Notizie ImpreseOggi
di Loredana Boscolo
Chioggia – Venezia – 23 aprile 2021
V INCONTRO INTERNAZIONALE DEI GRUPPI PLURIFAMILIARI (23, 24 APRILE)
RILEVANZA E AGGIORNAMENTI SUL DISPOSITIVO MULTIFAMILIARE: SFIDE ALLA CREATIVITÀ
Fondamento teorico dell’intervento nei gruppi multifamiliari, dal vertice della concezione operativa di gruppo
“La familia funciona cuando proporciona
Oggi parliamo d’attualità del dispositivo del gruppo multifamiliare in questo momento storico sociale di pandemia planetaria, di malessere generalizzato, sociale, istituzionale e globale. Viviamo in un mondo in qui sta crollando il sistema capitalistico e neoliberale. Aumentano le disuguaglianze, i disoccupati, i lavori precari, emergono nuove povertà.
La nostra vita quotidiana, le relazioni familiari, i vincoli personali, di amicizia e professionali sono contagiati da questo clima di pandemia. Si mettono a nudo i nostri limiti in relazione al conosciuto, alle nostre fragilità e vulnerabilità; viviamo con un sentimento di incertezza. Dobbiamo fluttuare tra paura e le possibilità, nel presente tra passato e futuro.
La domanda principale oggi sarebbe: che idea abbiamo e come ascoltiamo la famiglia? Che tipo di apparato psichico e sociale utilizziamo nella nostra operatività quotidiana?
Inesorabilmente i vincoli all’interno della famiglia sono cambiati: è aumentata la sofferenza nei vincoli familiari, la violenza domestiche, i femminicidi, gli abusi sessuali sui minori. L’aumento dei divorzi e le diverse ricomposizioni familiari, dove convivono nella stessa famiglia figli di più matrimoni con nuovi partner, diversi dai genitori biologici.
Bambini che hanno due padri o due madri che si prendono cura di loro.
Stiamo assistendo a un fenomeno globale di diminuzione delle natalità. Se da una parte, la liberazione della donna, la diffusione dell’uso di contraccettivi, e la introduzione nel mondo del lavoro ha favorito una nuova soggettività sociale di emancipazione.
Però dall’altra parte, e presente la mancanza di lavoro e la possibilità di acquistare o affittare una casa. Questi cambiamenti nella famiglia contemporanea modificano profondamente le condizioni di esistenza delle persone e dei loro vincoli, producendo conseguenze sia nell’organizzazione psichica e sia nell’organizzazione sociale.
Inserendo in questo quadro generale, il lavoro con il gruppo multifamiliare, diventa uno dei dispositivi più appropriati, urgenti da applicare e implementare nel campo clinico-terapeutico, educativo, e soprattutto a livello preventivo comunitario.
Questo congresso è un’occasione per interrogarci sui diversi modelli e metodologie di intervento con il gruppo multifamiliare.
Le differenze servono per creare dialogo e per aprire la mente.
Svilupperò due nozioni centrali del concetto operativo di gruppo: Compito e Emergente.
Due nozioni teoriche di base per organizzare un’idea minima intorno al gruppo, nozioni trasversali che ci permettono:
1) La comprensione del funzionamento del gruppo multifamiliare.
2) Il lavoro multifamiliare post-gruppo dell’incontro di sviluppo dell’équipe terapeutica.
1) La comprensione del funzionamento del gruppo multifamiliare
In relazione al primo punto, articolerò la relazione gruppo multifamiliare e compito. Voglio sottolineare che la nozione di compito non va presa in modo formale, diciamo pure da un punto di vista pedagogico; poiché è il compito che fonda e stabilisce il gruppo.
È l’elemento che dà significato alle dinamiche e alla struttura gruppale.
Possiamo intenderlo come una metafora. Dal punto di vista del nostro schema concettuale di riferimento operativo, partiamo da una triangolazione: gruppo-compito e coordinazione.
Schema minimo (Figura 1, Figura 2) tra cui collochiamo la nostra comprensione dei disturbi dell’apprendimento, della comunicazione, della comparsa dei sintomi e delle disfunzioni familiari. All’interno di questo inquadramento triangolare osserviamo il movimento latente della struttura che produce un certo tipo di emergente.
La concezione operativa di gruppo, si differenzia dalle altre teorie perché per noi tutto inizia dal compito che istituisce il gruppo.
Il passaggio tra aggruppamento e gruppo, è un costante gioco dialettico, sarà il compito che sosterrà e sopporterà il gruppo in questi passaggi. Il gruppo durante tutto il processo oscillerà tra pre-compito e compito. In altre parole, nel momento della pre-compito, nel momento del compito si presenteranno gli aspetti più difensivi, le riproduzioni ideologiche e gli aspetti istituzionali. Nell’entrata nel compito, prevarranno gli aspetti di trasformazione: creativi, immaginativi.
La funzione dello psicoterapeuta, del coordinatore o dei coordinatori, sarebbe quella di: segnalare, costruire la interpretazione, di ciò che accade nel vincolo gruppo-compito: gli ostacoli, le resistenze al cambiamento e facilitare le opportunità di sviluppo, e quando è necessario porre i limiti.
Il coordinatore non è il leader del gruppo. Il leader è il compito.
Questo è un aspetto fondamentale per creare meno dipendenza dal coordinatore o coordinatori. L’azione terapeutica, sarebbe come restituire al gruppo multifamiliare il deposito che viene assegnato all’equipe dei coordinatori, affinché il gruppo possa elaborare gli aspetti più indiscriminate dei vincoli tra di loro. (Processo gruppale, la teoria delle tre D di Pichón Rivière).
Tra l’altro, si rompono le complicità. Per esempio: il rischio che il coordinatore o i coordinatori si trasformino in un membro della famiglia.
Nel passaggio di aggruppamento multifamiliare a gruppo multifamiliare emergono le difese più arcaiche, le resistenze e le relazioni sincretiche.
Analizzeremo le costruzioni e decostruzioni dei vincoli che gli individui sviluppano attraverso l’identificazione proiettiva-introiettiva, rappresentazioni e fantasmi che ciascuno ha di sé stesso in relazione agli altri membri del gruppo multifamiliare. Cioè, costruiranno una rete immaginaria gruppale.
Questi sono gli elementi che creano un’atmosfera emozionale. Sarebbe la tensione del movimento che si produce tra pre-compito e compito. Un esempio concreto è il momento in cui lavorando con il gruppo multifamiliare c’è sempre qualcuno che entra senza bussare alla porta per prendere qualche oggetto o cercare qualcuno, un altro esempio è quando un componente del gruppo risponde al telefono o manda dei messaggi. Attraverso questi comportamenti vediamo un certo tipo di aggressione e ci chiediamo perché un gruppo multifamiliare permette un certo tipo di aggressione? La nostra ipotesi è che sempre questo ha che vedere con la dinamica gruppale da esso prodotta. Nel momento del pre-compito, si presentano i ruoli formali istituiti dallo status quo: di mamma, papà e figli. Per questo ci piace ed è essenziale differenziare il ruolo dalla funzione. Perché in questa differenziazione transita dal nostro punto di vista, la nozione di vincolo. Una madre o un padre, non sono madre e padre per sempre, lo sono finché svolgeranno questa funzione, ma tale funzione soprattutto nella attualità può essere svolta anche da altri membri della famiglia o dagli amici.
Generalmente, le figure genitoriali o filiali corrispondono al ruolo concreto biologico specifico, al vincolo di sangue. Quando funzionano i ruoli fissi definiti istituzionalmente, prevalgono gli stereotipi del movimento della assunzione e dell’aggiudicazione dei ruoli. Queste sono le situazioni critiche o di criticità perché ci indicano il movimento di come sono stati costruiti i vincoli tra di loro. Siano essi sani o patologici, però soprattutto ci danno l’idea della struttura e delle dinamiche di gruppo.
Quando parliamo di vincoli e funzioni, non parliamo di persone fisiche, ma di ciò che sta nel “mezzo”.
Parliamo del “tra“, cioè quell’area di transito che c’è tra il tu e l’io e viceversa. Quell’area di transito che produce e costruisce il noi gruppale.
Con il gruppo multifamiliare è necessario favorire uno spostamento tra funzione e biologia. Molte volte non è facile pensare alla funzione separandola dalla biologia.
Il nostro ECRO, ci permette di pensare a partire dalle tre funzioni (Vedere figure 1 e 2), di dare un altro significato a questi vincoli, siano essi: inter, intra o trans. Lasciamo il livello biologico per pensare di più sul piano della rappresentazione, del simbolico e di un immaginario diverso. Gli effetti di questi vincoli producono diversi tipi di soggettività sana o patologica, come afferma Bauleo: “Lo sguardo all’interno dei gruppi è uno dei problemi maggiori (perché il terzo è sempre presente) è necessario fare uno sforzo per separare lo sguardo dal ascolto per osservare come sono i vincoli all’interno del gruppo”.
Oltre la nozione di compito, utilizzeremo la nozione di emergente, la quale ci offre la possibilità di allargare il campo di osservazione da una prospettiva individuale ad un vertice gruppale.
L’emergente è quell’elemento che ci può orientare, ci segnala come un meccanismo difensivo rigido patologico ostacola un processo di salute, prima di rimanere incagliati nelle acque stagnanti della malattia.
2) Il lavoro multifamiliare post-gruppo di elaborazione dell’équipe terapeutica
In relazione al secondo punto, molto valido è lo spazio di elaborazione del vincolo gruppo multifamiliare e elaborazione post-gruppo dell’équipe. L’interrogativo sarebbe: come si integrano i diversi schemi di riferimento, il pluralismo dei punti di vista di ognuno, come si aggiustano i canali di comunicazione e i conflitti, per affrontare la complessità o meglio detto l’ipercomplessità, senza riduzionismi o banalizzazioni, ossia come si costituisce l’orizzontalità dell’equipe senza che prevalgano gli individualismi o i narcisismi poco funzionali al compito terapeutico o preventivo?
