rurali che si affacciano sulla Marecchiese, fino a 30 anni fa. Poi hanno accolto chi è fuggito da guerre e persecuzioni in Africa e in Asia, i richiedenti asilo ospitati dalla Cooperativa Sociale Cento Fiori, che gestisce la ex scuola elementare di Spadarolo trasformata in Centro di Prima Accoglienza. Ed ora quelle mura sono diventate anche “tela” per la street art di Mozone e Burla, due conosciuti writers del riminese che dal vissuto della ex scuola hanno preso le mosse per creare due graffiti, uno che guarda alla Valmarecchia e uno al mare. I quali, oltre che opere in sé, sono anche un abbozzo di quello che potrebbe diventare un progetto di riqualificazione urbana che dipana l’arte lungo la Marecchiese, nell’immediata periferia di Rimini.
Due scene scolastiche nate dalle bombolette, due immagini a cavallo tra il passato e il presente, contemporanee dei dettagli e senza tempo nell’essenza. A monte una bambina che sorride al suo bambolotto ascoltando mp3 dalla cuffia. Una scena che, spiega Mozone, l’artista che ha ideato l’iniziativa e che ha coinvolto l’amico Burla e la Cento Fiori, «voleva essere un po’ anni ‘80, con la bambina che indossa sulle spalle una cartellina e non uno zainetto e ha sottobraccio un bambolotto di pezza». Probabilmente Mozone ha sentito le ultime campanelle di inizio e fine lezione in quella scuolina. Anche da questo è partita la sua idea che, dice, «questo graffito potrebbe essere l’inizio di un progetto di più ampio respiro su via Marecchiese di arte urbana. Qualcosa che si dipani tra Spadarolo, Vergiano e i Padulli».
Ispirato alla scuola anche il graffito di Burla, ma anche dal fatto che lì, ora, vivono dei migranti: «ho pensato a un concetto legato alla scambio culturale, tra due ragazzi che in un momento di pausa, seduti su un banco, sfogliano insieme un libro. Penso che i problemi di razzismo nascano dalla mancanza di scambio culturale». E quindi il disegno, una ragazza e un ragazzo che vivono la ricreazione fianco a fianco sul banco.
«I due writers ci hanno proposto il progetto, senza chiederci alcun impegno. Una iniziativa che ci ha lusingato e che siamo stati ben felici di accogliere e favorire in ogni modo. – dice Monica Ciavatta, responsabile del settore Migranti della Cooperativa Sociale Cento Fiori. – Gli stessi ospiti hanno seguito i lavori con grande interesse, qualcuno riconoscendo lo stile in altri disegni in città. Devo dire che dopo gli episodi di intolleranza di un paio di anni fa abbiamo ricevuto molte espressioni d vicinanza, da parte del vicinato e tanti soggetti pubblici e privati. Ma certo quest’ultima di Mozone e di Burla e la più evidente: hanno creato due graffiti bellissimi. Speriamo che il progetto prosegua e cercheremo di sostenerlo come potremo».
L'articolo Street art al Centro di Accoglienza Straordinario: i graffiti di Mozone e Burla impreziosiscono la struttura per migranti della Cooperativa Sociale Cento Fiori. proviene da Cento Fiori, Rimini.
Medicasa, società del Gruppo Air Liquide specializzata nella progettazione e nell’erogazione di servizi di assistenza domiciliare, promuove il webinar "Gestione fiscale e tasse per libero professionisti".
L’evento vede anche la collaborazione di Nurse24.it e del portale Salute.live. Relatore dell’incontro è il socio dello studio Giovanni Benaglia. Obiettivo dell’evento, che è in programma lunedì 13 luglio 2020 dalle ore 17:00 alle ore 18:00 sul portale salute.live, è quello di fornire una guida fiscale e previdenziale semplice e completa per l’infermiere libero professionista che vuole tentate l’avventura della libera professione.
Tra i temi che verranno trattati durante l’evento live ci sarà l’apertura della partita iva e la contestuale scelta del regime fiscale, un approfondimento sul funzionamento del regime forfettario e sul regime previdenziale. Si farà, inoltre, un breve cenno anche alla normativa sugli studi associati.
L’iscrizione, gratuita, si può effettuare al seguente link:
https://www.salute.live/evento/gestione-fiscale-e-tasse-per-liberi-professionistiNotizie ImpreseOggi
Medicasa, società del Gruppo Air Liquide specializzata nella progettazione e nell’erogazione di servizi di assistenza domiciliare, promuove il webinar "Gestione fiscale e tasse per libero professionisti".
L’evento vede anche la collaborazione di Nurse24.it e del portale Salute.live. Relatore dell’incontro è il socio dello studio Giovanni Benaglia. Obiettivo dell’evento, che è in programma lunedì 13 luglio 2020 dalle ore 17:00 alle ore 18:00 sul portale salute.live, è quello di fornire una guida fiscale e previdenziale semplice e completa per l’infermiere libero professionista che vuole tentate l’avventura della libera professione.
Tra i temi che verranno trattati durante l’evento live ci sarà l’apertura della partita iva e la contestuale scelta del regime fiscale, un approfondimento sul funzionamento del regime forfettario e sul regime previdenziale. Si farà, inoltre, un breve cenno anche alla normativa sugli studi associati.
L’iscrizione, gratuita, si può effettuare al seguente link:
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In questa ricetta, più che di un paese, parleremo del frutto di una pianta che ne rappresenta tanti: l’okra. Nota con nomi diversi (okra, bindhi, gombo, lady finger) è molto usata nella cucina asiatica, africana e anche sudamericana.
L’okra si presa a tante preparazioni anche perché contiene una sostanza gelatinosa ottima per addensare le salse. Un sapore apprezzatissimo da tanti (in particolar modo nella cucina del West Africa di cui parleremo) ma molto diverso da quelli a cui i nostri palati occidentali sono abituati – motivo per cui il mio (di palato) ci ha messo un po’ prima di riuscire ad apprezzarlo. La forma assomiglia a quella di un peperoncino verde mentre il sapore è più simile a quello di un asparago ma, appunto, gelatinoso.
L’okra, che piaccia o meno, fa benissimo alla salute: ricca di vitamine e minerali, sembrerebbe essere anche un ottimo antiossidante. Per questo (e anche perché il prezzo dell’okra – che si trova principalmente nei negozi di cibo etnico – è solitamente caro) abbiamo deciso di provare a piantarla nei nostri orti. Sebbene normalmente cresca in ambienti tropicali e subtropicali, le prime foglie sono spuntate anche a San Vito, Spadarolo e Riccione.
La ricetta di oggi prende il nome proprio da questa pianta e, nonostante l’autore della ricetta sia nato in Nigeria, ha sottolineato che dovessi attribuire la provenienza di questo piatto a tutto il West Africa. Infatti, pur potendo assumere colori e forme diverse, è un piatto il cui cuore non riconosce bandiere.
IngredientiPer prima cosa, pulire e cuocere nel forno lo sgombro per circa 30 minuti a 200 gradi.
Nel frattempo, in una padella, far rosolare la cipolle con tutte le spezie. Aggiungere circa mezzo litro d’acqua e portare ad ebollizione. Aggiungere quindi l’okra tagliata a dadini (di modo da dare la possibilità alla sostanza gelatinosa di uscire – se si lascia intera si può mangiare così ma non si ottiene lo stesso effetto addensante). Aggiungere gli spinaci tagliati fini.
Quando il pesce è pronto, aggiungerlo alla zuppa avendo cura di toglierne la pelle e le spine. Mescolare tutto insieme, aggiungere per ultima cosa l’olio di palma e far cuocere per altri 20 minuti.
Alla fine, servire con riso basmati o Bancu (una sorta di polenta ottenuta mescolando acqua e farina di cui forniremo presto la ricetta).
L'articolo Okra Soup proviene da Cento Fiori, Rimini.
«L’emergenza Covid-19 ci ha visti impegnati su più fronti fin dal suo primo insorgere. La prima necessità è stata di proteggere utenti e strutture. Anche prima del cosiddetto “lockdown”. L’equipe della Comunità Terapeutica di Vallecchio, dei due Centri Osservazione e Diagnosi, del Centro Diurno e dei gruppi appartamento hanno optato per varare l’isolamento cautelativo dei pazienti e delle strutture. Niente più visite di parenti, niente più uscite degli utenti, forte attenzione alle modalità di ingresso di persone e merci nelle strutture». Gabriella Maggioli, vicepresidente della Cooperativa Sociale Cento Fiori, ripercorre con la mente gli ultimi mesi di lavoro. Non si è ancora abbassata la guardia contro l’emergenza Codiv-19, a Vallecchio di Montescudo dove c’è la Comunità Terapeutica e il Centro Osservazione e Diagnosi omonimi, come in tutte le strutture di accoglienza – dedicate alle dipendenze patologiche o all’ospitalità dei richiedenti asilo – che gestisce la Cooperativa Sociale Cento Fiori ad Argenta, a Rimini, a Riccione, a Santarcangelo.
Ora si guarda con maggior fiducia al futuro, ma in Cento Fiori non si dimentica il febbraio scorso, quando in equipe si decise di andare in “lockdown”, termine diventato poi di uso comune dapprima a Codogno e poi in tutta Italia. «Abbiamo “chiuso tutto” con due settimane di anticipo – ricorda Cristina Rinaldi, la coordinatrice degli educatori della Comunità Terapeutica e del Centro Osservazione e Diagnosi (Cod) di Vallecchio – Procedure da adottare… Mascherine… Distanza dai ragazzi… Noi educatori abbiamo avuto, come dire, un attimo disorientamento, perché lavoriamo molto con la relazione. Un disorientamento che è durato poco, perché quando senti che è la cosa giusta da fare, la fai».
