di Marella Tarini
Le riflessioni seguenti prendono corpo in seguito alla esecuzione di un percorso di supervisione effettuato afavore di un gruppo di psicoterapeuti appartenenti ad un’organizzazione di Privato Sociale, incaricato di svolgere, per conto di un Ambito Territoriale Sociale, azioni di intercettazione precoce del disagio psico-relazionale, specialmente, ma non esclusivamente, a favore della popolazione giovanile.
La creazione di strutture mobili operative alle quali è attribuito il compito di captare i bisogni emergenti nella comunità di un territorio è esperienza abbastanza recente nel panorama delle risorse sanitarie messe in campo per tentare di dare risposte alle complessità che si manifestano e che possono essere interpretate come portatrici di potenziali disfunzioni individuali e collettive.
Tali complessità spesso sono caratterizzate da situazioni di alterazione degli equilibri pregressi presenti nelle relazioni familiari o istituzionali, come per esempio nell’ambito della Scuola, che non si strutturano immediatamente come manifestazioni patologiche già configurate in complessi sintomatologici chiaramente identificabili, ma più spesso si presentano con aspetti sfumati e indefiniti, che ingenerano comunque preoccupazione o difficoltà gestionali a carico degli attori coinvolti.
L’apparato sanitario istituzionale, in maniera particolare quello pubblico, si è mostrato inadatto a farsi carico degli interventi possibili e plausibili a questo riguardo. Questa incapacità o difficoltà si è declinata ed è risultata evidente in special modo negli ultimi anni, per una serie di motivi. Uno di questi motivi è la abdicazione del settore pubblico della Sanità alle politiche attive di promozione di salute sul territorio, se si esclude, in parte, l’ambito di intervento del settore delle dipendenze patologiche, che è incaricato,
con finanziamenti appositamente dedicati, della attuazione di percorsi e progetti preventivi comunitari con il mandato esplicito di ridurre l’ipotetico impatto determinato dalla estensione generalizzata dell’uso di sostanze esogene o di comportamenti definibili come “dipendenti”, come per esempio il gioco d’azzardo patologico o la dipendenza digitale.
Un altro motivo, complementare al precedente, è la obiettiva moltiplicazione a livello comunitario di situazioni di sofferenza relazionale, caratterizzate da una disfunzione ed un impoverimento della comunicazione intergenerazionale che ricade sul funzionamento di tutte le istituzioni sociali e che si aggancia al processo di profonda crisi nella definizione dei ruoli presenti nelle interazioni. A questa massiccia moltiplicazione di aspetti potenzialmente generatori di disagio, che potrebbe essere colto ed affrontato positivamente per aprire un processo indirizzato ad una produttiva elaborazione evolutiva, le istituzioni sanitarie hanno risposto con tutta la loro inadeguatezza quantitativa, dato l’impoverimento progressivo di risorse determinato dalle scelte politiche e finanziarie che hanno prodotto costanti tagli lineari; ma anche con una inadeguatezza qualitativa, in parte conseguente alla riduzione di investimenti appena citata ed in parte specifica in sé: la enfasi messa in campo a sostenere approcci di carattere fortemente riduzionista, meccanicista e positivista ha fatto scemare la capacità di accogliere le complessità e le forme “indefinite”, che invece si manifestano sempre più frequentemente, con il risultato che quando queste si presentino non sia possibile identificare il Servizio o la Struttura che possa iniziare a farsene carico.
Un esempio eclatante è quello delle problematiche che insorgono in età adolescenziale ed in special modo minorile: se la disfunzione che si comincia ad evidenziare ha delle caratteristiche che potrebbero essere potenzialmente di competenza psichiatrica, almeno per l’espletamento di una fase conoscitiva preliminare, il problema non è accolto dai Servizi preposti, perché normativamente e burocraticamente essi non sarebbero destinati ad accogliere soggetti che non abbiano compiuto la maggiore età; allora viene suggerito l’invio ai Servizi di Pediatria, che però non ritengono di essere competenti a valutare il tipo di tematiche di cui si sta parlando, perché le si ritiene aderenti ad un campo specialistico peculiare che non attiene al loro mandato; non va meglio se si ricorre all’ intervento dei Consultori, che, ridotti all’osso per ciò che riguarda l’attribuzione di personale e di operatori, dichiarano di rispondere, e tra l’altro con estrema obiettiva difficoltà, solo alle situazioni caratterizzate da implicazioni giudiziali e quindi inoltrate dal Tribunale.
E siamo solo al momento della apertura di un eventuale processo di valutazione diagnostica…
Risultato: ciò che sta emergendo non trova il luogo dove poter essere depositato, entra in un’esperienza di rimbalzo da un campo operativo all’altro, viene lasciato di fatto a se stesso in una dimensione di moltiplicazione della ansia confusionale e la convulsa ed impropria risposta istituzionale, anziché contenere il processo, contribuisce ad acuire il disagio e la paura, favorendo di fatto un incremento degli aspetti sofferenti che sono in campo e lo scivolamento verso sintomi più organizzati e verso la costruzione di patologie.
Dobbiamo aggiungere gli aspetti generati dalle vicende degli ultimi due anni, caratterizzati da restrizioni relazionali e obblighi di distanziamento che hanno implicato anche i Servizi, richiamati ad assolvere solo le funzioni considerate imprescindibili e ai quali è stato impedito, per lo meno per larga parte del 2020, di accogliere di persona presso le Strutture gli utenti che non presentassero caratteristiche di urgenza: quindi, la disponibilità degli assetti sanitari si è mostrata in forma ancora più coartata, mentre le situazioni di disagio comunitario si sono acuite, anche per via della riduzione drastica della fruibilità di articolati spazi fisici di condivisione e per via del confinamento prolungato all’interno delle abitazioni: le relazioni sono state limitate per lungo tempo all’ambito strettamente familiare, con la eliminazione delle esperienze spaziali alternative che potessero permettere momenti di espressione della propria autonomia: pensiamo in questo senso alle scuole a lungo chiuse e alle lezioni svolte in didattica a distanza e ai periodi di quarantena ed isolamento che molti nuclei familiari hanno dovuto osservare anche ripetutamente, per via del contagio di alcuni dei membri, verificatosi anche a rotazione.
In questo contesto pre e post emergenza epidemica, caratterizzato dalla mancata o impossibile o disorganizzata risposta della sanità pubblica e dalla concomitante esacerbazione dei quadri di sofferenza della popolazione, si sono moltiplicate e radicate le esperienze di costruzione di “Sportelli” di Ascolto” in spazi extraistituzionali, presso i quali potesse essere portato e rappresentato il disturbo o il disagio, spesso complesso e sfumato, poliedrico e sfaccettato, difficilmente definibile a priori, chiamando in campo, per la esecuzione delle attività di cosiddetta intercettazione precoce, Strutture del Privato Sociale incaricate all’uopo da istituzioni Pubbliche che potevano contare su finanziamenti dedicati. Tali sportelli si sono configurati in forma telematica durante il periodo in cui l’interazione in presenza era impedita e poi di nuovo con una forma che consentisse l’incontro diretto. Tra le forme di esecuzione di questa tipologia di attività dobbiamo annoverare anche la funzione espletata presso gli Istituti Scolastici, particolarmente, ma non solo, all’interno dei Centri di Informazione e Consulenza.
E’ in questo quadro che, nel 2021, il gruppo di psicoterapeuti descritto in premessa e dedicato alla funzione di “intercettazione precoce del disagio” per conto di un Ambito Territoriale Sociale, ha chiesto di avviare un percorso di supervisione. La richiesta era motivata dal fatto che il gruppo si sentiva dichiaratamente lui stesso “a disagio”, incapace di trovare una serena collocazione rispetto al mandato che aveva ricevuto, stretto tra le imprevedibili richieste di intervento che gli giungevano, l’indefinitezza concreta della estensione e della qualità delle azioni che gli erano state assegnate e la difficoltà a raccordarsi con i Servizi deputati alla eventuale successiva presa in carico delle problematiche emergenti.
Come già detto, il gruppo faceva parte di una associazione di Privato Sociale, e l’incarico di eseguire le azioni di intercettazione precoce del disagio emergente sul territorio di competenza, assegnato dall’Ambito tramite l’espletamento di una gara d’appalto, è stato reso possibile per via dell’investimento di un finanziamento pubblico finalizzato, composto da vari canali di emissione. Nei termini della gara e del contratto conseguente era definito anche il monte ore assegnato.
L’équipe era costituita inizialmente da tre partecipanti, tutte di sesso femminile. Durante lo svolgimento del processo, che è durato dal marzo 2021 al marzo 2022, una operatrice ha sospeso la sua attività per qualche mese a causa di alcune complicazioni familiari ed è stata sostituita da una collega. Al rientro in attività della operatrice che aveva dovuto effettuare il periodo di sospensione, anche la collega che l’aveva sostituita è rimasta a lavorare all’interno della équipe, che quindi ha terminato il percorso composta da quattro partecipanti.
Il mandato assegnato riguardava la effettuazione di un servizio di prima accoglienza di situazioni di disfunzione che potevano essere portate o dai singoli direttamente interessati presso la sede della équipe negli orari a disposizione del pubblico, o essere segnalate da attori istituzionali, prevalentemente appartenenti agli Istituti scolastici: in questo caso la richiesta di intervento giungeva da insegnanti o direttori di Istituto, che ritenevano di rilevare in alcuni studenti segnali di deviazione da presunte adeguatezze comportamentali, e riguardava l’esecuzione di azioni a questi rivolte all’interno delle istituzioni medesime, o durante gli orari di funzionamento dei CIC con modalità di incontro individuale o all’interno delle classi, con interventi di incontro collettivo.
La supervisione è stata effettuata utilizzando i criteri della Concezione Operativa di Gruppo, ed è stata strutturata dedicando al processo gruppale un’ora e mezza di ogni incontro, con un lavoro incentrato sulla elaborazione del compito manifesto che l’équipe è stata sollecitata a definire fin dall’inizio, e la successiva ora alla discussione di un concreto caso clinico.
Il compito manifesto che l’équipe ha individuato e rispetto al quale denunciava alcune difficoltà ad aderire, era quello del mandato esplicito che le era stato assegnato, e cioè: ”Intercettare precocemente bisogni emergenti per definire invii idonei.”
Nella prima parte del lavoro con il gruppo – équipe, è emersa una notevole quantità di ansia confusionale che si esprimeva concretamente nella difficoltà ad agire con pertinenza. Non era chiaro, per esempio, quali fossero e se ci fossero i criteri per la definizione di congruità delle richieste di intervento che pervenivano; non era chiaro nemmeno quali fossero e se ci fossero i criteri per definire la congruità della tipologia di risposte da dare. Poco chiaro anche in che tempi l’équipe riteneva giusto dare risposte e se dovesse o meno rispondere con modalità di urgenza, così come veniva a volte richiesto dalle istituzioni che inoltravano le domande di intervento.
L’ansia confusionale era anche alimentata dal fattore obiettivo costituito dal fatto che era molto difficile organizzare gli invii in sicurezza, in quanto non erano state elaborate vie condivise ben definite con i Servizi che sarebbero stati deputati alla eventuale presa in carico delle situazioni che venivano considerate meritevoli di intervento clinico.
Un altro fattore che mostrava l’incertezza rispetto alla pertinenza al compito era rappresentato dal non aver stabilito fino a che punto dovesse estendersi l’azione professionale della équipe a fronte delle situazioni che si presentavano e fino a che punto fosse opportuno consentire la strutturazione del vincolo relazionale con gli utenti, data la prospettiva del loro invio, più o meno prossimo, ad altre Strutture.
Questi elementi di incertezza e di confusione erano interni al gruppo e collusivamente alimentati dall’atteggiamento dei richiedenti e delle istituzioni committenti, che implicitamente si aspettavano da questa équipe che vicariasse i ritardi o i rimandi o l’assenza operativa dei Servizi preposti alla eventuale presa in carico, fattori determinati dagli elementi di disorganizzazione e di disfunzione a carico della Sanità Pubblica che sono stati descritti precedentemente.
Il clima era ansioso e sfiduciato.
Il gruppo si attendeva comunque di conseguire migliori capacità di comunicazione interna ed esterna ed era disposto ad elaborare una miglior organizzazione propria per chiarificare e consolidare i livelli di cooperazione. Si notava comunque un buon livello di appartenenza di ciascun membro alla esperienza della équipe e una manifesta disposizione all’apprendimento.
Durante il processo sono emerse anche paure dell’attacco esterno: la fantasia circolante era che potenzialmente i richiedenti avrebbero potuto esprimere parere negativo sull’operato del gruppo se questo non avesse soddisfatto tutte le modalità con le quali venivano articolate le domande di intervento, anche se queste in diverse occasioni erano apparse francamente per qualche verso incongrue, e che la valutazione negativa sarebbe potenzialmente stata poi assunta anche dai committenti e dai livelli gerarchicamente superiori della cooperativa di appartenenza. Questo tipo di paura faceva sentire il rischio che gli incarichi non sarebbero stati rinnovati. Questa specifica ansia dimostrava come fosse mancato un livello di chiara comunicazione preliminare condivisa rispetto a ciò che l’esterno potesse o dovesse aspettarsi dal lavoro dei professionisti, mancanza che era stata alimentata da un’omissione collusiva, partecipata anche dal gruppo di operatori.
Queste configurazioni portavano le operatrici, come loro stesse facevano consapevolmente emergere in un dato momento, a sentire che non potevano e non sapevano dire di no quando sarebbe stato opportuno, non sapevano e non potevano definire con maggior autorevolezza il confine del proprio operato ed il valore di questo quando segnato da un adeguato limite esecutivo , valore che percepivano costantemente caratterizzato da una mancanza di riconoscimento da parte dei colleghi dei servizi pubblici di riferimento, da parte degli stessi committenti e da parte dei destinatari istituzionali dell’intervento, dai quali si sentivano trattate “ ad uso e consumo”.
In qualche modo il lavoro di questa équipe era quindi caratterizzato da alcune stereotipie, che la facevano permanere nella confusività e che erano perciò sentite come disfunzionali, ma che era difficile risolvere. Gli utenti “intercettati”rimanevano a contatto a lungo con le operatrici, come in attesa prolungata in un limbo, senza che potesse essere fluidamente e serenamente attivata una via di conduzione ai potenziali Servizi di arrivo.
Continuando lo svolgimento del lavoro, è emerso dal latente che il problema centrale del gruppo era la difficoltà ad abbandonare una fantasia sottostante e condivisa silenziosamente, secondo la quale la cooperazione di queste professioniste avrebbe potuto configurare la creazione di una sorta di Servizio Specialistico per strutturare azioni di alto valore professionale a favore delle fasce fragili della popolazione, in special modo quella giovanile, portatrici di aspetti complessi affascinanti sul piano clinico, azioni che avrebbero potuto vicariare l’assenza e la latitanza delle Strutture che sarebbero preposte ufficialmente alla presa in carico, e che avrebbero permesso di scavalcare tutte le difficoltà legate alla partecipazione al complesso lavoro di tessitura ed organizzazione di una Rete composta da tutti gli attori deputati agli interventi.
