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Concezione Operativa e Gruppo Multifamiliare l’esperienza del Servizio Territoriale Dipendenze Patologiche di Senigallia

Scuola di prevenzione José Bleger Rimini - Mer, 27/05/2020 - 22:15

di Francesca Anderlini

Premessa teorica

 Dalle radici della terapia familiare al Gruppo Multifamigliare

Il processo che ha portato allo sviluppo di una teoria della malattia psichica dell’individuo come correlata al contesto di vita, parte da lontano e forse anche da prima del momento che individuiamo qui come uno dei fatti che ne sono stati all’origine.

Ci riferiamo ai medici Lasègue e Falret che, già nel 1877, nella descrizione della sindrome della “folie a deux”, osservavano che “Il problema non è semplicemente quello di esaminare l’influenza esercitata dalla persona malata su quella sana, ma anche quello inverso della persona ragionevole su quella delirante e di dimostrare come, tramite una serie di compromessi reciproci, le differenze vengono eliminate”(Loriedo, 1978).

Bleuler, nel suo trattato sulla schizofrenia del 1911, descrive alcune caratteristiche notate nella famiglia della persona schizofrenica, ma si può far derivare da Freud, con la formulazione del Complesso di Edipo, il primo esempio di relazione triangolare patogena. (Loriedo, 1978)

Negli anni 40 cominciò sempre più a comprendersi la relazione tra il sintomo che il soggetto presenta e la struttura famigliare della quale egli è membro.

La terapia familiare nasce nella cultura statunitense degli anni Cinquanta e si sviluppa in due diverse direzioni: una sistemica propria della Scuola di Palo Alto e una più psicodinamica. Nel contempo altri autori entravano in sinergia con questo nuovo paradigma che si stava sviluppando in riferimento al sintomo come espressione di una patologia del gruppo di appartenenza.

Nel 1942, con la partecipazione di alcuni psicoanalisti europei, nel solco tracciato ad opera dei gruppi di studio “locali” di Buenos Aires, nasce l’Associazione Psicoanalitica Argentina (APA).

Tra i fondatori Enrique Pichon-Rivière (Ginevra, 25 giugno 1907 – Buenos Aires, 16 luglio 1977), psichiatra e psicoanalista. Il suo pensiero ed il suo lavoro scientifico sono stati caratterizzati dallo sforzo teso alla ridefinizione della psicoanalisi come una psicologia sociale (analitica).

Ideò il metodo del Gruppo Operativo che definì come “[…] Un insieme di persone, legate per costanti di tempo e di spazio ed articolate su una mutua rappresentazione interna, che si propone esplicitamente o implicitamente un compito che costituisce il suo scopo” e nel quale risultano fondamentali i concetti di portavoce ed emergente. Il soggetto è un portavoce, in questo caso emergente, del proprio gruppo familiare che, a sua volta, è da intendersi come portavoce del gruppo socio-culturale più ampio di cui è parte.” (Lorenzo Sartini, “Enrique Pichon-Rivière”).

Il paziente non viene più visto semplicemente come il malato, bensì come elemento emergente della situazione gruppale e sociale che lo produce. È attraverso la famiglia, gruppo sociale primario che fa da ponte tra l’individuo e la società, che il soggetto impara a stare in relazione con gli altri e apprende una peculiare modalità per affrontare il mondo che lo circonda.

Un allievo di Pichon-Rivière è Josè Bleger, anch’egli psichiatra e psicoanalista,

A proposito della relazione tra individuo e contesto famigliare egli scrive:

“Quando l’individuo viene al mondo vi è un sincretismo, una mancanza di discriminazione fra Io e Non Io; non esiste ancora né mondo esterno né mondo interno, ma un tutto indiscriminato indiviso e solo gradualmente si differenzierà, allora si instaurerà nel soggetto un mondo interno che si differenzierà da quello esterno. (All’inizio dunque non ci sono né proiezione né introiezione). Ciò vuol dire che il processo che si sviluppa nella dinamica famigliare non è di progressiva connessione tra i membri, ma di graduale distacco ed individuazione.

La funzione istituzionale della famiglia è quella di servire da serbatoio, controllo e protezione per la parte più immatura, primitiva o narcisistica della personalità, ma al tempo stesso, grazie all’instaurarsi di una buona relazione simbiotica all’interno del gruppo famigliare (relazione simbiotica normale e necessaria) quest’ultimo, nella sua dinamica normale, permette che si sviluppino le parti più adatte e mature della personalità nell’extragruppo. Quanto al cambiamento esso deriva da cause connesse non con l’extragruppo, ma con la natura stessa-con la dinamica del fenomeno psicologico, riguarda cioè la natura intima o intrinseca delle dinamiche del gruppo famigliare.

Le situazioni di cambiamento possono provocare tre tipi di ansia: confusionale, paranoide e depressiva.” (Josè Bleger, “Psicoigiene e Psicologia istituzionale”, pag. 123).

Se il bambino viene nutrito e sufficientemente rassicurato risolverà la fase di simbiosi, si differenzierà, potrà sopportare l’angoscia di perdita, sarà in grado di sopportare la frustrazione, avrà sperimentato che la madre ritorna e che il mondo non gli è ostile, non sarà fuso e confuso con lei.

Il Gruppo Multifamigliare

 La storia dei Gruppi Multifamiliari inizia a Buenos Aires in Argentina, negli anni 60, in un reparto dell’Ospedale Psichiatrico “Borda”. Fondatori dei Gruppi Multifamiliari in Argentina, Jorge Garcia Badaracco psichiatra e psicoanalista, già presidente dell’APA, Eduardo Mandelbaum Specializzato nella Scuola di Psichiatria Dinamica, in Gruppi operativi, diretta da Pichon-Rivière, di cui è stato allievo e collega.

“In Italia la terapia di gruppo multifamigliare costituisce una forma di intervento clinico che si inserisce nell’ambito dei grandi cambiamenti avvenuti a seguito dell’entrata in vigore della legge 180 (più comunemente conosciuta come “legge Basaglia”)” (da Laura Dominijanni, I gruppi multifamiliari: cosa sono e come funzionano). Da quel momento, con la chiusura dei manicomi ed il rientro dei “pazienti” nelle famiglie, la cura è stata decentrata nel territorio e le famiglie sono state coinvolte nel trattamento. E’ interessante notare quanto sia complesso, ricco e articolato il processo che, da istituente diventa istituito, ripercorrendo il percorso che, dalle prime osservazioni sull’origine relazionale del sintomo, si muove verso la costruzione di modelli teorici e pratici di intervento che interessanole famiglie e i gruppi. Tale percorso si è sviluppato in sincronia con una molteplicità di cambiamenti a livello socio-politico, economico, culturale che hanno comportato l’emanazione di una serie di leggi (la legge sull’aborto, l’abolizione delle classi differenziali, la riforma del diritto di famiglia, la legge sul divorzio, la riforma sanitaria, la legge Basaglia) e istituzionalizzato il lavoro di équipe e l’ingresso della famiglia nel processo di cura.

In Italia la terapia multifamigliare si è diffusa ad opera di diverse correnti di pensiero e, per ciò che concerne la Psicologia Sociale Analitica ha rappresentato la naturale applicazione della concezione operativa di gruppo ai gruppi multifamiliari.

Questi Gruppi, nati per il trattamento di pazienti psicotici, sono poi stati utilizzati con pazienti border-line, con disturbi narcisistici della personalità e infine, adesso, con i famigliari di pazienti con disturbi alimentari e nel nostro caso con pazienti tossicodipendenti.

Un elemento innovativo che caratterizza questo tipo di trattamento è l’alleanza terapeutica interfamiliare.

Vale a dire che avvengono processi di identificazione che permettono l’uscita da schemi rigidi di comportamento. Già nel setting unifamiliare la famiglia, stimolata a confrontarsi con il mondo esterno rappresentato dal terapeuta e dal contesto in cui egli opera, ha modo di uscire dal proprio microcosmo, di riflettere sul proprio modo di comunicare, di confrontarsi e di sperimentare altre strade.

Ma allorché più famiglie si trovano insieme, le emozioni e le parole dell’uno trovano eco nell’altro che sembra vivere lo stesso problema e averlo risolto in modo diverso, gli integranti possono confrontarsi sulle somiglianze e sulle differenze ed il processo terapeutico intensificarsi nel dipanarsi di transfert alla pari ed intergenerazionali. Identificarsi e comprendere il figlio o il genitore dell’altro può creare le basi per dissolvere gli stereotipi che si manifestano nel pensiero e nei comportamenti, interrompere i copioni e le ridondanze e liberare energia per nuovi pensieri e progetti.

L’esperienza emozionale profonda che una famiglia può vivere in una situazione di contenimento e di appoggio che le fornisce il gruppo più ampio, aiuta a mobilitare e manifestare quei contenuti che opprimono, intimoriscono ed ostacolano il cambiamento.

Secondo Pichon-Rivière: “Quando più persone si riuniscono in un gruppo, ciascun membro proietta i propri oggetti fantastici inconsci sui diversi membri del gruppo; mettendosi in relazione con essi secondo quelle proiezioni che si evidenziano nel processo di assegnazione e assunzione dei ruoli. La struttura di interazione gruppale non solo permette, ma stimola l’emergere di fantasie inconsce. […] il ruolo è lo strumento di incontro, che determinerà alcune forme di interazione e ne escluderà altre.

Incontriamo dunque nel campo gruppale transfert multipli. Le fantasie di transfert emergono sia in relazione agli integranti del gruppo sia in relazione al compito e al contesto nel quale si sviluppa l’operazione di gruppo. […] Gli elementi del campo gruppale possono essere organizzati. L’azione gruppale, interazione nelle sue differenti modalità, può essere regolata al fine di renderla efficace, di potenziarla in vista dei suoi oggetti; in ciò consiste l’operazione.” (Pichon-Rivière, “Il processo gruppale”, pagg. 106 e seg.)

 

Quale modello di famiglia hanno in testa gli operatori: chi convocare?

Le nuove Famiglie

E’ chiaro che i progressi della scienza, della tecnologia, del lavoro femminile, i cambiamenti dei costumi e l’affacciarsi di nuovi diritti nell’ambito sociale e famigliare tutto ciò ha ampiamente influenzato e cambiato i costumi e smantellato l’identificazione di modelli famigliari univoci a cui riferirsi.

Ed è per questo che assistiamo oggi alla costruzione di svariate tipologie di famiglia: arcobaleno, adottive, omogenitoriali, monogenitoriali, allargate, famiglie divise, famiglie ricostituite Tali nuove tipologie costringono a percorsi istituenti sempre in divenire.

Le nuove famiglie non sempre hanno una collocazione riconosciuta giuridicamente ed i rapporti al loro interno non seguono sentieri già percorsi dai padri: prendiamo ad esempio le famiglie divorziate in cui i genitori si sono riaccompagnati o risposati con altri partner, forse è nato un altro figlio, forse due oltre a quello/i che ciascuno aveva avuto dal precedente matrimonio o convivenza. In queste famiglie, il sintomo che presenta l’ultimo nato divenuto adolescente, di chi è portavoce? In che rapporto sono i nuovi ed i vecchi nuclei tra loro?

Estrapolando alcuni stralci molto significativi dall’articolo di Alejandro Scherzer, “Dalla famiglia edipica alla famiglia gruppale”, rispetto a queste nuove famiglie possiamo chiederci:

“Chi educa? Chi decide? Chi sceglie la scuola?

E l’attenzione alla salute? Chi la paga? Chi supporta? Chi si prende cura?

Che cosa succede con il patrimonio: con i beni materiali, con il denaro per la sopravvivenze di ciascun gruppo familiare?

C’è un fondo comune con il denaro per i figli dell’altro coniuge?

Chi decide i luoghi, chi proibisce un’uscita, il condividere (o no) uno spazio della casa?

Come si coinvolge ciascuno nel rapporto con gli altri?

In queste nuove famiglie si generano attivazioni delle paure basiche.

Le paure familiari si intrecciano con le paure sociali.

Angosce confusionali per il fatto di rimanere come “con la testa tra le nuvole” con pochi appoggi di fronte ai cambiamenti, alle modifiche dell’identità.

Paura che possa accadere qualcosa ai figli.

Angosce persecutorie per l’avvento dello sconosciuto di fronte ai cambiamenti nelle forme di organizzazione e funzionamento delle famiglie.

Angosce di perdita degli affetti familiari, mancanza di protezione, impotenza economica, segregazione sociale per il fatto di non avere un’appartenenza familiare tradizionale, o per la ‘macchia’ della separazione.

Paura della sofferenza per le perdite delle organizzazioni conosciute.

Timori di ‘sprecare’ il tempo e lo sforzo che porta a costruire una nuova organizzazione familiare.”

Come tutto questo influisce sui nostri modelli? Non abbiamo risposte predefinite. Come un figlio non biologico, il cui padre vive in un altro nucleo famigliare, può chiamare la figura maschile del nucleo in cui vive, che svolge la funzione paterna rispetto ai figli biologici coabitanti ma non è il suo padre biologico? Come trattare le famiglie allargate? Chi chiamare in psicoterapia?

 

Il nostro lavoro con il Gruppo Multifamigliare

 A questo punto, dopo aver esplicitato per grandi linee il substrato teorico, passiamo ad esaminare la maniera in cui tutto questo si è tradotto in prassi operativa.

 Fase istituente

Da tempo, mesi, sulla lavagna della stanza delle riunioni c’era una lista di progetti attivati e da attivare, fra quelli da attivare un’idea in fieri per cui gli operatori avevano già attinto a corsi formativi e riguardava l’istituzione di un Gruppo di Terapia Multifamigliare.

Nella primavera 2018 la Scuola J. Bleger di Rimini diretta dal Dr. Leonardo Montecchi, ha organizzato un seminario su questo argomento.

Alcuni operatori decidono di partecipare.

Possiamo interpretare questo come un emergente della motivazione dell’intera équipe ad aprire questo percorso di trattamento.

Si è deciso pertanto di organizzare un corso di Formazione che si è svolto in quattro incontri a cadenza mensile, a partire dal mese di settembre 2018, dal titolo: “Processo terapeutico e gruppi multifamiliari. La ricchezza dei transfert multipli”.

Si è anche previsto di dare inizio agli incontri di terapia multifamigliare a partire dal mese di gennaio 2019 e di organizzare un’assemblea degli utenti nel mese di novembre 2018 al fine di presentare il lavoro terapeutico e di ascoltare i vissuti e le idee degli integranti.

Era ottobre e l’équipe intanto individuava, di lì ad un mese, le famiglie a cui proporre tale percorso.