«Uno degli scogli maggiori è stato il reperimento dei dispositivi di protezione individuale e dei prodotti per la sanificazione, un aspetto non facile sin dai primi giorni dell’epidemia. – dice Cristian Tamagnini, presidente della Cooperativa Sociale Cento Fiori – Il reperimento delle mascherine protettive è stato quello che ci ha visti più impegnati. Oltre al canale di approvvigionamento attivato da Legacoop Romagna, ci siamo attrezzati aprendo due canali diretti con imprese all’estero per acquistare mascherine sia chirurgiche sia di tipo kn95 o ffp2. Per non parlare del gel disinfettante, dei guanti, delle tute protettive: uno sforzo notevole in termini di risorse economiche e di ricerca, che ha visto impegnati con inventiva diversi colleghi nei settori, non solo il management della cooperativa».
Il “lockdown” non è stato un passaggio naturale per gli utenti.«All’inizio gli utenti hanno avuto un po’ di resistenza. Non è durata tantissimo – dice Cristina Rinaldi – poi hanno capito dai giornali che la situazione era grave e che quello che stavamo facendo era per la loro tutela. E ci sono venuti dietro, ci hanno aiutato nelle procedure, nella distanza. Non è stato facile: ci mancavano i gruppi, ci mancavano i colloqui (che non erano facili con la mascherina), niente più incontri di calcetto, non più piscina al lunedì o altre attività esterne come mangiare fuori, fare shopping. Tutte quelle attività che danno energia agli utenti o dove potevano parlare dei loro problemi, eliminate».
Alfredo Pellegrini, educatore presso il Cod L’Airone di Argenta: «abbiamo cercato di dare una maggiore forza alla coesione al gruppo operativo e al gruppo dell’utenza, con un distacco meno marcato rispetto ai ruoli. Abbiamo cercato di inventarci delle attività in questo senso, cose anche semplici, come l’orto nel quale hanno coltivato il prezzemolo, le melanzane, pomodori, zucchine, peperoncini piccanti. Non tutti gli ospiti avevano il pollice verde, ma in diversi hanno dato una mano».
«Abbiamo cercato di integrare quel che a loro è venuto mancare. Sempre stando attenti perché noi educatori potevamo essere dei portatori di virus – dice ancora Cristina Rinaldi – a Vallecchio abbiamo creato attività all’aria aperta: ginnastica, meditazione, cinema. In cucina abbiamo proposto un menù un po’ più ricco di dolci, più elaborato con nuove ricette. Per Pasqua e per il 25 aprile abbiamo fatto un pranzo all’aperto, con grigliata e pizza».
Lo sforzo degli educatori è stato corale.Dice Cristina Rinaldi che «gli educatori sono stati molto disponibili, abbiamo ridotto i turni, le equipe da remoto. Per molti tutto ciò non è stato considerato un dovere ma un mettersi a disposizione, con la consapevolezza del momento e delle esigenze che comportava. Tutti hanno lavorato con amore. Ho sentito un gruppo molto unito. Ci abbiamo messo anche le nostre paure e le ansie. Un minimo di contatto con l’esterno noi educatori lo avevamo, anche solo per fare la spesa e quindi potenzialmente sentivamo il peso di essere ancora più attenti a non diventare noi i portatori del virus. Oppure quando per emergenze dovevamo recarci nelle strutture ospedaliere dopo che è scattata la zona rossa. Ma nonostante tutto, nessuno si è tirato indietro, tutti hanno fatto il loro lavoro con scrupolo e abilità».
«Ha colpito molto gli educatori del settore Migranti l’atteggiamento dei richiedenti asilo, davvero esemplare sotto tutti gli aspetti. Dall’inizio dell’epidemia non hanno atteso alcuna disposizione, hanno scelto di tutelarsi attraverso l’isolamento sociale con molto rigore, in tutte le strutture. – racconta Monica Ciavatta, responsabile area Migranti – E’ da segnalare, inoltre, che gli ospiti dei plessi riccionesi hanno avviato una colletta per donare due tablet ai pazienti dei reparti covid-19 dell’ospedale di Rimini, per permettere ai malati di comunicare con le famiglie. Un gesto che nasce dal cuore e dall’esperienza. Nella lettera che accompagnava i tablet, infatti, i giovani richiedenti asilo hanno scritto, tra le altre cose, “Conosciamo bene il dolore e l’angoscia che si prova quando sei costretto a stare lontano dalla tua famiglia. Quello che a noi ci ha aiutati è stato un telefono con cui poter chiamare casa e così vedere gli occhi delle nostre mamme, i visi dei nostri figli, poter dire loro che stavamo bene e che eravamo ancora vivi. Per questo abbiamo pensato a questi tablet”».
L'articolo Dall’accoglienza alla protezione, con inventiva: nell’emergenza Covid-19 le strutture e i dipendenti della Cento Fiori tra tutela degli ospiti, intrattenimento, impegno e responsabilità. proviene da Cento Fiori, Rimini.
di Laura Buongiorno (Psicologa e psicoterapeuta, Coordinatrice didattica Centro Studi e Ricerche “José Bleger”, Rimini – mail: labuongiorno@gmail.com, cell: 3356914814)
Premessa
L’occasione è stata la chiusura delle scuole per ordine ministeriale da Covid19 che ha interrotto il normale svolgimento delle lezioni con relativo isolamento e distanziamento sociale lasciando tutti per giorni e giorni in attesa incertezza. La crisi pandemica mai vissuta prima nella sua globalizzazione ha sollevato interrogativi sulla possibilità di ripristinare la comunicazione e la relazione interrotte. La parola pazienza evoca astinenza, prudenza, resistenza. Nel corso dei secoli l’Homo sapiens è stato il sovrano della storia. I mo menti critici gli ricordano la sua fragilità. Oggi che è la nostra stessa sopravvivenza a essere minacciata, scopriamo quanto siamo vulnerabili e quanto precario sia l’equilibrio naturale da cui dipendiamo. Osservando il rapporto tra l’uomo e il virus che oggi stiamo affrontando direi che noi siamo palesemente imperfetti. Però, proprio perché così imperfetti, noi abbiamo dei margini di creatività, di previsione. La sfida è sapersi coordinare alla strategia dell’interlocutore, per dialogare e per ribattere: noi Homo sapiens uguali da millenni , dopo aver cambiato il mondo con le tecnologie dell’informazione, ora ci dobbiamo adattare ad un ambiente che noi stessi abbiamo prodotto. Gli e-saltati presentano la svolta digitale come tetrafarmaco per la nuova pe stilenza che solo permette tra una lezione in teledidattica, una riunione in tele lavoro,una pausa di teleaperitivo, di rompere l’isolamento dal social, vera pia ga del morbo, più grave della malattia fisica. Così le ultime resistenze di chi ancora opponeva scetticismo e perplessità ai modelli sociali e culturali imperniati sulla tecnologia sono state travolte dall ormai indiscutibile efficacia di una nuova socialità telematica, di una rinnova ta produttività a distanza. Le esitazioni di chi ancora opponeva il cauto pessimismo della ragione all incondizionato ottimismo della connessione sono spazzate, i dubbi dissipati gli equivoci chiariti.
Intanto dalla fase 2 alla fase3 i tempi corrono veloci e quello che andava be ne l’altro ieri oggi è già superato. La scuola dovrebbe essere un passo avanti invece abbiamo sempre consta tato che rimane indietro diventa obsoleta e inadeguata . Non a caso quando parliamo di istituzione analizziamo l’istituito e consideria mo l’istituente come possibilità di cambiamento. Per questo pensiamo che una scuola debba avere al suo interno un centro di ricerca con docenti ricercatori che attraverso gruppi , come nel caso della Scuola Bleger, lavorino sui vari ambiti (individuale, gruppale, istituzionale, comunitario, globale).
Assistiamo a continui tagli di bilancio a scuola, sanità e cultura. Tutto quello che non produce ricchezza diventa marginale. La scuola italiana non riprende realmente al contrario di altre nazioni europee anche perché le aule delle nostre scuole non rispettano gli spazi necessari per numero di alunni secondo una normativa che non è mai stata applicata neanche in tempi normali per cui oggi la distanza che si richiede sarebbe Impossibile. Per mancanza di strutture adeguate la scuola rimane chiusa.
Secondo Michel Foucault la biopolitica è uno strumento per governare i Paesi. Il rischio biopolitico è che il potere-nazionale, internazionale, medico indu striale, governativo-pretenda di controllare la vita sociale in nome della salute pubblica, adottando misure che mettono in discussione i diritti dei cittadini. Viene richiesto di mantenere la distanza fisica non quella sociale: due concet ti molto diversi perché durante il lockdwn le persone hanno rafforzato le rela azioni sociali attraverso le piattaforme digitali. Insegnare e vivere ai tempi del virus , nei giorni pandemici possiamo fare otti me lezioni in cui la distanza non è più un vuoto da riempire, può essere un valore interessante, un’opportunità. In queste settimane di emergenza sanitaria abbiamo sperimentato la tecnica della didattica a distanza che non ha precedenti come unica forma di didattica attualmente praticabile.
La Scuola Bleger ha avviato le lezioni a distanza. Che cosa si guadagna e che cosa si perde in questo nuovo scenario? È di fatto limitata la condivisione cognitiva ed emotiva degli argomenti della lezione, viene meno quella modalità di interazione con i presenti sui passaggi salienti con l’ausilio del linguaggio del corpo. Ci si domanda quanto queste limitazioni conseguenti all’assenza di uno spa zio-tempo condiviso potranno essere superate con l’esperienza, con l’acqui sezione di nuove strategie cognitive e di efficaci modalità di interazione a di stanza, come pure dallo stesso sviluppo di tecnologie sempre più sofisticate che potranno rendere la lezione quanto mai più vicina a quella in presenza, con uno scenario ad oggi quasi fantascientifico. Questo per dire che ho affrontato la coordinazione del gruppo operativo online senza pregiudizi e anche però senza certezze che sarebbe stato pos sibile. Di seguito presento gli emergenti dei due gruppi coordinati partendo dalla triangolazione “gruppo-compito-coordinatore “ e dal setting (tempo, spazio ruoli, compito) . Nel gruppo operativo online quello che cambia è lo spazio. Il gruppo coordinato online è formato da 8 allievi (4maschi e 4femmine). Un gruppo eterogeneo per età e professioni (psichiatri, sociologi, Psicotera peuti , educatori) . Per non appesantire il lavoro si decide di fare un’ora di informazione e un’ora e mezzo di lavoro di gruppo , al contrario della scuola reale che prevede due informazioni e due gruppi nello stesso pomeriggio.