Ancora, è emersa la fantasia che una presenza continuativa, permanente e professionalizzata presso le Scuole, quale quella che le operatrici erano indubbiamente in grado di esprimere, avrebbe potuto contenere e migliorare le disfunzioni evidenti in quelle Istituzioni didattico-educative, presso le quali a volte si consumano inconsapevoli processi di organizzazione di quadri patologici, più che di sostegno pedagogico– evolutivo.
La permanenza di questa fantasia faceva agire l’équipe in un modo che impediva a se stessa per prima il riconoscimento e la definizione dei limiti del mandato assegnato, con la conseguente tendenza a rispondere a tutte le richieste che pervenivano per evitare ogni insoddisfazione o frustrazione di terzi, a far permanere gli utenti nel vincolo che si strutturava negli incontri, a dilazionare le decisioni e le operazioni relative agli invii ai Servizi preposti, considerati a priori inadeguati e inadempienti, e a pensare potenzialmente risolutivo l’intervento individuale presso le Istituzioni scolastiche.
Quando questa posizione è emersa dal latente è finalmente stato possibile cominciare ad elaborarne il ridimensionamento, certamente con resistenza e con sofferenza, per via dell’inevitabile passaggio verso un sentimento depressivo per la perdita di questa proiezione ideale. A questo punto, le aspirazioni, basate sulla autopercezione di un’obiettiva e fondata preparazione, esperienza e capacità professionale, hanno avuto accesso ad un percorso di adeguamento al campo reale e ai confini determinati dal compito manifesto ed assegnato: il gruppo ha potuto concepire come sia necessario un alto livello di preparazione professionale per svolgere un compito di accoglienza primaria così complesso e delicato; inoltre ha potuto obiettivamente valutare quanta capacità espressa sul campo occorra per essere protagonisti propositivi di un’azione nel contesto, quale quella che organizza la compartecipazione al processo della messa in Rete di Strutture e Servizi che inevitabilmente devono collaborare; ha poi potuto riconoscere a se stesso il possesso di queste qualità, ancorché calibrate ora all’interno dei limiti del compito manifesto e del mandato assegnato.
La rinuncia alla fantasia, la distruzione dell’oggetto ideale, è costata un passaggio per una fase depressiva, ma ha permesso la “ricreazione dell’oggetto per la predisposizione di un progetto”( cit. da “ Il Processo gruppale”, E. Pichon Rivière).
Infatti, da quel momento, il gruppo ha cominciato a ridefinirsi nei suoi rapporti esterni ed interni.
Rispetto all’esterno:
1) ha deciso di aprire un processo di contrattazione con la committenza e con le gerarchie della cooperativa affinché la quantità di lavoro da svolgere possa essere chiaramente calibrata rispetto alle ore assegnate;
2) ha promosso incontri con la coordinazione dell’Ambito per l’esplicitazione delle complessità rilevate e per sollecitare la costanza dei lavori di un già esistente Tavolo Tecnico Territoriale, che è stato costituito al fine di mettere in rete i Servizi pubblici e di privato sociale presenti sul territorio per ottimizzare la collaborazione e il chiarimento sugli specifici mandati istituzionali, in termini di attribuzione di competenze diagnostiche e terapeutiche;
3) ha partecipato attivamente e propositivamente ai lavori del Tavolo medesimo, potendo esplicitare e chiarire quale è il mandato assegnato al gruppo e quali sono le sue conseguenti necessità di raccordo;
4) ha deciso di presentarsi agli Istituti scolastici per la progettazione della interazione relativa al prossimo anno scolastico con una propria proposta progettuale, che prevede il superamento del semplice sistema delle azioni garantite a chiamata e dà piuttosto l’indicazione di istituire percorsi di supporto cadenzato al gruppo dei docenti: questa idea progettuale è scaturita dalla considerazione che il disagio che può emergere all’interno di una scuola a carico di un individuo e che può essere rilevato da qualche membro del corpo docente, non è mai definitiva e sola espressione di una qualche inadeguatezza del soggetto designato, ma esprime tutta la complessità della Istituzione didattico – educativa, include l’implicazione di chi rileva e segnala il disagio medesimo, e disvela la necessità di elaborare presso il corpo docente e gli uffici direttivi l’importanza della integrazione delle funzioni e delle abilità pedagogiche con quelle didattiche.
Rispetto alle dinamiche interne:
1) è emersa la idea di costruire una scheda di rilevazione degli interventi effettuati, con particolare riguardo a quelli individuali, con indicazione dell’esito di ogni singolo procedimento e con l’evidenziazione dei termini di esecuzione dell’invio finale.
2) il gruppo ha valutato l’opportunità di definire il numero massimo di incontri che possono essere destinati ad ogni utente accolto, al fine di poter avere una definizione diagnostica preliminare che permetta l’eventuale invio congruo al servizio istituzionalmente dedicato e con lo scopo di scongiurare la permanenza ad libitum presso l’équipe di situazioni che presentano evidenti risvolti clinici. E’ difatti apparsa impropria ed inopportuna la creazione di un vincolo troppo strutturato tra i singoli utenti che si avvalgono dell’intervento di intercettazione ed i componenti dell’équipe, data la necessità riconosciuta di ottemperare in tempi brevi alla parte di compito che prevede invii idonei ai Servizi che saranno deputati alla presa in carico.
3) Il gruppo ha inoltre valutato l’opportunità di svolgere alcune azioni di intercettazione precoce, azione che prevede la configurazione di una plausibile ipotesi diagnostica, in collaborazione fra più figure, specialmente quando si consideri utile e/o necessario coinvolgere nel processo i membri della famiglia di appartenenza, in un’ottica di cooperazione e di collaborazione.
4) è emerso il desiderio di approfondire le tematiche inerenti i processi di Analisi Istituzionale, per garantire un maggior apprendimento in una materia che ha suscitato curiosità , soprattutto in relazione all’adeguamento degli interventi da progettare a favore delle istituzioni scolastiche.
Il processo ha quindi consentito di raggiungere migliori livelli di pertinenza, di consolidare l’appartenenza dei membri al sistema della équipe, di riconoscere e di mettere in campo la capacità di collaborazione e di cooperazione. Il clima dell’ultimo incontro era frizzante e propositivo, carico di energia progettuale.
Grazie al superamento delle stereotipie generate dal materiale latente che non era stato elaborato, la comunicazione ha vissuto un processo di chiarificazione e di liberazione. I membri possono dire l’un l’altro se e come se la sentono di intervenire in un determinato contesto, se ritengono di avere o meno bisogno di sostegno da parte dei colleghi e hanno deciso di definire un tempo cadenzato per effettuare periodiche riunioni di équipe al fine di condividere aspetti operativi relativi ad aspetti clinici ed organizzativi.
Ma il chiarimento interno rispetto al compito manifesto e la conseguente maggior sicurezza acquisita ha anche permesso al gruppo di comunicare con presenza, precisione, autorevolezza, adeguatezza e chiarezza le proprie impressioni, valutazioni, proposte e necessità ai committenti, ai livelli gerarchici superiori della cooperativa, al Tavolo Tecnico di Rete Territoriale che vede riuniti e coinvolti gli attori istituzionali demandati a dare risposte diagnostiche e cliniche alle complessità emergenti, dimostrando una più libera e creativa capacità di adattamento attivo alla realtà.
Concludo sottolineando la delicatezza e la complessità della operatività degli Sportelli di Ascolto: sono luoghi dove potenzialmente può essere depositata qualsiasi emergenza situazionale complessa, all’interno dei quali deve essere espletata una dimensione di accoglienza con modalità attentamente calibrate, dove non possono essere emesse risposte subitanee, perché si prevede strutturalmente il coinvolgimento successivo di altri livelli istituzionali di intervento; dove occorre lavorare di fino con le ”insidie” del vincolo con l’utenza che si presenta, dato che il contatto dovrà essere carico di senso ma contemporaneamente a rapido rilascio, dove occorre aver affinato capacità intuitive e competenze professionali significative, adatte a percepire segnali anche sottili che possano instradare i necessari interventi futuri, e dove occorre aver competenza nella costruzione di rapporti interistituzionali fluidi e funzionanti, vista la necessaria interazione con altre Strutture deputate poi alle prese in carico adeguate al problema che si presenta.
Inoltre, come abbiamo visto, occorre avere sufficiente consapevolezza del preciso mandato per non cadere nella trappola collusiva che si genera nel momento in cui le disfunzioni degli altri sistemi tendono a parcheggiare, consegnare o a rimandare lì la risoluzione di problemi complessi.
Credo che sia uno di quei casi in cui bisogna “saper fare” molto, in cui occorrono cioè una particolare competenza ed una consolidata abilità professionale da mettere al servizio del riconoscimento del necessario limite operativo, per di di più nella relazione con situazioni sfumate e complesse: a volte questa operazione risulta più difficile da espletare di quanto non sia l’esecuzione di compiti apparentemente più complicati, che si svolgono all’interno di schemi operativi più definiti e caratterizzati da una maggior estensione temporale.
E presumibilmente, le vicende degli Sportelli di Ascolto saranno situazioni sempre più rappresentate nel panorama futuro degli interventi di Comunità.
Bibliografia:
“ Il processo Gruppale”, E. Pichon Rivière, ed. Libreria Editrice Lauretana
“ Psicoigiene e Psicologia Istituzionale”, J. Bleger, ed La Meridiana
“Prevenzione, Psicoanalisi, Salute Mentale”, A. Bauleo, M. De Brasi ed aa., a cura di F. Benedetti e R. Folin
Senigallia, 10 maggio 2022
Rimini – Confini di terre e di mare: con questo titolo torna il ciclo di incontri L’Africa in noi, per condividere dal 13 maggio al 5 giugno in cinque appuntamenti pensieri e riflessioni sul fenomeno migratorio, la convivenza delle diverse culture e riconoscimento della dignità e creatività dei migranti, in particolare dall’Africa.
Molti i linguaggi utilizzati – storico, narrativo, artistico, con film, documentari, concerti – in questa seconda edizione organizzata da Vite in Transito Odv, biblioteca Gambalunga, Istituto storico di Rimini, Margaret aps, con il contributo della Cooperativa sociale Cento Fiori, del Cinema Tiberio, e in collaborazione con il Comune di Rimini.
Recuperando la memoria del colonialismo italiano, si collegano le migrazioni al colonialismo perdurante, per dare spazio alle voci e alle culture africane presenti in Italia.
Il programma:13 maggio, alle 17, alla cineteca di Rimini (ingresso gratuito), conferenza A sud di Lampedusa: l’Africa e le sue migrazioni a cura di Anna Maria Medici, Università di Urbino.
Introducono Chiara Bellini, vicesindaca del Comune di Rimini e Mariolina Tentoni, presidente di Vite in Transito e coordinatrice della rassegna L’Africa è con noi. Successivamente, verrà presentato il progetto Dimmi di storie migranti a cura di Patrizia Di Luca, Istituto Storico Rimini.
Teo De Luigi20 maggio, alle 21, al cinema Tiberio (ingresso 5€), proiezione del documentario Senza radici. Noi migranti in una terra chiamata Italia di Teo De Luigi, riminese che incontra alcuni rifugiati e richiedenti asilo in città e in Liguria.
27 maggio, alle 17, alla cineteca di Rimini (ingresso gratuito), presentazione del libro Future. Il domani narrato dalle voci di oggi, curato da Igiaba Scego. Le antropologhe culturali di associazione Margaret, Beatrice Righi e Giorgia Guenci Villa, dialogheranno con le autrici Angelica Pesaresi e Marie Moise.
Fabio Mina28 maggio, alle 21, al cinema Tiberio (ingresso gratuito), concerto Oltre il confine con i musicisti polistrumentisti Fabio Mina, Kalifa Kone e Marco Zanotti.
3 giugno, alle 21, al cinema Tiberio (ingresso 5€), proiezione di L’ordine delle cose, il film di Andrea Segre sulla realtà dei campi della Libia, i rapporti dello Stato italiano con i capi delle fazioni libiche e l’indifferenza di fronte all’orrore.
L'articolo L’Africa in noi, seconda edizione: dal 13 maggio al 5 giugno incontri, film e concerti per parlare di Confini di terra e di mare proviene da Cento Fiori, Rimini.
Rimini – Un pomeriggio denso di emozioni, di note potenti e valori ancora più potenti per il concerto dei Modena City Ramblers, al parco della Serra Cento Fiori. Famiglie, giovani, adulti, qualcuno dice oltre 3 mila persone nel prato, tutti in piedi a ballare e poi, all’unisono, a scandire Bella ciao. «Tremila? Forse sì, forse no, non li abbiamo potuti contare – dice Cristian Tamagnini, presidente della Cooperativa Sociale Cento Fiori – ma di certo il prato era gremito di persone di tutte le età, tutti con la voglia di fare festa e divertirsi nel nome della libertà. Voglio ringraziarli tutti: insieme ai Modena City Ramblers, Ellen River, Checco Mussoni ci hanno restituito tante emozioni e fatto concludere il nostro primo quarantennale in un mare di affetto. E con loro quanti hanno lavorato per far riuscire questa festa, colleghi, cooperatori, amici».
Il cielo grigio anche all’una del pomeriggio ha continuato a far temere il peggio per una giornata di festa, ma alla fine le nubi si sono squarciate. Il prato ha cominciato a colorarsi di coperte mentre gli artisti si alternavano nel soundcheck e gli attivisti preparavano i loro banchetti informativi: l’Anpi di Rimini e la sezione Brigata Corbari la mostra dedicata al partigiano Tabac, Il Manifesto, Casa Madiba, Amnesty, Avvocati di Strada, gli anarchici e infine gli educatori del canile di Rimini e di Vallecchio, mentre dal parco XXV aprile e dalle vie affluivano sempre più persone.
Francesco Checco Mussoni ha aperto il concerto con due brani del ellepi, uno dei quali dedicato ai partigiani, poi Ellen River con sue musiche e due omaggi i Modena City Ramblers. La musica ha lasciato il posto all’impegno civile, con un breve saluto dell’Anpi di Rimini, rappresentato da Mirco Botteghi. Poi il saluto della Cento Fiori: Cristian Tamagnini ha ringraziato il pubblico e, con Werther Mussoni, storico presidente della cooperativa, insieme hanno ripercorso le tappe fondamentali dei 40 anni di lotta alle dipendenze, dal dilagare dell’eroina a Rimini quando è stata fondata, nel maggio 1981, ai traguardi di oggi, sempre nel segno della scientificità del trattamento, nel rapporto con il settore pubblico e del rispetto della dignità dei pazienti. Poi tutti in piedi: l’energia dei Modena City Ramblers e del pubblico hanno creato con note e balli l’alchimia di una bellissima festa civile che ha unito tutti, come la Liberazione cominciò a unire tutti gli italiani democratici il 25 aprile 1945.
