Riccione – Una prova gratuita (con prenotazione obbligatoria) il 29 maggio e da sabato 5 giugno comincerà il corso di Hata yoga nel parco del Lago Arcobaleno, in viale Murano 47, organizzato dal Centro Arbor Vitae di Rimini. Dalle 9 alle 10,30 Ramona Frisoni, naturopata e insegnante yoga di scuola Sivananda, condurrà le lezioni che si svolgeranno su quattro momenti: pratica di pranayama (controllo del respiro), asana (posizioni statiche) e posizioni eseguite dinamicamente (saluto al sole), concentrazione e, infine, rilassamento profondo. Gli esercizi proposti sono semplici, adatti a chi fa già yoga e a chi si avvicina per la prima volta a questa pratica. Per partecipare occorre chiamare lo 0541 24822 o scrivere a segreteria@centroarborvitae.it, vestire con abbigliamento comodo e portando con se un tappetino e un asciugamano.
L'articolo Hatha Yoga all’aperto a Riccione al Lago Arcobaleno proviene da Cento Fiori, Rimini.
Laureato in Agraria, è entrato da giovane nella Cooperativa Sociale Cento Fiori e creato per gemmazione Ecoservizi L’Olmo: «un vero cooperatore sociale che credeva nella creazione di posti di lavoro per le persone in difficoltà».
Gilberto Vittori, per noi è sempre stato Gibo, ha lavorato con noi della Cooperativa Sociale Cento Fiori fin dai primi tempi, quasi dall’inizio si può dire. Avevamo l’esigenza di una persona esperta che seguisse il giardinaggio e la manutenzione del verde, uno dei settori lavorativi iniziali della cooperativa che servivano a completare il percorso terapeutico di disintossicazione. Era un giovane laureato in Agraria a Bologna, specializzato in paesaggistica, che prima di lavorare con noi svolgeva attività libero professionale. Abbiamo diviso l’ufficio per anni.
Quando fu emanata la legge 381/91, che divideva le cooperative sociali in tipologia A o B, a seconda se facevano assistenza sociosanitaria alle persone o producevano, decidiamo di creare per gemmazione la Cooperativa Sociale Ecoservizi l’Olmo, con a capo Gibo. E già dalla scelta del nome troviamo alcuni tratti del suo carattere e delle sue inclinazioni verso il prossimo. L’Olmo, mi diceva, era una pianta che era quasi estinta per causa di una malattia, ma che ha trovato la forza di sconfiggerla. E per questo – mi diceva sempre con emozione – gli ricordava i ragazzi che avevamo in cura e che stavano sconfiggendo la loro dipendenza. Era un cooperatore sociale convinto, e credeva nella creazione di posti di lavoro per le persone in difficoltà. A proposito di questa missione, un lavoratore della Olmo mi disse dell’opera di Gibo che «ha piantato un albero in mezzo al deserto e noi godiamo della sua ombra e dei suoi frutti».
Aveva verso di se un forte rigore interiore, unito a una marcata modestia. Ed era altrettanto rigoroso nel rispetto delle regole e delle persone, sopratutto per quanto riguarda i diritti dei lavoratori. Un episodio quasi banale che lo testimonia: ogni anno si faceva la cena sociale dell’Olmo, con 80 – 100 persone tra dipendenti e soci. Si intendeva di vini e, assaggiato quello al tavolo, chiama il cameriere chiedendo un vino migliore. Nessun problema, il cameriere prende le bottiglie al tavolo e ne porta due di un vino molto superiore. Fa per andarsene, Gibo lo ferma e indicando i tavoli degli altri dipendenti gli chiede: «E agli altri?» Anche a tavola era lui, con il suo spiccato senso dell’uguaglianza e il rispetto per chi lavora.
Abbiamo lavorato insieme per la costituzione del Consorzio Sociale Romagnolo, nel quale ha messo l’anima per riunire gran parte delle cooperative sociali di tipo B di Rimini. Una realtà che ora è cresciuta fino ad abbracciare realtà di tutta la Romagna. Ed anche pochi giorni fa, quando ci siamo visti l’ultima volta, il discorso è caduto sul Consorzio Sociale Romagnolo: «la cosa più bella che ho fatto, oltre la famiglia e i figli».
Ho avuto con Gibo un rapporto molto stretto, non solo per il lavoro. Abbiamo costruito una barca, passato le ferie, e i giorni e giorni che abbiamo navigato insieme hanno cementato la nostra amicizia. In lui ho visto l’anarchia pura, quel credere profondamente nell’uomo e il dovere che si ha di lasciare agli altri un mondo migliore».
Werther Mussoni
Abbiamo perso un cooperatore sociale lungimirante nel creare lavoro per le persone in difficoltàArmando Berlini, Coop 134: «ha affrontato i mutamenti del mercato creando, insieme a Legacoop e me, la più grande cooperativa sociale dell’Emilia – Romagna».
Con Gilberto Vittori ci siamo incontrati già dai tempi in cui lavorava per la Cooperativa Sociale Cento Fiori, coltivando la nostra conoscenza nell’ambiente che riguarda non solo il sociale, ma anche il mercato dei servizi e della manutenzione del verde. Il tempo ci ha avvicinato ulteriormente quando fondammo la cooperativa sociale Nel Blu di Cattolica. Da questi rapporti, via via sempre più stretti è nata l’idea di creare una cooperativa unica.
La visione di Gibo era molto chiara, la cooperazione sociale stava affrontando un mutamento del mercato che avrebbe compromesso la stabilità delle cooperative sociali piccole, menomandole nella loro capacità di creare posti di lavoro per le persone in difficoltà. Con lungimiranza quindi si mise al lavoro assieme a Legacoop e a me per costruire questo progetto comune: Coop 134, la più grande cooperativa sociale dell’Emilia – Romagna.
La sua attenzione all’inserimento delle persone svantaggiate è sempre stata altissima, un vero faro per il suo operato nella cooperazione sociale, sia da presidente dell’Olmo, sia da presidente del Consorzio Sociale Romagnolo, del quale ha contribuito ad allargarne la base sociale fino a toccare le cooperative di tutta la Romagna.
Io perdo un amico, un punto di riferimento in cooperativa assolutamente essenziale, puntuale e lucido nelle analisi e nelle scelte, a volte anche dure, che abbiamo dovuto fare. E mi piace ricordare che le abbiamo sempre fatte con la totale condivisione.
Lascia un grande vuoto nella cooperativa di cui era vicepresidente, che si stringe tutta intorno alla moglie Rossella e ai figli Lorenzo e Anita.
Armando Berlini
Presidente Coop 134 cooperativa sociale
Il ricordo di Tamagnini, «sono cresciuto nella Cooperativa Sociale Cento Fiori, della quale ha gettato le basi, 40 anni fa».
Con Gilberto Vittori non ho condiviso molti momenti di lavoro, sono un cooperatore sociale della generazione successiva. Ma sono cresciuto nella Cooperativa Sociale Cento Fiori, della quale ha gettato le basi quando nacque, 40 anni fa. E certamente ho avuto modo di conoscere in lui la forte passione per questo impegno che al posto del profitto ricerca i posti di lavoro, anteponendo il benessere sociale di chi è svantaggiato.
Parliamo di valori forti, veri, che una persona ha o non ha, che non può fingere. Ricordo quando un incendio doloso devastò la sede della sua cooperativa in via Portogallo e delle altre tre cooperative sociali, La Formica, noi Cento Fiori e New Horizon. Era un uomo affranto non tanto e non solo per i danni subiti, ma perché era stato colpito il cuore del lavoro sociale di Rimini.
Così come ricordo la sua rabbia e sconforto quando a Roma alcuni imprenditori senza scrupoli hanno gettato il fango sulla vera cooperazione sociale, quella che crea posti di lavoro per persone in difficoltà. Rabbia che non avevo mai visto in lui, una persona mite, disponibile, ironica e autoironica. Una rabbia che posso comprendere, visto il grande impegno che ha sempre avuto verso lo sviluppo della cooperazione sociale a Rimini, al quale si è sempre dedicato con dedizione e tenacia.
Cristian Tamagnini
Presidente Cooperativa Sociale Cento Fiori
L'articolo Scomparso dopo una lunga malattia Gilberto Vittori, il cordoglio di amici e delle cooperative sociali che l’hanno visto protagonista. proviene da Cento Fiori, Rimini.
Rimini – Sette maggio 1981, diciannove persone si riuniscono nello studio del notaio Enrico Franciosi per fondare quello che doveva essere un nuovo tassello nella lotta all’eroina che stava dilagando in città: la Cooperativa Cento Fiori. Con un capitale di appena 100 mila lire, la sede in via Cavalieri, la cooperativa nasce come costola operativa del Centro Tutela Salute Tossicodipendenti, nel disegno del collettivo che gravita intorno al CTST di completare un Modello Rimini nella lotta alla droga. Un modello che, pur con qualche variante che il tempo inevitabilmente ha portato, continua a vivere nell’attuale Cooperativa Sociale Cento Fiori, sempre riminese nel cuore pulsante, ma con l’orizzonte di aiutare chi è dipendente da qualunque parte d’Italia provenga.
La fondazione della Comunità Terapeutica di Vallecchio: si monta il prefabbricato acquisito a Sulmona.Collettivo, una parola che porta con sé il sapore della politica, del lavoro e della prassi di quegli anni. Anni dove le ideologie mobilitano le masse, terreni umani dove si possono piantare grandi idee ma anche grandi disastri. E’ il caso dell’eroina, che dalla fine degli anni ‘70 dilaga in tutti i quartieri riminesi, così come in tutte le città italiane, senza tanti riguardi per ceto e professioni. Intorno ai medici e operatori del Ctst (prima ancora si chiamava Centro Medico di Assistenza Sociale Cmas, ora SerT, Servizio Tossicodipendenza o SerDP, Servizio Dipendenze Patologiche) si riuniscono familiari, consumatori di droga, volontari che cercano insieme un metodo per combattere il fenomeno che avvelena la città. E’ una fase pionieristica per tutti. Al Cmas distribuiscono il metadone in sciroppo, per contrastare sia l’eroina sia il gusto del buco, coinvolgono i tossicodipendenti in assemblee, stampano giornali per sensibilizzare la città alla lotta all’eroina, le famiglie ospitano nelle case amici caduti nella spirale della dipendenza. Il collettivo che si raduna nel Cmas, giorno dopo giorno sperimenta e discute un modello che vede il lavoro come argine alla droga e una forma di riscatto nell’immediato. E per il futuro vagheggia il completamento in una comunità terapeutica, che faccia da cesura con i richiami delle piazza e dell’eroina che vi circola.
Werther Mussoni al lavoro nei campi di VallecchioL’idea della cooperativa prende corpo. E così alcune persone di quel collettivo, William Raffaeli,che sarà il primo presidente, Sergio Semprini Cesari, Ida Branducci, Mario Minadeo, Dino Balleroni, Rita Tortora, Giuseppe Avarino, Lanfranco Bezzi, Vittorio Buldrini, Lilo Nilo Puccioni, Trine Line Larsen, Roberta Giungi, Gilberto Filippi, Emanuele Zabaglio, Roberto Filippi, Giorgio Micconi, Maurizio Bullini, Claudio Mercatelli, Anna Ardini, si presentano nello studio del notaio Franciosi. I sette rappresentano solo una parte del collettivo che ruota intorno al Cmas, che comprende Leonardo Montecchi, Massimo Ferrari e altri medici e operatori.
La cooperativa è una buona idea ma ha bisogno di un catalizzatore che sappia darle forma, anche perché il lavoro del Cmas e ospedaliero di medici e operatori assorbe energie: occorrono altre figure per ampliare l’opera. C’è un volontario che frequenta il centro, un uomo impegnato nel sindacato e nel sociale, che ospita un amico in difficoltà con la droga e per questo viene a chiedere consigli e suggerimenti a medici e operatori. Sarà lui a dare corpo all’idea, strutturerà la cooperativa in forma agricola (coltivando terreni nell’aria Ghigi) e con laboratori di stampa serigrafica e di artigianato, e, infine, creerà la Comunità Terapeutica di Vallecchio, completando il Modello Rimini di lotta alla droga: Werther Mussoni.
La Cento Fiori anno dopo anno si consolida. Nel febbraio del 1983 un prefabbricato che ospitava terremotati, viene smontato in Friuli e montato a Vallecchio: è l’embrione della Comunità Terapeutica, dove già si coltivano i campi del podere Fantini e si allevano due mucche, Punto e Virgola. Sono sette i primi ospiti, tutti riminesi. E i primi sette operatori, psicologi ed educatori che lavorano con Mussoni sono stati anche fattori, muratori, elettricisti, contadini, giardinieri. Se la si guarda con gli occhi di oggi, era un’epoca pionieristica, si potrebbe dire, senza paura di essere retorici.