Segnalerei dal mio punto di vista che il processo di integrazione mette sempre in gioco una tensione tra identità e differenti appartenenze personale e istituzionali. Come funzionerebbe la psicoanalisi integrativa? Dice E. Mandelbaum: “lo scopo sarebbe quello di integrare teoria e pratica con gli aspetti affettivi, mentali e cognitivi”.
Credo che per arrivare a questa fondamentale integrazione nel lavoro con il gruppo multifamiliare si debbano affrontare gli elementi collegati alla resistenza del cambiamento. Il processo di integrazione richiede necessariamente l’apprendimento di una metodologia di lavoro gruppale che risponda a due livelli:
A) All’ipercomplessità del campo di intervento.
B) Alla possibilità di riflettere sulla propria implicazione.
Lo scopo dell’elaborazione sarebbe quello di costruire un’idea comune, in relazione al vincolo gruppo multifamiliare e processo terapeutico, poiché ritengo molto prezioso e fertile il momento dello spazio di elaborazione. Per questo credo, affinché, funzioni la comunicazione si dovrebbe avere un codice comune tra i membri dell’equipe di comprensione del processo terapeutico.
Nella nostra esperienza di lavoro con il gruppo multifamiliare, noi ricercatori della scuola Bleger di Rimini, usiamo come chiave di lettura la nozione di emergente comprendere il processo gruppale. L’emergente sarebbe la punta dell’iceberg che emerge dal magma e che disvela le parti latenti delle situazioni gruppali familiari. Imponendosi come elemento nuovo e imprevisto, producendo una qualità diversa dalla situazione stessa. La successione e il ritmo degli emergenti ci indicano il camino, rendendo possibile l’osservazione delle vicissitudini, delle fantasie inconsce gruppale, delle identificazioni incrociate o delle coazioni a ripetere.
L’emergente deriva dal latino participio passato: “emergere, accade come un accidente impensabile e inaspettato”.
L’emergente palpa gli aspetti controtransferali e, più in generale l’implicazione di ciascuno dei professionisti: come mi implico e come sono implicato.
D’altra parte, l’emergente dipende anche dal controtransfert istituzionale dell’équipe, dalla propria storia personale articolata con la formazione e con le proprie esperienze vissute.
L’emergente sarebbe il segnale che indica una traccia, che qualcosa è successo, se ignoriamo questi segnali, gli aspetti fisici e psichici continueranno ad esprimere i loro emergenti. Producendo sintomi o altre ripetizioni gruppali.
Loredana Boscolo Buleghin
Psicologo Psicoterapeuta
Email: loredana.boscolo@alice.it
Bibliografia:
Armando Bauleo, Psicoanalisi e Gruppalità, 2000.
Armando Bauleo, Ideologia, Gruppo e famiglia, Feltrinelli, Milano 1978.
Armando Bauleo e De Brasi MS, Clinica Gruppale – Clinica Istituzionale, Il Poligrafo, Padova 1994.
Bion, W. Esperienze nei Gruppi, Armando Editore, Roma 1971.
José Bleger, Simbiosi e Ambiguità, 1992.
Eduardo Mandelbaum, Teoria e pratica dei gruppi multifamiliari, Edizione Nicop Saggi, 2017.
Pichón Rivière, Il processo gruppale, dalla psicoanalisi alla psicologia sociale, Edizione Lauretana Loretto, 1986.
Pichón Rivière, La teoria del Vincolo, Edizioni Nueva Vision, 1979.
Progetto di Lavoro interdisciplinare e interazione sulla salute della persona, del gruppo familiare della comunità, ricerca finalizzata di sanità pubblica. ULSS17 Monselice, Padova. ULSS14 Chioggia, Venezia, e Regione Veneto giunta Regionale. Edizione Cleup, 2009.
Rimini – Una torma di bambini ha letteralmente preso d’assalto i nuovi percorsi sugli alberi di Rimini Avventura, inaugurando così la struttura ai bordi del parco XXV aprile, di fianco alla Serra Cento Fiori. Disciplinati, attenti ad utilizzare correttamente le loro protezioni, si sono avventurati con sicurezza divorando altezze e ostacoli su quote che sembravano del tutto naturali per loro, destando l’ammirazione degli adulti, tutti a testa in su.
Sotto di loro, la breve cerimonia inaugurale del terzo adventure park del territorio (dopo Riccione e San Marino) costruito in partnership tra la Cooperativa Sociale Cento Fiori (già concessionaria dell’area) e la Top Adventure Park, con il taglio del nastro da parte del sindaco Andrea Gnassi e i saluti dell’amministrazione portati dall’assessora Roberta Frisoni. La quale ha detto che «ci si trova in un gioiello che da gioia e divertimento ai bambini – e da genitori sappiamo quanto sia bello quando c’è gioia nei bambini – e che da inclusione sociale e lavoro« Poi, smessi i panni dell’amministratrice, ha voluto provare anche lei l’ebbrezza dell’altezza, percorrendo uno degli 11 percorsi che compongono Rimini Avventura.
L’attesa per l’inaugurazione è stata ingannata dalle giovani danzatrici della Compagnia Nonchalance di Riccione. Poi i saluti di Alfredo Manzaroli, della Top Adventure Park,: «l’obiettivo è di far divertire, socializzare ed offrire un presidio dell’avventura a Km zero per residenti e turisti. E di recuperare un’area ora pienamente rivalorizzata e curata nell’ottica dello sviluppo sostenibile e turismo green, come da oltre 15 anni l’azienda italo-sammarinese fa in Italia e nel mondo con oltre 100 realizzazioni». Cristian Tamagnini, presidente della Cooperativa Sociale Cento Fiori ha ricordato che da cinque anni si attendeva l’inaugurazione del parco, ora finalmente raggiunta. Un parco che nasce «nel segno della cooperazione – una delle parole chiave di questa pandemia, assieme a Bene comune e Reciproca responsabilità – perché non sarà solo luogo di divertimento sano e all’aria aperta ma anche occasione di lavoro per persone svantaggiate e di attività didattiche».
Il Parco Ecologico “Rimini Avventura” è ai bordi del Parco XXV Aprile, con ingresso da via Galliano 19 e da via Padre Tosi. E’ il nuovo fiore all’occhiello della Cooperativa Sociale Cento Fiori e della catena Top Adventure Park, azienda che già ha costruito e gestisce i parchi Avventura di San Marino e Riccione. L’obiettivo è creare un triangolo del divertimento avventuroso con tre strutture che lavorano in sinergia costituendo assieme il più grande Carosello dell’avventura al Mondo: 57 percorsi avventura oltre 2 km di teleferiche, Tarzan Tree Village e attrazioni ecosostenibili per tutte le età e i livelli di allenamento.
L'articolo Rimini Avventura invaso dai bambini! Aperto il carosello sugli alberi nel cuore della città, nel parco XXV aprile. proviene da Cento Fiori, Rimini.
Rimini – Mercoledì 16 giugno alle 18, alla presenza del sindaco Andrea Gnassi, inaugurerà a Rimini, di fianco al Parco XXV Aprile, il nuovissimo Parco Ecologico “Rimini Avventura”, con ingresso da via Galliano 19 e da via Padre Tosi. Rimini Avventura è il nuovo fiore all’occhiello della catena Top Adventure Park, azienda che già ha costruito e gestisce i parchi Avventura di San Marino e Riccione. L’obiettivo è creare un triangolo del divertimento avventuroso con tre strutture che lavorano in sinergia costituendo assieme il più grande Carosello dell’avventura al Mondo: 57 percorsi avventura oltre 2 km di teleferiche, Tarzan Tree Village e attrazioni ecosostenibili per tutte le età e i livelli di allenamento.
Costruito in partnership tra la Cooperativa Sociale Cento Fiori (già concessionaria dell’area) e la Top Adventure World, Rimini Avventura aprirà i battenti con 11 fantastici percorsi avventura, oltre mezzo km di carrucole immersi nel verde con l’obiettivo di far divertire, socializzare ed offrire un presidio dell’avventura a Km zero per residenti e turisti. Il tutto a soli 300 metri dal ponte di Tiberio. Un’area prima degradata e ora pienamente rivalorizzata e curata nell’ottica dello sviluppo sostenibile e turismo green che da oltre 15 anni l’azienda italo-sammarinese esporta in Italia e nel mondo con oltre 100 realizzazioni.
Tante le possibilità per il divertimento outdoor e anche convenienti abbonamenti che consentono più ingressi o ingressi illimitati, sia a Rimini che in tutto il circuito dell’avventura.
L'articolo Inaugura Rimini Avventura, il nuovissimo Top Adventure Park nel parco XXV aprile, a 300 m dal Ponte di Tiberio. proviene da Cento Fiori, Rimini.
Rimini – Dopo la pausa di un anno dovuto all’emergenza CoVid, riprende il progetto Ulisse, le crociere terapeutiche organizzate da oltre 20 anni dalla Cooperativa Sociale Cento Fiori. Quest’anno la peculiare esperienza riminese di outdoor education accade nel 40simo anniversario della fondazione dell’azienda sociale. Inoltre, la crociera entra in una fase accademica: all’equipaggio si è aggiunta Chiara Borelli, dottoranda di ricerca del Dipartimento di scienze dell’educazione dell’Università di Bologna che sta compiendo uno studio per Cefeo, il Centro di ricerca sull’Educazione e la Formazione Esperienziale e Outdoor dell’ateneo bolognese.
A salpare verso i lidi croati sette ospiti della Comunità Terapeutica di Vallecchio, guidati da capitan Andrea Ambrosani, lo skipper che ha ereditato il comando dal fondatore del progetto, Werther Mussoni, e assistiti dallo psicologo Michele D’Alessio e dall’educatrice Chiara Gentili, entrambi ormai dei veterani di questa esperienza, unica invece per quasi tutti i pazienti a bordo. Anche se gli ingredienti sono quelli di una vacanza – sole, mare, barca a vela – per operatori della Cento Fiori e ospiti non sarà proprio una villeggiatura: «per gli educatori lo scopo principale della crociera è l’osservazione degli utenti – dice Michele Maurizio D’Alessio – ma per i pazienti è un’esperienza formativa perché è la realtà stessa (il vento, il mare, la convivenza in uno spazio particolare come una barca) a regolarizzare i rapporti: la realtà ci detta delle priorità. Il gruppo dei pazienti trova quindi un suo equilibrio nel corso della crociera».