L'articolo Folla al concerto dei Modena City Ramblers al parco Cento Fiori: «grazie ai musicisti, al pubblico di Rimini, Romagna e Marche e a chi ci ha aiutato a rendere 25 aprile e 40ennale indimenticabili». proviene da Cento Fiori, Rimini.
Si chiudono con un pomeriggio di musica e valori civili e sociali al parco La Serra Cento Fiori (ingressi da via Galliano 19 e dal parco XXV aprile) le celebrazioni di 40 anni di lotta alle dipendenze e di impegno per l’inclusione sociale. Aprono il concerto Ellen River e Francesco Checco Mussoni. Mostra dell’Anpi, stand di associazioni e gastronomici.
Rimini – Sarà un doppio festeggiamento il concerto dei Modena City Ramblers del 25 aprile a Rimini: una festa per la Liberazione e il finale della ricorrenza del 40ennale della Cooperativa Sociale Cento Fiori. Nel maggio del 1981 infatti 19 persone siglavano la nascita della Cento Fiori con l’intento di cercare dei metodi di contrasto al dilagare dell’eroina che fossero ispirati a valori civili di inclusione sociale e solidarietà. «Ci è sembrato giusto coronare questo nostro lungo viaggio con un grande concerto dedicato alla città che ci ha fatti nascere e crescere, in un giorno denso di valori civili, con chi questi valori li canta e anche con quelle associazioni che li diffondono al nostro fianco» dice Cristian Tamagnini, il presidente della Cooperativa Sociale Cento Fiori.
Ellen RiverIl concerto di terrà nel parco de La Serra Cento Fiori – ingresso da via Galliano 19 o dall’adiacente parco XXV aprile – e sarà preceduto da molte presenze di associazioni attive nel riminese sui temi sociali, tra le quali spicca l’Anpi di Rimini e i suoi circoli cittadini, che allestirà anche una piccola mostra. Non mancheranno anche uno stand gastronomico e un servizio di bar con somministrazione di birra, vino, bibite e gelati.
Francesco Checco MussoniSe il tempo lo permetterà – il concerto è all’aperto, a ingresso libero – le prime note cominceranno a risuonare intorno alle 16,30 con l’open act di Ellen River, cantautrice emiliana con due album all’attivo che spazia tra i generi rock, blues e soul, e Francesco Checco Mussoni, musicista riminese più vicino alla tradizione del cantautorato italiano, contaminato da elettrofolk oltreoceano. Alle 17,30 l’evento clou: i Modena City Ramblers. La band modenese porterà i suoni dei suo Appunti partigiani, il tour celebrativo dell’omonimo album, Disco d’oro pubblicato 15 anni fa e che a Rimini segnerà la sua celebrazione in congiunzione con la lotta partigiana e la Liberazione, due temi che hanno grandemente segnato la storia della città e dei suoi abitanti.
L'articolo Doppia festa con i Modena City Ramblers il 25 aprile a Rimini: Cento Fiori celebra la Liberazione e conclude il quarantennale della fondazione. proviene da Cento Fiori, Rimini.
I due artisti anticiperanno la band modenese nel concerto ad ingresso gratuito della Festa della Liberazione (ore 16,30) organizzato dalla cooperativa sociale Cento Fiori di Rimini. Fervono i preparativi al parco della Serra Cento Fiori per un pomeriggio di musica e valori civili e sociali, unica data tra Romagna e Marche.
Rimini – Completato il programma musicale di quella che sarà una Festa della Liberazione speciale: il concerto dei Modena City Ramblers. Un pomeriggio ad ingresso gratuito denso di potenti note, valori democratici, sociali e civili al parco della Serra Cento Fiori (ingressi da via Galliano, via Padre Tosi e dal parco XXV aprile), a partire dalle ore 16,30 di lunedì 25 aprile. E prima della band modenese saliranno sul palco per scaldare il pubblico Ellen River, cantautrice emiliana con due album all’attivo che spazia tra i generi rock, blues e soul, e Francesco Checco Mussoni, musicista riminese più vicino alla tradizione del cantautorato italiano, contaminato da elettrofolk oltreoceano.
I Modena City Ramblers, Ellen River e Checco Mussoni si esibiranno in un concerto organizzato dalla Cooperativa Sociale Cento Fiori e aperto gratuitamente alla città, nell’area che gestisce adiacente al Parco Marecchia. Con la band modenese arrriva quindi a Rimini il tour celebrativo dell’album Appunti Partigiani, Disco d’oro pubblicato 15 anni fa e che a Rimini segnerà la sua celebrazione in congiunzione con la lotta partigiana e la Liberazione, due temi che hanno grandemente segnato la storia della città e dei suoi abitanti.
Il gruppo ha anticipato che la scaletta del concerto sarà molto particolare, con un focus sul materiale più ‘partigiano’, attingendo però anche dal resto della discografia della band, da sempre legata con un filo rosso alle tematiche e ai valori della Resistenza. Non potranno mancare, naturalmente, anche i classici del repertorio dei ‘Delinquenti di Modena’: si prospetta dunque una serie di concerti in cui la festa, la voglia di condivisione e il piacere di ritrovarsi uniti nella Grande Famiglia Modena City Ramblers, dopo il lungo periodo di stop della musica dal vivo e d’isolamento, saranno più che mai protagonisti.
Cristian Tamagnini, presidente della Cooperativa Sociale Cento Fiori: «È un momento di commemorazione delle radici della nostra Repubblica: oggi quanto mai necessario per contrastare chi tende ad equiparare fascismo e antifascismo, regime fascista e lotta di Resistenza, riducendoli ad “opposti estremismi”. No, anche con questo concerto oggi vogliamo ribadire con forza che la nostra democrazia è frutto del sacrificio – il fiore del Partigiano appunto – di chi, quasi 80 anni fa, ha scelto di lottare dalla parte giusta (mentre qualcun altro aveva scelto di farlo dalla parte sbagliata). Questi valori sono tragicamente tornati attuali con la guerra ai confini dell’Europa e ci ricordano quanto pace, giustizia e democrazia siano ideali da perseguire sempre e comunque».
L'articolo Dieci giorni al concerto dei Modena City Ramblers: il programma del 25 aprile musicale si completa con Ellen River e Francesco Checco Mussoni. proviene da Cento Fiori, Rimini.
di Maria Teresa Fenoglio
Premessa
Le riflessioni che seguono sono il frutto di molti anni di ricerca sulla femminilità, il parto e la sessualità. Il mio impegno nel movimento femminista a partire dai primi anni ’70 ha seguito una parabola che mi ha condotto dalla militanza a sfondo ideologico alla psicoanalisi (della donna in particolare) contestualmente agli studi di psicosociologia e delle difese istituzionali, tra i quali quello condotto in alcuni reparti di maternità torinesi.
Mi rendo tuttavia conto di quanto, a fronte dei cambiamenti sociali e culturali intercorsi, che ci hanno portato al superamento della sessualità “binaria”, e alle nuove realtà affettive e di riproduzione (coppie omosessuali), il discorso che presento possa apparire molto “tradizionale”.
Quindi lo propongo con qualche riserva. Ciononostante continuo a credere che il pensiero
psicoanalitico femminile, che analizza la femminilità e la virilità in noi, mantenga il suo carattere innovativo e che per questo non solo non sia “superato”, ma permanga come risorsa importante per formulare progetti di rinnovamento sociali. Qualcosa tuttavia dovrà essere necessariamente riformulato alla luce delle nuove prospettive.
Inoltre, recentemente, lo scoppio della guerra alle porte di casa e la sconcertante assunzione da parte di molti della “mentalità di guerra”, come al solito voluta e diretta da uomini, può trovare in questo saggio, forse, una fonte utile di riflessione.
Le esperienze portanti
“Lo sviluppo dell’io consiste nel prendere le distanze dal narcisismo primario e di un lungo ed intenso sforzo teso a recuperarlo” (Freud, Introduzione al narcisismo, 1914)
Credo che la tensione vitale al recupero di una soddisfacente integrazione interiore, questa ricerca di una “autenticità del proprio essere” a ricomposizione delle frammentazioni del sé, costituisca la nota comune a tutte le esperienze “portanti”: l’attaccamento amoroso, la creazione artistica, l’investimento affettivo nei figli, l’esperienza del lavoro non alienato. A collegare tra loro le esperienze centrali dell’esistere, amore, arte, procreazione, far crescere, lavoro, c’è infatti un filo ben saldo: restaurare l’integrità narcisistica.
In queste che sono forme basilari del porsi della persona nel mondo è possibile ritrovare la
corrispondenza tra investimento negli oggetti e investimento nel proprio sé: una restaurazione dell’amore felice che nella circolarità dialettica intuita da Freud salda il soggetto all’oggetto attraverso una reciprocità narcisistica. L’essere umano, del resto, procede per investimenti/riconduzione a sé/re-investimenti, secondo una scansione dentro-fuori che costituisce il motore del processo simbolico e creativo dell’essere umano: “Fort—Da!”
Nessuna di tali esperienze dell’essere nel mondo, né l’amore, né l’arte, e neanche le forme meno speciali, la procreazione e il lavoro, sono unicamente “naturali”, cioè innate ed immediate. Si tratta invece di formazioni biologico-culturali, ad opera di soggetti in grado di operare questa saldatura-sintesi tra sé e l’altro da sé: capaci cioè di elaborare simboli ai vari livelli espressivi; là dove infatti l’elaborazione simbolica non verbale trova espressione in immagini mentali (un volto, un luogo, una musica…), quella verbale fa sì che l’individuo comunichi il proprio mondo interno agli altri, in questo modo trasmettendo conoscenza e cultura.
L’elaborazione simbolica è un processo; si rinnova e si ristabilisce ad ogni nuovo incontro, situazione e stimolo. Il simbolo si fa veicolo ed espressione della spinta interiore e allo stesso tempo strumento di decodificazione della realtà. Esprime adattamento, ma è sempre in qualche modo anche soluzione creativa; inoltre non si arresta ad una data età, non “invecchia”.
Noi clinici conosciamo di converso che cosa sia l’arresto del processo di elaborazione ideativa; lo osserviamo infatti in tutte le forme di alienazione: la nevrosi, in quanto blocco delle energie libidiche oggettuali; il lavoro “espropriato”, sia dal lato del profitto che del controllo sul prodotto; infine la procreazione come evento dovuto, o “catena di figliaggio”, ineluttabile destino di un corpo-natura che si è fatto proprietà di altri: del marito, della stirpe, o della consuetudine, con lo scopo di colmare un vuoto.
Gli studi condotti con Clara Capello fin dagli anni ’90, attraverso i quali abbiamo analizzato le istanze di liberazione/ autorealizzazione delle donne (sfociato nel libro “Perché mi curo di te”) ci hanno spinto ad approfondire le teorie del femminile in psicoanalisi e la specifica vocazione delle donne ai lavori di cura, che abbiamo visto non come vocazione nevrotica, ma come estensione del narcisismo di vita. Questa idea di fondo ci è stata ispirata da diverse autrici, come ad esempio Maria Bonaparte, J.Chasseguet-Smirgel, F.Dolto, ed è stata ripresa con molta efficacia da Silvia Vegetti Finzi in quel bel
testo sulla femminilità nascente che è “Il bambino della notte”. Attraverso numerosi casi clinici Vegetti Finzi arriva alla conclusione che la bambina, anziché venir determinata da una supposta invidia del pene, coltiva entro di sé l’idea di un bambino (il bambino della notte) di cui la bambola è un segno esteriore. Il bambino interno corrisponde al narcisismo di vita della bambina e segnala la sua capacità creativa. Anche il maschio così avrebbe la sua dose di “invidia” per la capacità generativa della femmina. La cura dell’altro, quindi, si collocherebbe simbolicamente non nella riparazione di una mancanza, ma nella estensione ad altri di un profondo, non nevrotico, compiacimento di sé.
Nel contesto di questi studi abbiamo ri-formulato l’idea della generatività della mente, prodotta dall’accoppiamento simbolico di elementi maschili e femminili indipendentemente dal genere di appartenenza dei soggetti.
Sullo sfondo di queste riflessioni, quindi, il destino della donna verso la propria liberazione non è visto più unicamente all’insegna della emancipazione dalle determinanti esterne della propria emarginazione, ma dai vincoli creatisi dal blocco alla creatività prodotto dalla colpa e dalla inibizione.
Ogni individuo, uomo o donna che sia, dispone di potenzialità interiori che possono entrare e mettersi in moto in una elaborazione creativa e ideativa, come appiattirsi nella ripetizione difensiva.
Così avviene per la procreazione. Essa può diventare un terreno di nuova consapevolezza, una esperienza ricca di contenuti che entreranno a far parte di nuove formulazioni simboliche, come può venire scissa, negata nelle sue valenze, o sovrainvestita con l’idealizzazione.
La procreazione è stata per molto tempo considerata terreno esclusivo delle donne. Le stesse donne hanno contribuito a farsene padrone. C’è da credere invece che l’uomo l’abbia allontanata da sé, rivolgendosi elettivamente ad altre attività. L’azione del fecondare, che pure è ricco di significato, è stato in qualche modo stornato dal processo della procreazione e dirottato altrove. E’ così che le attività cosiddette “maschili” (lavoro, carriera, realizzazione sociale), finiscono spesso deprivate del valore simbolico connesso con la fecondazione-procreazione, cioè dell’idea simbolica del figlio come prodotto di una relazione generativa, attestandosi invece su simbologie di intrusione possessiva e trionfo.
La scissione tra sessualità, maternità/paternità e procreazione
Leggere nella esperienza della procreazione decifrandola dall’interno significa avere come referente donne e uomini come soggetti unitari, esenti da scissioni in “funzioni”. Se la scissione tra sessualità e procreazione è diventata nel tempo consustanziale all’idea di virilità, con conseguente tendenza alla sacralizzazione della donna sposa e madre e spostamento della libido maschile su amori collaterali, la donna entra nella letteratura medica e in parte in quella psicologica essenzialmente in quanto portatrice di funzioni femminili e materne, nelle quali spesso le donne stesse si identificano.
A venir negata è la matrice erotica della gravidanza e della procreazione a vantaggio, sia per l’uomo che per la donna, della stabilità del vincolo istituzionale.
Se eros e sessualità vengono percepite come elemento di destabilizzazione sociale per entrambi i sessi, la scissione tra questi e la procreazione è particolarmente drammatica nella donna. La supposta identificazione regressiva della buona madre con il figlio impone che quella madre, cioè la madre socialmente interiorizzata, coincida con la madre dei desideri infantili: fonte di donazioni perenni, proprietà assoluta del figlio, oggetto idealizzato e non condiviso. Se infatti, secondo le fantasie dei molti adulti/bambini, la madre mantenesse una vita sessuale da cui trarre piacere, l’adulto/bambino sarebbe esposto a un senso di tradimento e perdita irrimediabili, a sentimenti di impotenza, rabbia e desiderio di ritorsione. Solo la madre idealizzata e onnipotente sembra aver spazio nell’immaginario sociale.