Le stesse, qualora avessero accettato la proposta, venivano invitate all’assemblea.

Sono stati individuati 18 nuclei famigliari per complessivi 58 potenziali integranti, rispettando il criterio della disomogeneità che favorisce il confronto con la differenza ed il superamento di stereotipi.

Erano comprese nell’elenco situazioni di cronicità o utenti presi in carico recentemente, nuclei che avevano appena concluso la fase di valutazione o già in trattamento psicoterapico con interventi individuali, famigliari, di gruppo, casi di doppia diagnosi, famiglie di diverso ceto sociale e culturale.

Fra quelle che non hanno aderito (12 famiglie) in due di esse i figli sono entrati in Comunità terapeutica, nelle altre, uno è deceduto, uno ha abbandonato il programma, per una coppia il motivo è stato la nascita di una bambina, per un totale di 5 nuclei.

Hanno invece deciso di partecipare 6 famiglie (14 integranti), di cui 3 (8 integranti) costantemente presenti per tutta la durata del percorso

Il Gruppo Multifamigliare che si è costituito era formato da: una famiglia, padre madre e figlio, i cui genitori sono separati da anni, tre famiglie composte da madre e figli il cui padre è deceduto, una coppia di fratelli (la madre si presenterà un’unica volta) che lascerà presto il gruppo, una coppia di fratelli che entra dopo la pausa estiva.

Da subito si nota la mancanza dei padri.

Inquadramento

Si è stabilito che il gruppo avrebbe avuto inizio a gennaio con durata annuale ed interruzione nei mesi estivi (luglio e agosto) e nelle feste pasquali e natalizie. Le sedute si sarebbero svolte a cadenza quindicinale, il giovedì dalle 15 alle 16,30.

Lo spazio individuato è la stanza più grande del servizio dove si effettuano le riunioni di équipe degli operatori ed i gruppi di psicoterapia rivolti agli utenti ed ai famigliari.

Il compito del gruppo, enunciato dai coordinatori era “parlate di come stare meglio e di qualsiasi cosa volete” Abbiamo scelto un compito dove già fosse contenuta un’idea di cambiamento che, nel nostro pensiero, significa superamento degli stereotipi, delle resistenze, per desiderare e creare progetti nuovi che scaturiscano dall’Ecro gruppale (citando Pichon-Rivière: “il compito deve essere centrato su come raggiungere una maggiore salute mentale in una comunità specifica situata nel tempo e nello spazio […] ciò che si vuole ottenere è un adattamento attivo alla realtà dove il soggetto, nella misura in cui cambia, cambia la società che, a sua volta agisce su di lui, in un intergioco dialettico a forma di spirale, dove, nella misura in cui si rialimenta ad ogni passaggio, rialimenta anche la società a cui appartiene.” (Enrique Pichon-Rivière, “Il processo gruppale”)

Il ruolo di coordinazione viene svolto da una Psicologa di ruolo e una Psicologa a contratto; il ruolo di osservazione da un’Infermiera di ruolo e uno Psicologo a contratto.

I coordinatori segnalano ed interpretano gli ostacoli affettivi e cognitivi che il gruppo trova nel lavoro sul compito e gli osservatori annotano ciò che avviene nel processo gruppale, una di essi legge gli emergenti a venti minuti dalla fine.

Il coordinatore non conduce il gruppo, l’organizzazione della comunicazione non è stellare e centripeta, il depositario del sapere è il gruppo stesso con le sue differenze.

Al termine di ogni seduta gli operatori hanno deciso di riunirsi per discutere sulle relazioni gruppali e sul loro controtransfert.

Considerazioni

L’individuazione dei ruoli di Coordinatore ed Osservatore (discussa sia nella riunione di équipe che in un sottogruppo di lavoro appositamente costituito) appare caratterizzata da complessità istituzionali aventi valenza di istituente rispetto all’istituzione sanitaria.  L’Istituzione è organizzata secondo un modello verticale-gerarchico, il rapporto di lavoro regolamentato attraverso contrattazioni che distinguono il ruolo sanitario medico, il ruolo sanitario non medico, il comparto. Ma anche a livello orizzontale operatori aventi la stessa qualifica sono distinti in personale di ruolo e personale con contratto libero professionale e rapporto di lavoro a termine, con diverso trattamento economico.

A fronte di ciò il personale impegnato nel Servizio, indipendentemente dalla qualifica e dal contratto lavorativo, è, per la maggior parte, formato secondo il modello della Concezione Operativa. Ciò prevede che, all’interno dei gruppi operativi terapeutici, le stesse funzioni possano essere svolte indipendentemente dalla qualifica professionale.

Ciò che l’Istituzione separa, il modello della Concezione Operativa sovverte e riunifica, riconoscendo un valore professionale a prescindere dal ruolo istituzionale e dall’aspetto economico, ma tale ambivalenza passa anche nel corpo dell’équipe e degli operatori stessi, nell’utopia, che trova ostacoli nel modello socio-economico corrente, che al valore lavoro corrisponda anche un valore di riconoscimento culturale, professionale ed economico.

 

Presentazione del lavoro

 Metodologia

 Si utilizza la Concezione Operativa come strumento di analisi del processo gruppale seguendo i vettori di Pichon Riviere: appartenenza, pertinenza, affiliazione, cooperazione, telé, comunicazione.

Si analizzano la prima seduta, la seduta centrale e quella finale, ciascuna in base agli emergenti iniziale intermedio e gruppale.

Prima seduta (10 gennaio 2019)

Come ad ogni “prima” si respira tra tutti gli operatori del Servizio un clima frammisto di ansia e eccitazione per la nuova istituzione dei Gruppi di Terapia Multifamigliare.

Si decide di dare avvio al gruppo con le note di una canzone che recita:

tutto quello che mi serve adesso è ritrovarmi con me stesso perché spesso con me stesso ritrovarmi non mi va. Certo non si può restare tutto il giorno a disegnare una casetta con il sole quando il sole se ne va…non sarò mai abbastanza cinico da smettere di credere che il mondo possa essere migliore di com’è. Ma non sarò neanche tanto stupido da credere che il mondo possa crescere se non parto da me…” (Brunori Sas- Costume da torero)

Qualcuno arriva in ritardo segnalando la difficoltà ad entrare nel compito.

Siamo nella fase di pre-compito, caratterizzata dall’assenza di discriminazione e da emozioni, pensieri che si frappongono al cambiamento (paure di base di perdita e attacco, paura del cambiamento, insicurezza, fantasie di base di malattia, trattamento, cura)

Ogni integrante arriva portando il proprio schema di riferimento, il proprio gruppo interno costruito a partire dalla situazione triangolare di base. Dice E. Pichon-Rivière: “Lo schema di riferimento è l’insieme di conoscenza, di attitudini che ciascuno di noi ha nella sua mente e con le quali lavora in relazione con il mondo e con se stesso” (Applicazioni della Psicoterapia di gruppo, 1957, e in Tecnica dei gruppi operativi, 1960). Partiamo dalla base della “preesistenza in ciascuno di noi di uno schema di riferimento (insieme di esperienze, conoscenze e affetti con i quali l’individuo pensa e agisce)”. Questo schema di riferimento è ciò che permette al soggetto di possedere modelli di sensibilità, modi di pensare, sentire e fare nel mondo e che segnano il suo corpo in una certa maniera. È la sua tendenza alla ripetizione che offrirà resistenza al nuovo, agli stimoli (idee o esperienze) che tendono a destrutturarlo.

Pichon-Rivière sostiene che così come abbiamo necessità di uno schema di riferimento, un sistema di idee che guidi la nostra azione nel mondo, abbiamo necessità che questo sistema di idee, questo apparato per pensare, operi anche come un sistema aperto che permetta la sua modificazione.

Viene enunciato il compito: “parlate di come stare meglio e di qualsiasi cosa volete

Il processo gruppale inizia toccando da subito il tema della risoluzione della simbiosi nella relazione tra genitori e figli, ma ciò che è contenuto nel primo emergenteIo sto meglio da quando ho smesso di identificarmi con la sofferenza di mio figlio” viene presto contraddetto da quanto affermato da un altro integrante: “mia madre è un caposaldo del mio benessere” affermazione che evidenzia come il rapporto di dipendenza ed indiscriminazione sia lungi dall’essere risolto. La separazione, l’individuazione sembrano essere solo auspicate, desiderate. L’emergente sta ad indicare che il gruppo, appena costituitosi, vive una fase di indiscriminazione ed ambivalenza di cui non è consapevole.

Dopo circa mezz’ora entrano 2 integranti: madre e figlia. Il ritardo rappresenta simbolicamente la difficoltà ad entrare nel compito, la resistenza caratteristica in particolare di questa fase di pre-compito.

Nella fase centrale il gruppo sembra riconoscere un bisogno di aiuto, sembra sentirsi la necessità di essere sostenuti dall’istituzione che cura e dal gruppo stesso, come si evidenzia nel secondo emergente: “Ho bisogno di parlare con qualcuno che mi possa supportare…Ma per poter dare concretezza a questo intento occorrerà creare dei vincoli che costituiranno la base del confronto e della possibilità di cambiamento.

Una coppia di fratelli esce mezz’ora prima del termine.

La cornice del setting, con una durata definita, ci permette di interpretare questo comportamento come una resistenza del gruppo a stare nel hic et nunc e nella relazione con gli altri. Sembra manifestarsi un desiderio di fuggire da una possibile ansia persecutoria e dolorosa provocata dalla sensazione di dover cambiare il proprio schema di riferimento sul quale si è costruita la propria vita, cucendo assieme idee e sentimenti giorno dopo giorno.

Un integrante, identificatosi nella coppia di fratelli, paragonandoli ai suoi figli non altrettanto uniti, esprime il dispiacere per la loro uscita dal gruppo ed in questo modo, forse, ribadisce la motivazione al compito ed un primo desiderio di appartenenza. Vediamo, già da queste prime note, come ogni movimento del gruppo sia connotato da ambivalenza.

La prima seduta si conclude con la constatazione dell’esistenza di un legame di dipendenza nel rapporto genitori-figli di cui il figlio, con il sintomo della tossicodipendenza, si fa portavoce. Una madre annuncia: “Non sono sufficientemente forte per lasciarlo andare (nei giardini di notte) da solo” Questa frase viene restituita al gruppo come terzo emergente del processo gruppale: così come non è differenziato il vincolo tra genitori e figli, anche il gruppo sta attraversando una fase di indiscriminazione e ambivalenza.

Seconda seduta 21 marzo 2019

 Sono trascorsi tre mesi dal primo incontro, il gruppo ha cominciato a sviluppare sentimenti di appartenenza, gli integranti si attendono ogni volta, provano la gioia, la rassicurazione di ritrovarsi, si sono cominciati a creare dei vincoli, ma in questa seduta mancano tre famiglie. L’assenza, indice della resistenza e dell’ambivalenza presente anche nel desiderio di appartenere, provoca sentimenti di rabbia e perdita non sempre chiaramente manifestati. I presenti si chiedono il perché dell’assenza degli altri, ricercano una giustificazione per tale comportamento che suscita sentimenti abbandonici e di rabbia.

Il primo emergente dà significato a questo passaggio del processo gruppale: “mancano persone: ci sono motivi?

I presenti ribadiscono di sentire l’importanza di esserci e la verbalizzano:

 “io sto vedendo che cambiamo come persone singole, affrontiamo i problemi in modo diverso. Poi se si vogliono risultati diversi bisogna agire in modo diverso. Avevo altre cose da fare però ho scelto di venire qua […]”

Forse il vissuto di abbandono evoca i fantasma della “madre cattiva” e qualcuno afferma   “io porto via solo le parti positive” frase che viene letta come secondo emergente gruppale.

Questo emergente segnala il meccanismo di scissione che sembra caratterizzare in questa fase il processo gruppale. Citando Pichon-Rivière: “il soggetto agisce in due direzioni: verso la gratificazione (costituendosi così il legame buono) e verso la frustrazione (stabilendo il legame cattivo). E’ così che sorge la struttura divalente nel sistema del legame con oggetti parziali o, più chiaramente detto, con una scissione dell’oggetto totale in due oggetti parziali, uno di essi vissuto con una valenza totalmente positiva, dal quale il soggetto si sente totalmente amato e che ama; l’altro oggetto è segnato da una valenza negativa: il soggetto si sente totalmente odiato; legame negativo del quale bisogna disfarsi o che bisogna controllare o negare o proiettare su qualcun altro.”

Iniziando a riconoscere degli oggetti, seppur parziali il gruppo comincia a muoversi dalla indifferenziazione alla discriminazione.

Il processo infatti, sta direzionandosi verso una maggiore differenziazione dei ruoli e dei confini come è testimoniato dalla seguente affermazione di un figlio “Noi non avevamo messo dei paletti tra di noi, adesso invece ce li siamo posti questi paletti”

Ma tali ruoli sembrano ancora incerti e da definire. Un padre afferma  “fino a 50 anni fa il padre era vicino alle parole autorità, rispetto e potere, oggi sono parole smarrite, la distanza padre figlio era epocale, come se quella persona fosse del secolo precedente, quando sono diventato padre ho notato che le distanze si erano accorciate, la distanza di generazione, tra me e i miei figli c’è stata possibilità di dialogo, la distanza si è accorciata, la comunicazione è stata possibile.

Per fortuna il ruolo del padre è svanito!”

Qualcuno aggiunge: Non è svanito è cambiato

L’emergente finale di questa seduta viene identificato nella frase “il ruolo del padre è svanito”

La famiglia è cambiata e non ci sono nuovi modelli.

Il gruppo sta cominciando a pensare ed a vivere il cambiamento, ma permane l’ambivalenza e la scissione di parti che vengono proiettate nell’altro, non si è sviluppato ancora un ecro condiviso.

Terza seduta: 27 giugno 2019

 E’ l’ultima seduta prima delle vacanze estive.

Il processo gruppale continua, seppur con molte ambivalenze, spinte in avanti e ritorni indietro, a indirizzarsi verso una maggiore discriminazione ed esplicitazione dei contenuti latenti.

Sembra che il gruppo, attraverso le parole di un integrante, lavorando intorno al compito (“parlate di come stare meglio e di qualsiasi cosa volete“) possa affermare di essere passato ad una condizione di maggior benessere che viene enunciata nell’emergente iniziale:

“voglio stare esattamente come sto in questi giorni, penso di aver vinto una piccola battaglia, ogni volta che dava di matto (si riferisce alla madre) mi sgonfiavo: eravamo un palloncino, adesso siamo due palloncini”

L’immagine del palloncino, evocativa dell’utero, si scinde: dall’uno onnipotente e simbiotico, si crea l’altro, ancora uguale, ma separato. L’immagine appare leggera e volatile come un processo appena cominciato.