Da allora, la stalla è diventata una Scuderia Cento Fiori, e accanto è nato il Canile di Vallecchio e un ambulatorio veterinario, con la cooperativa che gestisce anche il Canile comunale di Rimini Stefano Cerni e un servizio di recupero di animali domestici da compagnia per conto di numerosi comuni della provincia riminese. La Comunità Terapeutica si è allargata, ora ospita 22 pazienti e un decennio fa, sotto la presidenza di Monica Ciavatta (succeduta a Werther Mussoni) e la direzione di Alfio Fiori è diventata di proprietà della Cooperativa. Per gemmazione, all’inizio del nuovo millennio, è nato un Centro Osservazione e Diagnosi, sempre a Vallecchio, con pazienti da tutta Italia, mentre pochi anni dopo la Cento Fiori ha acquisito un altro Centro Osservazione e Diagnosi, L’Airone, ad Argenta, Ferrara. Completano i servizi sociosanitari di lotta alle dipendenze il Centro Diurno di Rimini e due gruppi appartamento, che accompagnano i pazienti nel loro reinserimento nella vita di tutti i giorni. Mentre da dieci anni il patrimonio di esperienza nell’accoglienza delle persone è stato impiegato anche nel supporto ai richiedenti asilo.
Sergio Semprini Cesari con alcuni pazienti delle prime crociere terapeutiche del progetto UlisseSono cambiate le metodologie di riabilitazione dalle dipendenze patologiche, ma due aspetti restano importanti. Uno è la natura, con le crociere terapeutiche in barca a vela o la gestione del lago Arcobaleno, a Riccione. L’altro aspetto fondamentale per la terapia è il lavoro. Per questo la Cento Fiori continua ad avere servizi che coinvolgono pazienti e nello stesso tempo inseriscono persone svantaggiate o diversamente abili. In questo senso La Serra Cento Fiori da vent’anni è una attività importante, che ora risiede nel vivaio ai bordi del parco XXV aprile. O la tipografia digitale Rimini Stampa, erede dei primi laboratori serigrafici, situata al piano terra della sede legale e amministrativa di via Portogallo 10 a Rimini.
Oggi la Cooperativa Sociale Cento Fiori festeggia i suoi quarant’anni con Cristian Tamagnini, da tre anni presidente, Gabriella Maggioli vicepresidente, Giovanni Benaglia come direttore, 100 soci di cui 41 lavoratori, 43 sovventori (31 persone fisiche le altre giuridiche), 16 volontari e contando 74 dipendenti. Festeggia 40 anni cercando di coniugare il patrimonio storico e culturale dell’azienda sociale con le sfide del mercato. Il quarantesimo anniversario sarà scandito da diverse iniziative, alcune di documentazione del percorso fatto, come un libro che raccoglie le testimonianze dei protagonisti di questi otto lustri. Dall’altra alcuni eventi pubblici di riflessione sui temi delle dipendenze patologiche e sui valori che in questi 40 anni hanno accompagnato l’evolversi della Cento Fiori. E che la porteranno nel futuro.
L'articolo Quarant’anni di lotta alle dipendenze: il 7 maggio 1981 nasceva la Cooperativa Sociale Cento Fiori, la base della Comunità Terapeutica di Vallecchio e delle altre strutture di cura. proviene da Cento Fiori, Rimini.
Web – Il CNCA organizza la prima edizione di “Cloud. Festival delle giovani generazioni”, dedicata quest’anno alle ragazze e ai ragazzi tra i 13 e i 17 anni. Un’occasione di incontro e scoperta che apre un dialogo concreto tra generazioni diverse – oggi più che mai necessario – che sperimenta linguaggi nuovi, portando alla luce riflessioni, esigenze, intuizioni nate in questo lungo anno di pandemia, per riflettere assieme su questo tempo e sulle nuove sfide che ci riserva.
CLOUD FESTIVAL è un progetto in cui adulti e adolescenti di età e provenienze diverse possono collaborare assieme al racconto del Festival stesso e alla produzione dei suoi contenuti, utilizzando le possibilità del digitale per accorciare le distanze.
Non un Festival per addetti ai lavori in cui si analizzano i temi dell’infanzia e dell’adolescenza, ma un Festival aperto alla comunità nelle sue generazioni, che costruisce spazi di confronto, che lavora con i ragazzi sull’importanza del prendere parola e di diventare protagonisti, di praticare il diritto a raccontarsi.
In occasione del Festival è stata lanciata una call per le ragazze e i ragazzi tra i 13 e i 17 anni, proprio per coinvolgerli nella produzione di senso e contenuti. Oggetto della call è stata la richiesta d’invio di un breve video, di 2 minuti circa, in cui raccontare “una cosa che hai imparato, una cosa che hai capito o una cosa che senti importante o una cosa che ti manca in questo tempo presente.” Dal montaggio dei video ricevuti sarà realizzato un mini doc che verrà presentato durante CLOUD FESTIVAL.
La prima edizione di CLOUD FESTIVAL si svolgerà interamente online. Sarà possibile seguire i lavori grazie alla diretta sulla pagina Facebook e il canale Youtube del CNCA, e interagire ponendo domande ai protagonisti. Le modalità di presentazione dei messaggi, e di incontro tra le voci del Festival, non saranno però canoniche.
CLOUD FESTIVAL si struttura in un palinsesto dinamico di interventi, che raccoglie le riflessioni dei ragazzi e delle ragazze e le mette in dialogo con la voce di chi lavora con passione e competenza sui temi per loro più importanti. Un festival che crea confronto, che stimola i più giovani nella produzione di contenuti, che costruisce una comunità parlante e la coltiva nel tempo.
.pf-button.pf-button-excerpt { display: none; }L'articolo Cloud – Festival delle giovani generazioni: Cnca lancia la prima edizione on line del progetto dedicato ad adulti e adolescenti proviene da Cento Fiori, Rimini.
di Massimo De Berardinis
Prima parte: da raggruppamento a gruppo
Nella relazione che mi accingo ad esporre mi servirò di nozioni ben conosciute nella loro applicazione alla psicoanalisi dei gruppi e di altre, forse meno note, ma altrettanto utili per addentrarci nella comprensione della complessa fenomenologia clinica dei gruppi multifamigliari. In premessa voglio ricordare che le trasformazioni dell’ambito istituzionale possono esercitare effetti, sugli ambiti famigliari ed individuali, di gran lunga maggiori di quelli che le trasformazioni di questi ultimi possono esercitare sull’ambito istituzionale.
Voglio anche ricordare come la cultura accademica ci abbia ripetutamente proposto l’idea che i soggetti nascano isolati e che solo successivamente si riuniscano a formare dei gruppi; al contrario la Concezione Operativa ci ha dimostrato che l’essere umano, prima di diventare soggetto, “appartiene” ad un gruppo, anzi, nello stato di indiscriminazione, che precede la distinzione io-non io, così come ce lo ha iconicamente descritto Bleger, egli è il gruppo! Nell’ottica blegeriana, pertanto, l’istituzione famigliare costituisce, all’inizio della vita psichica del soggetto ed in maggiore o minore misura, anche nel seguito, il ricettacolo delle parti più immature e meno discriminate dei suoi membri.
E’ altresì opportuno ricordarein premessa che nei gruppi primari tutti i membri tendono a funzionare da depositari per ciascuno degli altri, assumendo ed attuando, in modo complementare, i ruoli depositati. Può perciò accadere che quando questi gruppi attraversano fasi di instabilità, il membro che si è fatto maggiormente carico delle ansie e dei conflitti famigliari, possa veder crollare le proprie difese e divenire il depositario del ruolo di malato (il cosiddetto capro espiatorio).
I gruppi primari che ci vengono inviati per il trattamento multifamigliare presentano tutti, in misura più o meno pronunciata, questo tipo di problematiche. Ora, prima di addentrarmi in altre considerazioni, vorrei presentare brevemente qualche esempio sulle modalità di comportamento che gli integranti di questi gruppi tendono ad assumere in occasione dei primi incontri multifamigliari. Sebbene le famiglie vengano inviate con l’indicazione al trattamento di tutto il gruppo, pur tuttavia, già dal primo incontro di contrattazione, possiamo osservare come i membri, “cosiddetti sani”, tentino sempre una ridefinizione dell’invio cercando di apparire come accompagnatori dei “cosiddetti malati” e si comportino come certi genitori, con figli un po’ turbolenti, nei primi giorni di inserimento alla scuola materna!
Essi parlano di fronte ai loro congiunti come se non ci fossero o non capissero…strizzano l’occhio ai curanti…ammiccano e tentano, in ogni modo, di far intendere che i malati non sono loro ma “quelli lì”.E’ interessante notare come i pazienti accettino passivamente questo ruolo, lasciandosi trattare, senza reagire, come se fossero dei “bimbi un po’ tonti”.
Quando la situazione si presenta, sin dall’inizio, con aspetti così fortemente resistenziali, può essere opportuno evitare inutili contrapposizioni rimandando le famiglie agli invianti per una ridefinizione delle indicazioni di cura. Ma anche quando la fase contrattuale viene conclusa, almeno sul piano manifesto, con la definizione del compito di lavorare sulle difficoltà che, a vario titolo, tutti i membri delle famiglie si trovano ad affrontare in quella fase della loro vita, la situazione resistenziale tende ugualmente a riproporsi seppur con caratteristiche diverse.
Inizialmente le famiglie si dispongono in cerchio, senza mescolarsi, anche se poi ciascun gruppo tende rapidamente a scindersi in due sottogruppi: quello dei sani e quello dei malati.Solitamente i primi a prendere la parola sono i cosiddetti membri sani attraverso la descrizione delle “mancanze” di cui si renderebbero “colpevoli” i cosiddetti membri malati; essi parlano degli sforzi compiuti, delle terapie inutilmente tentate, del sentimento di impotenza che li attanaglia… per poi concludere con la richiesta rituale, di “fare qualcosa per guarirli”!
Dopo queste “presentazioni” iniziali, la“geografia”del gruppo va incontro a dei rimaneggiamenti caratterizzati dai movimenti dei membri sani che, spinti da un bisogno di “solidarietà”, si spostano per costituire piccoli sottogruppi, di due, tre persone, molto attivi nel dimostrarsi comprensione affettiva; i malati, invece, tendono arestare ancorati ai loro posti, accanto alle figure famigliari maggiormente protettive.Spesso si assiste anche al fatto che i fratelli e le sorelle dei “pazienti designati”, diano vita ad un ulteriore sottogruppo, spazialmente disperso, ma riconoscibile per la comunanza del tono polemico e rivendicativo verso il Servizio di Salute Mentale, il Servizio Sanitario, il Governo… il mondo intero… considerati “responsabili”di non aver fatto e di non fare abbastanza per i loro congiunti.
Per un tempo di durata variabile la dinamica del gruppo si mantiene incentrata sulla scissione tra sani e malati ed ogni momento “è buono”perchè i membri sani tornino a stigmatizzare il comportamento dei malati “… Il mio fa così Anche il suo?… Pensi che una volta… Sapesse… Ma no!… Davvero?… Proprio come il mio!… Dottore… Come si può fare?”… E via di questo passo!!
Il sottogruppo “depositato”, quello dei pazienti, solitamente resta silenzioso, lascia dire,al più, attraverso l’esibizione di marcati sintomi psicopatologici, provvede, paradossalmente, a confermare la divisione tra sani e malati. Quello che ho appena descritto è solo uno dei possibili esempi di come gli integranti del gruppo, del tutto inconsapevolmente, si adoperino per restare in fase di pre-compito, cioè oppongano “resistenza” all’ingresso nella fase di compito… in questo caso…. aggrappandosi ognuno ai propri “ruoli storici”!
In queste circostanze la funzione del coordinatore sarà essenzialmente rivolta a rinforzare il setting e a segnalare ed interpretare le ansie di base che si frappongono all’ingresso del gruppo nella fase di compito. La fase di pre-compito tenderà a ripresentarsi tutte le volte che il gruppo si troverà di fronte ad un cambiamento; se la coordinazione riuscirà a non cedere né alle lusinghe collusive dei sani né alle richieste di dipendenza dei malati, il gruppo si avvierà nel difficile percorso di cura che, si auspica, possa favorire la crescita di ciascuno dei suoi membri. Tutti i gruppi, come dice Pichon Rivière, hanno un andamento pendolare, a spirale, che li porta ad oscillare tra le fasi di pre-compito e quelle di compito. Il pre-compito è, per eccellenza, il momento nel quale emergono maggiormente le resistenze al cambiamento; è la fase nella quale il gruppo tenta di affrontare problemi nuovi con modalità vecchie.
L’emergere delle angoscie di base, propriamente paranoidi, depressive e confusionali, mobilitate dai timori di perdita dei vecchi riferimenti e dalla minacciosità del nuovo, determina la comparsa di tecniche di difesa che hanno lo scopo di eludere le ansie e rinviare il compito, come, per esempio, abbiamo potuto vedere nell’esempio citato, quando tutti gli integranti resistono al nuovo, attraverso il mantenimento dei loro vecchi ruoli di sani e di malati. E’ fondamentale che, in questi frangenti, il coordinatore non faccia propria la difficoltà del gruppo ricorrendo alla rassicurazione, cioè non confonda il proprio compito con quello del gruppo, perché se così facesse finirebbe col trasformare il lavoro terapeutico in lavoro di supporto. Ma che differenza c’è tra i gruppi multifamigliari e gli altri tipi di gruppo?