Ma in un senso più esteso, questa dinamica difensiva nega a donne e uomini un più ampio spettro di potenzialità. Sulla base dell’equivalenza fallicità/razionalità/fare, viene negata alla esperienza della procreazione il suo ruolo fondamentale per una crescita integrata dei soggetti.
La negazione della matrice sessuale della procreazione forclude in realtà l’interdipendenza dei due sessi, quella percezione della mancanza che si fa ricerca dell’altro. Il figlio, reale o simbolico, è infatti terzo nel rapporto di scambio tra individui, così come l’accoppiamento può avvenire non solo per via carnale, ma simbolicamente tra parti femminili e maschili dei soggetti.
Più di tutto però Il meccanismo della scissione impedisce che il procreare entri a far parte dei modelli simbolici che decodificano il mondo, lo interpretano e progettano.
Procreazione e lavoro non alienato
Così come nell’immaginario sociale sesso e maternità vengono tenuti separati, analogamente a virilità e genitorialità paterna, allo stesso modo la procreazione viene letta come categoria antinomica, o anche solo estranea, a quella del lavoro. Infatti, man mano che la rappresentazione del lavoro si è discostata da quella dall’universo contadino e artigianale, nel quale la simbologia si mostra coerente con il generare, il crescere e l’avere cura, ed ancor più nei tempi presenti, in cui l’oggetto del lavoro è diventato estraneo alle mani (“inafferrabile”) in quanto intangibile, lavoro e generatività si sono collocati in universi non compatibili.
La chiave della formazione di questi universi simbolici che operano in opposizione all’integrazione psichica dell’essere umano favorendone l’alienazione è una specifica rappresentazione interiorizzata della donna, e specularmente quella dell’uomo. Essa si basa sulla dicotomia natura-cultura, sull’onnipotenza estranea al limite e alla cura, e su un codice affettivo di controllo e possesso della figura materna da parte di un adulto/bambino.
A formare tale rappresentazione intervengono:
• l’idea di una gravidanza avulsa dal sesso, coinvolta da molteplici forme di rimozione: del
rapporto sessuale come motore biologico-psichico della gravidanza in atto; di una normale
vita sessuale della donna in gravidanza; della gratificazione narcisistica della gravidanza
stessa. Analisi istituzionali condotte nei reparti di maternità hanno messo in evidenza l’esistenza di numerose difese istituzionali a fronte della intollerabilità di una
contaminazione tra sessualità della donna e maternità, così come della coppia madre-
bambino, oggetto di invidia istituzionale. 1
• L’enfatizzazione/idealizzazione della diade madre-bambino, con conseguente
sottovalutazione di altri importanti elementi e figure che intervengono nella esperienza della gravidanza e del parto: i genitori della coppia, il rapporto con il partner, il ruolo delle
istituzioni.
• La negazione di ogni possibile fruizione narcisistica della procreazione da parte della donna, come se l’oblatività e la negazione di sé connotassero la buona madre.
• La negazione della drammaticità e conflittualità del vissuto profondo della donna e della
coppia, conflitti che investono il contenuto del corpo della donna in gravidanza (ansia
genetica), le mutazioni del suo corpo e le aspettative del mondo sociale circostante,
prossimo o allargato.
• La negazione di ogni vissuto che rimandi alla aggressività della donna, al rifiuto o
ambivalenza verso l’assunzione del ruolo previsto di “buona gravida” e in seguito di “buona madre”.
• La formazione della categoria di “tutela”, all’interno della quale il tutelatore (in veste di
esperto o di istituzione tutelatrice) si pone al tempo stesso come figlio bambino di una madre oblativa e come difensore del corpo materno dagli attacchi del sé bambino.
Ad ultimo:
• La mancata collocazione della procreazione all’interno delle esperienze umane “portanti”, che riguardano tutti gli esseri umani, sia maschi che femmine.
A questa fondazione culturale concorrono donne e uomini. Troppo spesso la donna appare debole nel comprendere la valenza della procreazione, circoscrivendola a evento solo privato e ponendo un limite ad integrarla a tutte le esperienze della vita e della sessualità. Analogamente l’uomo oscilla tra la completa delega alle donne, accompagnata da un senso di inadeguatezza, e una difesa pervicace del proprio ruolo maschile di “prima”, eretto a baluardo contro una dimensione esistenziale sentita come troppo invischiante e avulsa dalla propria identità.
Ciò che può fare della procreazione una esperienza “portante”, cioè in grado di fornire parametri di interpretazione della realtà, è, per entrambi i sessi, riuscire a sentirsi “strumenti attivi”: strumenti di quelle leggi naturali di cui non si avrà mai il completo controllo; strumenti dell’impulso erotico generativo, orientato alla creatività e al piacere e che ci rende protagonisti consapevoli della propria spinta, reale e simbolica, a generare e allevare in quanto attività cardine della propria presenza socio-politica.
Farsi strumenti e al contempo essere attivi pone in relazione due polarità apparentemente
contrarie. La gravidanza e il parto compendiano precisamente queste due istanze: la passività, che si traduce nell’accogliere una nuova forma vitale indipendente, che si può soltanto assecondare con premura; l’attività, che invece è dimensione segnata dal desiderio e dal progetto, dall’allestire uno spazio fisico e dal provvedere concretamente. Non è difficile individuare in questa ricomposta polarità la dinamica della genitorialità, così come della cura delle piante e dei coltivi, dell’operare in squadra, del plasmare la creta e dipingere, della buona politica. Tutte queste attività, come nella procreazione, si reggono grazie alla dialettica tra passività/accettazione (delle leggi della natura; delle diversità tra individui; dei limiti umani e delle forze; del destino) e dell’energia desiderante.
La procreazione è una tra le diverse attività caratterizzate da questa dialettica interna degli opposti, sorta di miscuglio vitale. Certamente è tra quelle più largamente condivise. Ma considerarla una esperienza unica, privilegiata ed irripetibile, enfatizzarla cioè, significa in fondo riproporne la marginalità, non coglierne gli elementi che la unificano ad altre esperienze, non facendola entrare nel grande circolo delle attività umane, del sociale e del politico.
Gli ostacoli che si frappongono a questo allargamento del significato della procreazione non sono solo di ordine esterno all’uomo e alla donna. Tra gli ostacoli di ordine interno, ricordiamo nella donna il timore ad avventurarsi fuori dalla tutela, la difficoltà ad affrontare il percorso verso una identità complessa e da inventare. Nell’uomo la difficoltà a emanciparsi dalle aspettative sociali, da una identità legata a una virilità esibita, dalla paura a confondersi con la donna.
L’esperienza della procreazione contiene tuttavia alcune specificità di particolare valore simbolico.
Nella donna la gravidanza può essere considerata emblematicamente una “esperienza ponte”: a un polo sta la concentricità della donna col proprio oggetto (se stessa/figlio), densa di compiacimento e pienezza dell’essere; all’altro polo, la prefigurazione del figlio come persona separata e come “terzo” del rapporto di coppia, un distacco-mediato dal parto, dal puerperio, dall’allattamento-che porta alla individuazione di due nuovi esseri, la madre e il bambino, e della triade, madre- padre-bambino.
Per la donna gravida il corpo è investito narcisisticamente. Se nel rapporto sessuale l’investimento narcisistico veniva attuato e poi rimandato nel corpo dell’altro (amo il tuo corpo e il corpo che tu ami), nella gravidanza l’esperienza di pienezza è in qualche modo “con-clusa”, e questo, pur indispensabile per l’investimento oggettuale nel figlio, può essere guardato con invidia e con sospetto, invece che protetto e incentivato. A meno che sia vissuto come perdita ineluttabile, il successivo fisiologico distacco madre-bambino consente alla donna di integrare la maternità con tutte le altre esperienze della vita, spostando la ricerca del piacere generativo su altri oggetti.
Esistono analogamente altre “esperienze ponte”, là dove le energie erotiche e narcisistiche si traducono nella creatività e nello scambio dell’incontro. In queste esperienze, tra le quali includo quello del lavoro non alienato, l’oggetto d’amore è nel contempo all’interno e al di fuori dell’io, parte dell’io e che all’io ritorna per arricchirlo.
La soddisfazione erotico/narcisistica della donna rimane tuttavia un tabù sociale. E’ quindi socialmente ammesso che la donna lavori, ma non che ne tragga gioia; e che sia gravida, ma non per se stessa. Il soddisfacimento è letto come intrusione della sessualità in una immagine materna che, come abbiamo visto, si vuole oblativa e munifica.
Ma ancora più scandaloso può apparire lavorare e procreare con soddisfazione e senza conflitti, ove il lavoro assume l’evidenza della piena autonomia, ed è quindi una sfida. Sempre più donne in realtà realizzano questa doppia presenza, ma non è un caso che, come si vede accadere per le figure pubbliche, esse vengano attaccate con invidia. Questa immagine di madre autonoma e forte perseguita la fantasia degli individui. La donna stessa è spesso convinta che se manterrà desideri, aspirazioni, amori “da ragazza”, costituirà una minaccia per i suoi propri figli.
Il filo che congiunge tra loro sessualità, soddisfazione narcisistica, procreazione e lavoro, testimonia una unitarietà felice del soggetto difficile da far accettare. Una società fondata sulla divisione del lavoro e delle competenze, che relega il corpo tra sublimazione e pornografia, non tollera una proposta che, pur andando nella linea della espansione e realizzazione del desiderio, contempla anche l’accettazione del distacco e della sua elaborazione, della realtà della propria morte e non univocità di ciò che poniamo come assoluto: il nostro esistere.
L’evidenza che porta con sé la donna gravida, infatti, è un messaggio inquietante: che nel farsi dell’altro si pone la propria morte e che quindi il voler separare la procreazione da tutte le altre attività della vita può significare porre una distanza tra sé e la coscienza della morte. Grazie a questa separazione il lavoro produttivo può porsi come termine indiscusso di ogni valore, addirittura come “eterno” valore.
Si parla da molti anni, con poco costrutto, del problema del “soffitto di cristallo”, quell’ostacolo invisibile che impedisce alle donne di accedere ai più alti livelli di responsabilità nelle organizzazioni e nelle istituzioni. Ma il sentire incompatibili maternità e lavoro non è solo frutto di condizionamenti culturali o generici sensi di colpa da parte della donna. E’ la risposta inevitabile alla giusta percezione inconscia che procreazione e lavoro, così come si pongono oggi, sono termini antitetici: da una parte la funzione riproduttiva, priva di mete oggettive, che si confronta con il farsi anonimo quotidiano
della vita e della morte. Dall’altro il mondo competitivo del sociale, con il suo valore assoluto e inconfutabile: qualcosa, è vero, di irraggiungibile per le donne, ma anche qualcosa che le donne guardano con un certo senso di superiorità consapevole. Con il tempo le donne si sono rifugiate sempre di più in contesti che permettevano loro di mantenere la qualità della vita e il senso concreto delle cose. Accettare tuttavia questa scissione porta all’autoemarginazione, perché il patrimonio di consapevolezza accumulato nell’operare in sintono con la vita non diventa parola, fatto, codice di trasmissione consensuale agli uomini e alle donne. Non si pone come valore, come termine di
paragone. Non si fa cultura. Così sta avvenendo per la guerra ucraina: le donne fuggono, per proteggere se stesse e i figli. Gli uomini restano per combattere. Sia dal fronte russo che da quello ucraino le donne piangono e si prendono cura, ma non hanno la forza per schierarsi contro la guerra, imprimere un corso alla politica. Ancora oggi questo “non è dato”.
Il lavoro non alienato è lavoro procreativo
Se tutte quelle che abbiamo chiamato “esperienze portanti” hanno come caratteristica quella di prevedere l’integrazione interna dell’individuo, la procreazione contiene in sé valori simbolico/affettivi che la rendono paradigmatica per altre esperienze della vita.
Essa infatti può considerarsi come una “esperienza di formazione”, intesa come processo di crescita a carattere integrato, contraddistinto dalla capacità di decentrarsi da sé e dagli oggetti per pensare e pensarsi in senso evolutivo. Ciò può avvenire sia nel caso che l’oggetto finale della formazione sia il figlio vero e proprio, quanto che sia invece un figlio simbolico, come lo è un prodotto, una idea, un contenuto.
Il lavoro non alienato è quindi lavoro procreativo e prevede che entri a far parte di un percorso di formazione:
Esso infatti:
• pone il proprio prodotto come terzo di una relazione tra il soggetto e gli altri.
• Nasce dalla capacità del soggetto di prefigurare un prodotto finito, una elaborazione, una
idea, che lo rappresenti nel mondo.
• Comporta l’interiorizzazione da parte del soggetto della relatività del proprio esistere
• Comporta la coscienza della propria dipendenza da leggi naturali ed obiettive.
• Comporta la convinzione della necessità della relazione e della collaborazione per la riuscita della attività.
• Affida l’immortalità, o permanenza oltre la morte, ad un progetto largamente condiviso, che può essere continuato ed ultimato da altri
• Contempla il soddisfacimento del fare, di natura narcisistica ed erotica, ponte per la
relazione creativa con gli altri.
• Contiene la possibilità di assistere e nutrire il proprio figlio-prodotto.
• Contempla la separazione e il distacco.
La guerra
Lo scenario drammatico da cui siamo confrontati in questi giorni, quello della riproposizione della guerra e di tutti i consolidati meccanismi che ad essa conducono (individuazione del nemico, desiderio di vendetta, eroismo irresponsabile, sottostanti avidità economiche) hanno come contrappasso il pensiero e le azioni generative/procreative: gli appelli di cittadini di entrambi le parti a fermare il massacro; l’apertura delle case all’accoglienza; l’offerta spontanea di trasporto, conforto e amicizia. L’urgenza a fornire cura. Iniziative come quelle intraprese dalla pagina web a carattere turistico “Host a sister”, si è trasformato in una organizzazione di accoglienza. Un’altra
pagina web estetico/consolatoria con migliaia di iscritti, Out of my Window, è stata invasa da immagini dall’Ucraina. Le femministe e duecento ONG russe, hanno diffuso il loro messaggio contro la guerra, e così artisti, intellettuali, e normali cittadini..
Del resto da tempo, con minore esposizione mediatica, gruppi di volontari di nazionalità diverse si adoperano con ogni mezzo per soccorrere i migranti dei mari e delle rotte balcaniche, rei forse di non essere della nostra stessa “razza”.
Già nelle guerre passate vi sono stati esempi di militanza coraggiosa ma controcorrente alla logica dominante che vuole la storia segnata solo dal conflitto, una storia esclusivamente “fallica”.