PRIMO GRUPPO ONLINE 24/4/2020
Secondo anno
Ore 15/16.30
Presenti 8 allievi
Il compito:”parlare dell’informazione e di quello che volete”.
Coordina Laura Buongiorno
Informazione di Leonardo Montecchi su “ L’osservazione”
Il secondo anno di scuola Bleger prevede che gli ultimi due incontri siano sull’osservazione per andare a osservare altri gruppi in altri contesti con relativa supervisione sempre online.
PRIMO EMERGENTE del primo gruppo online
Una persona non riesce ad aprire il microfono e rimane spenta attivo solo il video. Coordinatrice: Sembrerebbe che qualcuno non voglia parlare. Perché? “Mi sono sentito uno dei migranti. Mi hanno mandato da loro per informarli aiutarli. Alla fine ho fumato con loro e sono stato mandato via. Mi sono sentito in colpa”. “Ho sentito la tua impotenza. È una sensazione che ci implica tutti in questa situazione di crisi”. “È venuto a mancare il nostro medico di base: ecco l’impotenza”. “Il senso di impotenza è non poter stare tutti nella stessa stanza”.
SECONDO EMERGENTE (EMERGENTE CENTRALE)
“Siamo stati colonizzati dal virus”. “Il virus cerca di fare morire le relazioni, noi però possiamo reinventarci dopo essere stati bloccati”. “Io a casa non riesco ad attivarmi.” Coordinatrice: sento che c’è una resistenza ad accettare questa nuova situazione. A metà gruppo si apre la comunicazione di chi non riusciva a parlare. “Il silenzio della pandemia è obbligato, il silenzio nel gruppo è volontario.” “Adesso a casa leggo, non sto così male ma ho paura del dopo. Ho ricevuto il kit di pronto soccorso emotivo”.
TERZO EMERGENTE (EMERGENTE FINALE)
“Faccio una grande difficoltà a fare questo gruppo: vi vedo uno alla volta”. “Questo resto a casa io non l’ho vissuto; sono andata sempre a lavorare e poi vado a fare la spesa con la fila per i miei genitori vestita da guerra. Ancora la vestizione e la svestizione sul pianerottolo. La cosa più pesante è la distanza”. “Credo che la cosa sia stata mal condotta. Da quando l’OMS ha ufficializzato la pandemia, questa è diventata la principale notizia dei talkshow”. “Non c’è mai qualcuno che fa autocritica e che ammette di aver sbagliato”. “Io ho un vissuto di rabbia”. “Io mi sento fortunato perché migliaia di persone sono state contagiate e io no”.
COMMENTO
La tecnica nel gruppo online non è solo quella del processo, è anche quella della tecnologia. Da un inizio di difficoltà e di impotenza si passa a una fase di attivazione. Il virus fa morire le relazioni ma ci si può reinventare. Questa modalità è la unica alternativa praticabile per uscire dal l’isolamento.
SECONDO GRUPPO ONLINE
8/maggio 2020
8 allievi presenti (4 maschi e 4 femmine)
Ore 15/16,30
Il compito: “parlare dell’informazione e di quello che volete”
Coordina Laura Buongiorno
Relatore Leonardo Montecchi su “L’osservazione” (ore 14/15)
La relazione è sull’osservazione: come cogliere un emergente. “Lo faremo insieme nella supervisione”. “Gli emergenti necessitano di una interpretazione che non si può dire quale sia quella giusta. Resta il fatto che solo l’interpretazione certa muove il processo del gruppo. Processo a spirale manifesto e latente dall’implicito all’esplicito e viceversa”.
PRIMO EMERGENTE
“Siamo in uno spazio individuale, invece a scuola eravamo in uno spazio comune”. “La sensazione è come se non avessi fatto esperienza”. Coordinatrice: “State dicendo che questo non è un gruppo?”. “L’esperienza non era solo il gruppo: iniziava dal momento in cui partivo al momento in cui tornavo e poi c’era la pausa tra un gruppo e l’altro”. “A me mancano gli aspetti relazionali”. Coordinatrice: “Vi state chiedendo se c’è un piacere da provare qui?”. “Il viaggio era un aspetto piacevole, questa modalità è meglio di niente”.
SECONDO EMERGENTE (EMERGENTE CENTRALE)
“È un film di animazione che prospetta un futuro tragico”. “Questa crisi ci ha costretto a fare altre cose”. “La rabbia è che questo è un surrogato e ha bloccato quello che si stava facendo”.
TERZO EMERGENTE (EMERGENTE FINALE)
“Dalla fantascienza alla Tecnologia… ma ti vorrei dare un abbraccio!”. “Tolstoj dice che non c’è progresso se il progresso non è di tutti”. “Qui è difficile mantenere l’attenzione”. Coordinatrice: “State dicendo che la tecnologia e l’ambiente non possono convivere?”. “L’epistemologia convergente….”. “La tecnologia mi piace ma non può sostituire altro”. Coordinatrice: “Qual è il dentro e il fuori di questa situazione? Come si fa a pensarla? Oggi avete eliminato le interferenze, spento i cellulari, nessuno si è alzato, nessuno mangia… proprio come a scuola…”. “Io sento che anche questo è un gruppo”.
COMMENTO
Questo non è un gruppo che si è arreso, ne’ rassegnato. La protesta è nella manifestazione emotiva di frustrazione e di impotenza. Ma è anche nella responsabilità di avere maturato VINCOLI che alla fine fanno ammettere di essere gruppo: quale gruppo del qui e ora? Alcune considerazioni riguardano il fatto che c’è già una storia del gruppo preso in esame in quanto forse il processo coincide con l’esperienza fatta negli anni passati. Sarebbe interessante confrontarlo con uno che inizia online e termina online. Ogni contesto storico (politico, sociale, economico) deve fare i conti con gli strumenti che ha a disposizione. La resistenza nelle trincee della prima guerra mondiale si è trasformata in una frontale e di sabotaggio nella seconda guerra mondiale. Oggi la catastrofe da coronavirus che stiamo vivendo ancora non ci permette pienamente di capire come affrontarla. Questo non significa che non possa esserci una strategia di resistenza. Infine una rinnovata riflessione sul corpo è imprescindibile. Il gruppo online riapre i giochi, torna a parlare di corpo e di linguaggio per riformulare i termini della discussione, dove anche qui il corpo non possa essere pensato altrimenti che nel suo potere significante. Questo corpo è forma della materia, una forma che si svela e funge nelle trasformazioni che produce. Si propone il tema del corpo per una nuova esigenza di pensiero e per una nuova riflessione.
“No aspiramos a ser excelsos observadores de la realidad, sino professionales capaces de transformarla” (Enrique Pichon Riviere).
Il Libro Bianco sulle droghe, giunto alla undicesima edizione, è un rapporto indipendente sui danni collaterali del Testo Unico sulle droghe promosso da La Società della Ragione insieme a Forum Droghe, Antigone, CGIL, CNCA, Associazione Luca Coscioni, ARCI, LILA e Legacoopsociali con l’adesione di A Buon Diritto, Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione Pubblica CGIL, Gruppo Abele, ITARDD e ITANPUD. Ogni anno viene presentato in occasione del 26 giugno nell’ambito della campagna internazionale di mobilitazione Support! don’t Punish.
Il rapporto oltre a contenere i dati (2019) relativi agli effetti della war on drugs sul sistema penale e penitenziario italiano presenta un focus sulle conseguenze della crisi COVID-19 su carcere e consumi. Inoltre come ogni edizione contiene riflessioni e approfondimenti sul sistema dei servizi, sulla riduzione del danno e sulle prospettive di riforma delle politiche sulle droghe a livello nazionale ed internazionale.
Il 26 giugno, dalle ore 15, si terrà un webinar on line di presentazione del Libro Bianco con iscrizione obbligatoria ma gratuita a questo indirizzo: https://register.gotowebinar.com/register/6062862554304999947
Il Libro Bianco, disponibile in versione cartacea in tutte le librerie e i rivenditori on line, sarà consultabile sul sito di Fuoriluogo, www.fuoriluogo.it/librobianco.
LE DROGHE E LA REPRESSIONE. I dati in pillole La legge sulle droghe è il volano delle politiche repressive e carcerarie. Senza detenuti per art. 73, o senza tossicodipendenti non si avrebbe sovraffollamento nelle carceriDopo 30 anni di applicazione, i devastanti effetti penali del Testo Unico sulle sostanze stupefacenti Jervolino-Vassalli (l’art. 73 in particolare) non possono essere più considerati “effetti collaterali”. La legge sulle droghe continua a essere il principale veicolo di ingresso nel sistema della giustizia italiana e nelle carceri.
La legislazione sulle droghe e l’uso che ne viene fatto sono decisivi nella determinazione dei saldi della repressione penale: la decarcerizzazione passa attraverso la decriminalizzazione delle condotte legate alla circolazione delle sostanze stupefacenti così come le politiche di tolleranza zero e di controllo sociale coattivo si fondano sulla loro criminalizzazione. Basti pensare che in assenza di detenuti per art. 73. o di quelli dichiarati tossicodipendenti, non vi sarebbe il problema del sovraffollamento carcerario, come indicato dalle simulazioni prodotte. Dopo 30 anni di applicazione non possiamo più considerare questi come effetti collaterali della legislazione antidroga, ma come effetti evidentemente voluti.