Infatti la separazione e la relativa individuazione sembra difficoltosa da realizzare e avvalersi della conflittualità per potersi concretizzare:

Il figlio continua: “Dopo la litigata sono continuato a stare bene. Non mi ha tirato giù. Ha un problema e lo deve risolvere (rabbia)

Avere la crisi e io che continuo a stare bene, lei non lo ha mai vissuto. Siamo due palloncini, io e lei, e lei il suo lo deve ritirare su.”

E’ la madre che “si sgonfia” perde l’immagine di sempre, mostra la sua fragilità.

La madre annuncia che ha iniziato un percorso terapeutico individuale.

Circola un’ansia depressiva, dovuta alla perdita dei vecchi ruoli, alla separazione, allo scioglimento del vincolo simbiotico ed accentuata anche dal fatto che è l’ultimo gruppo prima dell’interruzione estiva

Un padre, colui che per ruolo è deputato allo scioglimento della simbiosi tra madre e figlio, sottolinea la sofferenza dovuta alla perdita del ruolo affermando: Molte donne alla fine della carriera domestica a 50 anni si sono sentite completamente sole e sono entrate in depressione… La madre dovrebbe diventare inutile per permettere i figli di andarsene

I genitori iniziano ad essere consapevoli che la dipendenza, insita nel legame simbiotico e diventata tossica per il suo prolungarsi, è legata alla fragilità ed al bisogno di appoggio del genitore oltre che alle difficoltà del figlio.

Un’integrante svela il proprio bisogno di dipendenza dal figlio e se ne riappropria riconoscendolo come parte di , questo vissuto si incrocia con il processo gruppale in cui gli stereotipi sulla tossicodipendenza iniziano ad essere abbattuti e costituisce il secondo emergentela responsabilità mi annebbia il cervello e mi esce fuori quell’aggressività che è in me, mio figlio mi aiuta a superare i momenti difficili nel lavoro”.

Emerge anche, come esplicitato nel terzo emergente, che la storia che porta alla tossicodipendenza dei figli nasce da lontano:

prima di essere stati genitori siamo stati un uomo e una donna e abbiamo fatto errori”

Di questo si può parlare con gli altri integranti e la comunicazione nel gruppo diviene intergenerazionale come il seguente dialogo tra una madre, che parla del suo ex marito, ed il figlio.

Madre: Noi ci siamo conosciuti che già litigavamo e siamo stati in conflitto fino all’ultimo. Lui soffriva di dipendenza e anche io, ero senza criteri, non avevo chiaro…

Figlio: Sono stati separati ma mio padre ha vissuto sempre con noi…

Due figli dei fiori erano!

Madre: Sì, nell’Urbino degli anni ’70, nel marasma dell’università.

Se lo rincontrassi adesso gli direi “Che abbiamo combinato?”

Purtroppo non si può tornare indietro!

Io forse da ragazza trascuravo più lui (il figlio) per le mie problematiche e quello che non ho fatto ho cercato di recuperarlo nel tempo.

 

Considerazioni finali

Il gruppo, attraverso la costruzione di vincoli, ha potuto confrontarsi con altre forme di pensiero (ecro), costruite da ciascun integrante a partire dalle prime esperienze infantili, ed affrontare l’ansia depressiva, persecutoria, confusionale derivata dal cambiamento dei propri modelli di riferimento per cominciare a costruire un ecro gruppale. Nella fase di precompito si sono potuti osservare gli elementi istituzionali e sociali che operano come ostacoli e resistenze al cambiamento e nel compito come operano elementi gruppali, immaginativi di cambiamento.

Il percorso ancora in evoluzione (il gruppo avrà termine a dicembre) è stato molto ricco e connotato da passaggi fortemente emotivi dovuti al realizzarsi di transfert multipli e al confronto tra i diversi modelli rappresentanti l’istituzione famiglia nella nostra epoca e l’esperienza di ogni integrante.

L’esperienza è stata molto ricca e coinvolgente anche per gli operatori che, anch’essi, hanno potuto riflettere sui propri schemi di riferimento iniziali e sviluppare un percorso di cambiamento teso a sviluppare un ecro comune.

 

 

Bibliografia

 

Josè Bleger, Il gruppo familiare, in “Psicoigiene e psicologia istituzionale”, La Meridiana, Molfetta (BA), 2011

Enrique Pichon Rivière, “Il processo gruppale – Dalla psicoanalisi alla psicologia sociale”, Editrice Lauretana, Loreto (AN), 1985

Enrique Pichon Rivière, “Applicazioni della Psicoterapia di gruppo”, 1957, in “Il processo gruppale – Dalla psicoanalisi alla psicologia sociale”, Editrice Lauretana, Loreto (AN), 1985

Enrique Pichon Rivière, “Tecnica dei gruppi operativi”, 1960, in “Il processo gruppale – Dalla psicoanalisi alla psicologia sociale”, Editrice Lauretana, Loreto (AN),1985

Leonardo Montecchi, “Varchi”, Pitagora Editrice, Bologna 2006

Jorge Garcia Badaracco; Andrea Narracci, “La psicoanalisi multifamiliare in Italia”, Antigone Edizioni, Torino, 2011

Eduardo Mandelbaum, “Teoria e pratica dei gruppi multifamigliari”, Nicomp, 2017

Camillo Loriedo, “La psicoterapia relazionale”, Astrolabio, Roma, 1978

Lorenzo Sartini, “Enrique Pichon-Rivière”, da www.lorenzosartini.com

Alejandro Scherzer, “Dalla famiglia alla famiglia gruppale”, 2011, da www.lorenzosartini.com

Laura Dominijanni, “I gruppi multifamliari: cosa sono e come funzionano”, 2012, da www.associazioneinverso.it

 

 

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Parata, il pane per colazione in Pakistan (o chapati)

Cooperativa sociale Cento Fiori - Mer, 27/05/2020 - 14:52

Se il Byrani è il simbolo della cucina pakistana, non bisogna dimenticarsi del pane quotidiano, il Chapati. Il chapati viene preparato e cotto in maniera molto simile alla nostra piadina: tanto che le mani dei nostri ragazzi potrebbero competere con quelle di una azdora romagnola! Se sulla teglia si aggiunge burro o olio d’oliva allora il chapati si trasforma in Parata. La parata è la colazione pakistana per eccellenza, sia nella versione dolce, farcita con zucchero o miele, sia salata, normalmente farcita con patate lesse.

Il piatto viene consumato insieme al Chay, ovvero il tè, oppure con il Lassi, lo yogurt fatto in casa. La vera particolarità della parata pakistana, mi dicono, è il burro: quello che si usa a casa viene preparato a mano dalle nonne. Qui usiamo quello industriale, ma è comunque buonissima!

Ingredienti
  • Acqua 150 ml
  • Farina 250 gr
  • (se versione salata aggiungere anche un pizzico di sale)
  • Burro qb

Per il ripieno dolce

  • Zucchero qb

Per ripieno salato

  • Patate lesse
Preparazione

Unire acqua e farina ed impastare fino ad ottenere un composto omogeneo. Quando è pronto, stendere come se si stesse stendendo una piadina. Riscaldare la piastra e imburrarla. Una volta cotta, metterla da parte e cuocerne un’altra allo stesso modo. Cospargerne una di zucchero e sovrapporle.

Per la versione salata, semplicemente sostituire allo zucchero delle patate lesse e mettere nell’impasto un pizzico di sale.

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Weina, karinsape (colazione) in Hausaland

Cooperativa sociale Cento Fiori - Mer, 20/05/2020 - 18:27

La Nigeria è il paese più popoloso del continente africano. “Abia, Adamawa, Akwa Ibon..” inizia l’elenco dei 36 stati da cui il paese è composto, ripetuti in ordine alfabetico con la stessa cantilena con cui a scuola s’imparano a memoria capoluoghi e province. All’interno del paese vi sono più di 500 lingue diverse, ma le più diffuse sono lo Yoruba, l’Igbo e l’Hausa.

La terra della lingua Hausa, ovvero il “Kasar Hausa” o più comunemente “Hausaland, si trova nella regione del Sahel tra il fiume Niger e il lago Chad che corrisponde, oggi, al nord della Nigeria. In questa parte di terra, infatti, la maggioranza delle persone è Hausa, un gruppo che conta più di 30 milioni di persone nell’Africa Occidentale.

Le antiche popolazioni Hausa erano costituite principalmente da agricoltori che avevano una concezione della terra e dei suoi frutti come appartenenti a tutta la comunità. Un proverbio recita: “idan da chi da sha da abin yalwa da lafiya, ibada kan yado” che significa “solo se c’è salute e cibo e acqua sufficiente per tutti, la religione può prosperare”.

Il Weina è un piatto tipico di Kano, stato a nord della Nigeria, dove la colazione è un piatto importante e a volte l’unico di tutta la giornata. Per questo motivo, può essere farcito con alimenti diversi (tonno, carne, verdure) a seconda delle disponibilità e dei gusti di ciascuno.

Il Weina viene fatto nelle nostre strutture le mattine in cui non si lavora perché richiede tempo e cura. E perché non si fa mai per una persona sola: quando si cucina, si cucina perché possa esserci Weina sufficiente per tutti. Poi si mangia insieme ascoltando il cantante Hausa Ali Jita: https://www.youtube.com/watch?v=gGTQBY4tRKA

Ingredienti
  • farina 500 gr
  • uova 3
  • cipolle 1
  • sale un pizzico
  • maggi (dado) mezzo
  • peperoncino a piacere
  • (facoltativo tonno in scatola-verdure-carne macinata)
  • acqua
  • olio di semi
Procedura

Mischiare tutto insieme fino ad ottenere un composto omogeneo e senza grumi, che rimanga abbastanza liquido. La consistenza deve essere quella delle nostre crepe, e anche il metodo di cottura.  Preparare una padella con poco olio di semi, di modo che il composto non si attacchi alla padella. Mettere un mestolo di composto direttamente in padella e dopo qualche minuto girarlo sull’altro lato.

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Vade retro Cassa Integrazione! Con un Fondo Solidarietà ferie – banca ore, Cento Fiori ha affrontato la sospensione del lavoro in chiave cooperativistica.

Cooperativa sociale Cento Fiori - Mer, 13/05/2020 - 13:18
Giovanni Benaglia, direttore: «la Cig rappresentava un taglio anche del 40% dello stipendio». Massiccia la risposta: in meno di 24 ore un terzo dei 70 dipendenti ha donato dalle 5 alle 20 ore. Il fondo ha liberato risorse economiche per i lavoratori di altre aziende.

Rimini – Cassa integrazione? Fondamentale in questo periodo di lockdown, ma alla Cooperativa Sociale Cento Fiori hanno preferito scegliere una strada – come dire… – più cooperativistica: un Fondo Solidarietà ferie – banca ore. «Al blocco di alcuni dei nostri settori produttivi e servizi alle persone, che hanno costretto alcuni dei nostri dipendenti a sospendere il loro lavoro e ricorrere alle ferie, abbiamo cercato di dare una risposta in chiave solidale, piuttosto che ricorrere alla Cig – spiega il direttore della Cooperativa Sociale Cento Fiori Giovanni Benaglia – Abbiamo istituito il Fondo al quale stanno attingendo i nostri colleghi che hanno consumato le loro ferie. E devo dire che la solidarietà è stata davvero elevata».

La Cooperativa Sociale Cento Fiori è nata nel 1981 a Rimini, con l’obbiettivo di sostenere il percorso riabilitativo delle persone dipendenti da sostanze. Nel 1983 ha fondato la Comunità terapeutica di Vallecchio di Montescudo, nella provincia di Rimini, alla quale si sono aggiunti due Centri Osservazione e Diagnosi, uno a Vallecchio e uno ad Argenta, un Centro Diurno a Rimini e tre gruppi appartamento. Accanto alle strutture terapeutiche, sono nate delle attività economiche che impiegano sia le persone in terapia sia persone diversamente abili: la Serra Cento Fiori, la tipografia digitale Rimini Stampa, il lago di pesca sportiva Arcobaleno, la Scuderia Cento Fiori. Mentre 10 anni fa l’esperienza maturata nell’accoglienza delle persone è stata dedicata anche ai richiedenti asilo. Circa 70 persone impiegate in azienda, per un fatturato di quasi 4 milioni di euro all’anno. «Ma alcuni di questi servizi e attività sono rimasti chiusi per il lockdown. Da qui la necessità di intervenire a sostegno dei lavoratori coinvolti in questa crisi economico – sanitaria», dice Giovanni Benaglia.

«Siamo partiti dalla constatazione che il ricorso alla cassa integrazione rappresentava un cospicuo taglio allo stipendio dei nostri colleghi, anche del 40%. Non è poco. E di questi tempi sarebbe stato un ulteriore aggravio delle difficoltà e dei rischi che tutti conosciamo e stiamo affrontando. Abbiamo quindi proposto il Fondo di solidarietà banca ore / ferie». Dal lancio della proposta in meno di 24 ore circa un terzo dei dipendenti ha aderito. «Avevamo proposto la donazione di cinque ore a persona – dice Giovanni Benaglia – ma i colleghi che avevano disponibilità in banca ore o in ferie hanno raddoppiato, triplicato, qualcuno ha donato persino 20 ore. E non si sono fermati lì. Man mano che il blocco delle attività procedeva, altri dipendenti hanno aggiunto le loro ore per aiutare i colleghi che avevano esaurito le loro ferie».

«Il risultato è che non ci sono stati ritardi nell’erogazione degli stipendi e si è alleggerito il clima di preoccupazione che questa situazione ha inevitabilmente comportato per i lavoratori coinvolti nel blocco. Ma c’è un altro aspetto che i nostri soci e i lavoratori hanno colto – dice il direttore, Giovanni Benaglia – Si è trattato di un atto concreto di solidarietà tra soci e lavoratori ma che travalica non solo i singoli settori lavorativi della Cooperativa Sociale Cento Fiori, ma la nostra stessa azienda. L’aver evitato la cassa integrazione per – pochi? Molti dipendenti? non ha importanza – ha liberato risorse economiche che possono essere utilizzate dai lavoratori di altre aziende. Insomma, un gesto di solidarietà del quale i nostri colleghi possono essere orgogliosi».