Andando controcorrente (la storia la fanno solo le guerre) la storica Anna Bravo ha lasciato uno scritto di grande bellezza, La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato (Laterza 2013), ricostruzione di come individui e nazioni sono riusciti a evitare spargimento di sangue. In modo analogo la nipote di Tito, il medico Svetlana Broz, dando vita a una azione simbolica legata alla generatività, ha percorso i territori della ex Yugoslavia in guerra per raccogliere testimonianze di quanti delle diverse etnie si erano aiutati vicendevolmente : I giusti nel tempo del male. Testimonianze del conflitto bosniaco (Erickson, 2008).
Farsi strumenti attivi
Dopo aver tracciato un possibile quadro del procreare e produrre in modo non alienato e del “generare” un diverso approccio attorno ai conflitti e alla politica, ci domandiamo quali potrebbero essere le fasi intermedie ad una sua realizzazione, che apparentemente ha tutti i limiti di un discorso ideale.
Non credo che la soluzione sia di rimandare il discorso al momento della disalienazione del lavoro o a trattative diplomatiche risolutive, anche perché esse non sono generatrici automatiche di una trasformazione politica.
Potrebbe essere importante invece ricondurre alcune iniziative politiche (manifestazioni per la pace, lotte sindacali, lotte contro la violenza) ad alcuni paradigmi che, discostandosi da quelli tradizionali dell’eroe militante, aggancino, espandendola, la dimensione della generatività e della cura.
Più che a rivolgersi allo scontro “militante”, ma anche ahimè simmetrico con i valori dominanti, occorrerebbe in questa nuova fase rendere propositivi i valori e i contenuti simbolici del procreare.
Le donne hanno utilizzato questa cifra in tutte le guerre: la signora della lampada, i “gruppi di difesa della donna dei volontari per la libertà” sono solo alcuni esempi. Ma questo universo femminile è sempre stato la nota materna a copertura delle violenze della storia, non riuscendo a conquistare la dignità della proposta culturale e politica.
Fare di quella che è sempre stata una sottocultura una cultura consapevole può essere un obiettivo, al fine di contribuire alla creazione di una società disalienata.
Continuare a vedere valori maschili e valori femminili come entità contrapposte è a mio parere un errore. Una società in cui persistono modelli “attivi” (il maschio, il lavoro, la trasformazione, l’intrusione, il sesso, la politica) e modelli “passivi” (la procreazione, la cura), si fonda sul fatto che questa passività-necessità è stata ad oggi attivamente assunta propria dalla donna, cristallizzandosi in precise identità. Si fonda su una scissione data per scontata: da una parte il corpo, il ruolo materno, con cui la donna si identifica. Dall’altro un soggetto superegoico esterno a lei, “scientifico”, risolutorio, severo e castrante: la “vera” politica, le leggi dell’economia e della guerra, il Partito.
Questo genere di passività non tocca in realtà solo le donne, ma si palesa presso tutte le categorie umane meno forti sul piano del potere e sul quello produttivo.
Piuttosto quindi che prefigurare le donne come vittime non consenzienti della società, oggi
ampiamente citate all’interno di quella categoria chiamato “femminicidio”, occorre iniziare a considerarle come artefici concorrenti alla formazione di un nuovo modello di politica.
Nonostante le forti trasformazioni in atto nella identità di genere, nell’animo degli individui permangono i modelli di un tempo che, pur se fonte di alienazione e sofferenze, costituiscono codici condivisi collaudati dalle leggi della sopravvivenza, strumenti di comunicazione e socializzazione. Se vogliamo però prefigurare una società che metta al suo centro la procreazione, nei suoi significati affettivi e simbolici, su questi modelli segnati dalle scissioni occorre intervenire attraverso processi di presa di coscienza collettiva.
Operando sui contenuti e le finalità del lavoro e della convivenza e facendo luce contestualmente sulle implicazioni profonde della generatività/procreazione per tutti gli esseri umani, si potranno credo trovare parametri nuovi, referenti chiave per una proposta politica.
*(Questo articolo ha tratto spunto dalla mia comunicazione dal titolo “Il progetto gestazionale della donna” alla Assemblea nazionale delle donne comuniste, Roma 1983)
NOTE
1 Capello C., Vacchino R. (1985) Sessualità femminile e istituzioni sociali. Una prospettiva psicoanalitica, ETS; Capello C., Fenoglio MT (2005, 2010), Perché mi curo di te?, Il lavoro di cura tra affetti e valori, Rosenberg & Sellier.
BIBLIOGRAFIA
• Bonaparte M.(1957, 1972) De la sexualité de la femme, tr. Paolo Maria Ricci e Valeria Giordano, La sessualità della donna, Newton Compton
• Capello C., Vacchino R. (1985) Sessualità femminile e istituzioni sociali. Una prospettiva psicoanalitica, ETS
• C.Capello, M.T.Fenoglio, Perché mi curo di te? Soddisfazioni e fatiche nel lavoro sociale, Rosenberg & Sellier, Torino 2010
• Chasseguet Smirgel J.(1988), Les Deux arbres du jardin, ed. Des Femmes - Antoinette
FouqueDolto F. (1987, 1995)), La libido feminine, Carrere, Il desiderio femminile, Mondadori
• Fenoglio MT
-Il progetto gestazionale della donna, comunicazione alla Conferenza internazionale
“Donna e lavoro”, in “Produrre e riprodurre”, Torino, 1984
- Donne e parto alternativo, in “I Quaderni dell’associazione Livia Laverani Donini, anno
1 No.1,Gennaio Marzo 1985
- Donne e psicoterapia, in “L’Indice”, Gennaio 1990
- La bambina, la sua crescita, la sua educazione, Comunicazione al convegno “Crescere
al femminile”, pubblicazione a cura della circoscrizione VI della città di Torino, 1991
- Le ostetriche al S. Anna: processo di emancipazione, motivazioni alla professione e sistema di valori, in “I Quaderni dell’associazione culturale Livia Laverani Donini”,
anno V, n.8-9, 1992
• Vegetti Finzi S. (1996), Il bambino della notte, Mondadori
Considerazioni di Leonardo Montecchi sull’articolo di Maria Teresa Fenoglio “La procreatività come paradigma per una proposta politica”
Mi colpisce innanzi tutto il tema della pro/creazione come ripetizione, nel senso che una certa tradizione la concepisce ( e’ proprio il caso di dire così ) come una sorta di clonazione, ripetizione di un originale da cui non è il caso di discostarsi. Quindi il codice della famiglia paterna, “il nome del padre” alla Lacan, marcherebbe per sempre l’ordine simbolico con il significante principale: il fallo. Sono totalmente d’accordo con te quando individui, citando Silvia Vegetti Finzi nel ” bambino della notte” anziché l’invidia del pene, la mancanza del fallo,l’accesso all’ordine simbolico della donna. Al contrario e’la capacità procreatrice a produrre l’invidia del maschio. Di più con gli studi di Luisa Muraro, come tu sai meglio di me, si definisce l’esistenza di un diverso ordine simbolico: l’ordine simbolico della madre che corrisponde ad un simbolismo legato alla lallazione.
Mi interessa molto il tuo studio perché approfondisce il significato della creatività o dell’inventiva, come la chiamava Massimo Bonfantini. È’ certo, per me, che qualsiasi forma di creatività implica la sessualità, la libido sotto varie forme. Ad esempio l’esistenza di ” muse ispiratrici, maschili o femminili”per la realizzazione di opere figlie di quella relazione.
Anche il passaggio da un aggruppamento:(persone che si trovano assieme per un compito comune)ad un gruppo: (persone che si tengono in mente ed usano il pronome “noi”) e’ caratterizzato da immagini che si riferiscono alla nascita e quindi alla circolazione della libido.
Del resto c’e una relazione molto stretta fra Eros e conoscenza.
Per quanto riguarda la guerra ed il ruolo delle donne mi piacerebbe che si aprisse questo spazio al di là della stupidità che caratterizza tutte le guerre ed in maggior misura questa in cui rischiamo l’estinzione per un errore o peggio per una valutazione stupida.
Certamente nelle donne si manifesta la cura che è l’essere dell’esserci. La cura e’l’antidoto alla stupidità, infatti la stupidità non ha cura di se ne dell’altro.
di Marella Tarini
Il nostro gruppo di lavoro, un’istituzione pubblica attiva nel settore delle dipendenze patologiche, ha abbracciato da molti anni un’ipotesi che interpreta le disfunzioni di cui si occupa concentrando il suo focus intorno alle dinamiche e ai fenomeni gruppali, istituzionali, comunitari e collettivi.
Il sintomo emerge dai movimenti del gruppo (in primis quello familiare) e della collettività a cui appartiene chi lo manifesta ed è in questi ambiti, quindi, che si ritiene opportuno intervenire; e le risorse per affrontare le problematiche che si configurano e per le quali viene portata la richiesta di intervento si strutturano, a loro volta, attraverso il processo operativo del gruppo- équipe, che è multiprofessionale e transdisciplinare.
Giusto due anni fa il setting necessario agli utenti e agli operatori per l’applicazione di questo paradigma, costituito da incontri cadenzati di soggetti incarnati, con i loro corpi, con la loro configurazione emotiva, il loro mondo interno ed il loro assetto mentale, che si riuniscono in un luogo fisico ben determinato, viene improvvisamente stravolto. E’ attraversato da una potente interferenza trasversale, che lo trafigge violentemente e lo rende inattuabile: l’impossibilità di realizzare e vivere la presenza per via di un rischio infettivo che attraversa la collettività e che è affrontato dalle macroistituzioni con perentorie misure restrittive, che impongono la soppressione di esperienze collettive, il distanziamento e la copertura facciale.
Il clima che repentinamente si instaura nel gruppo di lavoro è oscurato da spesse coltri paranoidi che si alternano a sentimenti depressivi e colpisce la sicurezza ontologica delle relazioni.
La diversità dei pensieri e delle opinioni improvvisamente subisce una trasformazione nella percezione dei partecipanti: da ricchezza che alimenta e fa carburare il processo di costruzione e di trasformazione collettiva, così come era sentita, diventa repentinamente una pericolosa funzione destabilizzante, che potrebbe favorire un temuto scostamento dai dettami comportamentali rigidamente imposti dai gestori della situazione epidemica; si instaura un atteggiamento che porta ad aderire a tali disposizioni ancor prima di averle sottoposte a qualsiasi vaglio critico, ormai non più tollerato.
Nel gruppo di lavoro la tensione progettuale si sterilizza. I percorsi che hanno qualificato per tanto tempo gli interventi si interrompono. La spinta a ricercare collettivamente si arena. Ogni operatore si chiude nel proprio studio più a lungo che può e la gestione di processi di cura si appiattisce sulla esecuzione di atti stereotipati e ripetitivi, quelli ritenuti imprescindibili, inevitabili e non rinviabili, per lo più coincidenti con interventi esclusivamente medicalizzati e farmacologizzati.
Il colpo è molto duro: l’impedimento, la coercizione, la sottrazione di spazi di incontro espressivi e creativi, la frustrazione generata dalla mutilazione del desiderio in alcuni generano rabbia, una rabbia che vorrebbe trovare varchi costruttivi o vorrebbe configurarsi come forza per resistere, per non rinunciare al disegno operativo così a lungo elaborato ed affinato : ma per lo più sono la paura e la proiezione paranoidea a prevalere pervadendo l’aria e il tempo scorre ad evitare il contatto e a garantire la rassicurazione, prodotta da comportamenti ossessivi di esorcizzazione dei rischi.
Un sistema che viene escogitato è quello del collegamento telematico: ogni professionista, che peraltro condivide con gli altri colleghi la fruizione dello stesso edificio, si connette da remoto via computer dalla propria stanza con gli altri, per ritornare a condividere elementi sensibili della relazione di accoglienza e di cura: ma questa modalità introduce un vissuto profondamente diverso, lo si sente nella pelle e nella percezione interna: finiamo per parlare di aspetti centrali del rapporto terapeutico, come per esempio del transfert suscitato in una particolare situazione e del controtransfert che si è generato, con una qualità metallica, bidimensionale ed appiattita, in cui la condivisione è inquinata dalla distanza corporea e dall’impoverimento della risonanza reciproca.
Il tempo scorre ancora e gli effetti della trasformazione si radicalizzano.
Mano a mano, però, almeno alcune situazioni di collegamento e di incontro tornano a rappresentarsi come inevitabili e necessarie per qualificare il lavoro. Di buono c’è che “il richiamo della foresta “si è fatto di nuovo sentire: il bisogno – desiderio di ritrovare la dimensione operativa collettiva e di recuperare il senso profondo della azione progettuale condivisa ha trovato il suo spazio per riemergere e cerca modalità per riconfigurare concretamente la meta. Seppur ancora con le protezioni facciali e con l’attenzione a non violare la distanza che ognuno reputa rassicurante, il dispositivo si ripristina: le riunioni d’équipe in presenza ricominciano e riprendono anche gli incontri cadenzati interistituzionali.
L’offerta terapeutica invece non riesce a recuperare la sua articolazione storica: i gruppi di utenti, quelli per familiari e l’esperienza di gruppo multifamiliare sono stati sospesi dal momento in cui è stato espresso il divieto a riunire persone; lo strumento telematico, in certi casi proposto, non è stato accattivante ed è stato rifiutato. La resistenza a questo tipo di relazione è stata espressa sia dagli utenti che dagli operatori, che hanno considerato questo mezzo non adatto alla esperienza di condivisione intima, profonda e coinvolgente che si aspettano dalla partecipazione ad un gruppo.
Quindi, tutta la riflessione che nel tempo si è sviluppata intorno alle dinamiche del processo gruppale, al loro potenziale trasformativo, alla lettura e alla elaborazione della qualità dei vettori che segnalano l’andamento del percorso, e tutto il pensiero intorno alla miglior configurazione strutturale del dispositivo, (se sia più utile, per esempio, una dimensione di gruppo aperta o chiusa, o quale sia la risorsa migliorativa di una composizione eterogenea rispetto ad una omogenea nella partecipazione degli integranti), concretamente, per il momento, sono annullati. Ed è questa una grave perdita, è come una sottrazione di storia un tempo condivisa collettivamente, con il pensiero e con i sentimenti. Difficile anche continuare a pensare intorno al concetto, così intrigante, di malattia unica, o riflettere sulle risorse messe in campo dal dispositivo specifico del gruppo multifamiliare, con le sue opportunità di rispecchiamento, di utilizzo della esperienza dei transfert multipli e di sollecitazione potente ad affrontare l’uscita dalle posizioni simbiotiche ed agglutinate, perché non è in corso, di fatto, l’esperienza concreta, quella che restituisce vero apprendimento.