Il 30% dei detenuti entra in carcere per un articolo di una legge dello Stato13.677 dei 46.201 ingressi in carcere nel 2019 sono stati causati da imputazioni o condanne sulla base dell’art. 73 del Testo unico. Si tratta del 29,60% degli ingressi in carcere: si consolida l’inversione del trend discendente attivo dal 2012 a seguito della sentenza Torreggiani della CEDU e dall’adozione di politiche deflattive della popolazione detenuta.
Il 34,80% dei detenuti è in carcere per la legge sulle droghe.Sugli oltre 60.000 detenuti presenti in carcere al 31 dicembre 2019 ben 14.475 lo erano a causa del solo art. 73 del Testo unico (sostanzialmente per detenzione a fini di spaccio, 23,82%). Altri 5.709 in associazione con l’art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, 9,39%), solo 963 esclusivamente per l’art. 74 (1,58%). Questi ultimi rimangono sostanzialmente stabili. Nel complesso vi è una impercettibile diminuzione dello 0,67%. Il costo della sola carcerazione per droghe è oltre 1 miliardo di euro l’anno.
OLTRE il 36% di chi entra in carcere usa droghe. Si assesta la presenza ai massimi storici dalla Fini-GiovanardiResta ai livelli più alti degli ultimi 15 anni la presenza di detenuti definiti “tossicodipendenti”: sono 16.934, il 27,87% del totale. Questa presenza, che resta maggiore anche rispetto al picco post applicazione della Fini-Giovanardi (27,57% nel 2007), è alimentata dal continuo ingresso in carcere di persone “tossicodipendenti”. Nel 2019 questi sono stati il 36,45% degli ingressi nel circuito penitenziario, in aumento costante e preoccupante da 4 anni.
Le conseguenze sulla Giustizia Oltre 200.000 fascicoli nei tribunali. 1 su 2 porta ad una condanna. Per reati contro la persona o il patrimonio il rapporto è 1 a 10Le persone coinvolte in procedimenti penali pendenti per violazione dell’articolo 73 e 74 sono rispettivamente 175.788 e 42.067. è un dato che, pur in leggera diminuzione, si allinea agli anni bui della Fini-Giovanardi. Da notare come secondo una ricerca che pubblichiamo negli approfondimenti, mentre quasi 1 procedimento su 2 per droghe termina con una condanna, questo rapporto diventa 1 su 10 per i reati contro la persona o il patrimonio.
Le misure alternative Aumentano le misure alternative, che però appaiono ampliare l’area del controlloContinuano ad aumentare le misure alternative, fatto positivo in sé, ma che nasconde anche una tendenza che fa pensare che siano diventate una alternativa alla libertà invece che alla detenzione. Consentendo così di ampliare l’area del controllo.
Le segnalazioni e le sanzioni amministrative per il consumo di droghe illegali Continua ad aumentare la repressione del consumo: su quasi 44.000 segnalazioni (+6,67%) solo 202 richieste di programma terapeutico. 1.312.180 SEGNALAZIONI DAL 1990. quasi un milione per CANNABIS (73,28%)Non si ferma il trend in aumento delle persone segnalate al Prefetto per consumo di sostanze illecite: 41.744 nel 2019. Le segnalazioni sono quasi 44.000, +6,67%. Più di 4000 sono minorenni. Diminuiscono leggermente le sanzioni: sono state 14.322 nel 2019. Queste vengono comminate in un terzo dei casi mentre risulta irrilevante la vocazione “terapeutica” della segnalazione al Prefetto: solo 202 sono state sollecitate a presentare un programma di trattamento socio-sanitario; nel 2007 erano 3.008. La repressione colpisce principalmente persone che usano cannabis (77,95%), seguono a distanza cocaina (15,63%) e eroina (4,62%) e, in maniera irrilevante, le altre sostanze. Dal 1990 1.312.180 persone sono state segnalate per possesso di sostanze stupefacenti ad uso personale; di queste quasi un milione (73,28%) per derivati della cannabis.)
L’attività di repressione delle forze dell’ordine La cannabis è al centro dell’azione delle forze dell’ordine. Con la Fini-Giovanardi è vistosamente calata l’attività di contrasto a cocaina e eroinaDa una analisi retrospettiva dei dati della Direzione Centrale per i Servizi Antidroga si nota come la sostanza al centro dell’azione delle Forze dell’Ordine sia la cannabis. Sia per numero di operazioni, che per sequestri e persone segnalate all’attività giudiziaria. Da notare come nel periodo in cui era vigente la Fini-Giovanardi, che equiparava tutte le sostanze ai fini delle sanzioni, si sia divaricata la forbice fra operazioni con oggetto cannabis (in continuo aumento) e operazioni contro cocaina e eroina. Per quest’ultima il calo del numero delle operazioni continua anche negli ultimi anni.
Le violazioni dell’art. 187 del codice della strada il 96.80% degli incidenti non c’entra nulla con le droghe. Solo lo 0,27% dei conducenti è risultato positivo durante i controlli notturni dei carabinieri durante i week endRestano significativi i dati rispetto alle violazioni dell’art. 187 del Codice della Strada, ovvero guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti. I dati disponibili sono piuttosto disomogenei, per cui di difficile interpretazione, come confermato dalla stessa ISTAT. Nel corso dei controlli nelle notti dei week end da parte dei carabinieri le violazioni accertate rappresentano lo 0,27% dei controllati. Rispetto alle positività accertate a seguito di incidente questa percentuale sale, al 3,20% nel corso dei primi 10 mesi del 2019. Ricordando che spesso la positività al test non è prova di guida in stato alterato (in particolare per la cannabis), possiamo affermare che l’uso di droghe non è certamente la causa principale di incidenti in Italia.
Gli altri contenuti: consumi e carcere durante il lockdown Durante il lockdown i consumatori hanno dimostrato capacità di autoregolazione e il mercato illegale flessibilità e resilienza. I servizi hanno saputo adattarsi solo a macchia di leopardo alla nuova situazioneQuest’anno il Libro Bianco pone grande attenzione alla situazione dei consumi di sostanze e delle carceri durante la crisi Covid-19. In particolare rispetto ai consumi si presentano in anteprima i primi risultati di 3 ricerche sui consumi di droghe durante il lockdown che hanno messo in luce una significativa capacità di controllo dei consumatori, che hanno adottato strategie di fronteggiamento dell’emergenza, di adeguamento alle mutate condizioni di vita e di consumo, di minimizzazione dei rischi. Si è inoltre verificata la flessibilità e resilienza del mercato illegale delle droghe, che è rimasto vivace e mai si è interrotto. Mentre i Servizi pubblici hanno saputo, anche se ancora una volta a macchia di leopardo, adeguarsi alla situazione adattando le terapie farmacologiche, gli strumenti di Riduzione del Danno, di consulenza e informazione online sulle sostanze.
Nel volume si trovano quindi spunti e riflessioni rispetto alla riforma delle politiche sulle droghe in ambito nazionale ed internazionale, e approfondimenti specifici sul carcere, sui reati minori sulle droghe e sulla riforma dei servizi in un’ottica di decriminalizzazione dell’uso delle sostanze.
(Comunicato stampa di lancio dell’ediizione 2020 del rapporto “Droghe e carcere al tempo del coronavirus. Undicesimo libro bianco sulle droghe”.)
L'articolo I dati dal rapporto “Droghe e carcere al tempo del Coronavirus. Undicesimo libro bianco sulle droghe” Gli effetti della legge antidroga Edizione 2020. proviene da Cento Fiori, Rimini.
“Naghma, musiche dall’Afghanistan” apre il calendario degli eventi estivi “Santarcangelo, respira la bellezza” in programma venerdì 26 giugno alle 21, avviando così la stagione allo Sferisterio organizzata dal Comune clementino. Il giorno dopo , nello stesso luogo, il secondo concerto in programma, “Musiche per l’Europa”. Il concerto Naghma (https://www.facebook.com/events/547857262788424/) – promosso da Siproimi (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati), Unione di Comuni Valmarecchia e dalle cooperative sociali Cento Fiori e Il Millepiedi – è gratuito ma è necessaria la prenotazione (338/5009342 – 339/3721538 – sprar2@cooperativailmillepiedi.org).
Dedicato alla Giornata mondiale del Rifugiato, “Naghma” è un concerto che riporta alle sonorità tipiche dell’Afghanistan. Terra ormai martoriata da drammatiche vicende, fin dall’antichità è stata crocevia di culture e vanta un’antica e ricchissima tradizione musicale. Una storia che verrà raccontata da Peppe Frana tramite il Robab, liuto a plettro nativo dell’Afghanistan e considerato antenato del sarod indiano e da Ciro Montanari con il Tabla, percussione principale della musica hinduista e normalmente utilizzata anche in Afghanistan.
“Musiche per l’Europa”, è invece il titolo del concerto dedicato alla giornata europea della musica in programma il giorno seguente, sabato 27 giugno alle ore 21. Simone Zanchini (fisarmonica), Andrea Alessi (contrabbasso), Stefano Bedetti (sax) e Marco Frattini (batteria) si esibiranno in una performance eclettica, un percorso musicale ricco di jazz e improvvisazione che riprenderà tradizioni, suoni e atmosfere da ogni angolo dell’Europa. Protagonisti della scena internazionale, i quattro musicisti creeranno un dialogo e uno scambio creativo e dinamico all’insegna dello spirito da cui nasce la Festa della Musica Europea: la musica come linguaggio comune e universale, che unisce sotto un’unica bandiera le tante lingue degli stati europei. L’ingresso al concerto è gratuito ma è consigliato prenotare telefonando al numero 0541/356.284.