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“Adolescenti e Migranti 2019/2020 – Musica, Poesia di resistenza e Azione” a cura di Cinzia Carnevali

Cooperativa sociale Cento Fiori - Mar, 12/05/2020 - 12:46

Il progetto “Adolescenti e Migranti 2019/2020- Musica, Poesia di resistenza e Azione” a cura di Cinzia Carnevali, ha costruito un’esperienza di integrazione ed arricchimento per adolescenti e richiedenti asilo attraverso laboratori di poesia e musica, quest’anno utilizzando una delle forme artistiche di resistenza alla disgregazione del sistema sociale: il rap- con la collaborazione di Lorenzo Cappadone KD One.

Promosso da Società Psicoanalitica Italiana SPI, Società Italiana di Psicodramma Analitico S.I.Ps.A e C.O.I.R.A.G, Associazione Arcobaleno e la collaborazione di Associazione Margaret, Istituto Scienze dell’Uomo-progetto Interazioni, Cooperative Sociali CAD e Cento Fiori e le Scuole Superiori: Liceo “Cesare-Valgimigli”, IPSCT “Luigi Einaudi” di Rimini e Liceo Scientifico -Artistico “Volta-Fellini” di Riccione.

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Chicken byrani (pollo, riso e spezie)

Cooperativa sociale Cento Fiori - Mar, 05/05/2020 - 13:13

Ittehad, Iman, Tanzeem, Unità, Fede e Disciplina. E’ con queste tre parole che il Pakistan, con una popolazione di più di 233 milioni di persone, si presenta al mondo. Il suo territorio è considerato culla della civiltà e queste ricchezza di tradizioni si riscontra sicuramente anche in cucina. In famiglia sono le donne a cucinare mentre il cibo dei mercati e dei ristoranti è preparato principalmente da uomini. Nelle telefonate a casa però F. (uno dei richiedenti asilo ospitati dalla Cento Fiori) ha capito che il COVID-19 ha cambiato anche ciò che era ordinario in famiglia: “In questo momento di emergenza, in cui tutti sono a casa, anche gli uomini fanno da mangiare, non c’è più differenza!”. Il piatto simbolo del Pakistan è il Byrani, piatto originario della cucina persiana. Viene preparato in occasione di feste e cerimonie, ma anche comunemente venduto nei mercati come piatto da portare via. Con la parola byrani si intendono diverse preparazioni (pollo, gamberi, verdure) a base di riso e spezie.

Ingredienti
  • 1 kg di riso basmati
  • 1 kg di pollo
  • 50 grammi di zenzero
  • 2 spicchi di aglio
  • 500 grammi di pomodori maturi
  • 250 grammi di yogurt intero
  • 1/2 tazza di olio extravergine di olive
  • 2 cipolle
  • 5 buste di mix di spezie Biryani
  • 1 bustina di zafferano
  • semi di cumino a piacere
Preparazione

Tagliare il pollo, privarlo della pelle e lavarlo bene. Affettare le cipolle e tagliarle a tocchetti, fare la stessa cosa con i pomodori, lo zenzero e l’aglio

In una padella grande mettere l’olio a scaldare, aggiungere le cipolle e farle appassire, aggiungere il sale, l’aglio e lo zenzero. Far cuocere per qualche minuto e poi aggiungere il pollo e girare bene con un cucchiaio di legno. Far cuocere bene il pollo a fiamma bassa e senza coperchio per almeno 20 minuti.

Aggiungere i pomodori, aumentare la fiamma e far cuocere ancora per venti minuti.

Aggiungere le bustine di Biryani, quindi lo yogurt e mescolare bene. Aggiungere quindi il cumino. Aggiungere al pollo il succo di mezzo limone, amalgamare bene tutti gli ingredienti e spegnere il fuoco.

Mentre il pollo cuoce mettere a bollire una pentola di acqua. Versare il riso in un recipiente, lavarlo bene e lasciarlo riposare immerso nell’acqua per 10 minuti. Quando l’acqua bolle aggiungere il sale e un paio di cucchiai di olio, scolare il riso e buttarlo nell’acqua bollente. Cuocere per 10 minuti, scolare e lasciare da parte.

Mettere sul fuoco a scaldare una pentola grande. Cospargere il fondo con un po’ di brodo di cottura del pollo. Prendere il riso e metterlo nella pentola formando un primo strato. Aggiungere un po’ di pollo sopra il riso, creando un secondo strato e ripetere l’operazione fino a terminare il pollo e il riso. Chiudere con uno strato di riso.

In un 1/2 bicchiere di acqua sciogliere lo zafferano e bagnare l’ultimo strato di riso. Avvolgere il coperchio della pentola con degli stracci, in modo da non far uscire il vapore dalla pentola e coprire. Cuocere così per 10 minuti. A cottura ultimata aprire la pentola e mescolare il pollo con il riso. Servire ben caldo.

Il piatto può essere accompagnato con verdure (cipolla, cetrioli, pomodori) crude tagliate a fette e yogurt, mischiato con menta, sale e pepe.

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I richiedenti asilo di Riccione regalano due tablet per i pazienti dei reparti covid: «Conosciamo il dolore e l’angoscia che si prova quando sei costretto a stare lontano dalla tua famiglia».

Cooperativa sociale Cento Fiori - Mar, 28/04/2020 - 14:09
Trentotto ospiti dei Centri di Accoglienza Straordinaria gestiti dalla Cooperativa Sociale Cento Fiori avviano a marzo una colletta. La consegna ai sanitari dell’ospedale Infermi di Rimini. Nella lettera scrivono: «ci ha aiutati un telefono per chiamare casa e vedere le mamme, i figli, poter dire che eravamo ancora vivi».

«Siamo migranti, veniamo tutti da paesi diversi, ma siamo anche uomini e ci hanno insegnato che nelle difficoltà non bisogna aver paura di chiedere aiuto; quando però stai bene, tocca a te aiutare. […] Conosciamo bene il dolore e l’angoscia che si prova quando sei costretto a stare lontano dalla tua famiglia. Quello che a noi ci ha aiutati è stato un telefono con cui poter chiamare casa e così vedere gli occhi delle nostre mamme, i visi dei nostri figli, poter dire loro che stavamo bene e che eravamo ancora vivi. Per questo abbiamo pensato a questi tablet».

Sono alcuni passaggi della lettera che i richiedenti asilo residenti nelle strutture di Riccione gestite dalla Cooperativa Sociale Cento Fiori hanno consegnato «ai lavoratori e lavoratrici dell’Ospedale Infermi», infermieri e medici dei reparti Covid – 19, insieme a due tablet, donati «con la speranza che possano aiutare le persone lontane ad incontrarsi e a portare così un sollievo, seppur piccolo, ai cuori delle persone di cui vi prendete cura e anche ai vostri». Tablet che sono state consegnati nelle mani della dottoressa Raffaella De Giovanni e di una infermiera dei reparti Covid di Rimini da Omar D. e da Marena D., in rappresentanza dei 38 compagni.

Scoppiata l’emergenza gli ospiti delle strutture di via Piemonte e di via Puglia a Riccione, 19 per ciascuna struttura provenienti da Senegal, Costa d’Avorio, Nigeria, Mali, Gambia, Pakistan, Ghana, Bangladesh, hanno deciso di dare una mano. Una volta acquistati i tablet, dotati sia di collegamento wireless sia predisposti per una sim così da essere utili in ogni frangente, la consegna: appuntamento all’ospedale Infermi. La colletta infatti era partita all’inizio di marzo, quando anche a Riccione c’erano malati Covid, reparto poi per fortuna chiuso con l’attenuarsi del contagio. Ai sanitari che li hanno accolti i ragazzi hanno consegnato, a nome di tutti, una lettera. Lettera che i sanitari hanno letto e, non senza trattenere dei moti di emozione, e che il lettore potrà leggere integralmente.

Cari lavoratori e lavoratrici dell’Ospedale Infermi,

Siamo un gruppo di ragazzi delle strutture di accoglienza CAS di Riccione della Cooperativa sociale Cento Fiori. Siamo migranti, veniamo tutti da paesi diversi, ma siamo anche uomini e ci hanno insegnato che nelle difficoltà non bisogna aver paura di chiedere aiuto; quando però stai bene, tocca a te aiutare.

Siamo arrivati qui dopo viaggi difficili, molti di noi hanno attraversato il mare: sappiamo cosa significhi morire da soli, senza più riuscire a respirare. Abbiamo visto tanti amici andarsene così. Noi siamo i fortunati. L’Italia è il paese che ci ha salvati e che ci ha accolti quando avevamo bisogno di aiuto. Riccione è la nostra casa. Per questo, quando abbiamo sentito e visto cosa stava succedendo in Italia, nel nostro paese, ci siamo seduti in cerchio e abbiamo discusso su quello che potevamo fare. Perché se c’è un problema ci si aiuta, ognuno con quello che può. Gli esseri umani funzionano così.

Nessuno qui è medico, non ci sono infermieri tra di noi, ma conosciamo bene il dolore e l’angoscia che si prova quando sei costretto a stare lontano dalla tua famiglia. Quello che a noi ci ha aiutati è stato un telefono con cui poter chiamare casa e così vedere gli occhi delle nostre mamme, i visi dei nostri figli, poter dire loro che stavamo bene e che eravamo ancora vivi.

Per questo abbiamo pensato a questi tablet, con la speranza che possano aiutare le persone lontane ad incontrarsi e a portare così un sollievo, seppur piccolo, ai cuori delle persone di cui vi prendete cura.. e anche ai vostri.

Ogni mattina quando ci svegliamo preghiamo che questa malattia non ci sia più. Ma sappiamo che per questo abbiamo bisogno di persone che la combattano in prima linea, e queste persone siete voi. Quindi, ogni mattina quando ci svegliamo preghiamo e continueremo a pregare per ognuno di voi e per le persone che state aiutando.

Con tutta la nostra stima e gratitudine,

I ragazzi dei Centri di Accoglienza Straordinaria di via Piemonte e Via Puglia gestiti dalla Cooperativa sociale Cento Fiori

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Servizi ed esperienze per la popolazione nel tempo del Covid 19: nasce ligaza.eu dall’educatrice Cento Fiori Federica Soglia e dal guineano Gando Diallo

Cooperativa sociale Cento Fiori - Ven, 24/04/2020 - 16:37
Informazioni su associazioni, iniziative e contatti sul territorio utili a anziani, stranieri, consegna a domicilio, sostegno psicologico, cultura, esercizio fisico, bambini e famiglie, organizzate per pagine. Sotto l’egida del progetto Sprar – Siproimi dell’Unione dei comuni della Valmarecchia con strutture gestite dalle Cooperative Sociali Cento Fiori e Il Millepiedi a Santarcangelo e Verucchio.

«Servizi attivi per affrontare al meglio questo periodo di difficoltà», perché «Nessuno si salva da solo»: un titolo e un sottotitolo del sito http://ligaza.eu che nella loro semplicità la dicono invece lunga sull’importante aiuto che possono dare. L’emergenza Covid ha impoverito il nostro territorio con lutti e paure, ma lo ha anche arricchito di servizi ed esperienze per la popolazione. Servizi ed esperienze non sempre facili da conoscere a causa della sovraesposizione mediatica alla quale tutti sono sottoposti, tra social, siti, tv, giornali e passaparola. Per questo Federica Soglia e Gando Diallo, la prima educatrice della Cooperativa Sociale Cento Fiori il secondo programmatore della Guinea Conakry, ospite di una struttura di accoglienza seguita da Federica, hanno unito le loro capacità. Ed è nato http://ligaza.eu.

Federica ha raccolto le informazioni su associazioni, iniziative e contatti sul territorio utili a varie categorie di fruitori: anziani, stranieri, consegna a domicilio, sostegno psicologico, cultura, esercizio fisico, bambini e famiglie. Gando Diallo le ha organizzate per pagine e messe in Rete creando il sito ligaza.eu. Il tutto sotto l’egida del progetto Sprar – Siproimi (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) dell’Unione dei comuni della Valmarecchia con strutture gestite dalle Cooperative Sociali Cento Fiori e Il Millepiedi a Santarcangelo e Verucchio.

«Nel momento dell’emergenza sono nate tante iniziative per superare insieme questo periodo di difficoltà – spiega Federica Soglia – le informazioni giravano velocissime sui social, sui sistemi di messaggistica, ma non c’era mai uno spazio dove trovarle tutte insieme. E così è nato http://ligaza.eu, il cui nome è un omaggio al dialetto romagnolo e al pranzo comunitario, in particolare alla Festa della solidarietà che si svolge ogni anno in piazza a Santarcangelo».

«È un sito che raccoglie le informazioni e le risorse per affrontare in sicurezza e solidarietà questo periodo di difficoltà, con pagine in continuo aggiornamento. – continua Federica – Nasce dal desiderio di offrire un servizio, e nelle intenzioni non si limiterà all’emergenza covid ma diventerà uno strumento di dialogo fra lo Sprar e i cittadini. L’idea è di creare una cosa utile, condivisibile, con informazioni circostanziate e focalizzate abbastanza per essere facilmente comprese e gestite. Ci piacerebbe che tutto ciò potesse diventare multilingua, ma certamente non è facile, vista anche la situazione di distanza sociale».

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Caakiri (budino di cous cous o di cherreh)

Cooperativa sociale Cento Fiori - Ven, 17/04/2020 - 12:32

Siamo sempre in Gambia e Senegal, e la colazione è spesso presa al volo, venduta dai bambini in piccoli sacchetti di plastica, contenenti ognuno una porzione di Caakiri. Viene fatto con lo yogurt fresco. Qui usiamo quello del supermercato, ma è comunque buono!

Ingredienti
  • yogurt bianco magro 0,500 kg
  • zucchero 200 gr
  • cous cous (perché in Italia non si trova facilmente il cherreh) 500 gr
  • acqua bollente
Procedura

Mischiare tutto insieme e servire una volta raffreddato. In caso si avesse cherreh non è necessaria l’acqua bollente.

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Begne’ (pancake): Dasamo (colazione) in Gambia

Cooperativa sociale Cento Fiori - Mer, 15/04/2020 - 16:05

Alla parola pancake la maggior parte penserà di trovarsi in una cucina di una tipica famiglia americana, la domenica mattina. E invece siamo in uno dei paesi più piccoli dell’Africa, la Gambia. Ai lati delle strade, sedute sotto l’ombra degli alberi di mango, le donne la mattina preparano la colazione. E’ dalle donne che abbiamo imparato, dalle nostre mamme, dalle nostre sorelle. E questo è ciò che abbiamo imparato:

Ingredienti
  • farina 1kg
  • uova 2
  • zucchero 200 gr
  • sale un pizzico
  • acqua qb
  • olio di semi per la frittura
Procedura

Mischiare tutto insieme fino ad ottenere un composto omogeneo e senza grumi. Preparare una padella con olio di semi. Prepara delle palline e, a olio caldo, metterle in padella fino a quando acquisiranno un colore dorato.