– Nella terapia, cosiddetta individuale, la relazione terapeutica è caratterizzata dall’incontro tra due corpi fisici ed dall’irrompere, nello spazio terapeutico, di molteplici “personaggi” che popolano il gruppo interno del paziente e il gruppo interno del terapeuta. In questo “particolare tipo di gruppo” l’analisi del transfert e del controtransfert costituisce l’asse portante del lavoro terapeutico.
– Nei gruppi operativi (gruppi secondari, dove sono i soggetti a costituire il gruppo) i corpi fisici sono numerosi ed ancor di più i personaggi dei gruppi interni che affollano le sedute. Qui l’analisi del transfert individuale è subordinato all’analisi della relazione gruppo –compito. I processi di proiezione-introiezione e di aggiudicazione-accettazione orifiuto dei ruoli costituiscono il “moltiplicatore terapeutico” grazie al quale è possibile addivenire, a livello individuale, alla ridefinizione dei modelli relazionali primari internalizzati.
– Nella terapia dei gruppi famigliari (cioè dei gruppi primari, dove è il gruppo a costituire i soggetti e non viceversa) occorre innanzitutto tener presente che il paziente è il portavoce, l’emergente della malattia famigliare;pertanto il trattamento sarà primariamente rivolto alla rottura dello stereotipo dell’aggiudicazione e dell’assunzione del “ruolo di malato”; quindi si procederà alla individuazione ed all’elaborazione del nucleo depressivo di base; è da questo, infatti, che discendono tutte le strutturazioni patologiche che rivelano il fallimento dei tentativi messi in atto per elaborarlo.
Infine ci si occuperà della prevenzione del ripetersi dello stato di malattia famigliare, favorendo il riadattamento delle strutture individuali e gruppali.
– I cosiddetti gruppi multifamigliari, di cui ci occupiamo in questarelazione, sono invece costituiti da un insieme di sottogruppi strutturati (ma non qualsiasi, poiché si tratta di gruppi primari) che da vita ad una realtà molto particolare, che potrebbe essere definita di “oscillazione dinamica”tra la possibilità di trasformarsi in un gruppo di individui, discriminati e differenziati, e quella di restare un “raggruppamento di gruppi primari”.
Già sappiamo che la struttura istituzionale dei gruppi primari svolge la funzione di contenere, accogliere e bloccare le parti indiscriminate della personalità dei suoi membri e che ogni modifica di questa struttura può liberare l’angoscia in essa depositata; sappiamo anche che in assenza di un’idonea elaborazione l’angoscia può prendere la via del sintomo. Eppure la nostra aspettativa di cura è proprio quella di vedere modificata la stereotipia dei vincoli famigliari; che cioè il lavoro terapeutico possa determinare un allentamento della fissità degli “istituiti famigliari”a vantaggio di nuovi possibili “istituenti”.Come possiamo adoperarci, allora, affinchè l’attivazione, non occasionale, della potente macchina istituzionale produca trasformazioni senza determinare dei “terremoti catastrofici” negli integranti del gruppo?
Nella mia esperienza ho potuto constatare che per favorire il conseguimento di questo obiettivo occorre che si produca un “travaso”, al gruppo multifamigliare, della funzione istituzionale inizialmente assolta dai gruppi primari; perché questa operazione si realizzi è necessario che il gruppo multifamigliare assuma “carattere istituzionale”, cosa che può avvenire tramite l’adozione ed il mantenimento di un setting definito.
La dimostrazione dell’avvenuto travaso si renderà evidente, alla coordinazione, attraverso il rilievo di un aumento dei tentativi, operati dai singoli integranti, di prendere distanza dai gruppi primari, alla ricerca di una maggiore autonomia. Per altroverso il favorevole ingresso nella fase di compito, reso possibile dal setting e dal lavoro interpretativo della coordinazione, verrà segnalato dal manifestarsi di una posizione depressiva legata alla percezione della perdita della dipendenza dal gruppofamigliare, ma anche da un’attenuazione della posizione paranoidea di fronte alla minacciosità del nuovo. Da questo momento in avanti il compito del gruppo sarà quello di affrontare ed elaborare le ansie derivanti dalla rottura dello stereotipo, dalla trasformazione dei vincoli con i gruppi primari, dal procedere dall’indiscriminazione verso la discriminazione… in breve, dal passaggio da “raggruppamento di gruppi” a “gruppo di integranti”.
Nel lavoro di segnalazione e di interpretazione, che entrerà in gioco ogni qualvolta si profilerà un ostacolo sulla strada verso il conseguimento del compito, sarà posta una particolare attenzione a due aspetti fondamentali:
– al già ricordato va e vieni da raggruppamento a gruppo e viceversa (oscillazioni pre-compito -compito).
– ai fenomeni transferali che interessano la coordinazione, gli integranti, il compito e l’extragruppo.
Se del primo punto ho già parlato, il secondo merita ancora qualche approfondimento.
Partendo dalla teoria delle relazioni oggettuali vediamo come queste relazioni, una volta interiorizzate, vengano poi organizzate (a seconda delle modalità conle quali le sperimenta emozionalmente l’io del soggetto in via di sviluppo) in forma di rappresentazioni del mondo esterno. Queste rappresentazioni non riproducono mai il mondo dei rapporti reali (non sono cioè una copia fedele del mondo esterno) nonostante che nel corso degli anni, sotto l’effetto dell’evoluzione dell’io e delle successive relazioni oggettuali, esse vengano ripetutamente rimaneggiate nella direzione di una maggiore approssimazione alla realtà.
Diversamente dalla teoria delle relazioni oggettuali che si occupa delle vicissitudini degli oggetti internalizzati, la teoria del vincolo, elaborata da Pichon Rivière (che si fonda sull’idea il soggetto si produce in una prassi relazionale e che non c’è nulla in lui che non sia il risultato dellainterazione tra individuo, gruppo e società), si occupa sia del vincolo interno con l’immagine dell’oggetto che del vincolo esterno con l’oggetto reale.
Il vincolo interno, cioè la forma con la quale l’io si pone in relazione con la rappresentazione dell’oggetto internalizzato, condiziona anche l’espressività esterna; ne discende che, secondo questo modello, la terapia psicoanalitica si configura a partire dal tipo di relazione che il paziente stabilisce con il terapeuta; infatti, la natura transferenziale di questa relazione permette di indagare il vincolo che il paziente ha con i suoi oggetti interni. Pichon Rivière dice che l’esperienza terapeutica implica il “confronto”, cioè che nella misura in cui il paziente, a seconda dei vincoli internalizzati, assegnerà al terapeuta diversi ruoli, si renderà manifesta la sua “distorsione”nella lettura della realtà.
E’ di fondamentale importanza, sul piano terapeutico, che i ruoli assegnati non vengano agiti bensì “ritradotti”(interpretati) in una concettualizzazione o ipotesi sull’accaduto inconscio del paziente, al fine di cooperare, con lui, alla modifica delle sue percezioni del mondo e nella ricerca di nuove forme di adattamento attivo alla realtà. Nel lavoro di gruppo l’azione interpretativa esplicita gli emergenti espressi tramite il portavoce (verticalità), in rapporto con tutti i membri (orizzontalità), nel qui ed ora con il coordinatore, in relazione al compito.
Nei gruppi multifamigliari, come nei gruppi operativi, a seguito dei transfers multipli che comportano processi di aggiudicazione e di accettazione o rifiuto di ruoli, questa funzione interpretativa (di confronto) non viene svolta solamente dal coordinatore, ma anche da tutto il gruppo, con aumento esponenziale delle potenzialità terapeutiche.
Seconda parte: gruppi terapeutici e gruppi di supporto
Purtroppo, nelle nostre realtà, le psicoterapie multifamigliari sono quasi del tutto sconosciute e pertanto non vi sono richieste spontanee da parte di pazienti o famigliari. Questo significa che i Servizi devono promuovere un’offerta che favorisca l’emergere di una domanda di cura orientata in questa direzione. Per questi motivi, nella mia pratica, ho fatto ricorso all’invito di sei, sette famiglie alla volta, con la finalità manifesta di discutere delle proposte terapeutiche del Servizio e, specificatamente, della proposta di terapia multifamigliare; ovviamente stiamo parlando di famiglie che hanno uno o più membri incura al Servizio di Salute Mentale.
Il percorso consta di tre incontri, a cadenza ravvicinata (solitamente ogni settimana o quindici giorni), della durata di due ore ciascuno. Al primo incontro vengono esposti i temi oggetto di discussione ed il coordinatore, coadiuvato da uno o due osservatori “silenziosi”, presenta la coordinazione e definisce il setting di lavoro. Questo consente di caratterizzare il pur breve percorso sia come momento informativo che come momento esperienziale.
Solitamente, già da questi primi incontri, si può notare che i famigliari tendono a presentarsi come “…noi siamo i genitori di Tizio,…io sono la moglie di Caio, …noi siamo le figlie di Sempronio…” dove Tizio, Caio e Sempronio, ovviamente, sono i pazienti… Gli integranti, cioè, non si presentano come se stessi bensì “in funzione”del gruppo famigliare di appartenenza e del rapporto che hanno con il “paziente designato”, lasciando intravvedere, già da subito, quella tramatura vincolare che caratterizza i gruppi primari e che sarà oggetto del lavoro terapeutico multifamigliare. Al termine dei tre incontri le famiglie interessate possono “iscriversi”per la partecipazione ad un percorso psicoterapeutico multifamigliare.
L’altra maniera in cui è possibile costituire gruppi multifamigliari è rappresentata dall’invio di famiglie da parte degli operatori dei Servizi. Ma in questo caso come vengono scelte le famiglie?
Nei Servizi dove io ho lavorato i candidati al trattamento multifamigliare sono rappresentati soprattutto da quei gruppi famigliari i cui congiunti sono pazienti che “non migliorano”, che “deludono” ed “esasperano” i terapeuti… non di rado inducendo in essi inconsapevoli agiti controtransferali. Così, come spesso accade nelle istituzioni sanitarie, “il nuovo trattamento”non viene riservato ai casi che potrebbero giovarsene maggiormente, bensì ai casi nei quali è già stato provato di tutto… ma senza alcun risultato!
Sono possibili due tipi di invio: il primo è caratterizzato da una presa in cura “a tutto tondo”, che include anche il trattamento psicofarmacologico; il secondo prevede invece che il paziente mantenga uno spazio terapeutico individuale (quasi sempre di natura psicofarmacologica) parallelo all’iter multifamigliare.
Con queste famiglie (invitate e/o inviate) si costituiscono dei raggruppamenti di venti, venticinque membri che vengono poi convocati per la definizione del contratto terapeutico. La fase di contrattazione può richiedere uno o più incontri e serve a definire il setting di lavoro.
Spazio-tempo: il luogo ove si terranno gli incontri, con quale durata (solitamente due ore), con quale cadenza (settimanale o quindicinale) e per quanto tempo (solitamente un anno e mezzo o due).
Ruoli: presentazione della coordinazione (solitamente due, tre operatori con ruoli definiti di coordinatore, co-coordinatore, osservatore) e degli integranti del gruppo.
Compito: variamente articolato ma sostanzialmente incentrato sul miglioramento dello stato di benessere di tutti i membri del gruppo.
E’ importante sottolineare come il contratto terapeutico venga stipulato in gruppo, con ciascuno degli integranti e non con le “entità” famigliari. I gruppi così costituiti tendono ad assumere rapidamente una configurazione simile a quella di un risuonatore, che riverbera, a volte in maniera quasi “contundente”, transfers, controtransfers, introiezioni e proiezioni multiple. In questo “spazio”, assai particolare, con l’aiuto del coordinatore, il gruppo muove i suoi primi passi partendo dalla situazione presente (perché siete qui?)… per dirigersi verso il passato (che cosa vi è successo?)… e da qui verso il futuro (cosa pensate di fare per affrontare le vostre problematiche?)… poi di nuovo al presente… di nuovo al passato… di nuovo al futuro… In questo andare e venire il gruppo “racconta” le sue storie dove gli integranti “agiscono” ripetitivamente i loro ruoli famigliari… ruoli stereotipati…surrogati d’identità… connaturati alla struttura istituzionale dei gruppi primari.
Con il procedere degli incontri le strutture famigliari, inizialmente rigide e chiuse, iniziano a farsi un po’ più flessibili, permeabili e a rimodellarsi. Come in una grande rappresentazione teatrale, il gruppo mette in scena sé stesso… gli attori (pazienti, famigliari e terapeuti) inizialmente incarnano il passato… dopo un pò si accostano al presente e infine… lentamente… si aprono al futuro; … stereotipia dei vincoli e possibilità di cambiamento coesistono ed interagiscono dinamicamente tra loro per tutta la durata del gruppo dando vita, per tutti, ad un processo di possibile trasformazione terapeutica.