E’ in questo contesto climatico che, alcuni giorni fa, mi sono passati fra le mani alcuni scritti prodotti tempo addietro, ben prima che succedesse tutto questo, relativi a come poter pensare l’intervento intorno ad una particolare modalità di presentarsi della dipendenza patologica, ovvero quella da consumo di etile. Ho avuto un accesso di nostalgia, perché ho ritrovato, messo per iscritto, lo sforzo che si faceva insieme per considerare, con un pensiero che teneva conto della complessità, tanti aspetti relativi alla gestione interpretativa e terapeutica della dipendenza quando si configura come posizione disfunzionale, a partire, in quel caso, dall’evento rappresentato dal paziente etilista. Ho ritrovato l’attenzione a considerare la dimensione collettiva e comunitaria, quella istituzionale e macroistituzionale determinata dalla politica sanitaria, la riflessione sul modo di pensare la patologia, le valutazioni emerse dalle esperienze dei processi e dei dispositivi gruppali, e tanto altro ancora che può essere evinto leggendo tra le righe: e ho pensato che forse questo materiale non dovrebbe andare disperso, perché è testimonianza di un percorso e di una elaborazione che non è diventata ormai un frutto inaridito, sommerso e spazzato via dal cambiamento degli ultimi tempi, ma piuttosto un ricordo che può avere ancora un senso evolutivo, e forse lo si può considerare come uno dei tanti luoghi esperienziali da cui ripartire.
Per cui, ho pensato di dare completamento a queste righe, che hanno tentato di rappresentare il momento attuale, con la riproposizione del materiale datato che segue. Alcuni temi sono ripresentati e ribaditi in entrambi gli scritti.
Il primo prodotto è un contributo elaborato per i lavori di un congresso nazionale sul tema della complessità della tematica Alcologica e contiene un’analisi del contesto macroistituzionale e un accenno sulle ipotesi di trattamento a livello istituzionale; risale al 2009 ed è il seguente:
Negli ultimi anni il tema dell’uso di alcool e della dipendenza da etile si è presentato con forza sempre maggiore, sia per il passaggio all’evidenza di situazioni e comportamenti legati all’abuso che precedentemente abitavano l’ambito del sommerso, sia per l’effettivo aumento di condotte incentrate sul consumo “eccessivo” di alcolici.
Basti pensare al fenomeno rilevabile nei Servizi per il trattamento delle Dipendenze, secondo il quale sempre più frequentemente, accanto all’abuso e alla dipendenza da psicotropi di sintesi, si strutturano comportamenti caratterizzati dall’abuso alcolico, ad accompagnare la dipendenza principale o a sostituirla nelle fasi di remissione; o alle abitudini etiliche che coinvolgono ormai un grande numero di giovani, e sempre più precocemente.
Questi elementi farebbero supporre che la comunità nazionale si sia posta il compito di produrre risposte operative a ciò che dovrebbe essere riconosciuto come un disequilibrio, un problema di salute, individuale e generale, e che abbia quindi disposto risorse trattamentali con la stessa attenzione che si rivolge di solito alle manifestazioni patologiche a determinazione multifattoriale che coinvolgono una collettività.
Ma vediamo che le cose non stanno proprio così: se analizziamo i fatti, possiamo rilevare che forse anche le idee che circolano relativamente all’abuso e alla dipendenza da etile, comprese quelle di certa comunità scientifica, non considerano questa come una disfunzione a genesi multifattoriale, con tutta la complessità dei dispositivi operativi che ne dovrebbero conseguire: se davvero fosse riconosciuta e validata l’interpretazione che vede il tema etilico come manifestazione patologica a determinazione complessa, vedremmo un sostegno concreto a percorsi che siano di cura, approfonditi e articolati, strutturati in termini integrati e multidisciplinari, adatti a gestire, appunto, tanta complessità.
Mi riferisco a processi che, oltre a preoccuparsi meramente di limitare o rimuovere alcuni sintomi o segni, attivino e facilitino il cambiamento degli individui e dei loro gruppi di appartenenza, favorendo il loro avvio verso una maggior consapevolezza e gestione di sé, magari in seguito alla formulazione di una richiesta autodeterminata di ingresso in trattamento.
Invece, se approfondiamo l’analisi studiando questo stesso periodo di indagine, e guardiamo al versante delle politiche socio-sanitarie che sono messe in essere in Italia, verifichiamo che non c’è sul territorio nazionale un effettivo incremento di servizi o di personale dedicato a questa problematica in espansione: per esempio, dal bollettino nazionale della rilevazione delle attività in tema di etilismo distribuito due anni fa, si evince che nella maggior parte delle regioni italiane si computano addetti al trattamento del fenomeno che, in proporzioni molto elevate, lo sono solo a tempo parziale; fanno eccezione solo Friuli e Molise.
Nel caso degli addetti esclusivamente dedicati al tema, troviamo che la proporzione più alta spetta agli educatori professionali e agli assistenti sociali.
Il dato nazionale ci dice inoltre che il 51,4% del personale totale assegnato parzialmente o esclusivamente al trattamento dell’abuso e dipendenza da alcool è costituito da operatori sociali, i medici rappresentano il 21,5% e gli psicologi il 16,9%; il restante 10% è costituito da personale amministrativo o di altra qualifica.
Emerge una grande disomogeneità nella distribuzione regionale del personale addetto per qualifica professionale, ma comunque gli operatori sociali rappresentano la professionalità più frequente in ogni regione.
In cambio, come detto, l’utenza ufficiale è in costante crescita, si rileva un incremento di circa il 10% annuo negli ultimi tre anni, con una concentrazione di questo incremento nelle regioni del nord. Il 32% è rappresentato da nuovi utenti, il 68% da soggetti già in carico o rientrati dopo l’interruzione di un piano precedente.
Ciò ci porta a pensare che i dispositivi messi in essere per affrontare l’incremento della richiesta di presa in carico risultano non tanto dall’individuazione di nuovi Servizi o di nuove unità di personale addette, ma da una riorganizzazione di ciò che già esiste per il trattamento di altre situazioni problematiche e/o patologiche.
Ed un dato che risulta chiaro è che le politiche nazionali e/o locali pensano che per l’alcolismo siano da mettere in campo più che altro figure professionali che lavorano sull’emergenza sociale e nel campo della rieducazione.
Ora, è evidente a chi lavora nei Servizi che molto spesso ad una condotta di abuso alcolico si collegano situazioni di difficoltà sociolavorative, ambientali, economiche e comportamentali in senso lato, ma viene da osservare che questo accade con una frequenza che non è né più né meno quella che si registra per altre forme di dipendenza.
Qual è il concetto inespresso dunque che informa in Italia le scelte di politica sanitaria nel caso della dipendenza da etile? (E, verrebbe da estendere, nel caso delle dipendenze e dell’abuso di sostanze esogene?)
Viene da pensare infatti che queste scelte politico-organizzative vedano le condotte di abuso etilico per la più parte come forme di emergenza sociale e come organizzazione di comportamenti devianti, da trattare perciò prevalentemente con interventi pedagogico-educativi o socioambientali, e non come situazioni che esprimono sofferenza e disfunzione, non come forme di disturbo che potrebbe essere affrontato con percorsi di elaborazione, da affidare quindi all’intervento di professionisti della cura.
Ciò ci rimanda ad una riflessione relativa a come il tema dell’uso-abuso di sostanze, ed in particolare di etile, è stato inquadrato all’interno degli assetti culturali del nostro sistema occidentale: in particolare voglio riferirmi all’ambivalenza con la quale è visto il consumo di alcool; questa sostanza, inutile negarlo, è celebrata come simbolo di benessere sociale, di status, di omologazione significante a codici di gruppo a e valori comunitari, come sostanza centrale, persino, nella esecuzione di alcuni riti. Questa sostanza, potenzialmente così “alterante”, così capace di allentare e sovrastare le capacità di autocontrollo, è, dunque, ad un livello subliminale o implicito, carica di significati positivi, recuperati, promossi e sottolineati anche dai sistemi mediatico e pubblicitario: leggevo proprio ieri su un quotidiano locale che il trend più in auge di alcuni locali modaioli della riviera senigalliese si chiama “ Bevi e Vinci”, e consiste nell’invito a consumare più bevande alcoliche possibili, perché in abbinamento alla singola consumazione c’è la possibilità di vincere materiale informatico di nuovissima generazione o viaggi nei paesi esotici…… naturalmente sembra che l’iniziativa stia avendo un notevole successo, ed è lodata pubblicamente, in quanto in grado di aumentare la partecipazione della gente alle iniziative commerciali che qualificherebbero la città……. .
Nello stesso tempo, però, paradossalmente, questo ordine sociale enfatizza il tema del potere, del controllo, dell’onnipotenza e dell’esercizio della volontà, tematiche narcisistiche diffuse e condivise.
Nella nostra cultura, cioè, viene messa molta enfasi sul potere decisionale degli esecutivi, delle piramidi gerarchiche e infine dell’individuo e si assume che tutti gli aspetti della vita si svolgano per via dell’esercizio di questo potere, che diventa il principio organizzatore delle esistenze e degli eventi, anche collettivi.
E per ciò che riguarda l’individuo, il senso comune acritico non accoglie l’idea che questi possa prescindere dal controllo preordinato su una situazione, che si possa fare esperienza di una qualche dipendenza, e che a volte si possa rimanere bloccati in questa posizione, quella dipendente.
La nostra cultura nega e svaluta sul piano manifesto la dipendenza, nonostante sia un’esperienza che invece dobbiamo incontrare all’interno dei nostri vincoli e nel normale svolgimento della nostra esistenza.
Lo stesso senso comune non può quindi considerare che, a volte, si possano creare situazioni per cui questa posizione si possa cristallizzare e possa bloccare i processi evolutivi, dato che non riesce ad intenderla nemmeno nella sua configurazione “sana”.
Come sappiamo, però, ciò che è negato o rimosso esiste e si manifesta prima o poi con forza maggiore e davvero si situa fuori dalla portata della gestione consapevole; cosicché questa stessa società onnipotente è in realtà profondamente incline a forme molto vaste e profonde di dipendenza individuale e collettiva, che si possono identificare facilmente, attraverso una lettura minimamente attenta di vari fenomeni diffusi e largamente condivisi, tra i quali l’abuso acritico di sostanze.
Questa scotomizzazione fa sì che generalmente l’emergenza di problemi sociali e sanitari collegati all’ uso di alcolici venga vista specificamente come il risultato del fallimento del sistema volitivo degli individui: secondo questa ottica, sembra che, nel caso in cui l’uso sfoci nell’abuso ed infine nella dipendenza, ciò che debba essere ricodificato sia il sistema della volizione e del controllo, attraverso interventi che a questo, e non ad altro, siano dedicati.
Tra l’altro, questo culto della volizione e del controllo porta inevitabilmente a sancire dall’esterno, con la forza delle norme, i livelli standard dei comportamenti, introducendo i sistemi di codificazione aprioristica di ciò che è appunto “a norma” e di ciò che non lo è, in una sorta di uniformazione dei criteri di accettabilità degli stili dei pensieri e delle azioni: così è anche per l’entità dei consumi di etile, la cui adeguatezza quindi in occidente viene stabilita all’interno di ranges chimico-biologici definiti, che poi possono essere utilizzati anche a scopo legale.
Credo che proprio questa visione, insieme ad altri criteri e motivi di ordine economico e politico, abbia fatto inquadrare il sistema degli interventi secondo la categoria della erogazione di atti rieducativi, che decisamente debbano essere brevi, e il risultato dei quali sia giusto la risoluzione comportamentale del recuperato controllo sugli usi, senza che i motivi dei consumi debbano essere criticati, rielaborati e trasformati, ed abbia escluso le più articolate emissioni di “cure”, quelle che sarebbero da prevedere per una problematica di salute psicofisica individuale e collettiva particolarmente complessa nelle sue determinanti.
Si è affermato cioè un clima professionale, appiattito sulla base di quello economico e politico, che rischia di minare profondamente il potenziale trasformativo di quelle cure incentrate sui percorsi di alleanza terapeutica, di quegli interventi che, per la elaborazione di problematiche complesse come questa che investono la persona ed i suoi gruppi di appartenenza, devono inevitabilmente essere pensati a congruo termine.
Infatti, questo sistema degli interventi “secchi e brevi”, chiamiamoli così, che si è affermato certamente non solo nel campo dell’alcologia, ma che più estesamente ha preso campo in tutto l’ambito, quanto meno, della salute mentale, ha prodotto un numero inevitabilmente molto elevato di temporanee remissioni dei sintomi più eclatanti, seguite però dalla ripresa a rapida scadenza di tutte le problematiche; e ciò in quanto queste, evidentemente, appoggiano su condizioni di disturbo e sofferenza che non hanno trovato spazio e tempo per essere considerate e trattate.
Inoltre, questa impostazione così efficentista, potremmo dire, fa perdere di vista la complessità legata al fatto che individui o gruppi appartenenti ad altre culture, e mi riferisco ai cosiddetti migranti o immigrati, possono avere configurato un rapporto diverso con l’uso delle sostanze, e dell’etile in particolare; e questo diverso criterio attraverso il quale questi individui “altri” intendono le sostanze rende gli standard condivisi in questa parte del mondo inadeguati a leggere il loro comportamento, e a definire quando per questi si possa parlare di sintomo, di deviazione in atto rispetto ad una condizione di salute , oppure no.
Questo tema dovrebbe trovarci sensibilizzati e pronti, perché il fenomeno migratorio è in evidente e prevedibile incremento nei nostri luoghi.
Anche in questo caso, l’elaborazione di una situazione forse patologica, di una condotta di abuso o di dipendenza, resa ancora più complessa dalla permanenza in situazioni geografiche e culturali che non sono quelle di origine, è pensabile solo all’interno di un percorso articolato che preveda uno spazio ed un tempo sufficienti per elaborare gli stili della comunicazione e le modalità di costruzione dei vincoli, visto che questi, nella situazione attuale, sono riformulati in un assetto culturale diverso da quello in cui si sono stabiliti quelli primari.
Persino nel nostro territorio, che ha una lunga storia di attenzione ai percorsi di integrazione fra servizi e fra istituzioni per la presa in carico ed il trattamento di problematiche ad alta complessità e valenza sociosanitaria, fino a pochi anni fa non era individuato il Servizio che a livello Sanitario Zonale doveva provvedere alla presa in carico degli utenti etilisti.
Quasi a confermare implicitamente ed inconsapevolmente un preconcetto che possiamo a tutt’oggi rilevare in media a livello nazionale, gli etilisti erano anche nella nostra zona trattati frammentariamente, spesso con interventi che non riuscivano a costruire una progettualità o un andamento progressivo per fasi articolate, e spesso entravano in azione presidi differenti che non sapevano l’uno degli interventi dell’altro.
Una delle risposte trattamentali che più frequentemente veniva restituita, al di là del momento del ricovero per l’adeguamento di alcuni indici somatici alterati dal consumo cronico della sostanza etilica, era il passaggio di competenze alla assistente sociale dell’area territoriale di riferimento; questa professionista spesso non poteva far altro che intervenire per rendere più snello il ricorso al ricovero successivo, rimedio da attivare in seguito al riproporsi della problematicità e alla eventuale manifestazione di disturbi comportamentali o di disagi nelle relazioni familiari.