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DECRETO CURA ITALIA E CREDITO DI IMPOSTA SULL'AFFITTO: L’AGENZIA DELLE ENTRATE SI INVENTA PURE LE NORME SULLA SUA APPLICAZIONE.

Con la circolare 8/e del 03 aprile 2020 apprendiamo che i documenti di prassi dell’Agenzia delle Entrate assumono carattere di Fonte primaria del diritto, al pari delle leggi del Parlamento. La svolta sul piano giuridico la si ha con l’interpretazione sul credito di imposta per le locazioni previste dall’art. 65 del Decreto Legge 17 marzo 2020 n. 18, il cosidetto "Decreto Cura Italia". FONTI PRIMARIE DEL DIRITTO Andiamo con ordine, però, e rinfreschiamo la memoria su quali sono le Fonti del diritto, nozione che si apprende durante la prima lezione di diritto del primo anno dell’Istituto Tecnico Commerciale. Le fonti sono quattro: Fonti Costituzionali, Fonti Primarie, Fonti Secondarie e Fonti terziarie. Le Fonti Costituzionali, come dice il nome stesso, sono costituite dalla Costituzione e dalle leggi costituzionali, e dagli statuti regionali delle Regione a Statuto Speciale. Le fonti primarie sono quelle emanate dagli organi costituzionali che hanno funzione legislativa: leggi del Parlamento, leggi regionali, decreti legge e legislativi. Le Fonti secondarie sono le sentenze degli organi giurisdizionali, tipo quelle della Cassazione. Infine le Fonti terziarie sono gli usi e le consuetudini locali. Hanno un ordine gerarchico, cioè quella che sta sotto non può annullare quella che sta sopra. Quindi, una sentenza della Cassazione, per quanto autorevole, non può modificare il senso di una Legge emanata dal Parlamento. Quest’ultima non può modificare la Costituzione italiana o essere in contrasto con questa. E così via via per tutte le altre.  Le circolari dell’Agenzia delle Entrate, a questo punto, dove stanno? Senza essere fini giuristi, sulla base di quanto detto, dovrebbero essere considerate fonti terziarie, cioè al pari degli usi e delle consuetudini. Vero è che se dessimo retta ai funzionari dell’Agenzia delle Entrate le loro circolari sono almeno da considerare quali Fonti Primarie, al pari della Leggi del Parlamento, ma sospetto che in alcuni casi qualcuno le ritenga pure Fonti di rango costituzionale, soprattutto quando si prendono la briga di modificare il principio di presunzione di innocenza, vedi gli accertamenti sulla ristretta base sociale. Altra storia, però, che esula da quanto stiamo dicendo.   CREDITO DI IMPOSTA SUGLI AFFITTI DI BOTTEGHE E NEGOZI Fatto questo breve ripasso, riprendiamo da dove siamo partiti e cioè l’art. 65 del Decreto Legge 17 marzo 2020 n. 18 il quale dice, testualmente, che “al fine di contenere gli effetti negativi derivanti dalle misure di prevenzione e contenimento connesse all'emergenza epidemiologica da  COVID-19,  ai soggetti esercenti attività d'impresa è riconosciuto, per l'anno 2020, un credito d'imposta nella misura del 60 per cento dell'ammontare del canone di locazione, relativo al mese di marzo 2020, di immobili rientranti nella categoria catastale C/1”. Francamente devo ammettere che, in tutti questi anni di frequentazione delle norme tributarie, e non solo di quelle, quello appena citato mi pare un testo abbastanza chiaro. Ma nel mio campo c’è sempre qualcuno che, anche di fronte alle cose chiare, pratica l’arte del dubbio, come novello San Tommaso, senza prenderle per come sono scritte e incomincia a fare domande inutili. Tipo: “ma posso avere il credito di imposta anche nel caso di affitto di un capannone?”. No, non si può, perché c’è scritto “immobile rientrante nella categoria catastale C/1”, altrimenti ci sarebbe stata una dicitura più ampia, come ad esempio “immobili commerciali”. Oppure anche: “ho diritto al credito di imposta anche in caso di affitto d’azienda?”. Anche qui, ovviamente no, perché si parla di canone di locazione di immobili. Però la più bella di tutte è questa: “se io non ho pagato l’affitto di marzo ho diritto ad avere lo stesso il credito di imposta?”. Queste domande sono riportate anche sulla stampa qualificata, la quale sollecita le risposte con la solenne affermazione “è necessario attendersi chiarimenti da parte dell’Agenzia delle Entrate”. Quindi, se un chiarimento lo sollecitiamo poi qualcuno si sente in diritto di darlo e non è detto che sia a favore del contribuente, anzi spesso succede il contrario. Ciò è avvenuto anche per la questione del credito di imposta per i canoni di locazione di cui si diceva all’inizio. L’Agenzia delle Entrate ha chiarito che il credito di imposta spetta solo per i negozi (categoria catastale C/1) e che questo credito non spetta se non è stato pagato il canone di affitto. La risposta alla domanda che non era da fare è questa: “Ancorché la disposizione si riferisca, genericamente, al 60 per cento dell’ammontare del canone di locazione, la stessa ha la finalità di ristorare il soggetto dal costo sostenuto costituito dal predetto canone, sicché in coerenza con tale finalità il predetto credito maturerà a seguito dell’avvenuto pagamento del canone medesimo”. Quindi la stessa Agenzia ammette che la disposizione è generica e si riferisce al 60% del canone di locazione, però secondo il suo autorevole parere, avendo questa agevolazione la finalità di ristorare il conduttore dal costo sostenuto del canone, il credito spetta se il canone è stato pagato. Peccato che la legge non dice nulla in merito al pagamento e, quindi, se non dice nulla vuol dire proprio questo: non vi è alcun limite rispetto al suo percepimento. Altrimenti lo avrebbe esplicitato chiaramente. Se poi il Fisco vuole dare un’altra interpretazione, lo può fare ma pur sempre di interpretazione si tratta e, per la gerarchia delle Fonti vista prima, non essendo di derivazione nè giurisprudenziale e nemmeno normativa, lascia il tempo che trova. LA CORTE DI CASSAZIONE E L'INTERPRETAZIONE DELLE NORME.  Tra l’altro, questa mania di fornire chiarimenti a leggi che non lo richiedono, ha trovato pure il biasimo della Corte di Cassazione la quale, con sentenza n. 29162 del 12/11/2019, tira le orecchie all’Agenzia delle Entrate dicendo che “nell’ipotesi in cui l’interpretazione letterale di una norma di legge o di una norma secondaria sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro e univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l’interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercè l’esame complessivo del testo, della “mens legis”, specie se, attraverso siffatto procedimento possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma si come inequivocabilmente espressa dal legislatore. Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario), l’elemento letterale e l’intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquista un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, sicchè il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all’equivocità del teso da interpretare”. Cari miei funzionari del Fisco, sembrano dire i Giudici della Cassazione, le norme si interpretano quando non sono chiare perché, altrimenti, si può arrivare a conclusioni che non sono nella volontà del legislatore. IL CREDITO DI IMPOSTA SPETTA ANCHE SE NON SI E' PAGATO IL CANONE.  In conclusione, siccome non c’è scritto da nessuna parte il contrario, il credito di imposta per gli affitti previsti dal Decreto Cura Italia si può avere anche se il canone non è stato pagato. Finito lì. Come dovrebbero finire lì anche molti miei colleghi, anche autorevoli, che fanno domande che non servono o quelle, peggio, che troverebbero risposta facendo ricorso a quel minimo di conoscenza del diritto che anche noi ragionieri di provincia dovremmo teoricamente avere.  

 

 

 

 

 

 

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DECRETO CURA ITALIA E CREDITO DI IMPOSTA SULL'AFFITTO: L’AGENZIA DELLE ENTRATE SI INVENTA PURE LE NORME SULLA SUA APPLICAZIONE.

Con la circolare 8/e del 03 aprile 2020 apprendiamo che i documenti di prassi dell’Agenzia delle Entrate assumono carattere di Fonte primaria del diritto, al pari delle leggi del Parlamento. La svolta sul piano giuridico la si ha con l’interpretazione sul credito di imposta per le locazioni previste dall’art. 65 del Decreto Legge 17 marzo 2020 n. 18, il cosidetto "Decreto Cura Italia". FONTI PRIMARIE DEL DIRITTO Andiamo con ordine, però, e rinfreschiamo la memoria su quali sono le Fonti del diritto, nozione che si apprende durante la prima lezione di diritto del primo anno dell’Istituto Tecnico Commerciale. Le fonti sono quattro: Fonti Costituzionali, Fonti Primarie, Fonti Secondarie e Fonti terziarie. Le Fonti Costituzionali, come dice il nome stesso, sono costituite dalla Costituzione e dalle leggi costituzionali, e dagli statuti regionali delle Regione a Statuto Speciale. Le fonti primarie sono quelle emanate dagli organi costituzionali che hanno funzione legislativa: leggi del Parlamento, leggi regionali, decreti legge e legislativi. Le Fonti secondarie sono le sentenze degli organi giurisdizionali, tipo quelle della Cassazione. Infine le Fonti terziarie sono gli usi e le consuetudini locali. Hanno un ordine gerarchico, cioè quella che sta sotto non può annullare quella che sta sopra. Quindi, una sentenza della Cassazione, per quanto autorevole, non può modificare il senso di una Legge emanata dal Parlamento. Quest’ultima non può modificare la Costituzione italiana o essere in contrasto con questa. E così via via per tutte le altre.  Le circolari dell’Agenzia delle Entrate, a questo punto, dove stanno? Senza essere fini giuristi, sulla base di quanto detto, dovrebbero essere considerate fonti terziarie, cioè al pari degli usi e delle consuetudini. Vero è che se dessimo retta ai funzionari dell’Agenzia delle Entrate le loro circolari sono almeno da considerare quali Fonti Primarie, al pari della Leggi del Parlamento, ma sospetto che in alcuni casi qualcuno le ritenga pure Fonti di rango costituzionale, soprattutto quando si prendono la briga di modificare il principio di presunzione di innocenza, vedi gli accertamenti sulla ristretta base sociale. Altra storia, però, che esula da quanto stiamo dicendo.   CREDITO DI IMPOSTA SUGLI AFFITTI DI BOTTEGHE E NEGOZI Fatto questo breve ripasso, riprendiamo da dove siamo partiti e cioè l’art. 65 del Decreto Legge 17 marzo 2020 n. 18 il quale dice, testualmente, che “al fine di contenere gli effetti negativi derivanti dalle misure di prevenzione e contenimento connesse all'emergenza epidemiologica da  COVID-19,  ai soggetti esercenti attività d'impresa è riconosciuto, per l'anno 2020, un credito d'imposta nella misura del 60 per cento dell'ammontare del canone di locazione, relativo al mese di marzo 2020, di immobili rientranti nella categoria catastale C/1”. Francamente devo ammettere che, in tutti questi anni di frequentazione delle norme tributarie, e non solo di quelle, quello appena citato mi pare un testo abbastanza chiaro. Ma nel mio campo c’è sempre qualcuno che, anche di fronte alle cose chiare, pratica l’arte del dubbio, come novello San Tommaso, senza prenderle per come sono scritte e incomincia a fare domande inutili. Tipo: “ma posso avere il credito di imposta anche nel caso di affitto di un capannone?”. No, non si può, perché c’è scritto “immobile rientrante nella categoria catastale C/1”, altrimenti ci sarebbe stata una dicitura più ampia, come ad esempio “immobili commerciali”. Oppure anche: “ho diritto al credito di imposta anche in caso di affitto d’azienda?”. Anche qui, ovviamente no, perché si parla di canone di locazione di immobili. Però la più bella di tutte è questa: “se io non ho pagato l’affitto di marzo ho diritto ad avere lo stesso il credito di imposta?”. Queste domande sono riportate anche sulla stampa qualificata, la quale sollecita le risposte con la solenne affermazione “è necessario attendersi chiarimenti da parte dell’Agenzia delle Entrate”. Quindi, se un chiarimento lo sollecitiamo poi qualcuno si sente in diritto di darlo e non è detto che sia a favore del contribuente, anzi spesso succede il contrario. Ciò è avvenuto anche per la questione del credito di imposta per i canoni di locazione di cui si diceva all’inizio. L’Agenzia delle Entrate ha chiarito che il credito di imposta spetta solo per i negozi (categoria catastale C/1) e che questo credito non spetta se non è stato pagato il canone di affitto. La risposta alla domanda che non era da fare è questa: “Ancorché la disposizione si riferisca, genericamente, al 60 per cento dell’ammontare del canone di locazione, la stessa ha la finalità di ristorare il soggetto dal costo sostenuto costituito dal predetto canone, sicché in coerenza con tale finalità il predetto credito maturerà a seguito dell’avvenuto pagamento del canone medesimo”. Quindi la stessa Agenzia ammette che la disposizione è generica e si riferisce al 60% del canone di locazione, però secondo il suo autorevole parere, avendo questa agevolazione la finalità di ristorare il conduttore dal costo sostenuto del canone, il credito spetta se il canone è stato pagato. Peccato che la legge non dice nulla in merito al pagamento e, quindi, se non dice nulla vuol dire proprio questo: non vi è alcun limite rispetto al suo percepimento. Altrimenti lo avrebbe esplicitato chiaramente. Se poi il Fisco vuole dare un’altra interpretazione, lo può fare ma pur sempre di interpretazione si tratta e, per la gerarchia delle Fonti vista prima, non essendo di derivazione nè giurisprudenziale e nemmeno normativa, lascia il tempo che trova. LA CORTE DI CASSAZIONE E L'INTERPRETAZIONE DELLE NORME.  Tra l’altro, questa mania di fornire chiarimenti a leggi che non lo richiedono, ha trovato pure il biasimo della Corte di Cassazione la quale, con sentenza n. 29162 del 12/11/2019, tira le orecchie all’Agenzia delle Entrate dicendo che “nell’ipotesi in cui l’interpretazione letterale di una norma di legge o di una norma secondaria sia sufficiente ad individuarne, in modo chiaro e univoco, il relativo significato e la connessa portata precettiva, l’interprete non deve ricorrere al criterio ermeneutico sussidiario costituito dalla ricerca, mercè l’esame complessivo del testo, della “mens legis”, specie se, attraverso siffatto procedimento possa pervenirsi al risultato di modificare la volontà della norma si come inequivocabilmente espressa dal legislatore. Soltanto qualora la lettera della norma medesima risulti ambigua (e si appalesi altresì infruttuoso il ricorso al predetto criterio ermeneutico sussidiario), l’elemento letterale e l’intento del legislatore, insufficienti in quanto utilizzati singolarmente, acquista un ruolo paritetico in seno al procedimento ermeneutico, sicchè il secondo funge da criterio comprimario e funzionale ad ovviare all’equivocità del teso da interpretare”. Cari miei funzionari del Fisco, sembrano dire i Giudici della Cassazione, le norme si interpretano quando non sono chiare perché, altrimenti, si può arrivare a conclusioni che non sono nella volontà del legislatore. IL CREDITO DI IMPOSTA SPETTA ANCHE SE NON SI E' PAGATO IL CANONE.  In conclusione, siccome non c’è scritto da nessuna parte il contrario, il credito di imposta per gli affitti previsti dal Decreto Cura Italia si può avere anche se il canone non è stato pagato. Finito lì. Come dovrebbero finire lì anche molti miei colleghi, anche autorevoli, che fanno domande che non servono o quelle, peggio, che troverebbero risposta facendo ricorso a quel minimo di conoscenza del diritto che anche noi ragionieri di provincia dovremmo teoricamente avere.  