Nell’approfondire ora la riflessione sul funzionamento dei gruppi multifamigliari torniamo sulla dimensione istituzionale; questi gruppi sono infatti caratterizzati dalla specificità di essere spazi di coesistenza ed interazione tra diverse strutturazioni istituzionali:
– Quella dei gruppi primari (le famiglie) che si esprime attraverso una vera e propria “drammatizzazione vivente” dei vincoli istituzionali storicamente determinati.
– Quella dei gruppi interni (individuali) espressa, da parte di ciascun membro del gruppo famigliare, tramite “l’attualizzazione transferale delmodello primario internalizzato”.
– Quella del gruppo multifamigliare, “gruppo di gruppi”, nuovo contenitore delle parti immature della personalità di tutti gli integranti; qui chiamato ad esprimere, tramite il setting, la condizione dell’invarianza o non processo,necessaria per consentire lo svolgersi del processo terapeutico.
A questi tre livelli ne andrebbe aggiunto almeno un quarto, costituito dalla istituzione sanitaria, che però, in questa occasione, lasceremo da parte per non appesantire troppo la trattazione. Dalla interazione tra le strutture che abbiamo descritto prenderanno avvio delle linee processuali che potranno convergere in maniera terapeuticamente sinergica oppure no. Nella mia esperienza ho potuto verificare che all’andamento di questi processi non risulta per nulla estraneo il tipo di approccio metodologico e tecnico tenuto dalla coordinazione.
Fornisco alcune brevi esemplificazioni in merito. Se il sig. Tizio, padre del paziente Caio, si relaziona, all’interno del gruppo multifamigliare, in maniera prevalente od esclusiva, in funzione di questo suo ruolo paterno che noi accettiamo ed avalliamo lavorando con questo “status”, di fatto stiamo lavorando con la struttura dei gruppi primari (vincolo esterno) e non con il gruppo multifamigliare. Diversamente, se la nostra attenzione sarà rivolta, in modo prevalente o esclusivo, all’analisi delle manifestazioni di transfer espresse da ciascun integrante, questo ci porterà a lavorare essenzialmente con la struttura dei gruppi interni (vincolo interno) dei singoli integranti (come se si trattasse di una specie di “terapia rotatoria individuale” in gruppo) e non con il gruppo multifamigliare.
Se invece ci approcceremo al gruppo multifamigliare ponendo come “tra parentesi” la struttura dei gruppi famigliari e quella dei gruppi interni individuali, ma focalizzando la nostra attenzione soprattutto sulla relazione gruppo-compito (cioè nell’aiutare gli integranti ad affrontare gli ostacoli che si frappongono al conseguimento del compito), il nostro lavoro favorirà, da subito, il processo di trasformazione da raggruppamento a gruppo, cioè il passaggio dalla fase di pre-compito a quella di compito; questo eserciterà un effetto trasformativo contemporaneo e sinergico anche sulle strutture dei gruppi famigliari e dei gruppi interni individuali. Poiché però queste considerazioni si fondano direttamente sulle mie esperienze cliniche, occorre che vi faccia un breve riferimento.
Devo ritornare a molti anni addietro, più di trenta, aquando iniziai a riportare a livello ambulatoriale le mie esperienze sui gruppi multifamigliari; esperienze maturate soprattutto in situazioni di acuzie, cioè con le famiglie di pazienti ricoverati nella Clinica Psichiatrica dell’Università di Modena. In quella fase il mio stile di coordinazione, si direbbe meglio di conduzione, era, per così dire, molto “sperimentale”; ciò non di meno le cose procedevano, almeno inizialmente, in modo assai positivo e tutti gli integranti sembravano trarre significativi giovamenti dall’esperienza… cosa che ritardò non poco la mia comprensione dei fenomeni che avvenivano all’interno dei gruppi multifamigliari…
I problemi cominciarono ad evidenziarsi solo più tardi… all’avvicinarsi del momento della chiusura dei gruppi. Accadeva infatti che, con l’approssimarsi della fine dei contratti terapeutici, le strutturazioni istituzionali originarie (interne ed esterne) riprendessero il sopravvento. I pazienti regredivano in maniera esageratamente vistosa, riassumendo le modalità relazionali e sintomatiche precedenti all’ingresso nel gruppo…. Sembrava di assistere al riavvolgimento del nastro di una pellicola! La situazione era paradossale… il lavoro con i gruppi multifamigliari produceva miglioramenti rapidi ed evidenti… ma, per mantenerli, sembrava che i gruppi non dovessero terminare mai…
Feci altri tentativi con esiti incerti… finchè la riflessione clinica e soprattutto la formazione nella Concezione Operativa di Gruppo non mi fornirono gli strumenti per superare quella situazione di “gruppo-protesi”, che, tra l’altro, per la sua sussistenza, si avvaleva proprio del mio “supporto” involontario. Al fine di fornire una migliore comprensione dei fenomeni sopra riportati, descriverò di seguito alcuni degli errori cheavevano maggiormente contribuito a determinarli:
– Concentravo la mia attenzione quasi esclusivamente sul funzionamento dei singoli integranti e dei gruppi famigliari.
– Pensavo i componenti del gruppo soprattutto a partire dal ruolo che rivestivano all’interno di ciascuna famiglia.
– Sottovalutavo l’importanza della definizione del setting.
– Tendevo a sovrapporre il ruolo di coordinatore con quello di leader.
– Ricorrevo, nei momenti di difficoltà del gruppo, ad interventi di natura prevalentemente rassicuratoria.
– Non differenziavo a sufficienza il compito della coordinazione da quello del gruppo.
Preso nel ruolo di “leader buono, potente, e salvifico”, incentivavo la dipendenza sulla mia persona e sul gruppo, senza però riuscire poi a favorirne l’elaborazione. Il clima così generato facilitava l’emergere di fenomeni catartici che sembravano soddisfare, nell’immediato, le esigenze dei partecipanti, ma poi non evolvevano in cambiamenti duraturi. In questo modo il gruppo diveniva un luogo di attenuazione delle ansie, ma, contemporaneamente, anche di rinforzo delle stereotipie di funzionamento famigliare ed individuale. Di fatto, favorendo la stabilizzazione dei gruppi in “fase di pre-compito”, mi ero inconsapevolmente trasformato, come dice Pichon-Rivière, nel “leader della resistenza invece che del cambiamento”.
Questa condizione di “certo benessere”, conseguita dal gruppo, per potersi mantenere nel tempo necessitava, però, della persistenza di una gruppalità di tipo supportivo; naturale quindi che l’approssimarsi della chiusura del gruppo mettesse in discussione quell’equilibrio facendo “retrocedere” gli integranti allo “statu quo ante”.
Bibliografia
– Bauleo A.: “Ideologia, gruppo e famiglia – Contro-istituzioni e gruppi”. Ed. Feltrinelli, Milano, 1978.
– Bauleo A.: “Psicoanalisi e Gruppalità”. Ed. Borla, Roma, 2000.
– Bion W.R.: “Esperienzenei gruppi”. Ed. Armando, Roma, 1983.
– Bleger J.:”Psicoigiene e Psicologia istituzionale”. Ed.Lauretana, Loreto(AN), 1989.
– Canevaro A., Bonifazi S.: “Il gruppo multifamiliare –un approccio esperienziale”. Ed. Armando, Roma, 2011.
– Curci P., De Berardinis M., Pedrazzi F., Secchi C.: ”Il lavoro di gruppo in un reparto psichiatrico di breve degenza”, in Gruppo e Psicosi, Atti del Convegno di Villa Poma. Amministrazione Provinciale di Mantova, 1988.
– De Berardinis M.: “La relazione gruppo –compito in psicoanalisi operativa”. Sito della Scuola J. Bleger –Rimini. www.bleger.org, 2008.
– De Berardinis M.: “La funzione interpretativa nel gruppo multifamigliare”, in INTERPRETAZIONE, Ed. Sensibili alle foglie, Roma, 2017.
– De Berardinis M.: “Dispositivi gruppali e trasformazioni istituzionali all’interno di un reparto psichiatrico ospedaliero”. Sito della Scuola J. Bleger -Rimini; www.bleger.org, 2019.
– Garcia Badaracco J.: “Comunidad Terapeutica Psicoanalitica de Estructura Multifamiliar”. Ed. Tecnipublicaciones, Madrid, 1989.
– Jaques E.:“Sistemi sociali come difesa contro l’ansia persecutoria e depressiva. Contributo allo studio psicoanalitico dei processi sociali”. In M. Klein, P. Heimann, R. Money-Kyrle, Nuove vie della psicoanalisi. Il Saggiatore, Milano, 1966.
– Kaes R., Bleger J., Enriquez E., Fornari F., Fustier P., Roussillon R., Vidal J. P.: “La institucion y las instituciones. Estudios psicoanaliticos”. Ed.Paidos, Buenos Aires,1996.
– Klein M.: “Scritti, 1921 –1958”.Ed. Bollati Boringhieri, Torino, 2006.
– Mandelbaum E.: “Teoria e pratica dei Gruppi Multifamigliari”. Ed. Nicomp, Firenze, 2017.
– Pavlovsky E., Bouquet C.M., Moccio F.: “Psicodrama – Cuando y por qué dramatizar”. Ed. Busqueda, Buenos Aires, 1985.
– Pichon-Rivière E.: “Il processo gruppale”. Ed. Lauretana, Loreto (AN), 1985.
– Pichon-Rivière E.:“Teoria del Vinculo”. Ed. Nueva Vision, Buenos Aires, 1985.
– Segal H.: “Introduzione all’opera di Melanie Klein”. Ed. Martinelli, Firenze, 1975
Rimini – Insieme hanno iniziato il percorso di disintossicazione al Centro Osservazione e Diagnosi (Cod) L’Airone di Argenta, e insieme Alice e Massimo hanno lanciato un’altra sfida alla loro (ex) dipendenza, convolando a nozze, per fare poi la loro luna di miele alla Comunità Terapeutica di Vallecchio, Rimini. Sono saliti in municipio ad Argenta, dove il sindaco Andrea Baldini ha officiato il loro matrimonio, dopo due anni di fidanzamento e alcuni mesi di terapia al Cod. Testimoni delle nozze i due educatori che li stanno assistendo in questo duplice impegno, Alessia Bagordo e Alfredo Pellegrini. Il primo impegno, come ospiti del Cod, è infatti liberarsi dalla dipendenza, sotto l’osservazione della equipe di educatori, psicologi e psichiatri.
Coriandoli e riso li hanno salutati, lanciati dagli altri pazienti della struttura e dall’equipe sociosanitaria della Cooperativa Sociale Cento Fiori di Rimini, che da alcuni anni gestisce la struttura di Argenta, diretta da Monica Ciavatta. Poi il taglio della torta, in refettorio, con gli altri dieci ospiti e l’equipe sociosanitaria al completo. Niente lancio del tradizionale bouquet da parte della sposa: il destino del mazzolino sarà di essere immortalato in uno dei lavori di bricolage nei quali si diletta lo sposo. Pazienza per le ospiti e le operatrici ancora nubili, ci saranno altri lanci ai quali attendere…
Un atto di coraggio notevole per Alice e Massimo, che hanno scelto di fare un duplice percorso: mettersi alla prova come persone e come coppia, rilanciando addirittura con il matrimonio. Un impegno quest’ultimo che sarà seguito in modo particolare dagli operatori della Cooperativa Sociale Cento Fiori di Rimini, che gestisce tra le altre tre strutture terapeutiche: i Cod di Argenta e di Vallecchio e la Comunità Terapeutica di Vallecchio (Rimini). Le tre strutture sono tra le poche in Italia che offrono da circa 20 anni un trattamento terapeutico specifico per le coppie, proprio per la duplice difficoltà che incontrano i pazienti.
.pf-button.pf-button-excerpt { display: none; }L'articolo Fiori d’arancio alla Cooperativa Sociale Cento Fiori: dopo la disintossicazione Alice e Massimo sposi al Cod di Argenta e luna di miele alla Comunità Terapeutica di Vallecchio. proviene da Cento Fiori, Rimini.
Essere già iscritte alla data del 01 novembre 2020 al Registro delle Imprese tenuto presso la Camera di Commercio competente per territorio;
Essere attive alla data di apertura del bando, cioè al 20 gennaio 2021 e non essere cessate alla data del provvedimento di liquidazione del contributo;
Avere la sede o una unità locale aperta al pubblico in Emilia Romagna;
Aver subito un calo del fatturato medio nel periodo ricompreso tra il 1 novembre 2020 e il 31 dicembre 2020 pari o superiore al 20% rispetto al fatturato medio dello stesso periodo del 2019. Non rileva il calo del fatturato nel caso di attivazione nel periodo dal 1/1/2020 al 1/11/2020;
Essere in regola con il versamento dei contributi previdenziali. A tal fine dovrà essere prodotto, al momento della presentazione della domanda, un Durc regolare.