A salutare il viaggio della prima crociera 2021 il fondatore del progetto, Werther Mussoni, che anche se ha smesso la cerata del capitano, non fa mai mancare il suo supporto agli equipaggi, quando non prende addirittura parte alle crociere. Ai nuovi marinai Mussoni ha ricordato che questa esperienza serve “a far riscoprire il gusto della vita che c’è nelle cose, anche in quelle inaspettate o non piacevoli, e nelle persone che ci circondano”. A sottolineare che questo viaggio è un’ulteriore tappa nel percorso di realizzazione di sé, avviato con l’adesione alla terapia.
Il progetto Ulisse sono ormai 20 anni che solca i mari. Quest’anno la prima delle tre crociere che si svolgono normalmente servirà a mettere a punto degli strumenti di osservazione e valutazione da parte del Cefeo, grazie appunto alla presenza della ricercatrice Chiara Borelli. Ora si utilizza una barca a vela dotata di tutti i comfort, ma all’inizio non era così. La prima crociere era con una goletta in legno, il Catholica, un ex peschereccio cattolichino restaurato dagli ospiti della Comunità Terapeutica di Vallecchio, poi diventata la Goletta Verde di Legambiente. All’epoca le crociere duravano settimane e toccavano il mar Ionio e poi le coste della Sicilia. Ora l’esperienza si gioca tra le due traversate e la costa croata. Forse crociere meno lunghe, ma non meno intense per i pazienti.
La goletta Catholica, prima barca del progetto Ulisse della Cooperativa Sociale Cento FioriL'articolo Riprendono dopo l’emergenza CoVid le crociere di Ulisse: dalla Comunità Terapeutica di Vallecchio alla Croazia. Con in più una ricerca dell’Università di Bologna. proviene da Cento Fiori, Rimini.
Riccione – Una prova gratuita (con prenotazione obbligatoria) il 29 maggio e da sabato 5 giugno comincerà il corso di Hata yoga nel parco del Lago Arcobaleno, in viale Murano 47, organizzato dal Centro Arbor Vitae di Rimini. Dalle 9 alle 10,30 Ramona Frisoni, naturopata e insegnante yoga di scuola Sivananda, condurrà le lezioni che si svolgeranno su quattro momenti: pratica di pranayama (controllo del respiro), asana (posizioni statiche) e posizioni eseguite dinamicamente (saluto al sole), concentrazione e, infine, rilassamento profondo. Gli esercizi proposti sono semplici, adatti a chi fa già yoga e a chi si avvicina per la prima volta a questa pratica. Per partecipare occorre chiamare lo 0541 24822 o scrivere a segreteria@centroarborvitae.it, vestire con abbigliamento comodo e portando con se un tappetino e un asciugamano.
L'articolo Hatha Yoga all’aperto a Riccione al Lago Arcobaleno proviene da Cento Fiori, Rimini.
Laureato in Agraria, è entrato da giovane nella Cooperativa Sociale Cento Fiori e creato per gemmazione Ecoservizi L’Olmo: «un vero cooperatore sociale che credeva nella creazione di posti di lavoro per le persone in difficoltà».
Gilberto Vittori, per noi è sempre stato Gibo, ha lavorato con noi della Cooperativa Sociale Cento Fiori fin dai primi tempi, quasi dall’inizio si può dire. Avevamo l’esigenza di una persona esperta che seguisse il giardinaggio e la manutenzione del verde, uno dei settori lavorativi iniziali della cooperativa che servivano a completare il percorso terapeutico di disintossicazione. Era un giovane laureato in Agraria a Bologna, specializzato in paesaggistica, che prima di lavorare con noi svolgeva attività libero professionale. Abbiamo diviso l’ufficio per anni.
Quando fu emanata la legge 381/91, che divideva le cooperative sociali in tipologia A o B, a seconda se facevano assistenza sociosanitaria alle persone o producevano, decidiamo di creare per gemmazione la Cooperativa Sociale Ecoservizi l’Olmo, con a capo Gibo. E già dalla scelta del nome troviamo alcuni tratti del suo carattere e delle sue inclinazioni verso il prossimo. L’Olmo, mi diceva, era una pianta che era quasi estinta per causa di una malattia, ma che ha trovato la forza di sconfiggerla. E per questo – mi diceva sempre con emozione – gli ricordava i ragazzi che avevamo in cura e che stavano sconfiggendo la loro dipendenza. Era un cooperatore sociale convinto, e credeva nella creazione di posti di lavoro per le persone in difficoltà. A proposito di questa missione, un lavoratore della Olmo mi disse dell’opera di Gibo che «ha piantato un albero in mezzo al deserto e noi godiamo della sua ombra e dei suoi frutti».
Aveva verso di se un forte rigore interiore, unito a una marcata modestia. Ed era altrettanto rigoroso nel rispetto delle regole e delle persone, sopratutto per quanto riguarda i diritti dei lavoratori. Un episodio quasi banale che lo testimonia: ogni anno si faceva la cena sociale dell’Olmo, con 80 – 100 persone tra dipendenti e soci. Si intendeva di vini e, assaggiato quello al tavolo, chiama il cameriere chiedendo un vino migliore. Nessun problema, il cameriere prende le bottiglie al tavolo e ne porta due di un vino molto superiore. Fa per andarsene, Gibo lo ferma e indicando i tavoli degli altri dipendenti gli chiede: «E agli altri?» Anche a tavola era lui, con il suo spiccato senso dell’uguaglianza e il rispetto per chi lavora.
Abbiamo lavorato insieme per la costituzione del Consorzio Sociale Romagnolo, nel quale ha messo l’anima per riunire gran parte delle cooperative sociali di tipo B di Rimini. Una realtà che ora è cresciuta fino ad abbracciare realtà di tutta la Romagna. Ed anche pochi giorni fa, quando ci siamo visti l’ultima volta, il discorso è caduto sul Consorzio Sociale Romagnolo: «la cosa più bella che ho fatto, oltre la famiglia e i figli».
Ho avuto con Gibo un rapporto molto stretto, non solo per il lavoro. Abbiamo costruito una barca, passato le ferie, e i giorni e giorni che abbiamo navigato insieme hanno cementato la nostra amicizia. In lui ho visto l’anarchia pura, quel credere profondamente nell’uomo e il dovere che si ha di lasciare agli altri un mondo migliore».
Werther Mussoni
Abbiamo perso un cooperatore sociale lungimirante nel creare lavoro per le persone in difficoltàArmando Berlini, Coop 134: «ha affrontato i mutamenti del mercato creando, insieme a Legacoop e me, la più grande cooperativa sociale dell’Emilia – Romagna».
Con Gilberto Vittori ci siamo incontrati già dai tempi in cui lavorava per la Cooperativa Sociale Cento Fiori, coltivando la nostra conoscenza nell’ambiente che riguarda non solo il sociale, ma anche il mercato dei servizi e della manutenzione del verde. Il tempo ci ha avvicinato ulteriormente quando fondammo la cooperativa sociale Nel Blu di Cattolica. Da questi rapporti, via via sempre più stretti è nata l’idea di creare una cooperativa unica.
La visione di Gibo era molto chiara, la cooperazione sociale stava affrontando un mutamento del mercato che avrebbe compromesso la stabilità delle cooperative sociali piccole, menomandole nella loro capacità di creare posti di lavoro per le persone in difficoltà. Con lungimiranza quindi si mise al lavoro assieme a Legacoop e a me per costruire questo progetto comune: Coop 134, la più grande cooperativa sociale dell’Emilia – Romagna.
La sua attenzione all’inserimento delle persone svantaggiate è sempre stata altissima, un vero faro per il suo operato nella cooperazione sociale, sia da presidente dell’Olmo, sia da presidente del Consorzio Sociale Romagnolo, del quale ha contribuito ad allargarne la base sociale fino a toccare le cooperative di tutta la Romagna.
Io perdo un amico, un punto di riferimento in cooperativa assolutamente essenziale, puntuale e lucido nelle analisi e nelle scelte, a volte anche dure, che abbiamo dovuto fare. E mi piace ricordare che le abbiamo sempre fatte con la totale condivisione.
Lascia un grande vuoto nella cooperativa di cui era vicepresidente, che si stringe tutta intorno alla moglie Rossella e ai figli Lorenzo e Anita.
Armando Berlini
Presidente Coop 134 cooperativa sociale
Il ricordo di Tamagnini, «sono cresciuto nella Cooperativa Sociale Cento Fiori, della quale ha gettato le basi, 40 anni fa».
Con Gilberto Vittori non ho condiviso molti momenti di lavoro, sono un cooperatore sociale della generazione successiva. Ma sono cresciuto nella Cooperativa Sociale Cento Fiori, della quale ha gettato le basi quando nacque, 40 anni fa. E certamente ho avuto modo di conoscere in lui la forte passione per questo impegno che al posto del profitto ricerca i posti di lavoro, anteponendo il benessere sociale di chi è svantaggiato.
Parliamo di valori forti, veri, che una persona ha o non ha, che non può fingere. Ricordo quando un incendio doloso devastò la sede della sua cooperativa in via Portogallo e delle altre tre cooperative sociali, La Formica, noi Cento Fiori e New Horizon. Era un uomo affranto non tanto e non solo per i danni subiti, ma perché era stato colpito il cuore del lavoro sociale di Rimini.
Così come ricordo la sua rabbia e sconforto quando a Roma alcuni imprenditori senza scrupoli hanno gettato il fango sulla vera cooperazione sociale, quella che crea posti di lavoro per persone in difficoltà. Rabbia che non avevo mai visto in lui, una persona mite, disponibile, ironica e autoironica. Una rabbia che posso comprendere, visto il grande impegno che ha sempre avuto verso lo sviluppo della cooperazione sociale a Rimini, al quale si è sempre dedicato con dedizione e tenacia.