«Dopo un periodo come quello appena trascorso – dicono l’assessore al Turismo Emanuele Zangoli e l’assessore ai Servizi sociali e welfare Danilo Rinaldi – dove preservare i confini, mantenere le distanze ed evitare contatti è stata la principale forma di tutela per la salute di tutti, oggi inauguriamo la stagione degli eventi tornando a forme di connessioni e contaminazioni positive: quelle che nascono grazie alla musica. Un linguaggio universale, capace di avvicinare e unire, raccontare tradizioni e storie dall’Europa e da tutto il mondo, abbattendo qualsiasi confine geografico».
L'articolo Naghma, musica senza confini allo Sferisterio di Santarcangelo grazie alla protezione dei richiedenti asilo della Valmarecchia proviene da Cento Fiori, Rimini.
Gambia e Senegal sono divisi da un confine di lingue veicolari differenti, l’inglese per la prima e il francese per il secondo. Ma le tradizioni culinarie rimangono le stesse. Ai begnè e al caakiri si aggiunge il pane, mburu, che si trova fresco a forma di baguette ogni mattina, più buono ancora di quello che potreste trovare a Parigi.
Questa è una versione di pane dolce, con aggiunta di latte in polvere e burro.
IngredientiMischiare la farina con un pizzico di sale. Aggiungere il lievito sbriciolandolo nell’impasto. Aggiungere le uova e mischiare con le mani tutto insieme. Aggiungere anche il burro sciolto, il latte in polvere e lo zucchero, ed amalgamare fino ad ottenere un composto uniforme.
Lasciare lievitare l’intero impasto per almeno due ore. Finito questo tempo, dare all’impasto la forma preferita e lasciare riposare un’altra ora.
Infornare a 180° per circa 30 minuti.
L'articolo Mburu sucar, la ndiki (colazione) in Senegal proviene da Cento Fiori, Rimini.
Siamo in Africa Occidentale, affacciati direttamente sull’Oceano Atlantico. Qui c’è il Senegal, paese della Teranga. La Teranga è ciò che unisce tutta la popolazione, da quella dei mercati vivaci di Dakar a quella delle pianure verdi e apparentemente silenziose della Casamance.
Teranga in wolof, lingua ufficiale del paese, significa accoglienza. Accoglienza significa lasciare le porte sempre aperte, che non si sa mai che qualcuno abbia bisogno di un tetto per la notte. Significa anche che quando è ora di mangiare, non importa quanto spazio e quanto cibo ci sia, tutti i presenti sono invitati. Accoglienza significa che nessuno si abbuffa: ognuno rinuncia a qualcosa per l’altro, ma, alla fine del pasto, tutti condividono la stessa gioia.
Significa anche che ad ogni Dieuredieuf, Grazie, si risponde Nio Far: Noi siamo Insieme. Toubab, Neri, Blu o Verdi non importa. Non mi devi ringraziare perché noi qui, Siamo Insieme.
Tra le tante ricette che il Senegal offre, la più facile da cucinare è sicuramente la yassa. La yassa ha come caratteristica principale la marinatura delle cipolle e può essere preparata con pollo, pesce, carne di manzo o montone. La versione che più spesso viene preparata nelle nostre strutture e che quindi vi proponiamo prevede il pomodoro concentrato, ma nella versione originale non viene aggiunto.
Ricordatevi di servirla in un unico piatto: è da mangiare obbligatoriamente insieme.
IngredientiTagliate anzitutto la carne a pezzi grandi e metteteli a marinare per mezz’ora in una terrina con un’emulsione preparata con il succo di limone, 2 cucchiai d’olio, il peperoncino pestato, le cipolle sbucciate e affettate, sale e pepe.
Trascorso il tempo previsto, togliete la carne dalla terrina, lasciatela sgocciolare e fatela quindi dorare in una casseruola in cui avrete versato un po’ d’olio.
Unitevi poi la marinata, un po’ d’acqua, il pomodoro concentrato e lasciate cuocere sino a quando la carne risulti cotta e la salsa consistente.
Nel frattempo lessate a parte il riso nell’acqua salata. Portate infine in tavola, servendo la carne su di un piatto da portata in cui avrete disposto il riso.
L'articolo Yassa, Senegal proviene da Cento Fiori, Rimini.
di Francesca Anderlini
Premessa teorica
Dalle radici della terapia familiare al Gruppo Multifamigliare
Il processo che ha portato allo sviluppo di una teoria della malattia psichica dell’individuo come correlata al contesto di vita, parte da lontano e forse anche da prima del momento che individuiamo qui come uno dei fatti che ne sono stati all’origine.
Ci riferiamo ai medici Lasègue e Falret che, già nel 1877, nella descrizione della sindrome della “folie a deux”, osservavano che “Il problema non è semplicemente quello di esaminare l’influenza esercitata dalla persona malata su quella sana, ma anche quello inverso della persona ragionevole su quella delirante e di dimostrare come, tramite una serie di compromessi reciproci, le differenze vengono eliminate”(Loriedo, 1978).
Bleuler, nel suo trattato sulla schizofrenia del 1911, descrive alcune caratteristiche notate nella famiglia della persona schizofrenica, ma si può far derivare da Freud, con la formulazione del Complesso di Edipo, il primo esempio di relazione triangolare patogena. (Loriedo, 1978)
Negli anni 40 cominciò sempre più a comprendersi la relazione tra il sintomo che il soggetto presenta e la struttura famigliare della quale egli è membro.
La terapia familiare nasce nella cultura statunitense degli anni Cinquanta e si sviluppa in due diverse direzioni: una sistemica propria della Scuola di Palo Alto e una più psicodinamica. Nel contempo altri autori entravano in sinergia con questo nuovo paradigma che si stava sviluppando in riferimento al sintomo come espressione di una patologia del gruppo di appartenenza.
Nel 1942, con la partecipazione di alcuni psicoanalisti europei, nel solco tracciato ad opera dei gruppi di studio “locali” di Buenos Aires, nasce l’Associazione Psicoanalitica Argentina (APA).
Tra i fondatori Enrique Pichon-Rivière (Ginevra, 25 giugno 1907 – Buenos Aires, 16 luglio 1977), psichiatra e psicoanalista. Il suo pensiero ed il suo lavoro scientifico sono stati caratterizzati dallo sforzo teso alla ridefinizione della psicoanalisi come una psicologia sociale (analitica).
Ideò il metodo del Gruppo Operativo che definì come “[…] Un insieme di persone, legate per costanti di tempo e di spazio ed articolate su una mutua rappresentazione interna, che si propone esplicitamente o implicitamente un compito che costituisce il suo scopo” e nel quale risultano fondamentali i concetti di portavoce ed emergente. Il soggetto è un portavoce, in questo caso emergente, del proprio gruppo familiare che, a sua volta, è da intendersi come portavoce del gruppo socio-culturale più ampio di cui è parte.” (Lorenzo Sartini, “Enrique Pichon-Rivière”).
Il paziente non viene più visto semplicemente come il malato, bensì come elemento emergente della situazione gruppale e sociale che lo produce. È attraverso la famiglia, gruppo sociale primario che fa da ponte tra l’individuo e la società, che il soggetto impara a stare in relazione con gli altri e apprende una peculiare modalità per affrontare il mondo che lo circonda.
Un allievo di Pichon-Rivière è Josè Bleger, anch’egli psichiatra e psicoanalista,
A proposito della relazione tra individuo e contesto famigliare egli scrive:
“Quando l’individuo viene al mondo vi è un sincretismo, una mancanza di discriminazione fra Io e Non Io; non esiste ancora né mondo esterno né mondo interno, ma un tutto indiscriminato indiviso e solo gradualmente si differenzierà, allora si instaurerà nel soggetto un mondo interno che si differenzierà da quello esterno. (All’inizio dunque non ci sono né proiezione né introiezione). Ciò vuol dire che il processo che si sviluppa nella dinamica famigliare non è di progressiva connessione tra i membri, ma di graduale distacco ed individuazione.
La funzione istituzionale della famiglia è quella di servire da serbatoio, controllo e protezione per la parte più immatura, primitiva o narcisistica della personalità, ma al tempo stesso, grazie all’instaurarsi di una buona relazione simbiotica all’interno del gruppo famigliare (relazione simbiotica normale e necessaria) quest’ultimo, nella sua dinamica normale, permette che si sviluppino le parti più adatte e mature della personalità nell’extragruppo. Quanto al cambiamento esso deriva da cause connesse non con l’extragruppo, ma con la natura stessa-con la dinamica del fenomeno psicologico, riguarda cioè la natura intima o intrinseca delle dinamiche del gruppo famigliare.
Le situazioni di cambiamento possono provocare tre tipi di ansia: confusionale, paranoide e depressiva.” (Josè Bleger, “Psicoigiene e Psicologia istituzionale”, pag. 123).
Se il bambino viene nutrito e sufficientemente rassicurato risolverà la fase di simbiosi, si differenzierà, potrà sopportare l’angoscia di perdita, sarà in grado di sopportare la frustrazione, avrà sperimentato che la madre ritorna e che il mondo non gli è ostile, non sarà fuso e confuso con lei.
Il Gruppo Multifamigliare
La storia dei Gruppi Multifamiliari inizia a Buenos Aires in Argentina, negli anni 60, in un reparto dell’Ospedale Psichiatrico “Borda”. Fondatori dei Gruppi Multifamiliari in Argentina, Jorge Garcia Badaracco psichiatra e psicoanalista, già presidente dell’APA, Eduardo Mandelbaum Specializzato nella Scuola di Psichiatria Dinamica, in Gruppi operativi, diretta da Pichon-Rivière, di cui è stato allievo e collega.