Essere già iscritte alla data del 01 novembre 2020 al Registro delle Imprese tenuto presso la Camera di Commercio competente per territorio;
Essere attive alla data di apertura del bando, cioè al 20 gennaio 2021 e non essere cessate alla data del provvedimento di liquidazione del contributo;
Avere la sede o una unità locale aperta al pubblico in Emilia Romagna;
Aver subito un calo del fatturato medio nel periodo ricompreso tra il 1 novembre 2020 e il 31 dicembre 2020 pari o superiore al 20% rispetto al fatturato medio dello stesso periodo del 2019. Non rileva il calo del fatturato nel caso di attivazione nel periodo dal 1/1/2020 al 1/11/2020;
Essere in regola con il versamento dei contributi previdenziali. A tal fine dovrà essere prodotto, al momento della presentazione della domanda, un Durc regolare.
La notizia dell’imminente invio di 50 milioni di cartelle esattoriali ha avuto la sua giusta dose di polemiche, giustificate dal momento che stiamo vivendo. In mezzo al clamore suscitato, però, nessuno ha avanzato la considerazione più banale e cioè che in caso di eventuale loro mancato pagamento, purtroppo, al trasgressore non accade nulla.
Il nostro sistema di accertamento dei tributi e della loro riscossione è fondamentalmente a pezzi. La Corte dei Conti, nella sua annuale Relazione al rendiconto Generale dello Stato, ha scritto che al 31 dicembre 2019 lo Stato italiano deve incassare cartelle esattoriali per un valore pari a 954,7 miliardi di euro, cioè una somma pari al 50% del PIL annuale del nostro Paese. Soldi che non si vedranno mai, perché circa 153,1 miliardi sono dovuti da soggetti falliti, 118,9 miliardi sono dovuti da soggetti deceduti o attività cessate, 109,5 miliardi sono dovuti da soggetti nullatenenti. Altri 410,1 miliardi si riferiscono a crediti per i quali lo Stato ha tentato un’azione di recupero ma questa è risultata parziale o inefficace. L’indice di riscossione medio negli ultimi 20 anni è del 13,30%, cioè per ogni 100 euro di credito esattoriale se ne recuperano 13,30 euro. Sulla fascia oltre i 100.000,00 euro di credito, questa percentuale cala al 2,7%.
Saranno pure 50 milioni di cartelle, ma passata l’indignazione iniziale, alla fine rimane solo poco più di uno spreco di carta.
Da cosa dipende questo sostanziale fallimento? La risposta non è univoca, è chiama in causa vari aspetti del nostro sistema tributario. Senza dubbio, la difficoltà nel recupero dei tributi dipende innanzitutto da una serie di paletti posti alla riscossione coattiva, quali ad esempio l’impossibilità di vendere all’asta la prima casa, il pignoramento dello stipendio limitato al quinto oppure l’impossibilità, fino a un paio di anni fa, di utilizzare le banche dati dei conti correnti per verificare le giacenze dei singoli debitori. A queste limitazioni vanno aggiunte quelle che impediscono all’incaricato della Riscossione di scegliere quale credito incassare e quale no, obbligandolo ad adoperarsi allo stesso modo sia per crediti che sa già essere inesigibili sia per crediti più credibilmente riscuotibili.
Infine si osserva che non è previsto nel nostro ordinamento la possibilità di effettuare una transizione del credito con il contribuente, il quale vorrebbe anche adempiere al suo obbligo (non esistono solo i delinquenti e i furbacchioni nel nostro Paese) ma non è in grado di farlo perché, per colpa o destino, l’importo è troppo alto rispetto alle sue possibilità.
La riscossione tramite cartelle esattoriali, però, rappresenta l’ultimo anello di un processo che inizia con l’accertamento dell’imposta da parte dell’Agenzia delle Entrate. Anche questa fase non se la passa benissimo, nonostante il fatto che ogni Governo annualmente sbandiera il suo successo nella lotta all’evasione fiscale, glissando, però, sul fatto che quello che effettivamente si incassa è una percentuale infinitamente bassa. La Corte dei Conti ha calcolato che nel 2019 per tutti gli accertamenti di evasione emessi dall’Agenzia delle Entrate, il 40% di questi, una volta che il presunto evasore li ha ricevuti, li ha comodamente buttati nel cestino. Con la conseguenza che questi avvisi di accertamento, a loro volta, diventeranno cartelle esattoriali con il risultato visto sopra, cioè di sostanziale mancato incasso. Tanto per dire, l’Agenzia delle Entrate, a fronte di crediti per 600 miliardi di euro, ha stimato che ad andare bene ne riuscirà a recuperare solo il 3%.
In tutta questa sostanziale inefficienza, una menzione merita anche la qualità e la quantità di accertamenti svolti, perché oltre a non incassare niente, spesso e volentieri il Fisco, invece di concentrarsi sui grandi evasori, intasa pure i tribunali e gli incaricati della riscossione con richieste tributarie quasi ridicole sia per l’importo che per il presupposto giuridico. Tanto per dire, nel 2019 l’Agenzia delle Entrate di Milano, con un unico controllo fiscale, ha recuperato e incassato da Kering (il gruppo proprietario, tra l’altro, di Gucci e Bottega Veneta) la considerevole cifra di 1,4 miliardi di euro, somma che ha consentito al Governo Italiano di chiudere la manovra aggiuntiva di 2 miliardi di euro evitando così la procedura di infrazione europea. Di contro, nello stesso periodo, sempre in Lombardia, l’Agenzia delle Entrate ha usato i suoi funzionari per recuperare da un importante numero di contribuenti, la stratosferica cifra di 200 euro cadauno, paventando una presunta evasione dell’imposta di registro calcolata per la registrazione di alcuni contratti.
Il risultato è stato che qualche cittadino ha fatto ricorso e non solo l’ha vinto ma addirittura l’Agenzia delle Entrate è stata condannata a pagare le spese legali, ammontanti ad euro 750,00. Per recuperare 200 euro, hanno lavorato almeno quattro funzionari del Fisco e tre Giudici Tributari, con il risultato finale non solo di non averli incassati ma di avere dovuto pagare i danni alla controparte. Questo caso potrà apparire estemporaneo e marginale. Tutt’altro, invece: la Corte dei Conti ha evidenziato che nel 2019 sono stati svolti 508.101 controlli, e ben 259.133 di questi, cioè il 51%, ha portato a recuperare una imposta evasa al massimo di euro 1.549,00. Cioè si sono dovuti fare la bellezza di quasi 260.000 controlli per accertare un terzo della cifra effettivamente incamerata con un solo controllo da Kering.
Diranno i puristi che l’evasione va perseguita a prescindere dall’importo. Ci mancherebbe che fosse il contrario. Però anche la Corte dei Conti, che non si può tacciare di essere favorevole all’evasione, suggerisce un mutamento di queste strategie di contrasto all’evasione, cercando di evitare di impegnarsi su posizioni non proficue né in termini di importo né in termine di esigibilità.
Ci troviamo, in conclusione, di fronte a un sistema che sia nella parte dell’accertamento che nella parte della riscossione presenta uno stato patologico straordinario che viene curato, però, con azioni anch’esse straordinarie ed emergenziali, come le proroghe delle scadenze, i saldi stralci, mini condoni o rottamazioni varie. La politica post-Covid 19, per essere nuova e credibile, dovrà inevitabilmente, in campo tributario, badare al sodo e rivolgere lo sforzo della sua struttura ad accertare somme che saranno con ogni probabilità incassate e non disperdere risorse in azioni forse utili più alla propaganda che alle Finanze dello Stato.
(articolo apparso su www.chiamamicitta.it il 18 gennaio 2021)
Analisi e commenti Newsletter Grassi Benaglia Moretti, avvocati & commercialisti
La notizia dell’imminente invio di 50 milioni di cartelle esattoriali ha avuto la sua giusta dose di polemiche, giustificate dal momento che stiamo vivendo. In mezzo al clamore suscitato, però, nessuno ha avanzato la considerazione più banale e cioè che in caso di eventuale loro mancato pagamento, purtroppo, al trasgressore non accade nulla.
Il nostro sistema di accertamento dei tributi e della loro riscossione è fondamentalmente a pezzi. La Corte dei Conti, nella sua annuale Relazione al rendiconto Generale dello Stato, ha scritto che al 31 dicembre 2019 lo Stato italiano deve incassare cartelle esattoriali per un valore pari a 954,7 miliardi di euro, cioè una somma pari al 50% del PIL annuale del nostro Paese. Soldi che non si vedranno mai, perché circa 153,1 miliardi sono dovuti da soggetti falliti, 118,9 miliardi sono dovuti da soggetti deceduti o attività cessate, 109,5 miliardi sono dovuti da soggetti nullatenenti. Altri 410,1 miliardi si riferiscono a crediti per i quali lo Stato ha tentato un’azione di recupero ma questa è risultata parziale o inefficace. L’indice di riscossione medio negli ultimi 20 anni è del 13,30%, cioè per ogni 100 euro di credito esattoriale se ne recuperano 13,30 euro. Sulla fascia oltre i 100.000,00 euro di credito, questa percentuale cala al 2,7%.
Saranno pure 50 milioni di cartelle, ma passata l’indignazione iniziale, alla fine rimane solo poco più di uno spreco di carta.
Da cosa dipende questo sostanziale fallimento? La risposta non è univoca, è chiama in causa vari aspetti del nostro sistema tributario. Senza dubbio, la difficoltà nel recupero dei tributi dipende innanzitutto da una serie di paletti posti alla riscossione coattiva, quali ad esempio l’impossibilità di vendere all’asta la prima casa, il pignoramento dello stipendio limitato al quinto oppure l’impossibilità, fino a un paio di anni fa, di utilizzare le banche dati dei conti correnti per verificare le giacenze dei singoli debitori. A queste limitazioni vanno aggiunte quelle che impediscono all’incaricato della Riscossione di scegliere quale credito incassare e quale no, obbligandolo ad adoperarsi allo stesso modo sia per crediti che sa già essere inesigibili sia per crediti più credibilmente riscuotibili.
Infine si osserva che non è previsto nel nostro ordinamento la possibilità di effettuare una transizione del credito con il contribuente, il quale vorrebbe anche adempiere al suo obbligo (non esistono solo i delinquenti e i furbacchioni nel nostro Paese) ma non è in grado di farlo perché, per colpa o destino, l’importo è troppo alto rispetto alle sue possibilità.
La riscossione tramite cartelle esattoriali, però, rappresenta l’ultimo anello di un processo che inizia con l’accertamento dell’imposta da parte dell’Agenzia delle Entrate. Anche questa fase non se la passa benissimo, nonostante il fatto che ogni Governo annualmente sbandiera il suo successo nella lotta all’evasione fiscale, glissando, però, sul fatto che quello che effettivamente si incassa è una percentuale infinitamente bassa. La Corte dei Conti ha calcolato che nel 2019 per tutti gli accertamenti di evasione emessi dall’Agenzia delle Entrate, il 40% di questi, una volta che il presunto evasore li ha ricevuti, li ha comodamente buttati nel cestino. Con la conseguenza che questi avvisi di accertamento, a loro volta, diventeranno cartelle esattoriali con il risultato visto sopra, cioè di sostanziale mancato incasso. Tanto per dire, l’Agenzia delle Entrate, a fronte di crediti per 600 miliardi di euro, ha stimato che ad andare bene ne riuscirà a recuperare solo il 3%.
In tutta questa sostanziale inefficienza, una menzione merita anche la qualità e la quantità di accertamenti svolti, perché oltre a non incassare niente, spesso e volentieri il Fisco, invece di concentrarsi sui grandi evasori, intasa pure i tribunali e gli incaricati della riscossione con richieste tributarie quasi ridicole sia per l’importo che per il presupposto giuridico. Tanto per dire, nel 2019 l’Agenzia delle Entrate di Milano, con un unico controllo fiscale, ha recuperato e incassato da Kering (il gruppo proprietario, tra l’altro, di Gucci e Bottega Veneta) la considerevole cifra di 1,4 miliardi di euro, somma che ha consentito al Governo Italiano di chiudere la manovra aggiuntiva di 2 miliardi di euro evitando così la procedura di infrazione europea. Di contro, nello stesso periodo, sempre in Lombardia, l’Agenzia delle Entrate ha usato i suoi funzionari per recuperare da un importante numero di contribuenti, la stratosferica cifra di 200 euro cadauno, paventando una presunta evasione dell’imposta di registro calcolata per la registrazione di alcuni contratti.
Il risultato è stato che qualche cittadino ha fatto ricorso e non solo l’ha vinto ma addirittura l’Agenzia delle Entrate è stata condannata a pagare le spese legali, ammontanti ad euro 750,00. Per recuperare 200 euro, hanno lavorato almeno quattro funzionari del Fisco e tre Giudici Tributari, con il risultato finale non solo di non averli incassati ma di avere dovuto pagare i danni alla controparte. Questo caso potrà apparire estemporaneo e marginale. Tutt’altro, invece: la Corte dei Conti ha evidenziato che nel 2019 sono stati svolti 508.101 controlli, e ben 259.133 di questi, cioè il 51%, ha portato a recuperare una imposta evasa al massimo di euro 1.549,00. Cioè si sono dovuti fare la bellezza di quasi 260.000 controlli per accertare un terzo della cifra effettivamente incamerata con un solo controllo da Kering.