Cristian Tamagnini
Presidente Cooperativa Sociale Cento Fiori
L'articolo Scomparso dopo una lunga malattia Gilberto Vittori, il cordoglio di amici e delle cooperative sociali che l’hanno visto protagonista. proviene da Cento Fiori, Rimini.
Rimini – Sette maggio 1981, diciannove persone si riuniscono nello studio del notaio Enrico Franciosi per fondare quello che doveva essere un nuovo tassello nella lotta all’eroina che stava dilagando in città: la Cooperativa Cento Fiori. Con un capitale di appena 100 mila lire, la sede in via Cavalieri, la cooperativa nasce come costola operativa del Centro Tutela Salute Tossicodipendenti, nel disegno del collettivo che gravita intorno al CTST di completare un Modello Rimini nella lotta alla droga. Un modello che, pur con qualche variante che il tempo inevitabilmente ha portato, continua a vivere nell’attuale Cooperativa Sociale Cento Fiori, sempre riminese nel cuore pulsante, ma con l’orizzonte di aiutare chi è dipendente da qualunque parte d’Italia provenga.
La fondazione della Comunità Terapeutica di Vallecchio: si monta il prefabbricato acquisito a Sulmona.Collettivo, una parola che porta con sé il sapore della politica, del lavoro e della prassi di quegli anni. Anni dove le ideologie mobilitano le masse, terreni umani dove si possono piantare grandi idee ma anche grandi disastri. E’ il caso dell’eroina, che dalla fine degli anni ‘70 dilaga in tutti i quartieri riminesi, così come in tutte le città italiane, senza tanti riguardi per ceto e professioni. Intorno ai medici e operatori del Ctst (prima ancora si chiamava Centro Medico di Assistenza Sociale Cmas, ora SerT, Servizio Tossicodipendenza o SerDP, Servizio Dipendenze Patologiche) si riuniscono familiari, consumatori di droga, volontari che cercano insieme un metodo per combattere il fenomeno che avvelena la città. E’ una fase pionieristica per tutti. Al Cmas distribuiscono il metadone in sciroppo, per contrastare sia l’eroina sia il gusto del buco, coinvolgono i tossicodipendenti in assemblee, stampano giornali per sensibilizzare la città alla lotta all’eroina, le famiglie ospitano nelle case amici caduti nella spirale della dipendenza. Il collettivo che si raduna nel Cmas, giorno dopo giorno sperimenta e discute un modello che vede il lavoro come argine alla droga e una forma di riscatto nell’immediato. E per il futuro vagheggia il completamento in una comunità terapeutica, che faccia da cesura con i richiami delle piazza e dell’eroina che vi circola.
Werther Mussoni al lavoro nei campi di VallecchioL’idea della cooperativa prende corpo. E così alcune persone di quel collettivo, William Raffaeli,che sarà il primo presidente, Sergio Semprini Cesari, Ida Branducci, Mario Minadeo, Dino Balleroni, Rita Tortora, Giuseppe Avarino, Lanfranco Bezzi, Vittorio Buldrini, Lilo Nilo Puccioni, Trine Line Larsen, Roberta Giungi, Gilberto Filippi, Emanuele Zabaglio, Roberto Filippi, Giorgio Micconi, Maurizio Bullini, Claudio Mercatelli, Anna Ardini, si presentano nello studio del notaio Franciosi. I sette rappresentano solo una parte del collettivo che ruota intorno al Cmas, che comprende Leonardo Montecchi, Massimo Ferrari e altri medici e operatori.
La cooperativa è una buona idea ma ha bisogno di un catalizzatore che sappia darle forma, anche perché il lavoro del Cmas e ospedaliero di medici e operatori assorbe energie: occorrono altre figure per ampliare l’opera. C’è un volontario che frequenta il centro, un uomo impegnato nel sindacato e nel sociale, che ospita un amico in difficoltà con la droga e per questo viene a chiedere consigli e suggerimenti a medici e operatori. Sarà lui a dare corpo all’idea, strutturerà la cooperativa in forma agricola (coltivando terreni nell’aria Ghigi) e con laboratori di stampa serigrafica e di artigianato, e, infine, creerà la Comunità Terapeutica di Vallecchio, completando il Modello Rimini di lotta alla droga: Werther Mussoni.
La Cento Fiori anno dopo anno si consolida. Nel febbraio del 1983 un prefabbricato che ospitava terremotati, viene smontato in Friuli e montato a Vallecchio: è l’embrione della Comunità Terapeutica, dove già si coltivano i campi del podere Fantini e si allevano due mucche, Punto e Virgola. Sono sette i primi ospiti, tutti riminesi. E i primi sette operatori, psicologi ed educatori che lavorano con Mussoni sono stati anche fattori, muratori, elettricisti, contadini, giardinieri. Se la si guarda con gli occhi di oggi, era un’epoca pionieristica, si potrebbe dire, senza paura di essere retorici.
Da allora, la stalla è diventata una Scuderia Cento Fiori, e accanto è nato il Canile di Vallecchio e un ambulatorio veterinario, con la cooperativa che gestisce anche il Canile comunale di Rimini Stefano Cerni e un servizio di recupero di animali domestici da compagnia per conto di numerosi comuni della provincia riminese. La Comunità Terapeutica si è allargata, ora ospita 22 pazienti e un decennio fa, sotto la presidenza di Monica Ciavatta (succeduta a Werther Mussoni) e la direzione di Alfio Fiori è diventata di proprietà della Cooperativa. Per gemmazione, all’inizio del nuovo millennio, è nato un Centro Osservazione e Diagnosi, sempre a Vallecchio, con pazienti da tutta Italia, mentre pochi anni dopo la Cento Fiori ha acquisito un altro Centro Osservazione e Diagnosi, L’Airone, ad Argenta, Ferrara. Completano i servizi sociosanitari di lotta alle dipendenze il Centro Diurno di Rimini e due gruppi appartamento, che accompagnano i pazienti nel loro reinserimento nella vita di tutti i giorni. Mentre da dieci anni il patrimonio di esperienza nell’accoglienza delle persone è stato impiegato anche nel supporto ai richiedenti asilo.
Sergio Semprini Cesari con alcuni pazienti delle prime crociere terapeutiche del progetto UlisseSono cambiate le metodologie di riabilitazione dalle dipendenze patologiche, ma due aspetti restano importanti. Uno è la natura, con le crociere terapeutiche in barca a vela o la gestione del lago Arcobaleno, a Riccione. L’altro aspetto fondamentale per la terapia è il lavoro. Per questo la Cento Fiori continua ad avere servizi che coinvolgono pazienti e nello stesso tempo inseriscono persone svantaggiate o diversamente abili. In questo senso La Serra Cento Fiori da vent’anni è una attività importante, che ora risiede nel vivaio ai bordi del parco XXV aprile. O la tipografia digitale Rimini Stampa, erede dei primi laboratori serigrafici, situata al piano terra della sede legale e amministrativa di via Portogallo 10 a Rimini.
Oggi la Cooperativa Sociale Cento Fiori festeggia i suoi quarant’anni con Cristian Tamagnini, da tre anni presidente, Gabriella Maggioli vicepresidente, Giovanni Benaglia come direttore, 100 soci di cui 41 lavoratori, 43 sovventori (31 persone fisiche le altre giuridiche), 16 volontari e contando 74 dipendenti. Festeggia 40 anni cercando di coniugare il patrimonio storico e culturale dell’azienda sociale con le sfide del mercato. Il quarantesimo anniversario sarà scandito da diverse iniziative, alcune di documentazione del percorso fatto, come un libro che raccoglie le testimonianze dei protagonisti di questi otto lustri. Dall’altra alcuni eventi pubblici di riflessione sui temi delle dipendenze patologiche e sui valori che in questi 40 anni hanno accompagnato l’evolversi della Cento Fiori. E che la porteranno nel futuro.
L'articolo Quarant’anni di lotta alle dipendenze: il 7 maggio 1981 nasceva la Cooperativa Sociale Cento Fiori, la base della Comunità Terapeutica di Vallecchio e delle altre strutture di cura. proviene da Cento Fiori, Rimini.
Web – Il CNCA organizza la prima edizione di “Cloud. Festival delle giovani generazioni”, dedicata quest’anno alle ragazze e ai ragazzi tra i 13 e i 17 anni. Un’occasione di incontro e scoperta che apre un dialogo concreto tra generazioni diverse – oggi più che mai necessario – che sperimenta linguaggi nuovi, portando alla luce riflessioni, esigenze, intuizioni nate in questo lungo anno di pandemia, per riflettere assieme su questo tempo e sulle nuove sfide che ci riserva.
CLOUD FESTIVAL è un progetto in cui adulti e adolescenti di età e provenienze diverse possono collaborare assieme al racconto del Festival stesso e alla produzione dei suoi contenuti, utilizzando le possibilità del digitale per accorciare le distanze.
Non un Festival per addetti ai lavori in cui si analizzano i temi dell’infanzia e dell’adolescenza, ma un Festival aperto alla comunità nelle sue generazioni, che costruisce spazi di confronto, che lavora con i ragazzi sull’importanza del prendere parola e di diventare protagonisti, di praticare il diritto a raccontarsi.
In occasione del Festival è stata lanciata una call per le ragazze e i ragazzi tra i 13 e i 17 anni, proprio per coinvolgerli nella produzione di senso e contenuti. Oggetto della call è stata la richiesta d’invio di un breve video, di 2 minuti circa, in cui raccontare “una cosa che hai imparato, una cosa che hai capito o una cosa che senti importante o una cosa che ti manca in questo tempo presente.” Dal montaggio dei video ricevuti sarà realizzato un mini doc che verrà presentato durante CLOUD FESTIVAL.
La prima edizione di CLOUD FESTIVAL si svolgerà interamente online. Sarà possibile seguire i lavori grazie alla diretta sulla pagina Facebook e il canale Youtube del CNCA, e interagire ponendo domande ai protagonisti. Le modalità di presentazione dei messaggi, e di incontro tra le voci del Festival, non saranno però canoniche.
CLOUD FESTIVAL si struttura in un palinsesto dinamico di interventi, che raccoglie le riflessioni dei ragazzi e delle ragazze e le mette in dialogo con la voce di chi lavora con passione e competenza sui temi per loro più importanti. Un festival che crea confronto, che stimola i più giovani nella produzione di contenuti, che costruisce una comunità parlante e la coltiva nel tempo.