 

 

 

 

 

 

Analisi e commenti ImpreseOggi
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Scomparsa Rita Rotelli, assistente di numerosi assessori riminesi, stroncata dalla polmonite.

La casa di Kikko (il mio blog) - Dom, 29/03/2020 - 11:28
Lascia il marito 84enne Cesare Augusto Bagli, con il quale ha superato i 54 anni di matrimonio, due figlie e 4 nipoti. Instancabili viaggiatori, con il marito si manteneva giovane e indipendente coltivando il turismo e l’uso della tecnologia.

Rimini - E’ morta all’ospedale Infermi Rita Rotelli in Bagli, già agente della polizia municipale di Rimini ma molto conosciuta in città perché è stata segretaria particolare di molti pubblici amministratori. Lo annuncia ad esequie e tumulazione avvenuta la famiglia. Le sopravvive il marito Cesare Augusto, le due figlie, Laura, che ha seguito le sue orme nel corpo di polizia locale, ed Elisa, e quattro nipoti: Linda (Didina), Giovanni, Francesco ed Emanuele.

Persona solare, apprezzata per il suo lavoro, dove ha sempre saputo distinguersi per la passione e la responsabilità con la quale ha svolto i suoi delicati incarichi di assistente alle figure politiche che si sono avvicendate dalla metà degli anni 80. E che le hanno confermato la fiducia fin nel nuovo millennio, poco prima di andare in pensione. E’ stata segretaria di assessori nelle giunte Conti, Moretti, Chicchi e Ravaioli, distinguendosi per le doti di affabilità e affidabilità che travalicavano l’orientamento politico.

«Sentiva intimamente l’importanza di partecipare alle istituzioni – dicono dalla famiglia – non a caso per il suo ottantesimo compleanno, lo scorso anno, chiese di poter essere ricevuta dal sindaco di Giulianova, per riabbracciare idealmente attraverso la massima istituzione cittadina la città natale». L’accolse il commissario prefettizio, perché nel frattempo il sindaco era decaduto, ma per lei fu comunque una soddisfazione. Anche in quell’occasione era al suo fianco Cesare Augusto Bagli, il marito con il quale poco prima aveva festeggiato i 53 anni di matrimonio. E con il quale condivideva numerosi viaggi, entrambi mantenendosi giovani e attivi con le comuni passioni per il turismo, in grande autonomia.

Riminese d’adozione fin dalla tenera età, la sua famiglia si è trasferita negli anni ’50 al seguito del padre, Filiberto, conosciuto insegnante tecnico in diversi Istituti superiori cittadini. Vissero dapprima in via Clodia, poi a san Giuliano Mare, nell’appena sorta Ina casa di via Gulli, insieme alla madre Giulia e ai due fratelli Luigi e Francesco. In quella casa dove, dopo la morte dei genitori, ha vissuto con il marito fino al giorno prima del suo ottantunesimo compleanno, l’11 marzo, quando il virus coVid-19 ha fatto irruzione nella loro vita familiare.

Rita Rotelli aveva problemi di asma. Entrambi avevano preso le loro precauzioni fin dall’irrompere delle prime notizie sull’epidemia, ma l’11 marzo Augusto ha dovuto accompagnarla all’ospedale, per un aggravarsi di una febbre della quale soffriva negli ultimi giorni. L’ha attesa invano per tutto il pomeriggio e parte della sera stazionando in auto: un uomo di 84 anni, solo, in un parcheggio, senza notizie. Rita ha passato la notte al pronto soccorso, poi il giorno dopo è stata ricoverata, fino al 13 marzo, quando l’hanno rimandata a casa, con l’obbligo di isolarsi in camera, mentre il marito l’accudiva a distanza, anch’egli in quarantena come tutto il resto della famiglia, da sempre molto unita. Il giorno dopo, il 14 marzo, le difficoltà respiratorie si sono aggravate ed è scattato il secondo ricovero, quello definitivo.

Per un po’ di giorni Rita è riuscita a tenere i contatti, dapprima con tutti attraverso Whatsapp. «Era una donna che voleva tenersi al passo con i tempi – dice il nipote, Enrico – sempre avida di informazioni sulle app del cellulare, coinvolgendo i nipotini e i generi. A me rimproverava di aver sospeso le lezioni di computer. L’ho lasciata con la promessa di riprenderle passata questa tragedia e con un saluto da oltre il cancello il 7 marzo, sul quale avevo poggiato una mimosa».

Fino al 16 marzo ha risposto ai messaggi, poi sono scomparse le spunte blu. Sempre più debole si teneva in contatto con il marito, assistita da una figura forse infermieristica, e con le figlie, che bloccate dalla quarantena, potevano solo ricevere la voce sempre più flebile della madre e rincuorare a distanza il padre. Un calvario emotivo dominato dall’impotenza. I sanitari le tenevano al corrente del decorso: era debolissima e non si capacitavano come potesse resistere tanto. La mattina del 26 marzo alle 3,30 circa l’epilogo. Il suo Augusto, anch’egli ricoverato per una polmonite ma negativo al Covid – 19, era nel reparto vicino, ignaro della morte della compagna della sua vita fino a sabato scorso, quando l’hanno dimesso. Solo allora la famiglia ha annunciato, prima a lui, che Rita Rotelli non avrebbe più regalato la sua forza e il suo entusiasmo a quanti la conoscevano.

Argomenti: Blogging

DISCORSO ATTORNO ALLA S.R.L. E SULLE SOSTANZIALI FALSE NOTIZIE CHE GIRANO SU DI ESSA

Quando ho iniziato a fare questo mestiere, a metà degli anni duemila, i miei concorrenti più temibili erano il lattaio, il fruttivendolo e il macellaio i quali, fra una caciotta e un etto di prosciutto cotto pesato pure abbondante, dispensavano consigli in materia fiscale ai loro attenti clienti. Quest’ultimi, poi, forti delle nozioni acquisite durante la spesa si presentavano davanti alla mia scrivania ed esordivano con “il fornaio mi ha detto che…”, quasi a suggestionarmi per l’autorevolezza della fonte, per concludere suggerendomi come avrei dovuto fare per permettergli di pagare meno tasse.

L’evoluzione della tecnologia e la sostanziale scomparsa dei negozi di vicinato (i supermercati, oltre che la cortesia, con la loro asettica organizzazione hanno ucciso pure il sottobosco di consulenza fiscale spicciola sostanzialmente abusiva) hanno cambiato i luoghi dove reperire utili suggerimenti per risparmiare le imposte. E così la prima cosa che fanno una volta seduti sulla poltrona è dire “ho letto su Internet che…”. A questo punto, giusto l’altro giorno, mi sono un po’ arrabbiato e forte dei miei vent’anni di esperienza, mi sono sentito in dovere, per vendicare finalmente tutti i miei silenti e remissivi colleghi, che si piegano alla forza di un algoritmo e all’importo della parcella comunque da staccare a fine mese, di rispondere a tono al mio malcapitato cliente. Anche al prezzo di offenderlo.

C’è da dire che molti di questi, in realtà, approcciano il problema delle tasse nella stessa maniera con cui gli antivaccinisti approcciano il problema della salute pubblica: noi, come i medici, siamo parte di una specie di complotto della finanza mondialista, organizzato da Soros e dalla lobby dei banchieri ebrei, che, nel caso delle cure mediche, li obbligano a consumare medicinali che non gli servono e, nel caso dei commercialisti, li obbligano a pagare più tasse del dovuto. Fortuna che c’è Internet che smaschera questo complotto globale, che vede noi e i medici al soldo di Soros, con l’unico scopo di arricchirlo ai danni del cittadino inerme!

Quindi l’altro giorno, dopo che il poveretto mi ha detto “ho letto su Internet che se faccio una SRL pago meno tasse, non rischio niente e poi chiudo senza pagare nessuno” non mi sono più trattenuto e ho letteralmente esondato. L’ho guardato con un misto di benevolenza, tristezza e forse pure pietà, e gli ho risposto, girando attorno alla scrivania e mettendogli entrambe le mani sulle spalle: “Adesso siediti qui comodo, che ti spiego tutto”. E ho iniziato.

PUNTO PRIMO: NON ESISTE NEL NOSTRO ORDINAMENTO GIURIDICO UN SISTEMA LEGALE PER EVITARE DI PAGARE QUALCUNO.

Mi dispiace disilluderti, mio caro cliente, ma nel nostro sistema non esiste nessun metodo legale che ti consente di non pagare i tuoi debiti.  Tesi contrarie, ovviamente, sono false e chi le spaccia per vere o ti prende in giro oppure è un ignorante o finanche in malafede. O forse tutte e tre le cose.

La verità è che, come giusto che sia, il nostro ordinamento tutela il creditore e non il debitore. Ciò per l’ovvia ragione che nessun soggetto, dotato di una minima logica, investirebbe tempo e capitali in una impresa sapendo che il proprio cliente potrebbe, con mezzi del tutto legali, non pagare il corrispettivo del bene o servizio ricevuto.

Girano, però, soprattutto sulla rete sedicenti esperti che si vantano di avere la scienza infusa e raccontano di metodi che impediscono a chi deve avere i soldi di conseguire il suo risultato sperato.  Questi metodi sono, ad esempio, intestare tutto al coniuge o al figlio, costituire dei Trust, oppure ancora meglio, per quelli più raffinati, creare un G.E.I.E. a cui girare tutti i propri averi. Su quest’ultima soluzione ricordo che tempo fa si presentò da me un tizio che aveva debiti, soprattutto con le Banche, di importo tale da non far dormire sonni sereni né a lui, né alla sua prole né ai suoi eventuali nipoti.

Debiti, sia ben chiaro, contratti non per un comportamento criminoso degli istituti bancari ma bensì per coprire buchi creati da una gestione aziendale che definire surreale era quasi fargli un complimento. Orbene, il tizio, con un atteggiamento di superiorità a suo dire intellettuale, mi spiegò che un consulente (non un commercialista, proprio un consulente in questo “tipo di cose per uno che ha debiti”, come lo definì) gli aveva suggerito di costituire un Geie a cui intestare il suo patrimonio in modo da “fregare le banche e il Fisco”. Si spinse, a testimoniare la genialità della sua idea, a mimare il gesto di arresa che avrebbero fatto i banchieri di fronte alla soluzione adottata. Ci fu qualcosa, forse la mia innata educazione o calma olimpica, che mi trattenne da mettergli le mani addosso e domandargli se fosse diventato improvvisamente deficiente. Mi limitai a osservare, invece, che ciò che mi stava illustrando era un po’ assurdo. Lui, ovviamente, mi disse che non capivo niente di queste cose e mi fece pure parlare con il suo consulente il quale ebbe l’ardire di affermare che “voi commercialisti siete rimasti un po’ indietro e non conoscete questi strumenti innovativi per proteggere il patrimonio”.

Vecchio probabilmente sì, ma truffatore no. Perché, a fare come suggerisce lui, capitano due cose. Se va bene chi deve avere i soldi fa una bella azione revocatoria e tutta la costruzione viene smontata in poco tempo. Risultato: si pagano i debiti, le spese processuali, i danni e pure le consulenze avute da chi proponeva queste strampalate soluzioni. Se ti va male, visto che c’è di mezzo pure il Fisco, si incorre in un bellissimo reato penale chiamato intestazione fittizia di beni, previsto dall’art. 512 bis del nostro codice penale. E’ il reato compiuto dalla persona che intesta fittiziamente ad altri la titolarità dei beni o del denaro, ma continua ad averne l'effettiva disponibilità materiale. Pena prevista: galera da due a sei anni. Ovviamente anche il consulente innovativo viene condannato, quale suggeritore materiale del reato. Ma del suo destino, ovviamente, non me frega niente.

PUNTO DUE: L’AFFERMAZIONE “SE FACCIO UNA SRL NON RISCHIO NIENTE” E’ SOLO PARZIALMENTE VERA.

E’ vero che con una SRL non si rischia il proprio patrimonio, ma semplicemente il capitale conferito nella società. Come peraltro è vero che non si fallisce in proprio o meglio, non si subiscono le limitazioni delle libertà personali e patrimoniali previste dalle norme fallimentari. Però dire che “se faccio una srl non rischio niente” è affermare una mezza verità perché ciò accade solo se si partecipa alla società a titolo di socio di capitale, cioè limitandosi a dare dei soldi e a lasciare ad altri la sua conduzione. Se, invece, si partecipa materialmente alla gestione diventandone amministratore, il profilo di responsabilità patrimoniale muta. Infatti, il nostro ordinamento giuridico prevede che per i debiti contratti dalla società a responsabilità limitata risponde questa con il proprio patrimonio ma, in caso di insufficienza quest’ultimo, entra in gioco il patrimonio personale dell’amministratore.  