Diranno i puristi che l’evasione va perseguita a prescindere dall’importo. Ci mancherebbe che fosse il contrario. Però anche la Corte dei Conti, che non si può tacciare di essere favorevole all’evasione, suggerisce un mutamento di queste strategie di contrasto all’evasione, cercando di evitare di impegnarsi su posizioni non proficue né in termini di importo né in termine di esigibilità.
Ci troviamo, in conclusione, di fronte a un sistema che sia nella parte dell’accertamento che nella parte della riscossione presenta uno stato patologico straordinario che viene curato, però, con azioni anch’esse straordinarie ed emergenziali, come le proroghe delle scadenze, i saldi stralci, mini condoni o rottamazioni varie. La politica post-Covid 19, per essere nuova e credibile, dovrà inevitabilmente, in campo tributario, badare al sodo e rivolgere lo sforzo della sua struttura ad accertare somme che saranno con ogni probabilità incassate e non disperdere risorse in azioni forse utili più alla propaganda che alle Finanze dello Stato.
(articolo apparso su www.chiamamicitta.it il 18 gennaio 2021)
Analisi e commenti Newsletter Grassi Benaglia Moretti, avvocati & commercialisti
Il credito di imposta riconosciuto è pari al 50% del valore degli investimenti pubblicitari effettuati, con un massimale pari a euro 50.000.000 per ciascuno degli anni. Se le domande presentate supereranno l’ammontare delle risorse stanziate, quest’ultime verranno ripartite su tutti i richiedenti aventi diritto e, di conseguenza, la percentuale del 50% potrebbe essere ridotta. La Legge di Stabilità ha confermato il metodo di calcolo del contributo, che si calcola sull’ammontare degli investimenti effettuati nell’anno di riferimento, a prescindere dall’incremento rispetto a quelli effettuati negli esercizi precedenti.
COME SI USA IL CREDITO DI IMPOSTA SULLA PUBBLICITA’Il credito di imposta è utilizzabile unicamente in compensazione, tramite F24 a partire dal quinto giorno lavorativo successivo alla pubblicazione dell’elenco dei soggetti ammessi. I tributi che si possono compensare sono, a titolo di esempio, i tributi erariali quali IVA, Imposte sui Redditi, contributi previdenziali sui dipendenti, ritenute effettuate a dipendenti o professionisti.
Per comprendere meglio il funzionamento del credito di imposta si evidenzia che per ogni euro 100,00 di investimento pubblicitario, il vantaggio per il soggetto beneficiario del contributo è il seguente:
In sostanza per ogni euro 100,00 di pubblicità acquistata e pagata il beneficiario recupererà una somma pari ad euro 77,90 (euro 27,90 + euro 50,00) e, quindi, l’effettivo costo dello spazio pubblicitario acquistato sarà pari ad euro 22,10, cioè alla differenza fra 100 euro e la somma del risparmio fiscale conseguito e il credito di imposta maturato. Si specifica, infine, che il credito di imposta maturato è esentasse e, quindi, non concorre al calcolo dell’imponibile fiscale alla fine dell’anno.
Analisi e commenti Newsletter Grassi Benaglia Moretti, avvocati & commercialisti
Il credito di imposta riconosciuto è pari al 50% del valore degli investimenti pubblicitari effettuati, con un massimale pari a euro 50.000.000 per ciascuno degli anni. Se le domande presentate supereranno l’ammontare delle risorse stanziate, quest’ultime verranno ripartite su tutti i richiedenti aventi diritto e, di conseguenza, la percentuale del 50% potrebbe essere ridotta. La Legge di Stabilità ha confermato il metodo di calcolo del contributo, che si calcola sull’ammontare degli investimenti effettuati nell’anno di riferimento, a prescindere dall’incremento rispetto a quelli effettuati negli esercizi precedenti.
COME SI USA IL CREDITO DI IMPOSTA SULLA PUBBLICITA’Il credito di imposta è utilizzabile unicamente in compensazione, tramite F24 a partire dal quinto giorno lavorativo successivo alla pubblicazione dell’elenco dei soggetti ammessi. I tributi che si possono compensare sono, a titolo di esempio, i tributi erariali quali IVA, Imposte sui Redditi, contributi previdenziali sui dipendenti, ritenute effettuate a dipendenti o professionisti.
Per comprendere meglio il funzionamento del credito di imposta si evidenzia che per ogni euro 100,00 di investimento pubblicitario, il vantaggio per il soggetto beneficiario del contributo è il seguente:
In sostanza per ogni euro 100,00 di pubblicità acquistata e pagata il beneficiario recupererà una somma pari ad euro 77,90 (euro 27,90 + euro 50,00) e, quindi, l’effettivo costo dello spazio pubblicitario acquistato sarà pari ad euro 22,10, cioè alla differenza fra 100 euro e la somma del risparmio fiscale conseguito e il credito di imposta maturato. Si specifica, infine, che il credito di imposta maturato è esentasse e, quindi, non concorre al calcolo dell’imponibile fiscale alla fine dell’anno.
Analisi e commenti Newsletter Grassi Benaglia Moretti, avvocati & commercialisti
Un anno sicuramente speciale, anche di riqualificazione, si sta concludendo per il progetto dell’Invaso, l’area verde ai margini del parco XXV aprile in concessione al Csr che è riuscita a vivere, nonostante l’emergenza Covid, di numerose iniziative. Centrale, naturalmente, la Serra Cento Fiori, il vivaio della Cooperativa Sociale Cento Fiori che in queste ore sta vivendo il tradizionale trambusto prenatalizio, con l’intenso viavai di abeti , stelle di Natale e tantissime altre piante che i sempre più numerosi clienti vengono ad acquistare. Sostenendo così i programmi terapeutici e gli inserimenti lavorativi di personale svantaggiato che la cooperativa riesce a realizzare in questo spicchio di parco riscattato dal degrado in cui versava solo pochi anni fa.
Certo i fortissimi desideri di vivere la natura sono stati una reazione ai in questi terribili mesi di limitazioni che abbiamo vissuto hanno decretato una forte attività all’aperto. Ma non è solo nella crescita del vivaio che si misura il progetto Invaso: anche quest’anno, nonostante lockdown e normative emergenziali è riuscito a mettere in cantiere alcuni piacevoli eventi e iniziative per adulti e bambini, con il tema della natura sempre al centro. Un percorso di crescita cominciato con la nascita di un orto sinergico, ovvero alcune prode dove accanto agli ortaggi sono cresciute piante officinali e fiori, creando un ecosistema che si protegge dagli insetti e cresce in modo armonioso. Al progetto hanno lavorato Sara Paci, Viola Carando e Laura Moretti.
Laura Moretti è stata la coordinatrice di un evento organizzato da La Bottega Culturale che dalla coltivazione orticola si è ampliato ad una giornata dedicata al writing, ampliando così il filone dei Marecchia Social Fest al “Live painting. Orto. Sonorità”. I portelloni metallici di un edificio del vivaio sono stati nell’occasione disegnati dai writers Burla e Mozone, mentre poco distante gli ospiti poteva cimentarsi in un piccolo laboratorio di piantumazione di semi antichi e letture degli attori di Fratelli di Taglia. Il tutto condito con i sapori della festa grazie ai prodotti alimentari della Cooperativa Sociale Terre Solidali.
La narrazione, il gioco e il laboratorio per bambini dai 4 ai 10 anni invece sono state le attività che hanno polarizzato l’Invaso sabato 7 novembre, grazie a L’ippogrifo e alla cooperativa sociale Il Millepiedi, realizzando un appuntamento nell’ambito del Progetto di sistema regionale – La scuola in natura. Il progetto, nato nel 2011, coordinato dalla Rete Ceas (centri di educazione alla sostenibilità) Emilia-Romagna per intervenire in funzione dei bisogni delle comunità e per cogliere in ambito didattico le tante opportunità offerte dall’ambiente naturale e dal territorio.
Le due organizzazioni pedagogiche hanno allestito un programma – “Un pomeriggio di niente … a seminar piante e storie” – dove alle letture di racconti si sono alternati giochi e occasioni per imparare la grande bellezza dei processi naturali. Oltre allo spazio, la Cooperativa Sociale Cento Fiori ha messo a disposizione l’esperta agronoma Dea Guidi che ha insegnato ai bambini i meccanismi della riproduzione delle piante e della crescita, donando loro alcuni semi e delle piantine da accudire una volta tornati a casa. I bambini sono stati assistiti oltre che dai loro genitori, dalle volontarie dell’Ippogrifo e de Il millepiedi, per poi disperdersi nell’area in una divertente caccia al tesoro.
Articolo pubblicato su Csr news, newsletter periodica del Consorzio Sociale Romagnolo
L'articolo All’Invaso del parco Marecchia sono cresciute le iniziative per adulti e bambini, mentre ora è di scena il Natale proviene da Cento Fiori, Rimini.
Notizie ImpreseOggi
Notizie ImpreseOggi
Notizie ImpreseOggi
Notizie ImpreseOggi
di Gianni De Giuli
Il 22 settembre 2020 ho partecipato all’incontro “Istituzioni e pandemia: elementi di analisi istituzionale e gruppo operativo”, a cura del Gruppo internazionale di ricerca su Pandemia ed Istituzioni. In quella sede c’è stata, da parte di alcuni partecipanti – istituzionalisti francesi e svizzeri – un ricordo molto sentito di Georges Lapassade e dei temi concernenti l’Analisi istituzionale. Si tratta di contenuti e pratiche che nel corso degli anni 90 avevo appreso e sviluppato direttamente con Lapassade nel corso dei suoi lunghi soggiorni in Italia.
Nelle giornate successive all’incontro, discutendone con Leonardo Montecchi e Luciana Bianchera, ho ripensato al resoconto di un’esperienza formativa che avevo realizzato con Lapassade nel ‘96. Ne era nato un articolo che era stato pubblicato su Pratiques de Formation, la rivista degli istituzionalisti francesi presso l’Università di Parigi 8 e successivamente in Italia su Psicologia e Lavoro. Leonardo e Luciana non lo conoscevano e dopo averlo letto mi hanno chiesto di ripubblicarlo, trovandolo evidentemente ancora stimolante.
Nel farlo ho pensato di levare la parte introduttiva, ormai datata, centrata sul dibattito, in quegli anni molto vivo, sul ruolo del terzo settore nella ridefinizione di welfare e protagonismo delle organizzazioni sociali, mantenendo invece il resto dell’articolo che presenta direttamente l’analisi istituzionale in azione: un incontro di formazione condotto con il metodo dell’intervento socioanalitico.
Lapassade all’epoca non praticava quasi più la socioanalisi, raccontava che nel declino storico che il “movimento dei gruppi” stava attraversando anche la socioanalisi aveva perso la sua spinta propulsiva. Inoltre, come viene evidenziato sin dal titolo dell’articolo, altre correnti teoriche e metodologiche – in primis etnometodologia e interazionismo simbolico – dovevano affiancarsi alla tradizionale AI, non solo nello spiegare i processi sociali a livello microsociologico ma direttamente nella pratica della formazione. Ed era stata proprio la curiosità di sperimentare nuovi dispositivi formativi che avevano spinto Georges ad affiancarmi nella conduzione dei due seminari di cui tratta l’articolo.
Lapassade, che ne era stato il fondatore, era allora interessato a vedere come superare l’analisi istituzionale, integrandola con nuove conoscenze e metodologie.
Rileggendo oggi l’articolo è bello riconoscere come i concetti e il metodo dell’AI mantengono tutta loro capacità di indicare possibili alternative in primo luogo nella formazione di gruppi, organizzazioni e istituzioni.
Alla ricerca di una formazione per l’impresa sociale:
il contributo dell’analisi istituzionale e dell’interazionismo simbolico
Modelli formativi e organizzazioni
Nella formazione degli adulti che operano, a vari livelli, nelle organizzazioni del lavoro, i metodi prevalenti provengono dalla psicosociologia dei gruppi. Essi traggono le proprie origini teoriche dalla dinamica di gruppo lewiniana e, per ciò che riguarda le tecniche, dal dispositivo del T group, che possiamo sinteticamente descrivere come un seminario di sensibilizzazione alle relazioni di gruppo che si sviluppa attraverso l’autoanalisi permanente nel “qui e ora” (hic et nunc) del vissuto dei partecipanti e in cui il compito del conduttore è quello di facilitare l’autoanalisi utilizzando uno stile non direttivo. Il conduttore quindi non “fa lezione” sulla dinamica di gruppo, ma anima il seminario con brevi interventi che descrivono i processi in corso nella costruzione progressiva della situazione di gruppo.
Su queste basi è stato elaborato un quadro teorico e pratico per la formazione, che si è sviluppato soprattutto nell’ambito aziendale e manageriale a partire dagli anni ‘60 e che è stato progressivamente esteso anche ad altri contesti organizzativi.