“In Italia la terapia di gruppo multifamigliare costituisce una forma di intervento clinico che si inserisce nell’ambito dei grandi cambiamenti avvenuti a seguito dell’entrata in vigore della legge 180 (più comunemente conosciuta come “legge Basaglia”)” (da Laura Dominijanni, I gruppi multifamiliari: cosa sono e come funzionano). Da quel momento, con la chiusura dei manicomi ed il rientro dei “pazienti” nelle famiglie, la cura è stata decentrata nel territorio e le famiglie sono state coinvolte nel trattamento. E’ interessante notare quanto sia complesso, ricco e articolato il processo che, da istituente diventa istituito, ripercorrendo il percorso che, dalle prime osservazioni sull’origine relazionale del sintomo, si muove verso la costruzione di modelli teorici e pratici di intervento che interessanole famiglie e i gruppi. Tale percorso si è sviluppato in sincronia con una molteplicità di cambiamenti a livello socio-politico, economico, culturale che hanno comportato l’emanazione di una serie di leggi (la legge sull’aborto, l’abolizione delle classi differenziali, la riforma del diritto di famiglia, la legge sul divorzio, la riforma sanitaria, la legge Basaglia) e istituzionalizzato il lavoro di équipe e l’ingresso della famiglia nel processo di cura.
In Italia la terapia multifamigliare si è diffusa ad opera di diverse correnti di pensiero e, per ciò che concerne la Psicologia Sociale Analitica ha rappresentato la naturale applicazione della concezione operativa di gruppo ai gruppi multifamiliari.
Questi Gruppi, nati per il trattamento di pazienti psicotici, sono poi stati utilizzati con pazienti border-line, con disturbi narcisistici della personalità e infine, adesso, con i famigliari di pazienti con disturbi alimentari e nel nostro caso con pazienti tossicodipendenti.
Un elemento innovativo che caratterizza questo tipo di trattamento è l’alleanza terapeutica interfamiliare.
Vale a dire che avvengono processi di identificazione che permettono l’uscita da schemi rigidi di comportamento. Già nel setting unifamiliare la famiglia, stimolata a confrontarsi con il mondo esterno rappresentato dal terapeuta e dal contesto in cui egli opera, ha modo di uscire dal proprio microcosmo, di riflettere sul proprio modo di comunicare, di confrontarsi e di sperimentare altre strade.
Ma allorché più famiglie si trovano insieme, le emozioni e le parole dell’uno trovano eco nell’altro che sembra vivere lo stesso problema e averlo risolto in modo diverso, gli integranti possono confrontarsi sulle somiglianze e sulle differenze ed il processo terapeutico intensificarsi nel dipanarsi di transfert alla pari ed intergenerazionali. Identificarsi e comprendere il figlio o il genitore dell’altro può creare le basi per dissolvere gli stereotipi che si manifestano nel pensiero e nei comportamenti, interrompere i copioni e le ridondanze e liberare energia per nuovi pensieri e progetti.
L’esperienza emozionale profonda che una famiglia può vivere in una situazione di contenimento e di appoggio che le fornisce il gruppo più ampio, aiuta a mobilitare e manifestare quei contenuti che opprimono, intimoriscono ed ostacolano il cambiamento.
Secondo Pichon-Rivière: “Quando più persone si riuniscono in un gruppo, ciascun membro proietta i propri oggetti fantastici inconsci sui diversi membri del gruppo; mettendosi in relazione con essi secondo quelle proiezioni che si evidenziano nel processo di assegnazione e assunzione dei ruoli. La struttura di interazione gruppale non solo permette, ma stimola l’emergere di fantasie inconsce. […] il ruolo è lo strumento di incontro, che determinerà alcune forme di interazione e ne escluderà altre.
Incontriamo dunque nel campo gruppale transfert multipli. Le fantasie di transfert emergono sia in relazione agli integranti del gruppo sia in relazione al compito e al contesto nel quale si sviluppa l’operazione di gruppo. […] Gli elementi del campo gruppale possono essere organizzati. L’azione gruppale, interazione nelle sue differenti modalità, può essere regolata al fine di renderla efficace, di potenziarla in vista dei suoi oggetti; in ciò consiste l’operazione.” (Pichon-Rivière, “Il processo gruppale”, pagg. 106 e seg.)
Quale modello di famiglia hanno in testa gli operatori: chi convocare?
Le nuove Famiglie
E’ chiaro che i progressi della scienza, della tecnologia, del lavoro femminile, i cambiamenti dei costumi e l’affacciarsi di nuovi diritti nell’ambito sociale e famigliare tutto ciò ha ampiamente influenzato e cambiato i costumi e smantellato l’identificazione di modelli famigliari univoci a cui riferirsi.
Ed è per questo che assistiamo oggi alla costruzione di svariate tipologie di famiglia: arcobaleno, adottive, omogenitoriali, monogenitoriali, allargate, famiglie divise, famiglie ricostituite Tali nuove tipologie costringono a percorsi istituenti sempre in divenire.
Le nuove famiglie non sempre hanno una collocazione riconosciuta giuridicamente ed i rapporti al loro interno non seguono sentieri già percorsi dai padri: prendiamo ad esempio le famiglie divorziate in cui i genitori si sono riaccompagnati o risposati con altri partner, forse è nato un altro figlio, forse due oltre a quello/i che ciascuno aveva avuto dal precedente matrimonio o convivenza. In queste famiglie, il sintomo che presenta l’ultimo nato divenuto adolescente, di chi è portavoce? In che rapporto sono i nuovi ed i vecchi nuclei tra loro?
Estrapolando alcuni stralci molto significativi dall’articolo di Alejandro Scherzer, “Dalla famiglia edipica alla famiglia gruppale”, rispetto a queste nuove famiglie possiamo chiederci:
“Chi educa? Chi decide? Chi sceglie la scuola?
E l’attenzione alla salute? Chi la paga? Chi supporta? Chi si prende cura?
Che cosa succede con il patrimonio: con i beni materiali, con il denaro per la sopravvivenze di ciascun gruppo familiare?
C’è un fondo comune con il denaro per i figli dell’altro coniuge?
Chi decide i luoghi, chi proibisce un’uscita, il condividere (o no) uno spazio della casa?
Come si coinvolge ciascuno nel rapporto con gli altri?
In queste nuove famiglie si generano attivazioni delle paure basiche.
Le paure familiari si intrecciano con le paure sociali.
Angosce confusionali per il fatto di rimanere come “con la testa tra le nuvole” con pochi appoggi di fronte ai cambiamenti, alle modifiche dell’identità.
Paura che possa accadere qualcosa ai figli.
Angosce persecutorie per l’avvento dello sconosciuto di fronte ai cambiamenti nelle forme di organizzazione e funzionamento delle famiglie.
Angosce di perdita degli affetti familiari, mancanza di protezione, impotenza economica, segregazione sociale per il fatto di non avere un’appartenenza familiare tradizionale, o per la ‘macchia’ della separazione.
Paura della sofferenza per le perdite delle organizzazioni conosciute.
Timori di ‘sprecare’ il tempo e lo sforzo che porta a costruire una nuova organizzazione familiare.”
Come tutto questo influisce sui nostri modelli? Non abbiamo risposte predefinite. Come un figlio non biologico, il cui padre vive in un altro nucleo famigliare, può chiamare la figura maschile del nucleo in cui vive, che svolge la funzione paterna rispetto ai figli biologici coabitanti ma non è il suo padre biologico? Come trattare le famiglie allargate? Chi chiamare in psicoterapia?
Il nostro lavoro con il Gruppo Multifamigliare
A questo punto, dopo aver esplicitato per grandi linee il substrato teorico, passiamo ad esaminare la maniera in cui tutto questo si è tradotto in prassi operativa.
Fase istituente
Da tempo, mesi, sulla lavagna della stanza delle riunioni c’era una lista di progetti attivati e da attivare, fra quelli da attivare un’idea in fieri per cui gli operatori avevano già attinto a corsi formativi e riguardava l’istituzione di un Gruppo di Terapia Multifamigliare.
Nella primavera 2018 la Scuola J. Bleger di Rimini diretta dal Dr. Leonardo Montecchi, ha organizzato un seminario su questo argomento.
Alcuni operatori decidono di partecipare.
Possiamo interpretare questo come un emergente della motivazione dell’intera équipe ad aprire questo percorso di trattamento.
Si è deciso pertanto di organizzare un corso di Formazione che si è svolto in quattro incontri a cadenza mensile, a partire dal mese di settembre 2018, dal titolo: “Processo terapeutico e gruppi multifamiliari. La ricchezza dei transfert multipli”.
Si è anche previsto di dare inizio agli incontri di terapia multifamigliare a partire dal mese di gennaio 2019 e di organizzare un’assemblea degli utenti nel mese di novembre 2018 al fine di presentare il lavoro terapeutico e di ascoltare i vissuti e le idee degli integranti.
Era ottobre e l’équipe intanto individuava, di lì ad un mese, le famiglie a cui proporre tale percorso.
Le stesse, qualora avessero accettato la proposta, venivano invitate all’assemblea.
Sono stati individuati 18 nuclei famigliari per complessivi 58 potenziali integranti, rispettando il criterio della disomogeneità che favorisce il confronto con la differenza ed il superamento di stereotipi.
Erano comprese nell’elenco situazioni di cronicità o utenti presi in carico recentemente, nuclei che avevano appena concluso la fase di valutazione o già in trattamento psicoterapico con interventi individuali, famigliari, di gruppo, casi di doppia diagnosi, famiglie di diverso ceto sociale e culturale.
Fra quelle che non hanno aderito (12 famiglie) in due di esse i figli sono entrati in Comunità terapeutica, nelle altre, uno è deceduto, uno ha abbandonato il programma, per una coppia il motivo è stato la nascita di una bambina, per un totale di 5 nuclei.