.pf-button.pf-button-excerpt { display: none; }L'articolo Cloud – Festival delle giovani generazioni: Cnca lancia la prima edizione on line del progetto dedicato ad adulti e adolescenti proviene da Cento Fiori, Rimini.
di Massimo De Berardinis
Prima parte: da raggruppamento a gruppo
Nella relazione che mi accingo ad esporre mi servirò di nozioni ben conosciute nella loro applicazione alla psicoanalisi dei gruppi e di altre, forse meno note, ma altrettanto utili per addentrarci nella comprensione della complessa fenomenologia clinica dei gruppi multifamigliari. In premessa voglio ricordare che le trasformazioni dell’ambito istituzionale possono esercitare effetti, sugli ambiti famigliari ed individuali, di gran lunga maggiori di quelli che le trasformazioni di questi ultimi possono esercitare sull’ambito istituzionale.
Voglio anche ricordare come la cultura accademica ci abbia ripetutamente proposto l’idea che i soggetti nascano isolati e che solo successivamente si riuniscano a formare dei gruppi; al contrario la Concezione Operativa ci ha dimostrato che l’essere umano, prima di diventare soggetto, “appartiene” ad un gruppo, anzi, nello stato di indiscriminazione, che precede la distinzione io-non io, così come ce lo ha iconicamente descritto Bleger, egli è il gruppo! Nell’ottica blegeriana, pertanto, l’istituzione famigliare costituisce, all’inizio della vita psichica del soggetto ed in maggiore o minore misura, anche nel seguito, il ricettacolo delle parti più immature e meno discriminate dei suoi membri.
E’ altresì opportuno ricordarein premessa che nei gruppi primari tutti i membri tendono a funzionare da depositari per ciascuno degli altri, assumendo ed attuando, in modo complementare, i ruoli depositati. Può perciò accadere che quando questi gruppi attraversano fasi di instabilità, il membro che si è fatto maggiormente carico delle ansie e dei conflitti famigliari, possa veder crollare le proprie difese e divenire il depositario del ruolo di malato (il cosiddetto capro espiatorio).
I gruppi primari che ci vengono inviati per il trattamento multifamigliare presentano tutti, in misura più o meno pronunciata, questo tipo di problematiche. Ora, prima di addentrarmi in altre considerazioni, vorrei presentare brevemente qualche esempio sulle modalità di comportamento che gli integranti di questi gruppi tendono ad assumere in occasione dei primi incontri multifamigliari. Sebbene le famiglie vengano inviate con l’indicazione al trattamento di tutto il gruppo, pur tuttavia, già dal primo incontro di contrattazione, possiamo osservare come i membri, “cosiddetti sani”, tentino sempre una ridefinizione dell’invio cercando di apparire come accompagnatori dei “cosiddetti malati” e si comportino come certi genitori, con figli un po’ turbolenti, nei primi giorni di inserimento alla scuola materna!
Essi parlano di fronte ai loro congiunti come se non ci fossero o non capissero…strizzano l’occhio ai curanti…ammiccano e tentano, in ogni modo, di far intendere che i malati non sono loro ma “quelli lì”.E’ interessante notare come i pazienti accettino passivamente questo ruolo, lasciandosi trattare, senza reagire, come se fossero dei “bimbi un po’ tonti”.
Quando la situazione si presenta, sin dall’inizio, con aspetti così fortemente resistenziali, può essere opportuno evitare inutili contrapposizioni rimandando le famiglie agli invianti per una ridefinizione delle indicazioni di cura. Ma anche quando la fase contrattuale viene conclusa, almeno sul piano manifesto, con la definizione del compito di lavorare sulle difficoltà che, a vario titolo, tutti i membri delle famiglie si trovano ad affrontare in quella fase della loro vita, la situazione resistenziale tende ugualmente a riproporsi seppur con caratteristiche diverse.
Inizialmente le famiglie si dispongono in cerchio, senza mescolarsi, anche se poi ciascun gruppo tende rapidamente a scindersi in due sottogruppi: quello dei sani e quello dei malati.Solitamente i primi a prendere la parola sono i cosiddetti membri sani attraverso la descrizione delle “mancanze” di cui si renderebbero “colpevoli” i cosiddetti membri malati; essi parlano degli sforzi compiuti, delle terapie inutilmente tentate, del sentimento di impotenza che li attanaglia… per poi concludere con la richiesta rituale, di “fare qualcosa per guarirli”!
Dopo queste “presentazioni” iniziali, la“geografia”del gruppo va incontro a dei rimaneggiamenti caratterizzati dai movimenti dei membri sani che, spinti da un bisogno di “solidarietà”, si spostano per costituire piccoli sottogruppi, di due, tre persone, molto attivi nel dimostrarsi comprensione affettiva; i malati, invece, tendono arestare ancorati ai loro posti, accanto alle figure famigliari maggiormente protettive.Spesso si assiste anche al fatto che i fratelli e le sorelle dei “pazienti designati”, diano vita ad un ulteriore sottogruppo, spazialmente disperso, ma riconoscibile per la comunanza del tono polemico e rivendicativo verso il Servizio di Salute Mentale, il Servizio Sanitario, il Governo… il mondo intero… considerati “responsabili”di non aver fatto e di non fare abbastanza per i loro congiunti.
Per un tempo di durata variabile la dinamica del gruppo si mantiene incentrata sulla scissione tra sani e malati ed ogni momento “è buono”perchè i membri sani tornino a stigmatizzare il comportamento dei malati “… Il mio fa così Anche il suo?… Pensi che una volta… Sapesse… Ma no!… Davvero?… Proprio come il mio!… Dottore… Come si può fare?”… E via di questo passo!!
Il sottogruppo “depositato”, quello dei pazienti, solitamente resta silenzioso, lascia dire,al più, attraverso l’esibizione di marcati sintomi psicopatologici, provvede, paradossalmente, a confermare la divisione tra sani e malati. Quello che ho appena descritto è solo uno dei possibili esempi di come gli integranti del gruppo, del tutto inconsapevolmente, si adoperino per restare in fase di pre-compito, cioè oppongano “resistenza” all’ingresso nella fase di compito… in questo caso…. aggrappandosi ognuno ai propri “ruoli storici”!
In queste circostanze la funzione del coordinatore sarà essenzialmente rivolta a rinforzare il setting e a segnalare ed interpretare le ansie di base che si frappongono all’ingresso del gruppo nella fase di compito. La fase di pre-compito tenderà a ripresentarsi tutte le volte che il gruppo si troverà di fronte ad un cambiamento; se la coordinazione riuscirà a non cedere né alle lusinghe collusive dei sani né alle richieste di dipendenza dei malati, il gruppo si avvierà nel difficile percorso di cura che, si auspica, possa favorire la crescita di ciascuno dei suoi membri. Tutti i gruppi, come dice Pichon Rivière, hanno un andamento pendolare, a spirale, che li porta ad oscillare tra le fasi di pre-compito e quelle di compito. Il pre-compito è, per eccellenza, il momento nel quale emergono maggiormente le resistenze al cambiamento; è la fase nella quale il gruppo tenta di affrontare problemi nuovi con modalità vecchie.
L’emergere delle angoscie di base, propriamente paranoidi, depressive e confusionali, mobilitate dai timori di perdita dei vecchi riferimenti e dalla minacciosità del nuovo, determina la comparsa di tecniche di difesa che hanno lo scopo di eludere le ansie e rinviare il compito, come, per esempio, abbiamo potuto vedere nell’esempio citato, quando tutti gli integranti resistono al nuovo, attraverso il mantenimento dei loro vecchi ruoli di sani e di malati. E’ fondamentale che, in questi frangenti, il coordinatore non faccia propria la difficoltà del gruppo ricorrendo alla rassicurazione, cioè non confonda il proprio compito con quello del gruppo, perché se così facesse finirebbe col trasformare il lavoro terapeutico in lavoro di supporto. Ma che differenza c’è tra i gruppi multifamigliari e gli altri tipi di gruppo?
– Nella terapia, cosiddetta individuale, la relazione terapeutica è caratterizzata dall’incontro tra due corpi fisici ed dall’irrompere, nello spazio terapeutico, di molteplici “personaggi” che popolano il gruppo interno del paziente e il gruppo interno del terapeuta. In questo “particolare tipo di gruppo” l’analisi del transfert e del controtransfert costituisce l’asse portante del lavoro terapeutico.
– Nei gruppi operativi (gruppi secondari, dove sono i soggetti a costituire il gruppo) i corpi fisici sono numerosi ed ancor di più i personaggi dei gruppi interni che affollano le sedute. Qui l’analisi del transfert individuale è subordinato all’analisi della relazione gruppo –compito. I processi di proiezione-introiezione e di aggiudicazione-accettazione orifiuto dei ruoli costituiscono il “moltiplicatore terapeutico” grazie al quale è possibile addivenire, a livello individuale, alla ridefinizione dei modelli relazionali primari internalizzati.
– Nella terapia dei gruppi famigliari (cioè dei gruppi primari, dove è il gruppo a costituire i soggetti e non viceversa) occorre innanzitutto tener presente che il paziente è il portavoce, l’emergente della malattia famigliare;pertanto il trattamento sarà primariamente rivolto alla rottura dello stereotipo dell’aggiudicazione e dell’assunzione del “ruolo di malato”; quindi si procederà alla individuazione ed all’elaborazione del nucleo depressivo di base; è da questo, infatti, che discendono tutte le strutturazioni patologiche che rivelano il fallimento dei tentativi messi in atto per elaborarlo.
Infine ci si occuperà della prevenzione del ripetersi dello stato di malattia famigliare, favorendo il riadattamento delle strutture individuali e gruppali.
– I cosiddetti gruppi multifamigliari, di cui ci occupiamo in questarelazione, sono invece costituiti da un insieme di sottogruppi strutturati (ma non qualsiasi, poiché si tratta di gruppi primari) che da vita ad una realtà molto particolare, che potrebbe essere definita di “oscillazione dinamica”tra la possibilità di trasformarsi in un gruppo di individui, discriminati e differenziati, e quella di restare un “raggruppamento di gruppi primari”.