Spesso coinvolte erano le forze dell’ordine, che intervenivano per contenere i problemi di ordine pubblico e/o privato che inevitabilmente andavano a configurarsi.
Questa ci è apparsa, ad un’indagine dedicata, un’emergenza sociosanitaria a tutti gli effetti; ci siamo interrogati sul perché fosse presente questa carenza e questa disorganizzazione nei dispositivi per il trattamento di questa questione clinica, abbiamo riflettuto ancora una volta su cosa pensiamo che sia una dipendenza da una sostanza, l’alcool, nella fattispecie: abbiamo quindi condiviso un punto di vista secondo il quale l’utilizzo “incontrollabile” di sostanze esogene, tra cui l’etile , è da leggere come sintomo di una perturbazione profonda dell’assetto psichico individuale, ma questa perturbazione emerge da ciò che si è svolto e si svolge all’interno del gruppo di appartenenza di questo individuo, da qualcosa che ha impedito l’individuazione libera da sintomi, l’accesso alla soggettività, ed il superamento della posizione dipendente, che, durante la fase simbiotica, fa parte fisiologica del nostro sviluppo evolutivo.
Quindi, i fattori che possono favorire tale perturbazione e tale arresto dello sviluppo sono riscontrabili a vari livelli, quello fisico-biologico, quello psichico, quello relazionale e sociale, in un intreccio di elementi, laddove il piano individuale si interseca con quello familiare, gruppale, istituzionale e comunitario.
L’intervento che abbiamo ritenuto adeguato è pertanto un approccio multidisciplinare e multiprofessionale, volto a limitare certamente i problemi di ordine somatico ed a perseguire un superamento del sintomo, per esempio attraverso i trattamenti farmacologici, ma altresì incentrato sull’attivazione di percorsi psicoterapici che possano favorire la rielaborazione degli accadimenti che hanno determinato il blocco evolutivo.
Per questo motivo, accanto allo strumento del ricovero, per esempio per la disuassefazione, o a quello della prescrizione farmacologia, abbiamo predisposto un dispositivo da utilizzare nella fase ambulatoriale del trattamento, che è quello del gruppo psicoterapeutico, con svolgimento all’interno del campo istituzionale
Il gruppo psicoterapeutico è stato pensato sia per gli utenti portatori del sintomo, sia parallelamente per i familiari di questi utenti, consapevoli che il percorso di cambiamento debba coinvolgere i vari ambiti che pensiamo che siano implicati nel determinare il disturbo, e non solo, quindi, quello individuale.
Tale strumento ci è sembrato adatto a rappresentare, in integrazione con altri trattamenti, un significato di cura alle problematiche presentate da questi individui e da questi gruppi familiari, in quanto attraverso di esso è possibile rielaborare e trasformare le dinamiche che si sono depositate, relative alle relazioni primarie, e che hanno predisposto gli integranti a restare bloccati in una posizione di dipendenza.
Lo strumento del gruppo si avvale della comunicazione fra gli integranti e fra questi ed il coordinatore, ed è proprio attraverso questo mezzo che il gruppo interno che ciascuno porta depositato dentro di sé, ed i vincoli che lo caratterizzano, può essere trasformato, nell’ambito della esperienza del rapporto con gli altri, nel qui ed ora del gruppo attuale. Questa attenzione a strutturare una situazione terapeutica che possa favorire la comunicazione scaturisce dall’idea che certe configurazioni possano cambiare; che ci si possa quanto meno interrogare “sul cambiamento, sugli ostacoli, sugli strumenti per sconfiggere gli stereotipi, e sul progetto” .
Stiamo propugnando un sistema di interventi che, consapevole dei lunghi tempi che occorre dedicare a questo compito per via delle inevitabili resistenze al cambiamento, crede nella possibilità di superare le cristallizzazioni degli assetti.
E nella possibilità di riconoscere, elaborare e trasformare le stereotipie, che impediscono l’accesso alla soggettività, in modo che si possa imparare a pensare.
Forse sono questi elementi, l’apprendimento a pensare con il proprio pensiero e la capacità di superare le stereotipie, che diventano criteri di salute.
Quanto meno crediamo, e riporto A. Bauleo, nella sua prefazione a “Il processo gruppale” di E. Pichon – Rivière, che “l’obiettivo del gruppo sia segnalare le trappole che la resistenza al cambiamento instaura per impedire di pensarsi diversamente nelle relazioni interpersonali”.
E’ qualcosa di diverso dagli interventi incentrati sul mero superamento o occultamento di un sintomo, che, inevitabilmente, è destinato a trasformarsi in un altro, forse poco collegabile ad un primo sguardo con quello precedente, ma riconoscibile, invece, ad una analisi più attenta, come emergente dalle stesse problematiche di fondo, se non si è almeno tentata una loro rielaborazione. E’ un modo diverso e forse in controtendenza, rispetto alle derive attuali, di intendere la salute, e quindi di operare in suo favore all’interno delle istituzioni.
Il secondo è un prodotto scaturito, tra l’altro, da una analisi sugli esiti di un percorso terapeutico gruppale ed è stato utilizzato per una relazione all’interno di un altro Congresso dedicato alla tematica degli interventi in ambito alcologico, che si è tenuto nel 2011. La riflessione è maggiormente orientata intorno allo studio di sviluppo del dispositivo rappresentato dal Gruppo Operativo Psicoterapico promosso all’interno dell’assetto istituzionale, messo in essere in un’epoca in cui non era ancora stata attivata l’esperienza del gruppo multifamigliare:
Questo intervento vuole perseguire lo scopo di illustrare come il concetto di integrazione, nel settore dei trattamenti inerenti le problematiche alcologiche, è stato tradotto in dimensioni operative nel DDP di Senigallia.
Questo concetto, l’integrazione, richiama un tema, che è quello degli ambiti, che ci sembra importante ridelineare.
Quando parliamo di ambiti, intendiamo orientare la osservazione della realtà configurandola come se fosse strutturata in campi.
Questi campi sono definiti da confini che possono essere pensati netti ed impermeabili, oppure flessibili e percorribili, attraversabili, tanto da poter pensare che quello che si svolge all’interno di ciascuno di essi entri in costante dialogo e relazione vicendevoli, fino a produrre un unico ultimo effetto strutturale di dimensioni globali.
Nella nostra impostazione concettuale e poi operativa, gli ambiti sono pensati in questo secondo modo, e questo modo di pensarli definisce il nostro lavoro.
A partire da come inquadriamo il problema della dipendenza, per passare a come definiamo la diagnosi di questa specifica sofferenza, fino alla costruzione delle dimensioni trattamentali, senza dimenticare la dimensione e l’organizzazione del presidio a cui apparteniamo, pensiamo i vari ambiti identificabili in questo processo come in costante dialogo reciproco, interagenti fino a configurare un unico quadro complessivo, una intera figura finale.
L’integrazione di cui parliamo è quindi proprio questo processo, per cui gli appartenenti ad ambiti tra loro inizialmente distinti o distinguibili concorrono a creare un quadro ed un effetto di sintesi, nel quale le differenti provenienze convergono e costruiscono una unica complessa realtà operativa.
Questo paradigma, nel nostro modo di pensare, è applicato a partire da ciò che pensiamo che sia una condizione di dipendenza patologica, e nella fattispecie, quindi, anche una dipendenza da etile.
Al di là della specifica sostanza o situazione da cui un soggetto può patologicamente dipendere, noi abbiamo condiviso il concetto che la sofferenza presentata da un individuo con questo tipo di problema è l’effetto di una serie di eventi che riguardano sì il suo ambito individuale, ma anche gli ambiti familiare, gruppale, istituzionale e collettivo o comunitario.
Come dire che una serie di processi che attraversano tutti questi ambiti si sono “integrati” fino a manifestarsi con l’emergenza di una situazione di dipendenza patologica espressa da quel singolo soggetto.
Questo concetto di integrazione torna anche nel momento in cui definiamo la dipendenza, e quindi anche la dipendenza da etile, come la risultanza multifattoriale dell’intervento di fattori biologici, psichici, relazionali e sociali, che insieme concorrono per la definizione del quadro di sofferenza finale.
Ci sembra importante richiamare questo pensiero sulla dipendenza, perché si delinea come una modalità di inquadrare la questione in controtendenza rispetto ad alcuni punti di vista molto in auge che descrivono invece questo stato patologico come l’effetto di alterazioni biologiche e neurochimiche determinate geneticamente, e quindi ascrivibili al mero ambito individuale del soggetto; questi punti di vista sembrerebbero, pertanto, non lasciare molto spazio a possibilità plausibili di cambiamento, e adombrano l’ipotesi che l’intervento terapeutico debba essere unimodale, ed impostato quindi anch’esso su basi esclusivamente chimico – biologiche.
Pensando invece la dipendenza in termini integrati, o secondo l’ottica di una epistemologia convergente, il Dipartimento Dipendenze Patologiche di Senigallia si è configurato sulla base di una integrazione, appunto, multiprofessionale, transdiciplinare e interistituzionale.
La normativa prodotta dalla Regione Marche ha definito i Dipartimenti Dipendenze, che devono assumere in carico anche le situazioni di dipendenza da etile, come quei presidi in cui devono operare congiuntamente operatori di professionalità e discipline differenti, in cui devono essere prese in esame le determinanti e le soluzioni sanitarie e sociali, in cui devono convergere per una operatività comune gli operatori appartenenti sia ad istituzioni pubbliche che appartenenti al privato sociale, e nei quali si deve articolare una costante interazione con Istituzioni di ordine diverso da quello Zonale o sanitario, ma che possono essere a vario titolo implicate nella gestione delle problematiche inerenti la dipendenza patologica o le condotte d’abuso.
Stiamo quindi ora parlando del concetto di integrazione applicato questa volta alla dimensione organizzativa ed operativa del Servizio.
All’interno del DDP la multidisciplinarietà,, la multiprofessionalità e la interistituzionalità convergono, fin dal momento della formazione che si svolge in comune, passando per i programmi di prevenzione, per i momenti poi della prima accoglienza, della elaborazione degli aspetti diagnostici, e della predisposizione dei protocolli trattamentali individualizzati, convergono, dicevamo, nel punto della effettuazione di progetti di cura che integrano varie possibilità di intervento, di ordine medico – biologico ed infermieristico, psicologico e psicoterapico, e di ordine sociale ed assistenziale.
Tali progetti di cura assumono l’aspetto di interventi che, come si può evincere da quanto più sopra definito, si rivolgono non solo al soggetto che giunge al Servizio presentando il suo problema franco di dipendenza, ma anche agli ambiti con i quali egli è in relazione, in modo specifico l’ambito familiare e quello gruppale.
I programmi multidisciplinari pensati ed eseguibili per le situazioni di dipendenza patologica da etile possono articolarsi secondo le opportunità rappresentate all’interno di una filiera, che è stata costruita nel tempo attraverso l’opera di collegamento, dialogo ed interazione tra la Zona, con i suoi presidi, ed altre realtà presenti sul territorio zonale e regionale.
Tale filiera permette di spaziare dal protocollo ambulatoriale, al momento del ricovero in clinica o in reparto, al momento dell’invio a strutture semiresidenziali o residenziali ed infine al momento riabilitativo; entrando nel dettaglio, questo ventaglio di opportunità terapeutiche è messo in essere grazie alla esecuzione diretta all’interno della dimensione Dipartimentale, alla quale appartengono, come già detto, anche le realtà del Privato Sociale, attive su questo territorio per l’esecuzione di programmi inerenti le dipendenze patologiche, e anche per via della interazione con istituzioni sanitarie appartenenti al sistema del Privato convenzionato, tra le quali, in questo specifico settore, svolge un ruolo centrale la Casa di Cura Villa Silvia: gli eventuali momenti del ricovero in regime di degenza per la disintossicazione o per la disuassefazione da etile, laddove ad una valutazione congiunta si considerino necessari, sono svolti infatti, nell’ambito del più vasto programma complessivo elaborato in accordo con il Servizio, o presso il reparto di Neurologia della Zona 4, o presso la Casa di Cura medesima, che predispone questa risorsa in virtù di una specifica convenzione con la stessa Zona.
Sempre per restare nell’ambito della discussione intorno al tema della integrazione, ci è sembrato interessante riportare la descrizione ed il resoconto sul funzionamento di un dispositivo che è stato costruito nel nostro Dipartimento e che appartiene al modulo trattamentale ambulatoriale, che fa parte del possibile programma terapeutico integrato ed individualizzato rivolto agli utenti affetti da dipendenza o abuso di etile, e che è reso possibile per la interazione di professionisti con competenze psicoterapiche appartenenti, in questo specifico caso, in parte al Servizio Pubblico ed in parte al settore del Privato Sociale.
Questo dispositivo è rappresentato da percorsi di psicoterapia gruppale strutturati ed eseguiti secondo i termini ed il modello teorico della Concezione Operativa di Gruppo.
Un percorso è destinato agli utenti in fase di trattamento integrato ambulatoriale, ed un altro, parallelo, è destinato ai loro congiunti; i gruppi sono coordinati ciascuno da una coppia di operatori, e nel caso del gruppo dei congiunti la coppia è composta da un professionista del Servizio Territoriale Dipendenze Patologiche e da uno del Centro Diurno Semiresidenziale gestito dal Privato Sociale.
Il gruppo degli utenti si svolge presso i locali del STDP, ed il gruppo dei congiunti presso i locali del Centro Semiresidenziale.
Le sedute sono settimanali, hanno la durata di un’ora e mezzo, ed i pazienti che possono avvantaggiarsi di questo tipo di presidio, che affianca altri potenziali interventi, se ritenuti necessari, di carattere medico e farmacologico, sono selezionati dall’équipe degli operatori all’interno del procedimento diagnostico integrato già sopra descritto.
La possibilità terapeutica viene presentata all’utente, che entra effettivamente nel percorso gruppale se aderisce alla proposta che gli viene presentata.
Si prevede, cioè, una libera adesione del paziente al percorso proposto.
Il percorso gruppale può rappresentare in se stesso il trattamento prescelto all’interno di un programma ambulatoriale, ma può anche essere preliminare o successivo ad una fase di ricovero in regime di degenza, o ad una fase di inserimento in Strutture terapeutiche o riabilitative.
Tali processi di gruppo si pongono come finalità l’elaborazione di quella posizione psichica e relazionale rappresentata dalla dipendenza, senza che si faccia distinzione o si separino gli utenti sulla base della specifica sostanza di abuso con la quale si è strutturato il loro problema, e neanche separandoli sulla base del fatto che alcuni di loro siano in trattamento farmacologico ed altri no; piuttosto si è tenuto conto del fatto che per tutti i soggetti con un problema di questo tipo, sia che siano dipendenti da etile, da oppiacei , da stimolanti, da relazioni patologiche con farmaci o con oggetti o situazioni ( internet, gioco d’azzardo), la dimensione del gruppo terapeutico può essere il campo all’interno del quale più che in altri si può catalizzare il processo che può restituire loro un senso di appartenenza coniugato con una maggior percezione della loro individualità, differenziazione ed autonomia, fornendo le basi su cui costruire una maggior capacità di progettare rispetto ai percorsi della propria esistenza .