Così anche nel cosiddetto terzo settore i metodi della formazione fanno spesso riferimento a quel modello consolidato.
Ci si chiede allora se si debba trasferire un metodo di formazione utilizzato con successo per il management aziendale sul terreno della formazione di dirigenti di cooperative sociali. Si deve definire una cooperativa come un’azienda? Si deve analizzare come tale nel suo funzionamento? Altrimenti quale formazione potrebbe convenire alle cooperative? E’ possibile proporre un modello alternativo?
Queste domande, che mi pongo da tempo, sono state al centro di un’ esperienza formativa realizzata con Georges Lapassade, che in questo articolo voglio descrivere e commentare. Alla descrizione si aggiungono le riflessioni che abbiamo sviluppato successivamente, ripensando all’intervento formativo, e che ci consentono di individuare alcune prospettive di ricerca per una diversa pratica della formazione.
Nei due seminari da noi animati, l’impostazione socioanalitica e i temi della pedagogia istituzionale che Lapassade ha cominciato ad elaborare fin dagli anni ‘60, proprio a partire da una critica del T group, sono stati ulteriormente rielaborati e contaminati con concetti e categorie analitiche che provengono dalla corrente sociologica dell’interazionismo simbolico. I seminari hanno dunque rappresentato un momento di ricerca e sperimentazione e alcuni elementi teorici possono essere estrapolati dalla descrizione delle due esperienze, pur essendo lontani da una formulazione teorica definitiva e limitandoci a riconoscere i possibili sviluppi per la formazione a partire dalla connessione di due approcci che hanno un comune taglio microsociologico.
L’analisi istituzionale in un gruppo in formazione
I seminari erano rivolti a dirigenti di cooperative sociali ed erano centrati sui temi del lavoro di gruppo e sul rapporto tra organizzazione e partecipazione nelle cooperative.
Il committente era un consorzio nazionale (CN) di cooperative che raccoglie al proprio interno numerosi consorzi locali (CL) costituiti a loro volta dalle coop cui appartenevano, appunto in qualità di dirigenti, i partecipanti ai nostri seminari.
Era la prima volta che il CN organizzava un’ attività formativa specifica per i dirigenti del Sud: un percorso articolato in dieci seminari con l’obiettivo di sviluppare le competenze individuali e collettive per lo sviluppo delle organizzazioni.
Durante il primo seminario da noi condotto, il tema del gruppo è stato trattato secondo il dispositivo socioanalitico:
– Un dispositivo formativo che si sviluppa a partire dall’analisi permanente di ciò che il gruppo produce ma dove, a differenza del T group da cui proviene, non c’è la chiusura del gruppo nell’interazione interna, separato dalle condizioni e dall’organizzazione che ne hanno reso possibile la costituzione e ne hanno predefinito alcune regole di funzionamento.
Ciò significa che il gruppo non è un qualsiasi gruppo che diviene il laboratorio privilegiato per imparare il funzionamento dei gruppi, essendo attraversato dai classici fenomeni e processi (coesione, comunicazione, leadership, decisione etc.) che il T group permette di vivere e autoanalizzare permanentemente nell’hic et nunc. E’ invece un gruppo (“istituito”) di dirigenti di cooperative che fa parte di un’organizzazione nazionale (“istituente”) che ha promosso e realizzato quel corso di formazione. Questo approccio permette pertanto di riconoscere la base invisibile ma presente (“istituzione”) su cui poggia il gruppo in formazione, base che ne regola il funzionamento attraverso un quadro di norme, interazioni, gerarchia e status dei diversi attori che insieme concorrono a realizzare l’intervento formativo.
All’inizio questo orientamento “istituzionalista” ha trovato la sua prima formulazione già nel 1962 nella proposta di gestione collettiva dell’orario di formazione di un T Group. L’eterogestione dell’orario della formazione (orario deciso altrove e mandato ai partecipanti) era in contraddizione con la pretesa di non direttività dei formatori all’interno del gruppo, per superare questa contraddizione si proponeva di gestire l’orario.
Si chiamava allora Analisi Istituzionale:
– l’analisi dell’orario come istituzione interna
– e anche l’analisi della manifestazione di un’istituzione esterna (l’organismo di formazione presente / assente nella situazione, che aveva previsto l’orario di cui il conduttore mandato dall’organizzazione si faceva garante)
Ma nell’ hic et nunc del nostro seminario, ciò che ha rivelato il manifestarsi dell’istituzione esterna è apparso in tutta evidenza con il problema della sede del seminario.
E’ successo infatti, ad un certo punto dei lavori, che una partecipante ha affermato di non gradire la sede dell’incontro successivo, già prevista dall’organizzazione, ed ha proposto che il gruppo la cambiasse.
Trattando questo tema, volendo decidere, loro, la sede della loro formazione, i partecipanti hanno prodotto ciò che nel linguaggio socioanalitico è chiamato un effetto analizzatore.
– L’analizzatore è un evento o un fenomeno che rivela ciò che l’organizzazione determina, che permette ai partecipanti di riflettere e analizzare il significato dell’organizzazione, il suo funzionamento, i rapporti di potere che vi si sviluppano.
E’ stata la discussione sulla sede del seminario successivo, che ha consentito di spostare e sviluppare l’analisi sul rapporto tra organizzazione della formazione (CN e CL) e partecipanti all’evento formativo, tra istituente ed istituiti.
Paradossalmente il corsista che più si opponeva all’idea che fossero i corsisti stessi a decidere la sede del seminario successivo, considerandola una scelta non di loro competenza – perchè da sempre e inequivocabilmente competenza dell’organizzazione – era colui che in veste di dirigente del CL aveva scelto la sede del seminario che stavamo svolgendo.
E’ accaduto qui qualcosa che ha avuto un forte effetto sui i partecipanti: l’organizzazione istituente del percorso formativo (CN in accordo con i diversi CL), che inizialmente veniva percepita come “intoccabile”, totalmente distante, burocrazia plenipotenziaria e non influenzabile dalle richieste dei corsisti, assumeva progressivamente, nel lavoro di analisi, i tratti di un organismo costituito da persone che in alcuni casi erano le stesse che, lì in quel momento, stavano discutendo.
L’analizzatore ha permesso di rivelare il valore di feticcio che viene attribuito alle organizzazioni anche in un settore come quello delle cooperative sociali dove le stesse sono create e controllate dai soci lavoratori, i quali vorrebbero, in questo modo, esprimere forme di autogestione e di superamento della burocrazia.
Ciò che l’analisi mostrava era che in realtà i partecipanti del corso – dirigenti di cooperative e in alcuni casi anche dei consorzi locali che organizzavano quel corso – non si sentivano in potere di decidere nemmeno rispetto al luogo e alla struttura residenziale del corso, che pure pagavano personalmente o attraverso le proprie cooperative.
Il seminario si era chiuso con l’istituzione di un comitato di corsisti a base regionale il cui unico compito era di negoziare con il proprio consorzio locale lo spostamento della sede prevista per l’incontro del mese successivo.
Questa contestazione della sede e la ricerca di una soluzione alternativa deve essere vista come un’espressione di un desiderio collettivo tra i corsisti di gestire almeno un aspetto della loro formazione: non necessariamente i contenuti e i metodi ma almeno la sua base materiale. In questo senso un orientamento di tipo “autogestionario” è stato scelto in quel momento dall’Assemblea dei corsisti.
D’altra parte con questa messa in crisi della sede prevista per il successivo seminario, la formazione acquistava il carattere di un intervento sulla struttura e si passava ad un livello di analisi istituzionale nel senso di analisi dell’istituzione che dall’esterno organizza il dispositivo della formazione. Si produceva, in questo modo ed in anticipo, del materiale per il successivo seminario il cui tema era “Organizzazione e Partecipazione nel sistema cooperativo”.
Il dispositivo costruito nel seminario non ha però funzionato, il comitato si è più o meno autodissolto dopo un tentativo fallito di cambiare la sede.
L’organizzazione dell’autoformazione
A distanza di tre settimane, nel secondo seminario, il primo problema esaminato è quello del comitato e del suo fallimento: il Consorzio locale aveva infatti dichiarato che la richiesta di cambiamento non era di competenza del comitato dei corsisti. Pertanto ci eravamo tutti ritrovati nella città e nell’albergo previsti in origine dal CL e tanto contestata nel seminario precedente.
L’analisi collettiva di questa sconfitta ha evidenziato che:
a) la coordinatrice del comitato per motivi personali ha rinunciato al suo ruolo tentando di trasmettere la sua responsabilità ad un altro membro dello dello stesso comitato che però ha rifiutato affermando di non essere interessato.
b) i membri del comitato non sapevano che il giusto interlocutore per la loro richiesta era il responsabile della formazione (RF) del Consorzio nazionale, credevano che la decisione dipendesse solo dal Consorzio locale e non conoscevano il funzionamento reale della loro organizzazione nazionale. Questa mancanza di conoscenza costituiva un’eccellente materia per aprire un seminario il cui tema era la partecipazione nell’organizzazione.
c) il presidente del Consorzio locale non aveva nemmeno lui tentato di chiarire la situazione organizzativa, comportandosi come il giusto interlocutore a due livelli:
– la sua risposta al comitato:- Non è vostra competenza cambiare sede – poteva significare – E’ mia competenza e non sono disposto a negoziare con voi -.
– ricevendo un fax da un membro del comitato, contenente una proposta di sede alternativa, lo aveva “sequestrato” senza trasmetterlo al responsabile nazionale.
L’analisi ha inoltre indicato che questo pasticcio a livello organizzativo aveva avuto ripercussioni ad altri livelli istituzionali: la direzione del Consorzio nazionale aveva nel frattempo ricevuto un fax del Consorzio locale, poco chiaro, in cui si alludeva ad una “riprogettazione delle modalità organizzative” da parte dei partecipanti, e ciò aveva provocato una preoccupazione di tipo organizzativo ai vertici del CN.
Questo breve riassunto della prima attività del seminario è un’ ulteriore illustrazione del metodo di lavoro utilizzato: in questo dispositivo non si fa lezione sull’organizzazione, nemmeno simulazioni o altri esercitazioni formative. La formazione si sviluppa a partire dal vissuto del gruppo in relazione con le istituzioni interne ed esterne al seminario (analisi istituzionale e dispositivo socioanalitico).
Un altro aspetto del dispositivo di formazione è che continuamente il gruppo gestisce l’orario del suo lavoro, dopo che l’orario prestabilito del seminario é stato abbandonato perchè poco rispondente ai bisogni dei partecipanti.
Esiste invece un consenso sull’elaborazione progressiva e permanente delle attività e dell’orario, con la sola eccezione delle ore di pranzo e cena, regolate dal personale dell’albergo in cui siamo ospitati.
Durante la seconda giornata Lapassade propone la formazione di un nuovo comitato per gestire con l’Assemblea dei partecipanti i prosssimi seminari nei contenuti e negli aspetti logistici.
Ciò significa che la pratica formativa sull’organizzazione può consistere nella attività organizzativa: sono i corsisti riuniti in Assemblea ad organizzare la propria formazione, utilizzando i formatori come risorse a loro disposizione.
Questo modo di fare, derivato dal T. group si oppone ad un’altra concezione della formazione nella quale i contenuti sono trasmessi dagli insegnanti senza negoziazione del corso con i corsisti.
A questo punto è forse necessario sottolineare che il corso proposto agli stessi corsisti si articola in 10 sessioni già predefinite.
Lapassade precisa che la sua è una proposta pedagogica di un dispositivo di autoformazione per i corsisti che implica la gestione da parte loro anche dei contenuti o almeno la loro negoziazione con il responsabile del corso.
L’ Assemblea comincia discutere la proposta, ma quando dopo una pausa lo staff ritorna in Assemblea scopre che la stessa sta già funzionando senza la presenza dei formatori nel ruolo di animatori. Gli stessi decidono allora di restare fuori e di ritornare solo su invito esplicito dell’Assemblea generale.
Così inizia una fase autogestita del seminario: i lavori proseguono in piccoli gruppi costituiti dall’Assemblea generale senza l’intervento dello staff.
Le proposte che più tardi vengono presentate in Assemblea con lo staff dei formatori sono:
-1°gruppo: ritiene molto utile il metodo dei due seminari basati sull’esperienza vissuta, ma propone di proseguire con il metodo che era stato utilizzato nel seminario di apertura del corso con il responsabile della formazione e che prevedeva il coinvolgimento dei partecipanti attraverso esercitazioni e discussioni di gruppo. Tale metodo (che chiameremo “metodo RF”) è considerato innovativo e coerente con i contenuti dei futuri seminari. Viene accettata l’idea di un comitato che si occupi dei bisogni del gruppo e dei singoli e sia propositivo per la logistica mentre sui contenuti si limiti a possibili integrazioni. Un membro del comitato si dissocia ritenendo il “metodo RF” troppo vicino ad una formazione aziendale.