In più l’amministratore della SRL, qualora la sua società fallisse, potrebbe incorrere nei reati fallimentari quali la bancarotta fraudolenta o semplice, oppure il ricorso abusivo al credito. Qui l’obiezione del mio ormai inquieto cliente, tramortito dalla mia sapienza giuridica, è stata: “E quando mai io faccio questi reati, non sono mica un delinquente e mica stupido!”. Sulla stupidità non ho titolo per giudicare, ma sulla probabilità di compiere inconsapevolmente qualche reato, avrei qualcosa da dire. Infatti, vedi mio ignaro cliente, poniamo ad esempio che la tua attività vada un po’ male e che tu sia a corto di soldini. Dopo aver omesso di versare l’IVA, che invece di dare allo Stato hai dato al tuo fornitore altrimenti non ti avrebbe scaricato la merce, su consiglio del tuo esperto in ristrutturazioni aziendali (quello “moderno” del GEIE) vai nella tua Banca e chiedi di allargare un po’ il fido, oppure ti fai concedere un bel mutuo a supporto, “tanto poi arriva l’estate, incasso e pago i miei debiti”. L’estate arriva, passa pure ma non riesci a pagare niente, la società per un motivo o l’altro fallisce e tu ti ritrovi, dopo qualche tempo, condannato senza sapere neanche il perché, per ricorso abusivo al credito cioè per avere chiesto dei prestiti bancari per tamponare delle falle invece di chiudere tutto ed eventualmente chiedere il fallimento. Pena prevista: da sei mesi a tre anni. Quindi, mio caro cliente, con la SRL non rischi niente se l’attività va bene, ma se va malino rischi esattamente come tutte le altre forme giuridiche e di sicuro non chiudi evitando di pagare i tuoi creditori. 

PUNTO TRE: CON LA SRL RISPARMI LE TASSE SOLO A DETERMINATE CONDIZIONI.

Veniamo al punto che sta a cuore a tutti gli italiani: pagare meno tasse. Quando si dice che con la SRL paghi meno tasse si dice, anche qui, una mezza verità. E’ vero che si risparmiano le tasse, ma solo di fronte a una determinata soglia di utili e, comunque, di fronte alla relativa volontà di destinare quest’ultimi ad investimenti piuttosto che al sollazzo personale.

Prendiamo, come esempio, una parrucchiera che alla fine dell’anno registra un utile di 50.000 euro. Tralasciando la questione IRAP che pesa allo stesso modo a prescindere dalla forma giuridica adottata, vediamo la differenza di imposizione fra una ditta individuale e una SRL. Nel primo caso, la tassazione è progressiva, e il massimo di tasse che si paga sull’importo di euro 50.000,00 è di euro 15.138,24, pari a una aliquota media del 30,28%. Nel caso di una SRL, l’aliquota è del 24% cioè euro 12.000,00. “Ecco, vede dottore che si paga meno” mi obietta il mio cliente. Eh no, mio amico sprovveduto. Si paga meno se i soldi li lasci nella SRL, ma conoscendoti bene non credo che questo sia il tuo obiettivo. Tu vuoi usare quei quattrini per i tuoi vizietti personali, quindi se vuoi raggiungere questo risultato ti ritrovi davanti a due opzioni. La prima è che li fai uscire dalla società sotto forma di distribuzione degli utili. A questo punto ci paghi sopra un altro 26%, e cioè euro 9.880,00, calcolati sulla differenza fra l’utile di euro 50.000 e le tasse pagate dalla SRL. Quindi, complessivamente per goderti quei soldi hai pagato di tasse euro 21.880,00, cioè ben euro 6.741,76 in più delle tasse pagate come ditta individuale.  La seconda opzione che hai a disposizione è quella di percepire un compenso come amministratore ma, a questo punto, se ipotizziamo un compenso di euro 50.000,00 azzeriamo il vantaggio fiscale della SRL e paghi sul compenso le stesse tasse della ditta individuale. Quando si risparmia, quindi, utilizzando la forma della SRL? In due casi:

  • quando si decide di lasciare i soldi dentro la società e non spenderli per i propri piaceri personali. Accade, ad esempio, quando si vogliono fare degli investimenti per incrementare l’attività imprenditoriali. In tutti gli altri casi, difficilmente si ottengono risparmi di imposta rispetto a una ditta individuale o a una società di persone;
  • quando si ha un utile di impresa importante, indicativamente superiore ai duecentomila euro. Anche qui la condizione, però, è di lasciare gran parte di questi all’interno della società, destinando solo una residua all’utilizzo personale.
PUNTO QUATTRO: LA SRL NECESSITA DI UNA GESTIONE ORDINATA.

La SRL non va per niente bene agli imprenditori pastrocchioni, che nel caso italiano sfiorano il 94% del totale della categoria. Infatti, tutti noi abbiamo bisogno di utilizzare il reddito che produciamo per fare la spesa o per comprarci il macchinone, necessario a compensare la scarsa autostima rispetto alla nostra virilità. Quindi tendiamo a mettere le mani nel cassetto dell’azienda o a usare il bancomat per pagare spese voluttuose. Questo comportamento, in una ditta individuale o in una snc o sas, non ha conseguenze particolari.  Nell’ambito di una SRL, invece, nascono dei problemi proprio perchè vi è una netta separazione fra il patrimonio sociale e quello del socio. Prelevare denaro dalla cassa o dal conto corrente rientrano in quelle operazioni che fanno pensare o a un compenso all’amministratore, oppure a una distribuzione, più o meno occulta, di utili. A questo punto, come visto nel punto precedente, il risparmio fiscale va a farsi benedire con, in più, l’aggravante che occorre realizzare alcuni atti formali (convocare l’assemblea dei soci, ad esempio) per regolarizzare il prelievo del denaro. Ti puoi immaginare, mio ormai distrutto cliente, di dover convocare l’assemblea dei soci tutte le volte che devi fare la spesa con il bancomat della società e poi depositare la delibera all’Agenzia delle Entrate pagandoci sopra pure duecento euro di imposta di registro e le marche da bollo?

Come in ogni favola, alla fine c’è una morale. C’è pure in questa e prevede che, quando si parla di tasse, non esistono soluzioni che vanno bene per tutto, ma che devono essere ritagliate sulle esigenze di ciascun contribuente. Così vedi, mio errante cliente, come devi imparare a diffidare dei santoni in ambito medico, così devi imparare a diffidare pure dei santoni in ambito fiscale. Lui forse sì, ma tu non ne trai nessun beneficio ad ascoltarlo.

Adesso, però, vai pure che ho da fare. Ci vediamo alla prossima volta che leggerai una soluzione su Internet per risolvere i tuoi problemi con il Fisco italiano.

 

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DISCORSO ATTORNO ALLA S.R.L. E SULLE SOSTANZIALI FALSE NOTIZIE CHE GIRANO SU DI ESSA

Quando ho iniziato a fare questo mestiere, a metà degli anni duemila, i miei concorrenti più temibili erano il lattaio, il fruttivendolo e il macellaio i quali, fra una caciotta e un etto di prosciutto cotto pesato pure abbondante, dispensavano consigli in materia fiscale ai loro attenti clienti. Quest’ultimi, poi, forti delle nozioni acquisite durante la spesa si presentavano davanti alla mia scrivania ed esordivano con “il fornaio mi ha detto che…”, quasi a suggestionarmi per l’autorevolezza della fonte, per concludere suggerendomi come avrei dovuto fare per permettergli di pagare meno tasse.

L’evoluzione della tecnologia e la sostanziale scomparsa dei negozi di vicinato (i supermercati, oltre che la cortesia, con la loro asettica organizzazione hanno ucciso pure il sottobosco di consulenza fiscale spicciola sostanzialmente abusiva) hanno cambiato i luoghi dove reperire utili suggerimenti per risparmiare le imposte. E così la prima cosa che fanno una volta seduti sulla poltrona è dire “ho letto su Internet che…”. A questo punto, giusto l’altro giorno, mi sono un po’ arrabbiato e forte dei miei vent’anni di esperienza, mi sono sentito in dovere, per vendicare finalmente tutti i miei silenti e remissivi colleghi, che si piegano alla forza di un algoritmo e all’importo della parcella comunque da staccare a fine mese, di rispondere a tono al mio malcapitato cliente. Anche al prezzo di offenderlo.

C’è da dire che molti di questi, in realtà, approcciano il problema delle tasse nella stessa maniera con cui gli antivaccinisti approcciano il problema della salute pubblica: noi, come i medici, siamo parte di una specie di complotto della finanza mondialista, organizzato da Soros e dalla lobby dei banchieri ebrei, che, nel caso delle cure mediche, li obbligano a consumare medicinali che non gli servono e, nel caso dei commercialisti, li obbligano a pagare più tasse del dovuto. Fortuna che c’è Internet che smaschera questo complotto globale, che vede noi e i medici al soldo di Soros, con l’unico scopo di arricchirlo ai danni del cittadino inerme!

Quindi l’altro giorno, dopo che il poveretto mi ha detto “ho letto su Internet che se faccio una SRL pago meno tasse, non rischio niente e poi chiudo senza pagare nessuno” non mi sono più trattenuto e ho letteralmente esondato. L’ho guardato con un misto di benevolenza, tristezza e forse pure pietà, e gli ho risposto, girando attorno alla scrivania e mettendogli entrambe le mani sulle spalle: “Adesso siediti qui comodo, che ti spiego tutto”. E ho iniziato.

PUNTO PRIMO: NON ESISTE NEL NOSTRO ORDINAMENTO GIURIDICO UN SISTEMA LEGALE PER EVITARE DI PAGARE QUALCUNO.

Mi dispiace disilluderti, mio caro cliente, ma nel nostro sistema non esiste nessun metodo legale che ti consente di non pagare i tuoi debiti.  Tesi contrarie, ovviamente, sono false e chi le spaccia per vere o ti prende in giro oppure è un ignorante o finanche in malafede. O forse tutte e tre le cose.

La verità è che, come giusto che sia, il nostro ordinamento tutela il creditore e non il debitore. Ciò per l’ovvia ragione che nessun soggetto, dotato di una minima logica, investirebbe tempo e capitali in una impresa sapendo che il proprio cliente potrebbe, con mezzi del tutto legali, non pagare il corrispettivo del bene o servizio ricevuto.

Girano, però, soprattutto sulla rete sedicenti esperti che si vantano di avere la scienza infusa e raccontano di metodi che impediscono a chi deve avere i soldi di conseguire il suo risultato sperato.  Questi metodi sono, ad esempio, intestare tutto al coniuge o al figlio, costituire dei Trust, oppure ancora meglio, per quelli più raffinati, creare un G.E.I.E. a cui girare tutti i propri averi. Su quest’ultima soluzione ricordo che tempo fa si presentò da me un tizio che aveva debiti, soprattutto con le Banche, di importo tale da non far dormire sonni sereni né a lui, né alla sua prole né ai suoi eventuali nipoti.

Debiti, sia ben chiaro, contratti non per un comportamento criminoso degli istituti bancari ma bensì per coprire buchi creati da una gestione aziendale che definire surreale era quasi fargli un complimento. Orbene, il tizio, con un atteggiamento di superiorità a suo dire intellettuale, mi spiegò che un consulente (non un commercialista, proprio un consulente in questo “tipo di cose per uno che ha debiti”, come lo definì) gli aveva suggerito di costituire un Geie a cui intestare il suo patrimonio in modo da “fregare le banche e il Fisco”. Si spinse, a testimoniare la genialità della sua idea, a mimare il gesto di arresa che avrebbero fatto i banchieri di fronte alla soluzione adottata. Ci fu qualcosa, forse la mia innata educazione o calma olimpica, che mi trattenne da mettergli le mani addosso e domandargli se fosse diventato improvvisamente deficiente. Mi limitai a osservare, invece, che ciò che mi stava illustrando era un po’ assurdo. Lui, ovviamente, mi disse che non capivo niente di queste cose e mi fece pure parlare con il suo consulente il quale ebbe l’ardire di affermare che “voi commercialisti siete rimasti un po’ indietro e non conoscete questi strumenti innovativi per proteggere il patrimonio”.

Vecchio probabilmente sì, ma truffatore no. Perché, a fare come suggerisce lui, capitano due cose. Se va bene chi deve avere i soldi fa una bella azione revocatoria e tutta la costruzione viene smontata in poco tempo. Risultato: si pagano i debiti, le spese processuali, i danni e pure le consulenze avute da chi proponeva queste strampalate soluzioni. Se ti va male, visto che c’è di mezzo pure il Fisco, si incorre in un bellissimo reato penale chiamato intestazione fittizia di beni, previsto dall’art. 512 bis del nostro codice penale. E’ il reato compiuto dalla persona che intesta fittiziamente ad altri la titolarità dei beni o del denaro, ma continua ad averne l'effettiva disponibilità materiale. Pena prevista: galera da due a sei anni. Ovviamente anche il consulente innovativo viene condannato, quale suggeritore materiale del reato. Ma del suo destino, ovviamente, non me frega niente.

PUNTO DUE: L’AFFERMAZIONE “SE FACCIO UNA SRL NON RISCHIO NIENTE” E’ SOLO PARZIALMENTE VERA.

E’ vero che con una SRL non si rischia il proprio patrimonio, ma semplicemente il capitale conferito nella società. Come peraltro è vero che non si fallisce in proprio o meglio, non si subiscono le limitazioni delle libertà personali e patrimoniali previste dalle norme fallimentari. Però dire che “se faccio una srl non rischio niente” è affermare una mezza verità perché ciò accade solo se si partecipa alla società a titolo di socio di capitale, cioè limitandosi a dare dei soldi e a lasciare ad altri la sua conduzione. Se, invece, si partecipa materialmente alla gestione diventandone amministratore, il profilo di responsabilità patrimoniale muta. Infatti, il nostro ordinamento giuridico prevede che per i debiti contratti dalla società a responsabilità limitata risponde questa con il proprio patrimonio ma, in caso di insufficienza quest’ultimo, entra in gioco il patrimonio personale dell’amministratore.  

In più l’amministratore della SRL, qualora la sua società fallisse, potrebbe incorrere nei reati fallimentari quali la bancarotta fraudolenta o semplice, oppure il ricorso abusivo al credito. Qui l’obiezione del mio ormai inquieto cliente, tramortito dalla mia sapienza giuridica, è stata: “E quando mai io faccio questi reati, non sono mica un delinquente e mica stupido!”. Sulla stupidità non ho titolo per giudicare, ma sulla probabilità di compiere inconsapevolmente qualche reato, avrei qualcosa da dire. Infatti, vedi mio ignaro cliente, poniamo ad esempio che la tua attività vada un po’ male e che tu sia a corto di soldini. Dopo aver omesso di versare l’IVA, che invece di dare allo Stato hai dato al tuo fornitore altrimenti non ti avrebbe scaricato la merce, su consiglio del tuo esperto in ristrutturazioni aziendali (quello “moderno” del GEIE) vai nella tua Banca e chiedi di allargare un po’ il fido, oppure ti fai concedere un bel mutuo a supporto, “tanto poi arriva l’estate, incasso e pago i miei debiti”. L’estate arriva, passa pure ma non riesci a pagare niente, la società per un motivo o l’altro fallisce e tu ti ritrovi, dopo qualche tempo, condannato senza sapere neanche il perché, per ricorso abusivo al credito cioè per avere chiesto dei prestiti bancari per tamponare delle falle invece di chiudere tutto ed eventualmente chiedere il fallimento. Pena prevista: da sei mesi a tre anni. Quindi, mio caro cliente, con la SRL non rischi niente se l’attività va bene, ma se va malino rischi esattamente come tutte le altre forme giuridiche e di sicuro non chiudi evitando di pagare i tuoi creditori. 