Hanno invece deciso di partecipare 6 famiglie (14 integranti), di cui 3 (8 integranti) costantemente presenti per tutta la durata del percorso
Il Gruppo Multifamigliare che si è costituito era formato da: una famiglia, padre madre e figlio, i cui genitori sono separati da anni, tre famiglie composte da madre e figli il cui padre è deceduto, una coppia di fratelli (la madre si presenterà un’unica volta) che lascerà presto il gruppo, una coppia di fratelli che entra dopo la pausa estiva.
Da subito si nota la mancanza dei padri.
Inquadramento
Si è stabilito che il gruppo avrebbe avuto inizio a gennaio con durata annuale ed interruzione nei mesi estivi (luglio e agosto) e nelle feste pasquali e natalizie. Le sedute si sarebbero svolte a cadenza quindicinale, il giovedì dalle 15 alle 16,30.
Lo spazio individuato è la stanza più grande del servizio dove si effettuano le riunioni di équipe degli operatori ed i gruppi di psicoterapia rivolti agli utenti ed ai famigliari.
Il compito del gruppo, enunciato dai coordinatori era “parlate di come stare meglio e di qualsiasi cosa volete” Abbiamo scelto un compito dove già fosse contenuta un’idea di cambiamento che, nel nostro pensiero, significa superamento degli stereotipi, delle resistenze, per desiderare e creare progetti nuovi che scaturiscano dall’Ecro gruppale (citando Pichon-Rivière: “il compito deve essere centrato su come raggiungere una maggiore salute mentale in una comunità specifica situata nel tempo e nello spazio […] ciò che si vuole ottenere è un adattamento attivo alla realtà dove il soggetto, nella misura in cui cambia, cambia la società che, a sua volta agisce su di lui, in un intergioco dialettico a forma di spirale, dove, nella misura in cui si rialimenta ad ogni passaggio, rialimenta anche la società a cui appartiene.” (Enrique Pichon-Rivière, “Il processo gruppale”)
Il ruolo di coordinazione viene svolto da una Psicologa di ruolo e una Psicologa a contratto; il ruolo di osservazione da un’Infermiera di ruolo e uno Psicologo a contratto.
I coordinatori segnalano ed interpretano gli ostacoli affettivi e cognitivi che il gruppo trova nel lavoro sul compito e gli osservatori annotano ciò che avviene nel processo gruppale, una di essi legge gli emergenti a venti minuti dalla fine.
Il coordinatore non conduce il gruppo, l’organizzazione della comunicazione non è stellare e centripeta, il depositario del sapere è il gruppo stesso con le sue differenze.
Al termine di ogni seduta gli operatori hanno deciso di riunirsi per discutere sulle relazioni gruppali e sul loro controtransfert.
Considerazioni
L’individuazione dei ruoli di Coordinatore ed Osservatore (discussa sia nella riunione di équipe che in un sottogruppo di lavoro appositamente costituito) appare caratterizzata da complessità istituzionali aventi valenza di istituente rispetto all’istituzione sanitaria. L’Istituzione è organizzata secondo un modello verticale-gerarchico, il rapporto di lavoro regolamentato attraverso contrattazioni che distinguono il ruolo sanitario medico, il ruolo sanitario non medico, il comparto. Ma anche a livello orizzontale operatori aventi la stessa qualifica sono distinti in personale di ruolo e personale con contratto libero professionale e rapporto di lavoro a termine, con diverso trattamento economico.
A fronte di ciò il personale impegnato nel Servizio, indipendentemente dalla qualifica e dal contratto lavorativo, è, per la maggior parte, formato secondo il modello della Concezione Operativa. Ciò prevede che, all’interno dei gruppi operativi terapeutici, le stesse funzioni possano essere svolte indipendentemente dalla qualifica professionale.
Ciò che l’Istituzione separa, il modello della Concezione Operativa sovverte e riunifica, riconoscendo un valore professionale a prescindere dal ruolo istituzionale e dall’aspetto economico, ma tale ambivalenza passa anche nel corpo dell’équipe e degli operatori stessi, nell’utopia, che trova ostacoli nel modello socio-economico corrente, che al valore lavoro corrisponda anche un valore di riconoscimento culturale, professionale ed economico.
Presentazione del lavoro
Metodologia
Si utilizza la Concezione Operativa come strumento di analisi del processo gruppale seguendo i vettori di Pichon Riviere: appartenenza, pertinenza, affiliazione, cooperazione, telé, comunicazione.
Si analizzano la prima seduta, la seduta centrale e quella finale, ciascuna in base agli emergenti iniziale intermedio e gruppale.
Prima seduta (10 gennaio 2019)
Come ad ogni “prima” si respira tra tutti gli operatori del Servizio un clima frammisto di ansia e eccitazione per la nuova istituzione dei Gruppi di Terapia Multifamigliare.
Si decide di dare avvio al gruppo con le note di una canzone che recita:
“tutto quello che mi serve adesso è ritrovarmi con me stesso perché spesso con me stesso ritrovarmi non mi va. Certo non si può restare tutto il giorno a disegnare una casetta con il sole quando il sole se ne va…non sarò mai abbastanza cinico da smettere di credere che il mondo possa essere migliore di com’è. Ma non sarò neanche tanto stupido da credere che il mondo possa crescere se non parto da me…” (Brunori Sas- Costume da torero)
Qualcuno arriva in ritardo segnalando la difficoltà ad entrare nel compito.
Siamo nella fase di pre-compito, caratterizzata dall’assenza di discriminazione e da emozioni, pensieri che si frappongono al cambiamento (paure di base di perdita e attacco, paura del cambiamento, insicurezza, fantasie di base di malattia, trattamento, cura)
Ogni integrante arriva portando il proprio schema di riferimento, il proprio gruppo interno costruito a partire dalla situazione triangolare di base. Dice E. Pichon-Rivière: “Lo schema di riferimento è l’insieme di conoscenza, di attitudini che ciascuno di noi ha nella sua mente e con le quali lavora in relazione con il mondo e con se stesso” (Applicazioni della Psicoterapia di gruppo, 1957, e in Tecnica dei gruppi operativi, 1960). Partiamo dalla base della “preesistenza in ciascuno di noi di uno schema di riferimento (insieme di esperienze, conoscenze e affetti con i quali l’individuo pensa e agisce)”. Questo schema di riferimento è ciò che permette al soggetto di possedere modelli di sensibilità, modi di pensare, sentire e fare nel mondo e che segnano il suo corpo in una certa maniera. È la sua tendenza alla ripetizione che offrirà resistenza al nuovo, agli stimoli (idee o esperienze) che tendono a destrutturarlo.
Pichon-Rivière sostiene che così come abbiamo necessità di uno schema di riferimento, un sistema di idee che guidi la nostra azione nel mondo, abbiamo necessità che questo sistema di idee, questo apparato per pensare, operi anche come un sistema aperto che permetta la sua modificazione.
Viene enunciato il compito: “parlate di come stare meglio e di qualsiasi cosa volete”
Il processo gruppale inizia toccando da subito il tema della risoluzione della simbiosi nella relazione tra genitori e figli, ma ciò che è contenuto nel primo emergente “Io sto meglio da quando ho smesso di identificarmi con la sofferenza di mio figlio” viene presto contraddetto da quanto affermato da un altro integrante: “mia madre è un caposaldo del mio benessere” affermazione che evidenzia come il rapporto di dipendenza ed indiscriminazione sia lungi dall’essere risolto. La separazione, l’individuazione sembrano essere solo auspicate, desiderate. L’emergente sta ad indicare che il gruppo, appena costituitosi, vive una fase di indiscriminazione ed ambivalenza di cui non è consapevole.
Dopo circa mezz’ora entrano 2 integranti: madre e figlia. Il ritardo rappresenta simbolicamente la difficoltà ad entrare nel compito, la resistenza caratteristica in particolare di questa fase di pre-compito.
Nella fase centrale il gruppo sembra riconoscere un bisogno di aiuto, sembra sentirsi la necessità di essere sostenuti dall’istituzione che cura e dal gruppo stesso, come si evidenzia nel secondo emergente: “Ho bisogno di parlare con qualcuno che mi possa supportare…” Ma per poter dare concretezza a questo intento occorrerà creare dei vincoli che costituiranno la base del confronto e della possibilità di cambiamento.
Una coppia di fratelli esce mezz’ora prima del termine.
La cornice del setting, con una durata definita, ci permette di interpretare questo comportamento come una resistenza del gruppo a stare nel hic et nunc e nella relazione con gli altri. Sembra manifestarsi un desiderio di fuggire da una possibile ansia persecutoria e dolorosa provocata dalla sensazione di dover cambiare il proprio schema di riferimento sul quale si è costruita la propria vita, cucendo assieme idee e sentimenti giorno dopo giorno.
Un integrante, identificatosi nella coppia di fratelli, paragonandoli ai suoi figli non altrettanto uniti, esprime il dispiacere per la loro uscita dal gruppo ed in questo modo, forse, ribadisce la motivazione al compito ed un primo desiderio di appartenenza. Vediamo, già da queste prime note, come ogni movimento del gruppo sia connotato da ambivalenza.
La prima seduta si conclude con la constatazione dell’esistenza di un legame di dipendenza nel rapporto genitori-figli di cui il figlio, con il sintomo della tossicodipendenza, si fa portavoce. Una madre annuncia: “Non sono sufficientemente forte per lasciarlo andare (nei giardini di notte) da solo” Questa frase viene restituita al gruppo come terzo emergente del processo gruppale: così come non è differenziato il vincolo tra genitori e figli, anche il gruppo sta attraversando una fase di indiscriminazione e ambivalenza.