- 2°gruppo: è favorevole all’autogestione ma senza rottura con chi ha proposto il programma del corso. Si ritiene importante privilegiare le specificità del Sud e trovare un accordo con l’organizzazione anche in merito ai formatori. Considera positiva l’idea di un comitato composto da persone competenti sulla cooperazione sociale al Sud. Viene anche proposta la creazione di un bollettino autofinanziato dalle cooperative per far circolare ed elaborare materiale relativo alle esigenze formative e scambiare più informazioni con il consorzio nazionale. L’idea è quella di un comitato “molto operativo”, a rappresentanza regionale.
- 3°gruppo: D’accordo con il comitato eletto con il criterio della rappresentanza regionale. D’accordo sull’autogestione per discutere su tutto ma non viene ritenuto necessario un cambiamento dei contenuti.
- 4° gruppo: si presenta spaccato: tre corsisti preferiscono il metodo dell’autogestione, gli altri tre il “metodo RF”, per cui propongono un’integrazione dei due metodi, sono anche per un comitato a rotazione e su base regionale
- 5° gruppo: Intende l’autogestione come possibilità di introdurre dei cambiamenti nel percorso formativo. Il comitato deve essere una sorta di CdA dell’Assemblea dei corsisti.
Dai resoconti dei lavori dei gruppi possiamo rilevare nei corsisti una sorta di disorientamento, una dissonanza cognitiva che si risolve nel tentativo di tenere insieme due modelli alternativi di formazione
L’autogestione proposta dai gruppi non appare come un prendere direttamente nelle proprie mani il futuro del percorso formativo, ma ciò deriverebbe, secondo gli stessi corsisti, dall’impossibilità di autogestire contenuti che non si conoscono.
In sostanza la proposta dell’autogestione, così come emerge dalla successiva discussione, non sembra ancora realizzabile.
Praticare un percorso autogestito significa, innanzitutto, passare da una definizione della formazione come prodotto già realizzato e offerto da un’esperto, alla formazione come attività istituente di un gruppo di persone che, facendo lo stesso lavoro, con le medesime funzioni (dirigenti di cooperativa), può individuare i propri bisogni, definire degli obiettivi e organizzare un percorso di formazione utilizzando i docenti nelle modalità e con le funzioni ritenute più appropriate.
Ma nel seminario emerge tutta la difficoltà dei corsisti nel passare da una posizione di “istituiti” ad una di “istituenti”. La formazione è percepita come un’attività a loro esterna i cui contenuti sono sconosciuti, decisi altrove, da formatori che hanno già predefinito i bisogni formativi di quei dirigenti.
Le resistenze alla proposta dell’autogestione portano lo staff a precisare, in modo meno ambizioso, l’idea dell’autoformazione: essa si limiterebbe, in una prima fase, ad una negoziazione dei contenuti del seminario successivo.
Il lavoro è facilitato dal fatto che sono presenti, come membri dello staff, gli interlocutori necessari: il responsabile nazionale della formazione e un altro formatore, previsto come conduttore principale del futuro stage.
Essi potrebbero presentare il programma per poi negoziarne i contenuti, come già proposto la sera prima, ma ancora si riscontra la mancanza di interesse dell’Assemblea.
Le definizioni della situazione
Viene allora riformulata e restituita nell’Assemblea un’ipotesi avanzata dallo staff durante una riunione: l’autogestione potrebbe essere solo un desiderio dello staff, mentre i corsisti partecipano al percorso formativo forse più per incontrare i colleghi e per poter dire di aver fatto il corso, per la propria carriera ed il proprio status (ricordiamo che si tratta del primo percorso formativo per dirigenti di cooperative sociali fatto al sud) indipendentemente dall’interesse per i metodi ed i contenuti.
Saremmo dunque di fronte a obiettivi diversi, che, utilizzando un concetto dell’interazionismo simbolico, portano a diverse “definizioni della situazione”. Ciò significa che i vari partecipanti alla situazione formativa attribuiscono ad essa sensi diversi, la valutano diversamente e si predispongono di conseguenza ad agire diversamente.
Se su tali definizioni non avviene un continuo processo di negoziazione, è reso impossibile non solo un accordo sull’autogestione, ma anche sul modo stesso di procedere nel seminario.
Esempi di ciò ci provengono da due eventi che si succedono nell’ultima parte del seminario.
Il primo caso si riferisce a ciò che accade quando lo staff propone di preparare il primo numero del bollettino proposto da uno dei gruppi la sera precedente, come primo strumento dell’autoformazione. Questa proposta viene accettata, si formano piccoli gruppi che dopo aver lavorato attivamente, ritornano in Assemblea con i loro prodotti scritti.
I risultati sono però poco convincenti, non si avverte un interesse reale attorno al progetto di un bollettino interno al percorso formativo.
Una corsista sostiene che “siamo stati tutti d’accordo sul giornale ma visto come un’esercitazione del seminario e non come bollettino reale”.
Il secondo esempio ci viene dall’ultima seduta dell’Assemblea.
All’inizio due membri dello staff fanno due lunghi interventi di rilettura e analisi del seminario che si propongono come conclusione dello stage, non lasciando spazio alla possibile valutazione dei corsisti che invece ascoltano in un silenzio quasi religioso.
Un altro formatore interpreta questi interventi rifacendosi al concetto goffmaniano del sè, inteso non come originato dalla persona del soggetto ma come prodotto di una messa in scena sociale le cui regole e caratteristiche strutturali determinano le diverse parti recitate dal soggetto stesso. Questo modo di parlare, potrebbe esprimere il bisogno dello staff di presentare sè stesso nei ruoli e nella dignità dello psicosociologo e del sociologo formatore che esibiscono la loro competenza sviluppando un discorso intelligente ed articolato e non solo un’agitazione e un ipeattivismo permanente chiamato formazione.
Questa occupazione del tempo alla conclusione del seminario significherebbe che taluni membri dello staff non accorderebbero molta serietà al progetto di istituire un nuovo comitato rappresentativo dell’Assemblea, compito che invece viene ritenuto importante da questo membro dello staff.
Si decide allora di verificare quanti corsisti sono favorevoli al comitato:
– 10 sono contrari e formulano i motivi della loro opposizione
– 15 sono a favore ma non dicono perché
– mancano 9 partecipanti, non presenti all’ultimo giornata.
I quindici escono dalla sala della riunione e costituiscono il comitato.
Dopo aver eletto un coordinatore, il comitato si è assunto da subito il compito di formulare delle proposte per la continuazione del corso, i contenuti da trattare e le modalità organizzative.
Così si è chiuso il seminario, sciogliendo l’Assemblea Generale.
Un dispositivo per l’autogestione della formazione
Nelle giornate successive al seminario abbiamo lavorato ad un’analisi dell’esperienza. Sono emerse alcune indicazioni che ci consentono di guardare da altri punti di vista al problema della formazione in generale e alle questioni poste dai seminari.
La mia domanda principale era relativa alla difficoltà dei corsisti di accettare la proposta dell’autoformazione che veniva dallo staff dei formatori. Perchè tante resistenze all’ipotesi dell’ autogestione del percorso formativo da parte di persone che nelle loro cooperative si autogesticono quotidianamente il proprio lavoro?
Una risposta la possiamo ricavare ricorrendo nuovamente al concetto di definizione della situazione, partendo da un’osservazione formulata nel 1932 da Willard Waller, il primo a proporre una descrizione della relazione pedagogica nel linguaggio dell’interazionismo simbolico.
Waller, al contrario di Durkheim, sosteneva che la situazione pedagogica era inevitabilmente conflittuale in conseguenza del fatto che i maestri e gli studenti non hanno la stessa definizione della situazione:
– i maestri definiscono la situazione come la vuole la società che rappresentano, considerando che loro sono nella scuola per insegnare, trasmettere delle conoscenze e che gli studenti sono lì per imparare;
– gli studenti invece possono avere altri obiettivi come quello di incontrare amici, divertirsi, fare del baccano, giocare e forse anche apprendere qualcosa.
Durante il seminario era stata formulata l’ipotesi che i corsisti forse partecipavano al corso con altri obiettivi, diversi da quelli dell’apprendimento: ritrovarsi insieme, fare un po’ di vacanza, poter dire di aver preso parte a questo corso, etc..
Questo tipo di osservazione non è stata però sufficientemente tematizzata con i corsisti, anche se i formatori ne hanno parlato tra di loro.
Un’altra referenza è quella di Goffman sulle istituzioni totali quando dice che se nel carcere i prigionieri frequentano regolarmente la biblioteca il direttore sarà portato a considerare che questo significa un progresso. Ma il vero motivo del recluso può essere un altro, per esempio farsi notare positivamente per avere una riduzione della pena e non per arricchire la sua conoscenza.
Ritornando alla nostra situazione di formazione possiamo dire che ci sono diverse definizioni della situazione che si confrontano e che sono formulate in termini di obiettivi divergenti:
a) gli obiettivi del Consorzio nazionale, che ha sempre promosso e organizzato corsi per i dirigenti delle coop, ma mai si è interessato all’autogestione
b) gli obiettivi dei Consorzi locali più legati alla gestione e al controllo della base materiale della formazione, su cui si giocano i rapporti di potere interni ed esterni.
c) gli obiettivi della direzione della formazione dove prevale il bisogno di mantenere gli equilibri esistenti che l’autogestione potrebbe invece mettere in pericolo
d) gli obiettivi dei formatori, interessati a produrre nuovi modelli e nuove sintesi
e) i vari obiettivi dei corsisti
E’ nella relazione tra le diverse definizioni della situazione che avviene il massimo conflitto istituzionale ed è lì che va sviluppata l’analisi.
Su questo piano credo sia possibile progettare un dispositivo di formazione che si ponga sin dall’inizio l’obiettivo di costruire collettivamente una comune definizione della situazione formativa. L’autogestione diviene allora la pratica istituente che si sviluppa a partire da questo lavoro di negoziazione, costruzione e condivisione degli obiettivi, dei metodi, dei contenuti e delle finalità generali della formazione.
Possiamo così riprendere il discorso iniziale e riformulare le domande relative ad un modello formativo alternativo a quello psicosociologico tradizionale: in che modo è possibile fare una formazione utile per organizzazioni che vogliono praticare una visione autogestionaria e solidaristica dei rapporti sociali, se non praticando anche nella formazione modelli autogestiti che superino la tradizionale opposizione tra istituenti e istituiti, tra conduttori e condotti, tra chi detiene un sapere e chi è convinto che solo gli esperti possano conoscere i suoi bisogni formativi ?
Per un modello alternativo di formazione proponiamo un dispositivo di formazione che può contenere al proprio interno due obiettivi opposti:
– quello tradizionale della trasmissione di conoscenze
– quello di un apprendimento fondato sull’esperienza dell’hic et nunc.
La scelta tra i due può essere legata ai contenuti:
– alcuni contenuti, ad esempio quelli legati ai saperi tecnici possono essere trattati attraverso la trasmissione di conoscenze;
– altri posono essere accquisiti sulla base dell’hic et nunc, per esempio, rifacendoci all’esperienza descritta, le competenze nel chiarimento dei rapporti con la gerarchia, la capacità di identificare i giusti interlocutori per problemi specifici, l’animazione di una riunione o di un’assemblea alla ricerca di una maggior partecipazione alle decisioni.
E’ nella gestione dei contenuti che si verifica il ribaltamento del modello tradizionale: i corsisti si possono organizzare per ricercare e decidere quali sono i loro bisogni formativi, anche ricorrendo agli esperti, ma utilizzandoli come consulenti e gestendoli di volta in volta.
La formazione si avvicina così al modello della nuova ricerca-azione di Carr e Kemmis in cui sono gli stessi praticanti (i corsisti) a condurre la ricerca a partire dalla loro pratica formativa, a differenza della ricerca-azione classica, lewiniana, dove sono gli esperti esterni che gestiscono e pianificano la ricerca.
In questo dispositivo il ruolo della direzione della formazione è legato alla proposta delle risorse, al materiale di formazione da negoziare con i corsisti, che devono anche negoziare le basi materiali della formazione, il suo progresso, date, orari.
Tutto ciò consente a dirigenti di cooperative sociali di autopromuoversi come soggetti dell’apprendimento, sperimentando anche nel campo dell’organizzazione del sapere modelli autogestionari coerentemente con la visione autogestionaria dei rapporti sociali di cui le imprese sociali possono farsi portatrici.
Bibliografia
– W. Carr, S. Kemmis, Becoming Critical: Education Knowledge and Action Research, Falmer Press, 1986
– O. Cotinaud, Dinamica di gruppo e analisi delle istituzioni, Roma, Borla, 1976
– E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, Il Mulino, 1969
– E. Goffman, Asylums, Torino, Einaudi, 2003
– G. Lapassade, L’analisi istituzionale, Milano, Isedi 1974
– G. Lapassade, L’autogestione pedagogica, Milano, F. Angeli, 1973
– G. Lapassade, In campo, Lecce, Pensa Multimedia, 1996
– G. Lapassade, Baccano, Lecce, Pensa Multimedia, 1996
– G. Lapassade, L’istituente ordinario, Lecce, Pensa Multimedia, 1997