Già sappiamo che la struttura istituzionale dei gruppi primari svolge la funzione di contenere, accogliere e bloccare le parti indiscriminate della personalità dei suoi membri e che ogni modifica di questa struttura può liberare l’angoscia in essa depositata; sappiamo anche che in assenza di un’idonea elaborazione l’angoscia può prendere la via del sintomo. Eppure la nostra aspettativa di cura è proprio quella di vedere modificata la stereotipia dei vincoli famigliari; che cioè il lavoro terapeutico possa determinare un allentamento della fissità degli “istituiti famigliari”a vantaggio di nuovi possibili “istituenti”.Come possiamo adoperarci, allora, affinchè l’attivazione, non occasionale, della potente macchina istituzionale produca trasformazioni senza determinare dei “terremoti catastrofici” negli integranti del gruppo?
Nella mia esperienza ho potuto constatare che per favorire il conseguimento di questo obiettivo occorre che si produca un “travaso”, al gruppo multifamigliare, della funzione istituzionale inizialmente assolta dai gruppi primari; perché questa operazione si realizzi è necessario che il gruppo multifamigliare assuma “carattere istituzionale”, cosa che può avvenire tramite l’adozione ed il mantenimento di un setting definito.
La dimostrazione dell’avvenuto travaso si renderà evidente, alla coordinazione, attraverso il rilievo di un aumento dei tentativi, operati dai singoli integranti, di prendere distanza dai gruppi primari, alla ricerca di una maggiore autonomia. Per altroverso il favorevole ingresso nella fase di compito, reso possibile dal setting e dal lavoro interpretativo della coordinazione, verrà segnalato dal manifestarsi di una posizione depressiva legata alla percezione della perdita della dipendenza dal gruppofamigliare, ma anche da un’attenuazione della posizione paranoidea di fronte alla minacciosità del nuovo. Da questo momento in avanti il compito del gruppo sarà quello di affrontare ed elaborare le ansie derivanti dalla rottura dello stereotipo, dalla trasformazione dei vincoli con i gruppi primari, dal procedere dall’indiscriminazione verso la discriminazione… in breve, dal passaggio da “raggruppamento di gruppi” a “gruppo di integranti”.
Nel lavoro di segnalazione e di interpretazione, che entrerà in gioco ogni qualvolta si profilerà un ostacolo sulla strada verso il conseguimento del compito, sarà posta una particolare attenzione a due aspetti fondamentali:
– al già ricordato va e vieni da raggruppamento a gruppo e viceversa (oscillazioni pre-compito -compito).
– ai fenomeni transferali che interessano la coordinazione, gli integranti, il compito e l’extragruppo.
Se del primo punto ho già parlato, il secondo merita ancora qualche approfondimento.
Partendo dalla teoria delle relazioni oggettuali vediamo come queste relazioni, una volta interiorizzate, vengano poi organizzate (a seconda delle modalità conle quali le sperimenta emozionalmente l’io del soggetto in via di sviluppo) in forma di rappresentazioni del mondo esterno. Queste rappresentazioni non riproducono mai il mondo dei rapporti reali (non sono cioè una copia fedele del mondo esterno) nonostante che nel corso degli anni, sotto l’effetto dell’evoluzione dell’io e delle successive relazioni oggettuali, esse vengano ripetutamente rimaneggiate nella direzione di una maggiore approssimazione alla realtà.
Diversamente dalla teoria delle relazioni oggettuali che si occupa delle vicissitudini degli oggetti internalizzati, la teoria del vincolo, elaborata da Pichon Rivière (che si fonda sull’idea il soggetto si produce in una prassi relazionale e che non c’è nulla in lui che non sia il risultato dellainterazione tra individuo, gruppo e società), si occupa sia del vincolo interno con l’immagine dell’oggetto che del vincolo esterno con l’oggetto reale.
Il vincolo interno, cioè la forma con la quale l’io si pone in relazione con la rappresentazione dell’oggetto internalizzato, condiziona anche l’espressività esterna; ne discende che, secondo questo modello, la terapia psicoanalitica si configura a partire dal tipo di relazione che il paziente stabilisce con il terapeuta; infatti, la natura transferenziale di questa relazione permette di indagare il vincolo che il paziente ha con i suoi oggetti interni. Pichon Rivière dice che l’esperienza terapeutica implica il “confronto”, cioè che nella misura in cui il paziente, a seconda dei vincoli internalizzati, assegnerà al terapeuta diversi ruoli, si renderà manifesta la sua “distorsione”nella lettura della realtà.
E’ di fondamentale importanza, sul piano terapeutico, che i ruoli assegnati non vengano agiti bensì “ritradotti”(interpretati) in una concettualizzazione o ipotesi sull’accaduto inconscio del paziente, al fine di cooperare, con lui, alla modifica delle sue percezioni del mondo e nella ricerca di nuove forme di adattamento attivo alla realtà. Nel lavoro di gruppo l’azione interpretativa esplicita gli emergenti espressi tramite il portavoce (verticalità), in rapporto con tutti i membri (orizzontalità), nel qui ed ora con il coordinatore, in relazione al compito.
Nei gruppi multifamigliari, come nei gruppi operativi, a seguito dei transfers multipli che comportano processi di aggiudicazione e di accettazione o rifiuto di ruoli, questa funzione interpretativa (di confronto) non viene svolta solamente dal coordinatore, ma anche da tutto il gruppo, con aumento esponenziale delle potenzialità terapeutiche.
Seconda parte: gruppi terapeutici e gruppi di supporto
Purtroppo, nelle nostre realtà, le psicoterapie multifamigliari sono quasi del tutto sconosciute e pertanto non vi sono richieste spontanee da parte di pazienti o famigliari. Questo significa che i Servizi devono promuovere un’offerta che favorisca l’emergere di una domanda di cura orientata in questa direzione. Per questi motivi, nella mia pratica, ho fatto ricorso all’invito di sei, sette famiglie alla volta, con la finalità manifesta di discutere delle proposte terapeutiche del Servizio e, specificatamente, della proposta di terapia multifamigliare; ovviamente stiamo parlando di famiglie che hanno uno o più membri incura al Servizio di Salute Mentale.
Il percorso consta di tre incontri, a cadenza ravvicinata (solitamente ogni settimana o quindici giorni), della durata di due ore ciascuno. Al primo incontro vengono esposti i temi oggetto di discussione ed il coordinatore, coadiuvato da uno o due osservatori “silenziosi”, presenta la coordinazione e definisce il setting di lavoro. Questo consente di caratterizzare il pur breve percorso sia come momento informativo che come momento esperienziale.
Solitamente, già da questi primi incontri, si può notare che i famigliari tendono a presentarsi come “…noi siamo i genitori di Tizio,…io sono la moglie di Caio, …noi siamo le figlie di Sempronio…” dove Tizio, Caio e Sempronio, ovviamente, sono i pazienti… Gli integranti, cioè, non si presentano come se stessi bensì “in funzione”del gruppo famigliare di appartenenza e del rapporto che hanno con il “paziente designato”, lasciando intravvedere, già da subito, quella tramatura vincolare che caratterizza i gruppi primari e che sarà oggetto del lavoro terapeutico multifamigliare. Al termine dei tre incontri le famiglie interessate possono “iscriversi”per la partecipazione ad un percorso psicoterapeutico multifamigliare.
L’altra maniera in cui è possibile costituire gruppi multifamigliari è rappresentata dall’invio di famiglie da parte degli operatori dei Servizi. Ma in questo caso come vengono scelte le famiglie?
Nei Servizi dove io ho lavorato i candidati al trattamento multifamigliare sono rappresentati soprattutto da quei gruppi famigliari i cui congiunti sono pazienti che “non migliorano”, che “deludono” ed “esasperano” i terapeuti… non di rado inducendo in essi inconsapevoli agiti controtransferali. Così, come spesso accade nelle istituzioni sanitarie, “il nuovo trattamento”non viene riservato ai casi che potrebbero giovarsene maggiormente, bensì ai casi nei quali è già stato provato di tutto… ma senza alcun risultato!
Sono possibili due tipi di invio: il primo è caratterizzato da una presa in cura “a tutto tondo”, che include anche il trattamento psicofarmacologico; il secondo prevede invece che il paziente mantenga uno spazio terapeutico individuale (quasi sempre di natura psicofarmacologica) parallelo all’iter multifamigliare.
Con queste famiglie (invitate e/o inviate) si costituiscono dei raggruppamenti di venti, venticinque membri che vengono poi convocati per la definizione del contratto terapeutico. La fase di contrattazione può richiedere uno o più incontri e serve a definire il setting di lavoro.
Spazio-tempo: il luogo ove si terranno gli incontri, con quale durata (solitamente due ore), con quale cadenza (settimanale o quindicinale) e per quanto tempo (solitamente un anno e mezzo o due).
Ruoli: presentazione della coordinazione (solitamente due, tre operatori con ruoli definiti di coordinatore, co-coordinatore, osservatore) e degli integranti del gruppo.
Compito: variamente articolato ma sostanzialmente incentrato sul miglioramento dello stato di benessere di tutti i membri del gruppo.
E’ importante sottolineare come il contratto terapeutico venga stipulato in gruppo, con ciascuno degli integranti e non con le “entità” famigliari. I gruppi così costituiti tendono ad assumere rapidamente una configurazione simile a quella di un risuonatore, che riverbera, a volte in maniera quasi “contundente”, transfers, controtransfers, introiezioni e proiezioni multiple. In questo “spazio”, assai particolare, con l’aiuto del coordinatore, il gruppo muove i suoi primi passi partendo dalla situazione presente (perché siete qui?)… per dirigersi verso il passato (che cosa vi è successo?)… e da qui verso il futuro (cosa pensate di fare per affrontare le vostre problematiche?)… poi di nuovo al presente… di nuovo al passato… di nuovo al futuro… In questo andare e venire il gruppo “racconta” le sue storie dove gli integranti “agiscono” ripetitivamente i loro ruoli famigliari… ruoli stereotipati…surrogati d’identità… connaturati alla struttura istituzionale dei gruppi primari.