Seconda seduta 21 marzo 2019
Sono trascorsi tre mesi dal primo incontro, il gruppo ha cominciato a sviluppare sentimenti di appartenenza, gli integranti si attendono ogni volta, provano la gioia, la rassicurazione di ritrovarsi, si sono cominciati a creare dei vincoli, ma in questa seduta mancano tre famiglie. L’assenza, indice della resistenza e dell’ambivalenza presente anche nel desiderio di appartenere, provoca sentimenti di rabbia e perdita non sempre chiaramente manifestati. I presenti si chiedono il perché dell’assenza degli altri, ricercano una giustificazione per tale comportamento che suscita sentimenti abbandonici e di rabbia.
Il primo emergente dà significato a questo passaggio del processo gruppale: “mancano persone: ci sono motivi?
I presenti ribadiscono di sentire l’importanza di esserci e la verbalizzano:
“io sto vedendo che cambiamo come persone singole, affrontiamo i problemi in modo diverso. Poi se si vogliono risultati diversi bisogna agire in modo diverso. Avevo altre cose da fare però ho scelto di venire qua […]”
Forse il vissuto di abbandono evoca i fantasma della “madre cattiva” e qualcuno afferma “io porto via solo le parti positive” frase che viene letta come secondo emergente gruppale.
Questo emergente segnala il meccanismo di scissione che sembra caratterizzare in questa fase il processo gruppale. Citando Pichon-Rivière: “il soggetto agisce in due direzioni: verso la gratificazione (costituendosi così il legame buono) e verso la frustrazione (stabilendo il legame cattivo). E’ così che sorge la struttura divalente nel sistema del legame con oggetti parziali o, più chiaramente detto, con una scissione dell’oggetto totale in due oggetti parziali, uno di essi vissuto con una valenza totalmente positiva, dal quale il soggetto si sente totalmente amato e che ama; l’altro oggetto è segnato da una valenza negativa: il soggetto si sente totalmente odiato; legame negativo del quale bisogna disfarsi o che bisogna controllare o negare o proiettare su qualcun altro.”
Iniziando a riconoscere degli oggetti, seppur parziali il gruppo comincia a muoversi dalla indifferenziazione alla discriminazione.
Il processo infatti, sta direzionandosi verso una maggiore differenziazione dei ruoli e dei confini come è testimoniato dalla seguente affermazione di un figlio “Noi non avevamo messo dei paletti tra di noi, adesso invece ce li siamo posti questi paletti”
Ma tali ruoli sembrano ancora incerti e da definire. Un padre afferma “fino a 50 anni fa il padre era vicino alle parole autorità, rispetto e potere, oggi sono parole smarrite, la distanza padre figlio era epocale, come se quella persona fosse del secolo precedente, quando sono diventato padre ho notato che le distanze si erano accorciate, la distanza di generazione, tra me e i miei figli c’è stata possibilità di dialogo, la distanza si è accorciata, la comunicazione è stata possibile.
Per fortuna il ruolo del padre è svanito!”
Qualcuno aggiunge: Non è svanito è cambiato
L’emergente finale di questa seduta viene identificato nella frase “il ruolo del padre è svanito”
La famiglia è cambiata e non ci sono nuovi modelli.
Il gruppo sta cominciando a pensare ed a vivere il cambiamento, ma permane l’ambivalenza e la scissione di parti che vengono proiettate nell’altro, non si è sviluppato ancora un ecro condiviso.
Terza seduta: 27 giugno 2019
E’ l’ultima seduta prima delle vacanze estive.
Il processo gruppale continua, seppur con molte ambivalenze, spinte in avanti e ritorni indietro, a indirizzarsi verso una maggiore discriminazione ed esplicitazione dei contenuti latenti.
Sembra che il gruppo, attraverso le parole di un integrante, lavorando intorno al compito (“parlate di come stare meglio e di qualsiasi cosa volete“) possa affermare di essere passato ad una condizione di maggior benessere che viene enunciata nell’emergente iniziale:
“voglio stare esattamente come sto in questi giorni, penso di aver vinto una piccola battaglia, ogni volta che dava di matto (si riferisce alla madre) mi sgonfiavo: eravamo un palloncino, adesso siamo due palloncini”
L’immagine del palloncino, evocativa dell’utero, si scinde: dall’uno onnipotente e simbiotico, si crea l’altro, ancora uguale, ma separato. L’immagine appare leggera e volatile come un processo appena cominciato.
Infatti la separazione e la relativa individuazione sembra difficoltosa da realizzare e avvalersi della conflittualità per potersi concretizzare:
Il figlio continua: “Dopo la litigata sono continuato a stare bene. Non mi ha tirato giù. Ha un problema e lo deve risolvere (rabbia)
Avere la crisi e io che continuo a stare bene, lei non lo ha mai vissuto. Siamo due palloncini, io e lei, e lei il suo lo deve ritirare su.”
E’ la madre che “si sgonfia” perde l’immagine di sempre, mostra la sua fragilità.
La madre annuncia che ha iniziato un percorso terapeutico individuale.
Circola un’ansia depressiva, dovuta alla perdita dei vecchi ruoli, alla separazione, allo scioglimento del vincolo simbiotico ed accentuata anche dal fatto che è l’ultimo gruppo prima dell’interruzione estiva
Un padre, colui che per ruolo è deputato allo scioglimento della simbiosi tra madre e figlio, sottolinea la sofferenza dovuta alla perdita del ruolo affermando: Molte donne alla fine della carriera domestica a 50 anni si sono sentite completamente sole e sono entrate in depressione… La madre dovrebbe diventare inutile per permettere i figli di andarsene
I genitori iniziano ad essere consapevoli che la dipendenza, insita nel legame simbiotico e diventata tossica per il suo prolungarsi, è legata alla fragilità ed al bisogno di appoggio del genitore oltre che alle difficoltà del figlio.
Un’integrante svela il proprio bisogno di dipendenza dal figlio e se ne riappropria riconoscendolo come parte di sé, questo vissuto si incrocia con il processo gruppale in cui gli stereotipi sulla tossicodipendenza iniziano ad essere abbattuti e costituisce il secondo emergente “la responsabilità mi annebbia il cervello e mi esce fuori quell’aggressività che è in me, mio figlio mi aiuta a superare i momenti difficili nel lavoro”.
Emerge anche, come esplicitato nel terzo emergente, che la storia che porta alla tossicodipendenza dei figli nasce da lontano:
“prima di essere stati genitori siamo stati un uomo e una donna e abbiamo fatto errori”
Di questo si può parlare con gli altri integranti e la comunicazione nel gruppo diviene intergenerazionale come il seguente dialogo tra una madre, che parla del suo ex marito, ed il figlio.
Madre: Noi ci siamo conosciuti che già litigavamo e siamo stati in conflitto fino all’ultimo. Lui soffriva di dipendenza e anche io, ero senza criteri, non avevo chiaro…
Figlio: Sono stati separati ma mio padre ha vissuto sempre con noi…
Due figli dei fiori erano!
Madre: Sì, nell’Urbino degli anni ’70, nel marasma dell’università.
Se lo rincontrassi adesso gli direi “Che abbiamo combinato?”
Purtroppo non si può tornare indietro!
Io forse da ragazza trascuravo più lui (il figlio) per le mie problematiche e quello che non ho fatto ho cercato di recuperarlo nel tempo.
Considerazioni finali
Il gruppo, attraverso la costruzione di vincoli, ha potuto confrontarsi con altre forme di pensiero (ecro), costruite da ciascun integrante a partire dalle prime esperienze infantili, ed affrontare l’ansia depressiva, persecutoria, confusionale derivata dal cambiamento dei propri modelli di riferimento per cominciare a costruire un ecro gruppale. Nella fase di precompito si sono potuti osservare gli elementi istituzionali e sociali che operano come ostacoli e resistenze al cambiamento e nel compito come operano elementi gruppali, immaginativi di cambiamento.
Il percorso ancora in evoluzione (il gruppo avrà termine a dicembre) è stato molto ricco e connotato da passaggi fortemente emotivi dovuti al realizzarsi di transfert multipli e al confronto tra i diversi modelli rappresentanti l’istituzione famiglia nella nostra epoca e l’esperienza di ogni integrante.
L’esperienza è stata molto ricca e coinvolgente anche per gli operatori che, anch’essi, hanno potuto riflettere sui propri schemi di riferimento iniziali e sviluppare un percorso di cambiamento teso a sviluppare un ecro comune.
Bibliografia
Josè Bleger, Il gruppo familiare, in “Psicoigiene e psicologia istituzionale”, La Meridiana, Molfetta (BA), 2011
Enrique Pichon Rivière, “Il processo gruppale – Dalla psicoanalisi alla psicologia sociale”, Editrice Lauretana, Loreto (AN), 1985
Enrique Pichon Rivière, “Applicazioni della Psicoterapia di gruppo”, 1957, in “Il processo gruppale – Dalla psicoanalisi alla psicologia sociale”, Editrice Lauretana, Loreto (AN), 1985
Enrique Pichon Rivière, “Tecnica dei gruppi operativi”, 1960, in “Il processo gruppale – Dalla psicoanalisi alla psicologia sociale”, Editrice Lauretana, Loreto (AN),1985
Leonardo Montecchi, “Varchi”, Pitagora Editrice, Bologna 2006
Jorge Garcia Badaracco; Andrea Narracci, “La psicoanalisi multifamiliare in Italia”, Antigone Edizioni, Torino, 2011
Eduardo Mandelbaum, “Teoria e pratica dei gruppi multifamigliari”, Nicomp, 2017
Camillo Loriedo, “La psicoterapia relazionale”, Astrolabio, Roma, 1978
Lorenzo Sartini, “Enrique Pichon-Rivière”, da www.lorenzosartini.com
Alejandro Scherzer, “Dalla famiglia alla famiglia gruppale”, 2011, da www.lorenzosartini.com
Laura Dominijanni, “I gruppi multifamliari: cosa sono e come funzionano”, 2012, da www.associazioneinverso.it