Ritenendo, come già detto, che la posizione dipendente si strutturi per via di processi che attraversano anche l’intero ambito familiare, si è attivato, come già riferito, un modulo gruppale con setting analogo anche per i congiunti degli utenti designati, e, anche qui, indipendentemente dalla specifica sostanza che compaia nella manifestazione della situazione patologica.
Sono pertanto raggruppati nel dispositivo i congiunti di utenti dipendenti da qualsivoglia sostanza, compreso l’etile, e anche qui, il compito del gruppo è quello di imparare a pensare quali meccanismi possano avere creato le condizioni per cui un membro del loro sistema familiare abbia manifestato la impossibilità di svincolarsi ed autonomizzarsi nel raggiungimento di una percezione sufficientemente buona della propria individualità, manifestando una posizione che lo fa permanere dipendente nel rapporto con sostanze, nei comportamenti o nelle situazioni.
Questa scelta di configurare dei gruppi “misti” nella composizione dei loro integranti, non separati cioè sulla base della specifica sostanza d’abuso, oltre che trovare i suoi fondamenti nella definizione della dipendenza così come è stata riferita, è stata perseguita tenendo conto di altri due fattori.
Uno è l’evidenza che sempre più frequentemente le condotte caratterizzate da uso tossico di sostanze e le situazioni di dipendenza si configurano sulla base di quadri di poliabuso, e che spesso si può registrare una alternanza nella scelta delle sostanze, una loro sostituzione nello svolgimento del tempo, per cui un soggetto potrà presentare momenti in cui si relaziona maggiormente all’etile, ed altri in cui si dà maggiormente agli stimolanti o agli oppiacei; non solo, ma anche bisogna sottolineare come spesso le condotte di abuso alcolico accompagnino con costanza l’appetizione verso un’altra sostanza prevalente: queste evidenze rendono ormai oltremodo difficile, anche se lo si ritenesse opportuno, selezionare con precisione pazienti con un franco, esclusivo e permanente abuso etilico.
L’altro è la consapevolezza teorica ed il riscontro operativo relativamente al dato che la eterogeneità degli integranti di un gruppo favorisce all’interno di quel medesimo gruppo la circolazione della comunicazione, ed evita che i contenuti si fossilizzino introno a tematiche monotone e ricorrenti che farebbero altrimenti troppo strettamente identificare tra loro integranti molto omogenei l’uno rispetto all’altro, rallentando così il processo di differenziazione e discriminazione.
Questo è vero sia per quanto riguarda i pazienti direttamente colpiti dallo stato di dipendenza, sia per ciò che attiene ai congiunti, ai familiari.
Fa parte della nostra pregressa esperienza aver visto svolgersi intere sedute in gruppi caratterizzati da una elevata omogeneità durante le quali l’unico argomento sul quale costantemente gli integranti ritornavano e si reiteravano era quello relativo all’aspetto che li accomunava, per esempio l’esperienza con la stessa specifica sostanza d’abuso.
L’eterogeneità fa sì che gli integranti possano riconoscere, mano a mano, per via dello svolgersi del processo gruppale terapeutico, che al di là delle differenze che possono presentare rispetto alla scelta delle sostanze o riguardo ai comportamenti che li hanno bloccati nella condizione dipendente, e che si possono vicendevolmente raccontare, esistono meccanismi più profondi, non immediatamente visibili, inizialmente latenti, intorno ai quali possono imparare a pensare insieme, e che hanno fatto sì che per ciascuno di loro la separazione e l’individuazione siano state fino a quel momento esperienze insopportabili, o l’attaccamento e il senso di appartenenza siano stati impossibili.
Nell’arco dello svolgimento di tali percorsi, abbiamo potuto notare alcuni dati interessanti e che vorremmo condividere per poter effettuare alcune valutazioni.
Il primo è che c’è tendenzialmente, in alcune persone, una sorta di resistenza preliminare ad intraprendere questi processi di gruppo.
Sembrerebbe questo essere un po’ più vero in linea generale per i congiunti che per gli utenti designati.
Ciò comporta che ci debba essere un adeguato percorso di motivazione che li accompagni infine in questa decisione, l’ingresso nel gruppo, percorso che in genere è sostenuto dall’operatore che fino al momento della proposta di invio al modulo gruppale tratta la situazione individualmente o all’interno di un setting familiare.
A volte tale percorso di motivazione sembra molto problematico, o non sortisce esito positivo, e ci siamo posti il dubbio che forse possa esserci anche una sorta di resistenza latente negli operatori a svincolarsi essi stessi dai pazienti, con i quali avevano stabilito un vincolo individuale.
Un altro dato è che la frequenza dei familiari al gruppo per loro predisposto si è accompagnata ad un maggior indice di ritenzione in trattamento degli utenti “designati” all’interno dei loro specifici dispositivi di cura. E questo aspetto ci è sembrato particolarmente interessante.
Per ciò che riguarda le risultanze relative al gruppo degli utenti, abbiamo strutturato una valutazione dell’esperienza raccogliendo dati dall’inizio del 2008 fino all’agosto 2010: si è potuto rilevare che su 33 soggetti che hanno beneficiato del presidio 6 sono stati dimessi per programma di cura completato con esito positivo, 4 hanno finalmente elaborato la decisione di fare ingresso in strutture residenziali, 8 sono rimasti ancora in carico, continuando positivamente il programma di cura e manifestando una ferma intenzione di proseguire il trattamento, 13 pazienti hanno effettuato meno di cinque sedute ed hanno interrotto la frequentazione del gruppo, ma sono rimasti in carico al Servizio e continuando un programma di cura individuale, 1 ha interrotto i rapporti con la Struttura.
E’ stata rilevata una correlazione positiva tra la maggior frequenza al numero delle sedute e la riduzione del sintomo tossicomanico. Durante il processo infatti 12 pazienti sono risultati costantemente negativi alle sostanze testate tramite analisi di laboratorio e 6 hanno ridotto considerevolmente il ricorso alla sostanza primaria d’abuso.
Tutti i pazienti presentavano al momento della selezione per l’avvio della esperienza gruppale un problema di abuso alcolico, per due di questi l’etile era la sostanza di abuso primaria, per gli altri, in vario modo assuntori, era la sostanza d’abuso secondaria.
Ma al di là dell’esito relativo alla sospensione o alla riduzione dell’uso delle sostanze, ci sembra interessante poter valutare altri aspetti che ci possano dare conto della realizzazione del processo nella direzione di un miglioramento delle condizioni degli integranti.
La Concezione Operativa che utilizziamo nello svolgimento del lavoro gruppale prevede che siano individuati dei vettori di valutazione, che ci servono per dare conto ed interpretare il processo realizzato.
Tali vettori sono la comunicazione, l’apprendimento, la appartenenza, la pertinenza, la cooperazione, il clima creato e la acquisizione della possibilità di progettare.
Un altro elemento che valutiamo è il grado di discriminazione raggiunto dagli integranti l’uno rispetto all’altro.
Durante tutto il processo gruppale si manifestano ovviamente delle resistenze al cambiamento, e un altro dei modi che abbiamo per darci conto se il processo gruppale sta funzionando nel senso di promuovere un maggior grado di salute nei suoi integranti è inoltre quello di valutare se le resistenze al cambiamento siano in via di risoluzione o quanto meno di riduzione.
Il processo gruppale è iniziato con una fase caratterizzata da una grande ansietà, dalla impossibilità per gli integranti di sentire che si potevano costruire vincoli tra loro, e dalle resistenze a potersi pensare differenti da come i luoghi comuni e loro stessi si dipingono in quanto tossicodipendenti; inoltre, inizialmente, si poteva osservare una importante negazione degli aspetti emotivi ed affettivi, che venivano sperimentati come intollerabili.
Nel corso del tempo gli integranti sono passati attraverso una fase intermedia, nella quale l’emotività ha potuto cominciare ad avere accesso, grazie anche al fatto che lentamente ha iniziato a rendersi possibile l’esperienza di costruzione di vincoli più fiduciosi tra loro, ma era questa ancora una fase nella quale, come in un percorso a spirale, il gruppo tornava sui medesimi punti di resistenza e di ansia; erano però decisamente migliorate la comunicazione, che ha integrato gli aspetti affettivi, la pertinenza al compito che il gruppo si è dato, e cioè pensare sulla situazione dipendente e sui problemi da questa creati, e l’apprendimento: infatti i partecipanti hanno cominciano a poter mettere in relazione i sintomi che hanno sviluppato con alcuni aspetti del loro mondo interno e con i depositi degli accadimenti della loro storia.
Nella fase successiva, l’ultima analizzata, i partecipanti hanno sviluppato una maggior capacità di elaborazione in merito al senso dei vincoli, quelli attuali, nel gruppo, messi a confronto con quelli che hanno caratterizzato la loro storia ed il loro precedente vissuto: hanno potuto cominciare a promuovere per se stessi un senso maggiore e meno ansiogeno di appartenenza.
Nell’ultima seduta del ciclo, che si è interrotto per la pausa estiva, e che è poi ripreso in ottobre con l’ingresso di integranti nuovi, il processo, che ha contribuito a produrre alcune risoluzioni e le conseguenti dimissioni di alcuni membri, era così delineato: gli integranti esprimevano un maggior senso di emancipazione, discriminazione ed apprendimento, pur conservando la paura di perdere un sostegno che per alcuni di loro, quelli che sarebbero poi rimasti ancora a proseguire il programma, sembrava ancora fortemente necessario; il miglioramento delle condizioni ha permesso di dimettere alcuni di loro, mentre altri sono rimasti in attesa di poter riprendere il lavoro terapeutico.
Sembra insomma di poter formulare la seguente considerazione: il dispositivo del gruppo misto, che è una parte dei complessi costrutti scaturiti dalle pratiche di integrazione transdisciplinare ed interistituzionale, si dimostra uno strumento efficace nel poter accompagnare, insieme ed in interazione con altri aspetti della terapia, gli utenti e le rispettive famiglie nella esplorazione e nella elaborazione della dipendenza: sembra che questo specifico processo gruppale permetta loro finalmente di poter tollerare un po’ di più la individuazione e la differenziazione, migliorando pertanto il livello e la qualità della dipendenza nei loro sistemi.
Spero che i contributi che ho avuto desiderio di condividere oggi, riemersi dalla storia del Servizio e della équipe, possano fungere da un lato da testimonianza di cosa facevamo e come pensavamo e, dall’altro, da elemento di esperienza intorno alle tematiche descritte, forse non così datate, sul quale poter calibrare il pensiero di oggi per rinnovare la operatività.
Il 25 aprile la cooperativa sociale di Rimini apre il parco della sua Serra Cento Fiori ad un pomeriggio di musica e valori civili e sociali con un concerto della band modenese, unica data tra Romagna e Marche.
Rimini – Sarà una grande Festa della Liberazione, un pomeriggio denso di potenti note, valori democratici, sociali e civili al parco della Serra Cento Fiori: i Modena City Ramblers si esibiranno in un concerto organizzato dalla Cooperativa Sociale Cento Fiori e aperto gratuitamente alla città, nell’area che gestisce adiacente al Parco Marecchia. Tocca così Rimini il tour celebrativo dell’album Appunti Partigiani, Disco d’oro pubblicato 15 anni fa dalla band modenese e che a Rimini segnerà la sua celebrazione in congiunzione con la lotta partigiana e la Liberazione, due temi che hanno grandemente segnato la storia della città e dei suoi abitanti. E che dalle 17,30 verranno ricordati in musica.
Cristian Tamagnini, presidente della Cooperativa Sociale Cento Fiori: «È un momento di commemorazione delle radici della nostra Repubblica: oggi quanto mai necessario per contrastare chi tende ad equiparare fascismo e antifascismo, regime fascista e lotta di Resistenza, riducendoli ad “opposti estremismi”. No, anche con questo concerto oggi vogliamo ribadire con forza che la nostra democrazia è frutto del sacrificio – il fiore del Partigiano appunto – di chi, quasi 80 anni fa, ha scelto di lottare dalla parte giusta (mentre qualcun altro aveva scelto di farlo dalla parte sbagliata). Questi valori sono tragicamente tornati attuali con la guerra ai confini dell’Europa e ci ricordano quanto pace, giustizia e democrazia siano ideali da perseguire sempre e comunque».
La band modenese ha lanciato ufficialmente oggi il suo tour, che al momento prevede Rimini come terza tappa. Il gruppo ha anticipato che la scaletta del concerto sarà molto particolare, con un focus sul materiale più ‘partigiano’, attingendo però anche dal resto della discografia della band, da sempre legata con un filo rosso alle tematiche e ai valori della Resistenza. Non potranno mancare, naturalmente, anche i classici del repertorio dei ‘Delinquenti di Modena’: si prospetta dunque una serie di concerti in cui la festa, la voglia di condivisione e il piacere di ritrovarsi uniti nella Grande Famiglia Modena City Ramblers, dopo il lungo periodo di stop della musica dal vivo e d’isolamento, saranno più che mai protagonisti.
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Approfondiamo alcuni cambiamenti che interessano le aziende che esternalizzano i servizi, sia di logistica di stabilimento sia di Operations, di supporto alla produzione. Vedremo come l’outsourcing elimini alcuni vincoli strutturali, aiuti a gestire i picchi di lavoro inaspettato, renda l’impresa più reattiva alle sfide di mercato.
Ne parleremo con Davide Zamagni, intervistato dal giornalista Enrico Rotelli in questa quarta puntata di Clip - Contract logistic in pillole.
Target Sinergie srl dal 1988 fornisce alle imprese soluzioni in outsourcing di Logistica di magazzino e di e-commerce. Operiamo in otto regioni d'Italia per una platea di grandi e medie imprese attive: sui mercati italiani del Beverage, del Catering, della Farmaceutica, della Metalmeccanica e dei servizi; sui mercati mondiali con brand alimentari alfieri del Made in Italy.
Intervista e progetto a cura di Enrico Rotelli, sigla di Leonardo Militi, riprese, audio e montaggio a cura di Giacomo Fiore, una produzione Target Sinergie - ufficio Commerciale.
Esternalizzazione i vantaggi: energie e reattività per aziende #4 CLIP Contract Logistics In Pillole Video of Esternalizzazione i vantaggi: energie e reattività per aziende #4 CLIP Contract Logistics In Pillole Notizie Video LogisticaI soci e i colleghi della Cooperativa Sociale Cento Fiori di Rimini si stringono alla famiglia per la scomparsa di
Andrea MainardiLo ricordiamo come una persona generosa, un caro amico e un leale compagno di lavoro.
I funerali si terranno venerdì 4 marzo 2022 alle ore 15 presso la chiesa di Rivabella Nostra Signora di Fatima, via Coletti 174, 47921 Rimini RN
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