Con il procedere degli incontri le strutture famigliari, inizialmente rigide e chiuse, iniziano a farsi un po’ più flessibili, permeabili e a rimodellarsi. Come in una grande rappresentazione teatrale, il gruppo mette in scena sé stesso… gli attori (pazienti, famigliari e terapeuti) inizialmente incarnano il passato… dopo un pò si accostano al presente e infine… lentamente… si aprono al futuro; … stereotipia dei vincoli e possibilità di cambiamento coesistono ed interagiscono dinamicamente tra loro per tutta la durata del gruppo dando vita, per tutti, ad un processo di possibile trasformazione terapeutica.
Nell’approfondire ora la riflessione sul funzionamento dei gruppi multifamigliari torniamo sulla dimensione istituzionale; questi gruppi sono infatti caratterizzati dalla specificità di essere spazi di coesistenza ed interazione tra diverse strutturazioni istituzionali:
– Quella dei gruppi primari (le famiglie) che si esprime attraverso una vera e propria “drammatizzazione vivente” dei vincoli istituzionali storicamente determinati.
– Quella dei gruppi interni (individuali) espressa, da parte di ciascun membro del gruppo famigliare, tramite “l’attualizzazione transferale delmodello primario internalizzato”.
– Quella del gruppo multifamigliare, “gruppo di gruppi”, nuovo contenitore delle parti immature della personalità di tutti gli integranti; qui chiamato ad esprimere, tramite il setting, la condizione dell’invarianza o non processo,necessaria per consentire lo svolgersi del processo terapeutico.
A questi tre livelli ne andrebbe aggiunto almeno un quarto, costituito dalla istituzione sanitaria, che però, in questa occasione, lasceremo da parte per non appesantire troppo la trattazione. Dalla interazione tra le strutture che abbiamo descritto prenderanno avvio delle linee processuali che potranno convergere in maniera terapeuticamente sinergica oppure no. Nella mia esperienza ho potuto verificare che all’andamento di questi processi non risulta per nulla estraneo il tipo di approccio metodologico e tecnico tenuto dalla coordinazione.
Fornisco alcune brevi esemplificazioni in merito. Se il sig. Tizio, padre del paziente Caio, si relaziona, all’interno del gruppo multifamigliare, in maniera prevalente od esclusiva, in funzione di questo suo ruolo paterno che noi accettiamo ed avalliamo lavorando con questo “status”, di fatto stiamo lavorando con la struttura dei gruppi primari (vincolo esterno) e non con il gruppo multifamigliare. Diversamente, se la nostra attenzione sarà rivolta, in modo prevalente o esclusivo, all’analisi delle manifestazioni di transfer espresse da ciascun integrante, questo ci porterà a lavorare essenzialmente con la struttura dei gruppi interni (vincolo interno) dei singoli integranti (come se si trattasse di una specie di “terapia rotatoria individuale” in gruppo) e non con il gruppo multifamigliare.
Se invece ci approcceremo al gruppo multifamigliare ponendo come “tra parentesi” la struttura dei gruppi famigliari e quella dei gruppi interni individuali, ma focalizzando la nostra attenzione soprattutto sulla relazione gruppo-compito (cioè nell’aiutare gli integranti ad affrontare gli ostacoli che si frappongono al conseguimento del compito), il nostro lavoro favorirà, da subito, il processo di trasformazione da raggruppamento a gruppo, cioè il passaggio dalla fase di pre-compito a quella di compito; questo eserciterà un effetto trasformativo contemporaneo e sinergico anche sulle strutture dei gruppi famigliari e dei gruppi interni individuali. Poiché però queste considerazioni si fondano direttamente sulle mie esperienze cliniche, occorre che vi faccia un breve riferimento.
Devo ritornare a molti anni addietro, più di trenta, aquando iniziai a riportare a livello ambulatoriale le mie esperienze sui gruppi multifamigliari; esperienze maturate soprattutto in situazioni di acuzie, cioè con le famiglie di pazienti ricoverati nella Clinica Psichiatrica dell’Università di Modena. In quella fase il mio stile di coordinazione, si direbbe meglio di conduzione, era, per così dire, molto “sperimentale”; ciò non di meno le cose procedevano, almeno inizialmente, in modo assai positivo e tutti gli integranti sembravano trarre significativi giovamenti dall’esperienza… cosa che ritardò non poco la mia comprensione dei fenomeni che avvenivano all’interno dei gruppi multifamigliari…
I problemi cominciarono ad evidenziarsi solo più tardi… all’avvicinarsi del momento della chiusura dei gruppi. Accadeva infatti che, con l’approssimarsi della fine dei contratti terapeutici, le strutturazioni istituzionali originarie (interne ed esterne) riprendessero il sopravvento. I pazienti regredivano in maniera esageratamente vistosa, riassumendo le modalità relazionali e sintomatiche precedenti all’ingresso nel gruppo…. Sembrava di assistere al riavvolgimento del nastro di una pellicola! La situazione era paradossale… il lavoro con i gruppi multifamigliari produceva miglioramenti rapidi ed evidenti… ma, per mantenerli, sembrava che i gruppi non dovessero terminare mai…
Feci altri tentativi con esiti incerti… finchè la riflessione clinica e soprattutto la formazione nella Concezione Operativa di Gruppo non mi fornirono gli strumenti per superare quella situazione di “gruppo-protesi”, che, tra l’altro, per la sua sussistenza, si avvaleva proprio del mio “supporto” involontario. Al fine di fornire una migliore comprensione dei fenomeni sopra riportati, descriverò di seguito alcuni degli errori cheavevano maggiormente contribuito a determinarli:
– Concentravo la mia attenzione quasi esclusivamente sul funzionamento dei singoli integranti e dei gruppi famigliari.
– Pensavo i componenti del gruppo soprattutto a partire dal ruolo che rivestivano all’interno di ciascuna famiglia.
– Sottovalutavo l’importanza della definizione del setting.
– Tendevo a sovrapporre il ruolo di coordinatore con quello di leader.
– Ricorrevo, nei momenti di difficoltà del gruppo, ad interventi di natura prevalentemente rassicuratoria.
– Non differenziavo a sufficienza il compito della coordinazione da quello del gruppo.
Preso nel ruolo di “leader buono, potente, e salvifico”, incentivavo la dipendenza sulla mia persona e sul gruppo, senza però riuscire poi a favorirne l’elaborazione. Il clima così generato facilitava l’emergere di fenomeni catartici che sembravano soddisfare, nell’immediato, le esigenze dei partecipanti, ma poi non evolvevano in cambiamenti duraturi. In questo modo il gruppo diveniva un luogo di attenuazione delle ansie, ma, contemporaneamente, anche di rinforzo delle stereotipie di funzionamento famigliare ed individuale. Di fatto, favorendo la stabilizzazione dei gruppi in “fase di pre-compito”, mi ero inconsapevolmente trasformato, come dice Pichon-Rivière, nel “leader della resistenza invece che del cambiamento”.
Questa condizione di “certo benessere”, conseguita dal gruppo, per potersi mantenere nel tempo necessitava, però, della persistenza di una gruppalità di tipo supportivo; naturale quindi che l’approssimarsi della chiusura del gruppo mettesse in discussione quell’equilibrio facendo “retrocedere” gli integranti allo “statu quo ante”.
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– De Berardinis M.: “La funzione interpretativa nel gruppo multifamigliare”, in INTERPRETAZIONE, Ed. Sensibili alle foglie, Roma, 2017.
– De Berardinis M.: “Dispositivi gruppali e trasformazioni istituzionali all’interno di un reparto psichiatrico ospedaliero”. Sito della Scuola J. Bleger -Rimini; www.bleger.org, 2019.
– Garcia Badaracco J.: “Comunidad Terapeutica Psicoanalitica de Estructura Multifamiliar”. Ed. Tecnipublicaciones, Madrid, 1989.
– Jaques E.:“Sistemi sociali come difesa contro l’ansia persecutoria e depressiva. Contributo allo studio psicoanalitico dei processi sociali”. In M. Klein, P. Heimann, R. Money-Kyrle, Nuove vie della psicoanalisi. Il Saggiatore, Milano, 1966.
– Kaes R., Bleger J., Enriquez E., Fornari F., Fustier P., Roussillon R., Vidal J. P.: “La institucion y las instituciones. Estudios psicoanaliticos”. Ed.Paidos, Buenos Aires,1996.
– Klein M.: “Scritti, 1921 –1958”.Ed. Bollati Boringhieri, Torino, 2006.
– Mandelbaum E.: “Teoria e pratica dei Gruppi Multifamigliari”. Ed. Nicomp, Firenze, 2017.
– Pavlovsky E., Bouquet C.M., Moccio F.: “Psicodrama – Cuando y por qué dramatizar”. Ed. Busqueda, Buenos Aires, 1985.
– Pichon-Rivière E.: “Il processo gruppale”. Ed. Lauretana, Loreto (AN), 1985.
– Pichon-Rivière E.:“Teoria del Vinculo”. Ed. Nueva Vision, Buenos Aires, 1985.
– Segal H.: “Introduzione all’opera di Melanie Klein”. Ed. Martinelli, Firenze, 1975
Rimini – Insieme hanno iniziato il percorso di disintossicazione al Centro Osservazione e Diagnosi (Cod) L’Airone di Argenta, e insieme Alice e Massimo hanno lanciato un’altra sfida alla loro (ex) dipendenza, convolando a nozze, per fare poi la loro luna di miele alla Comunità Terapeutica di Vallecchio, Rimini. Sono saliti in municipio ad Argenta, dove il sindaco Andrea Baldini ha officiato il loro matrimonio, dopo due anni di fidanzamento e alcuni mesi di terapia al Cod. Testimoni delle nozze i due educatori che li stanno assistendo in questo duplice impegno, Alessia Bagordo e Alfredo Pellegrini. Il primo impegno, come ospiti del Cod, è infatti liberarsi dalla dipendenza, sotto l’osservazione della equipe di educatori, psicologi e psichiatri.
Coriandoli e riso li hanno salutati, lanciati dagli altri pazienti della struttura e dall’equipe sociosanitaria della Cooperativa Sociale Cento Fiori di Rimini, che da alcuni anni gestisce la struttura di Argenta, diretta da Monica Ciavatta. Poi il taglio della torta, in refettorio, con gli altri dieci ospiti e l’equipe sociosanitaria al completo. Niente lancio del tradizionale bouquet da parte della sposa: il destino del mazzolino sarà di essere immortalato in uno dei lavori di bricolage nei quali si diletta lo sposo. Pazienza per le ospiti e le operatrici ancora nubili, ci saranno altri lanci ai quali attendere…
Un atto di coraggio notevole per Alice e Massimo, che hanno scelto di fare un duplice percorso: mettersi alla prova come persone e come coppia, rilanciando addirittura con il matrimonio. Un impegno quest’ultimo che sarà seguito in modo particolare dagli operatori della Cooperativa Sociale Cento Fiori di Rimini, che gestisce tra le altre tre strutture terapeutiche: i Cod di Argenta e di Vallecchio e la Comunità Terapeutica di Vallecchio (Rimini). Le tre strutture sono tra le poche in Italia che offrono da circa 20 anni un trattamento terapeutico specifico per le coppie, proprio per la duplice difficoltà che incontrano i pazienti.
.pf-button.pf-button-excerpt { display: none; }L'articolo Fiori d’arancio alla Cooperativa Sociale Cento Fiori: dopo la disintossicazione Alice e Massimo sposi al Cod di Argenta e luna di miele alla Comunità Terapeutica di Vallecchio. proviene da Cento Fiori, Rimini.
Essere già iscritte alla data del 01 novembre 2020 al Registro delle Imprese tenuto presso la Camera di Commercio competente per territorio;
Essere attive alla data di apertura del bando, cioè al 20 gennaio 2021 e non essere cessate alla data del provvedimento di liquidazione del contributo;
Avere la sede o una unità locale aperta al pubblico in Emilia Romagna;
Aver subito un calo del fatturato medio nel periodo ricompreso tra il 1 novembre 2020 e il 31 dicembre 2020 pari o superiore al 20% rispetto al fatturato medio dello stesso periodo del 2019. Non rileva il calo del fatturato nel caso di attivazione nel periodo dal 1/1/2020 al 1/11/2020;
Essere in regola con il versamento dei contributi previdenziali. A tal fine dovrà essere prodotto, al momento della presentazione della domanda, un Durc regolare.
Essere già iscritte alla data del 01 novembre 2020 al Registro delle Imprese tenuto presso la Camera di Commercio competente per territorio;
Essere attive alla data di apertura del bando, cioè al 20 gennaio 2021 e non essere cessate alla data del provvedimento di liquidazione del contributo;
Avere la sede o una unità locale aperta al pubblico in Emilia Romagna;
Aver subito un calo del fatturato medio nel periodo ricompreso tra il 1 novembre 2020 e il 31 dicembre 2020 pari o superiore al 20% rispetto al fatturato medio dello stesso periodo del 2019. Non rileva il calo del fatturato nel caso di attivazione nel periodo dal 1/1/2020 al 1/11/2020;
Essere in regola con il versamento dei contributi previdenziali. A tal fine dovrà essere prodotto, al momento della presentazione della domanda, un Durc regolare.
La notizia dell’imminente invio di 50 milioni di cartelle esattoriali ha avuto la sua giusta dose di polemiche, giustificate dal momento che stiamo vivendo. In mezzo al clamore suscitato, però, nessuno ha avanzato la considerazione più banale e cioè che in caso di eventuale loro mancato pagamento, purtroppo, al trasgressore non accade nulla.
Il nostro sistema di accertamento dei tributi e della loro riscossione è fondamentalmente a pezzi. La Corte dei Conti, nella sua annuale Relazione al rendiconto Generale dello Stato, ha scritto che al 31 dicembre 2019 lo Stato italiano deve incassare cartelle esattoriali per un valore pari a 954,7 miliardi di euro, cioè una somma pari al 50% del PIL annuale del nostro Paese. Soldi che non si vedranno mai, perché circa 153,1 miliardi sono dovuti da soggetti falliti, 118,9 miliardi sono dovuti da soggetti deceduti o attività cessate, 109,5 miliardi sono dovuti da soggetti nullatenenti. Altri 410,1 miliardi si riferiscono a crediti per i quali lo Stato ha tentato un’azione di recupero ma questa è risultata parziale o inefficace. L’indice di riscossione medio negli ultimi 20 anni è del 13,30%, cioè per ogni 100 euro di credito esattoriale se ne recuperano 13,30 euro. Sulla fascia oltre i 100.000,00 euro di credito, questa percentuale cala al 2,7%.
Saranno pure 50 milioni di cartelle, ma passata l’indignazione iniziale, alla fine rimane solo poco più di uno spreco di carta.
Da cosa dipende questo sostanziale fallimento? La risposta non è univoca, è chiama in causa vari aspetti del nostro sistema tributario. Senza dubbio, la difficoltà nel recupero dei tributi dipende innanzitutto da una serie di paletti posti alla riscossione coattiva, quali ad esempio l’impossibilità di vendere all’asta la prima casa, il pignoramento dello stipendio limitato al quinto oppure l’impossibilità, fino a un paio di anni fa, di utilizzare le banche dati dei conti correnti per verificare le giacenze dei singoli debitori. A queste limitazioni vanno aggiunte quelle che impediscono all’incaricato della Riscossione di scegliere quale credito incassare e quale no, obbligandolo ad adoperarsi allo stesso modo sia per crediti che sa già essere inesigibili sia per crediti più credibilmente riscuotibili.
Infine si osserva che non è previsto nel nostro ordinamento la possibilità di effettuare una transizione del credito con il contribuente, il quale vorrebbe anche adempiere al suo obbligo (non esistono solo i delinquenti e i furbacchioni nel nostro Paese) ma non è in grado di farlo perché, per colpa o destino, l’importo è troppo alto rispetto alle sue possibilità.
La riscossione tramite cartelle esattoriali, però, rappresenta l’ultimo anello di un processo che inizia con l’accertamento dell’imposta da parte dell’Agenzia delle Entrate. Anche questa fase non se la passa benissimo, nonostante il fatto che ogni Governo annualmente sbandiera il suo successo nella lotta all’evasione fiscale, glissando, però, sul fatto che quello che effettivamente si incassa è una percentuale infinitamente bassa. La Corte dei Conti ha calcolato che nel 2019 per tutti gli accertamenti di evasione emessi dall’Agenzia delle Entrate, il 40% di questi, una volta che il presunto evasore li ha ricevuti, li ha comodamente buttati nel cestino. Con la conseguenza che questi avvisi di accertamento, a loro volta, diventeranno cartelle esattoriali con il risultato visto sopra, cioè di sostanziale mancato incasso. Tanto per dire, l’Agenzia delle Entrate, a fronte di crediti per 600 miliardi di euro, ha stimato che ad andare bene ne riuscirà a recuperare solo il 3%.
In tutta questa sostanziale inefficienza, una menzione merita anche la qualità e la quantità di accertamenti svolti, perché oltre a non incassare niente, spesso e volentieri il Fisco, invece di concentrarsi sui grandi evasori, intasa pure i tribunali e gli incaricati della riscossione con richieste tributarie quasi ridicole sia per l’importo che per il presupposto giuridico. Tanto per dire, nel 2019 l’Agenzia delle Entrate di Milano, con un unico controllo fiscale, ha recuperato e incassato da Kering (il gruppo proprietario, tra l’altro, di Gucci e Bottega Veneta) la considerevole cifra di 1,4 miliardi di euro, somma che ha consentito al Governo Italiano di chiudere la manovra aggiuntiva di 2 miliardi di euro evitando così la procedura di infrazione europea. Di contro, nello stesso periodo, sempre in Lombardia, l’Agenzia delle Entrate ha usato i suoi funzionari per recuperare da un importante numero di contribuenti, la stratosferica cifra di 200 euro cadauno, paventando una presunta evasione dell’imposta di registro calcolata per la registrazione di alcuni contratti.
Il risultato è stato che qualche cittadino ha fatto ricorso e non solo l’ha vinto ma addirittura l’Agenzia delle Entrate è stata condannata a pagare le spese legali, ammontanti ad euro 750,00. Per recuperare 200 euro, hanno lavorato almeno quattro funzionari del Fisco e tre Giudici Tributari, con il risultato finale non solo di non averli incassati ma di avere dovuto pagare i danni alla controparte. Questo caso potrà apparire estemporaneo e marginale. Tutt’altro, invece: la Corte dei Conti ha evidenziato che nel 2019 sono stati svolti 508.101 controlli, e ben 259.133 di questi, cioè il 51%, ha portato a recuperare una imposta evasa al massimo di euro 1.549,00. Cioè si sono dovuti fare la bellezza di quasi 260.000 controlli per accertare un terzo della cifra effettivamente incamerata con un solo controllo da Kering.
Diranno i puristi che l’evasione va perseguita a prescindere dall’importo. Ci mancherebbe che fosse il contrario. Però anche la Corte dei Conti, che non si può tacciare di essere favorevole all’evasione, suggerisce un mutamento di queste strategie di contrasto all’evasione, cercando di evitare di impegnarsi su posizioni non proficue né in termini di importo né in termine di esigibilità.
Ci troviamo, in conclusione, di fronte a un sistema che sia nella parte dell’accertamento che nella parte della riscossione presenta uno stato patologico straordinario che viene curato, però, con azioni anch’esse straordinarie ed emergenziali, come le proroghe delle scadenze, i saldi stralci, mini condoni o rottamazioni varie. La politica post-Covid 19, per essere nuova e credibile, dovrà inevitabilmente, in campo tributario, badare al sodo e rivolgere lo sforzo della sua struttura ad accertare somme che saranno con ogni probabilità incassate e non disperdere risorse in azioni forse utili più alla propaganda che alle Finanze dello Stato.
(articolo apparso su www.chiamamicitta.it il 18 gennaio 2021)
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