PUNTO TRE: CON LA SRL RISPARMI LE TASSE SOLO A DETERMINATE CONDIZIONI.

Veniamo al punto che sta a cuore a tutti gli italiani: pagare meno tasse. Quando si dice che con la SRL paghi meno tasse si dice, anche qui, una mezza verità. E’ vero che si risparmiano le tasse, ma solo di fronte a una determinata soglia di utili e, comunque, di fronte alla relativa volontà di destinare quest’ultimi ad investimenti piuttosto che al sollazzo personale.

Prendiamo, come esempio, una parrucchiera che alla fine dell’anno registra un utile di 50.000 euro. Tralasciando la questione IRAP che pesa allo stesso modo a prescindere dalla forma giuridica adottata, vediamo la differenza di imposizione fra una ditta individuale e una SRL. Nel primo caso, la tassazione è progressiva, e il massimo di tasse che si paga sull’importo di euro 50.000,00 è di euro 15.138,24, pari a una aliquota media del 30,28%. Nel caso di una SRL, l’aliquota è del 24% cioè euro 12.000,00. “Ecco, vede dottore che si paga meno” mi obietta il mio cliente. Eh no, mio amico sprovveduto. Si paga meno se i soldi li lasci nella SRL, ma conoscendoti bene non credo che questo sia il tuo obiettivo. Tu vuoi usare quei quattrini per i tuoi vizietti personali, quindi se vuoi raggiungere questo risultato ti ritrovi davanti a due opzioni. La prima è che li fai uscire dalla società sotto forma di distribuzione degli utili. A questo punto ci paghi sopra un altro 26%, e cioè euro 9.880,00, calcolati sulla differenza fra l’utile di euro 50.000 e le tasse pagate dalla SRL. Quindi, complessivamente per goderti quei soldi hai pagato di tasse euro 21.880,00, cioè ben euro 6.741,76 in più delle tasse pagate come ditta individuale.  La seconda opzione che hai a disposizione è quella di percepire un compenso come amministratore ma, a questo punto, se ipotizziamo un compenso di euro 50.000,00 azzeriamo il vantaggio fiscale della SRL e paghi sul compenso le stesse tasse della ditta individuale. Quando si risparmia, quindi, utilizzando la forma della SRL? In due casi:

  • quando si decide di lasciare i soldi dentro la società e non spenderli per i propri piaceri personali. Accade, ad esempio, quando si vogliono fare degli investimenti per incrementare l’attività imprenditoriali. In tutti gli altri casi, difficilmente si ottengono risparmi di imposta rispetto a una ditta individuale o a una società di persone;
  • quando si ha un utile di impresa importante, indicativamente superiore ai duecentomila euro. Anche qui la condizione, però, è di lasciare gran parte di questi all’interno della società, destinando solo una residua all’utilizzo personale.
PUNTO QUATTRO: LA SRL NECESSITA DI UNA GESTIONE ORDINATA.

La SRL non va per niente bene agli imprenditori pastrocchioni, che nel caso italiano sfiorano il 94% del totale della categoria. Infatti, tutti noi abbiamo bisogno di utilizzare il reddito che produciamo per fare la spesa o per comprarci il macchinone, necessario a compensare la scarsa autostima rispetto alla nostra virilità. Quindi tendiamo a mettere le mani nel cassetto dell’azienda o a usare il bancomat per pagare spese voluttuose. Questo comportamento, in una ditta individuale o in una snc o sas, non ha conseguenze particolari.  Nell’ambito di una SRL, invece, nascono dei problemi proprio perchè vi è una netta separazione fra il patrimonio sociale e quello del socio. Prelevare denaro dalla cassa o dal conto corrente rientrano in quelle operazioni che fanno pensare o a un compenso all’amministratore, oppure a una distribuzione, più o meno occulta, di utili. A questo punto, come visto nel punto precedente, il risparmio fiscale va a farsi benedire con, in più, l’aggravante che occorre realizzare alcuni atti formali (convocare l’assemblea dei soci, ad esempio) per regolarizzare il prelievo del denaro. Ti puoi immaginare, mio ormai distrutto cliente, di dover convocare l’assemblea dei soci tutte le volte che devi fare la spesa con il bancomat della società e poi depositare la delibera all’Agenzia delle Entrate pagandoci sopra pure duecento euro di imposta di registro e le marche da bollo?

Come in ogni favola, alla fine c’è una morale. C’è pure in questa e prevede che, quando si parla di tasse, non esistono soluzioni che vanno bene per tutto, ma che devono essere ritagliate sulle esigenze di ciascun contribuente. Così vedi, mio errante cliente, come devi imparare a diffidare dei santoni in ambito medico, così devi imparare a diffidare pure dei santoni in ambito fiscale. Lui forse sì, ma tu non ne trai nessun beneficio ad ascoltarlo.

Adesso, però, vai pure che ho da fare. Ci vediamo alla prossima volta che leggerai una soluzione su Internet per risolvere i tuoi problemi con il Fisco italiano.

 

Analisi e commenti Newsletter Grassi Benaglia Moretti, avvocati & commercialisti
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Cnca: rivolte in carcere, attivare subito le misure alternative. L’emergenza coronavirus ha aggiunto ulteriore pressione in una situazione già oltre il limite del sopportabile

Cooperativa sociale Cento Fiori - Mar, 10/03/2020 - 17:21
Riccardo De Facci, presidente: “predisporre metodi di comunicazione tra detenuti e familiari diversi dalla presenza fisica, utilizzando gli strumenti offerti da internet o che non comportano rischi di contagio”.

Il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (Cnca), al quale aderisce la Cooperativa Sociale Cento Fiori, esprime forte preoccupazione per le rivolte che stanno avendo luogo in diversi istituti di pena italiani. “L’emergenza coronavirus ha aggiunto ulteriore pressione in una situazione già oltre il limite del sopportabile, a causa di un sovraffollamento pesante e continuo”, dichiara Riccardo De Facci, presidente del Cnca, “Alle rivolte di questi giorni bisogna rispondere non solo con la repressione, ma attivando misure alternative alla detenzione per un numero congruo di detenuti. E predisponendo modi di comunicazione tra detenuti e familiari diversi dalla presenza fisica, utilizzando gli strumenti offerti da internet o altri che non comportano rischi di contagio. Quello che è accaduto a Modena, poi, con le morti per overdose, rende evidente che negli istituti di pena devono essere presenti strumenti per intervenire in caso di overdose, superando l’ipocrisia che vuole il carcere libero dalle sostanze psicoattive.”

“I fatti di questi giorni”, conclude De Facci, “sono un’ulteriore conferma di una situazione esplosiva, che va affrontata – al di là delle rivolte di questi giorni – prevedendo un uso esteso e sistematico delle misure alternative alla detenzione (messa alla prova, detenzione domiciliare…) e cancellando alcune normative ‘carcerogene’ come l’attuale legislazione sulle droghe. Sono richieste che avanziamo da tempo e che continuano a restare senza risposta.”

La Cooperativa Sociale Cento Fiori gestisce attualmente il progetto Se.A.T.T. Andromeda: Sezione a custodia attenuata Trattamento Tossicodipendenti della Casa Circondariale di Rimini. Il progetto ha la finalità d’individuare e sostenere il percorso più idoneo al reinserimento sociale dei detenuti tossicodipendenti, coinvolgendo direttamente in prima persona il singolo utente e l’équipe di trattamento.

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Le reti dei servizi sanità

Scuola di prevenzione José Bleger Rimini - Lun, 09/03/2020 - 23:31

di Marella Tarini

Attualmente le normative locali e nazionali, in vigore o in elaborazione, e le programmazioni che si riferiscono alla predisposizione degli assetti relativi alla erogazione di interventi in materia di sanità pubblica, stabiliscono frequentemente la istituzionalizzazione di entità denominate Reti.
L’idea delle Reti introduce una profonda revisione dei paradigmi storicamente applicati nel settore sanitario, paradigmi che, nei tempi trascorsi, avevano sposato criteri di tipo autoreferenziale dal punto di vista dell’esercizio delle discipline, e gerarchico, dal punto di vista della competenza professionale.
Sono molteplici i fattori che si sono sviluppati negli ultimi tempi e che hanno contribuito a
suggerire questa previsione strutturale.

Tra questi fattori ricordiamo:
1) I cambiamenti socio-demografici e la perdita di ruolo di alcune istituzioni-aggregazioni
comunitarie che in passato svolgevano ruoli di supporto a quello sanitario. Sempre più
spesso la sanità pubblica deve vicariare le funzioni assistenziali e riabilitative un tempo
svolte all’interno delle famiglie, per esempio, assicurandone l’erogazione con modalità e
tempi strettamente conseguenti agli atti clinici.

2) L’invecchiamento della popolazione generale, e l’emergenza sempre più frequente, quindi, di situazioni cliniche caratterizzate dalla concomitante presenza nello stesso soggetto di patologie multiple, che richiedono contemporaneamente l’intervento di più strutture specialistiche.

3) Le emergenze di carattere finanziario, che hanno necessariamente richiesto l’ottimizzazione degli spazi fisici all’interno dei quali effettuare gli interventi. Queste necessità hanno decretato le aperture dei confini spaziali tra le strutture, che in passato funzionavano grazie a collocazioni definite e separate.

4) La parziale messa in crisi, a livello sociologico, del modello gerarchico e lo sviluppo e la
crescita di alcune professioni un tempo ritenute subordinate nel campo delle prestazioni di
carattere sanitario e sociale.

5) L’attuale attenzione alla elaborazione di un impianto concettuale ed epistemologico che
supera i sistemi del pensiero lineare e guarda ai fenomeni secondo i criteri della
complessità: ne consegue la tendenza a considerare con sempre maggiore attenzione
l’interazione degli aspetti multifattoriali per ciò che attiene l’interpretazione etiologica e la
predisposizione conseguente degli atti clinici.
E’ subentrato così un impulso al superamento delle divisioni presenti a più livelli nel sistema, e si è iniziato a pensare sulla necessità di “ mettere in rete” le realtà operative, anche al fine di produrre risposte coordinate e coerenti alle domande e alle necessità di trattamento rappresentate dall’utenza.

Assume un rilievo significativo che la composizione di queste entità, dal punto di vista dei ruoli che vi si pensano rappresentati, è, nel volere esplicito delle norme e delle programmazioni, multiprofessionale, transdisciplinare ed interistituzionale.
Il compito istituzionale potenzialmente assegnato ad una Rete è complesso, perché può riguardare la predisposizione e l’attuazione condivisa di assetti organizzativi- gestionali, oppure la definizione del collegamento di medesime competenze nella dimensione di un territorio, o ancora la costruzione di percorsi clinici articolati fra diverse competenze, che ineriscono la prevenzione, la cura e la riabilitazione di problematiche emergenti, laddove i programmi di cura devono essere intesi in una forma che sia al contempo e integrata e individualizzata.
La riflessione generale sulle Reti e sulla loro costituzione deve considerare ed includere il confronto tra due differenti modelli, quello del sistema monocentrico e quello del sistema multicentrico.
Il sistema monocentrico di Rete prevede che ci sia una centrale operativa attorno alla quale ruotano molti altri sistemi ad essa collegati, posti, per ciò che inerisce le decisioni e la comunicazione, in una situazione di dipendenza da questo ipotetico Centro Direzionale.

Quello multicentrico prevede che tutti i sistemi che fanno parte della Rete siano centri decisionali che emettono e ricevono vicendevolmente comunicazione e operazioni, e che si configurino tutti in una situazione di interdipendenza tra loro; questo modello prevede che sia individuato in forma condivisa il luogo all’interno del quale debbano essere elaborate e depositate le risultanze relative alla comunicazione e alla creazione di prodotti decisionali.
Il sistema multicentrico fa circolare la comunicazione all’interno dell’intero organismo, fra tutti i centri operativi della Rete, e supera il sistema per cui ogni singolo punto di intervento si relaziona isolatamente con l’ipotetico Centro Direzionale.
Nella costituzione di una Rete è implicito il concetto di integrazione, ma questo concetto merita una esplicitazione: possiamo pensare alla integrazione fra ruoli, Strutture e competenze come ad un passaggio di apposizione, in cui ogni frammento si aggiunge all’altro senza che si modifichino le specifiche definizioni ed attribuzioni di ognuno, oppure possiamo pensarlo come un processo di ricombinazione dei contenuti che ogni parte della rete rappresenta e porta con sé. Nel processo di ricombinazione gli effetti ed i prodotti che scaturiscono dal lavoro della Rete non sono frutti messi assieme in una modalità addizionale, ma sono nuove, inedite, configurazioni strutturali, alle quali
sottende una epistemologia che alcuni studiosi hanno definito “convergente”. I saperi, cioè, devono ricombinarsi e produrre un sapere ed un saper fare nuovo e globale, che non proviene più separatamente da ogni singolo componente, ma diventa bagaglio collettivo della nuova organizzazione.

Si configurano quindi alcune problematiche piuttosto evidenti.
-La prima problematica: riguardo alla composizione multiprofessionale, transdisciplinare ed interistituzionale ( rapporti definiti tra Servizi differenti) di queste entità, dobbiamo tenere presente che esse debbono inserirsi in un contesto macroistituzionale, quello della Sanità e della Medicina pubbliche, nel quale tali principi sono ancora ampiamente disattesi nei fatti.
La Sanità Pubblica, difatti, al di là dei proclami, quando questi vengano espressi, è un’istituzione fortemente stereotipata, fortemente focalizzata sulla cura delle patologie più che sulla promozione della salute, nella quale, per quanto riguarda la lettura della patologia e la predisposizione degli atti diagnostici, terapeutici e riabilitativi, vige il principio individualista in forma molto cristallizzata; nella quale emergono inoltre i principi della superspecializzazione e della frammentazione dei saperi; nella quale, infine, a dare forma alle relazioni sono i principi gerarchici ed il conflitto fra discipline e professioni.
In misura sempre maggiore, tra l’altro, nella gestione pubblica della salute si affermano i principi aziendalistici della imprenditoria e del profitto ed i criteri finanziari ed economici, e sembrano essere questi ad informare le scelte programmatorie.

-La seconda problematica: tra i problemi che non possono essere elusi quando si pensi a dei percorsi di dialogo, cooperazione e collaborazione fra Servizi, si rileva il seguente: persino gli schemi di riferimento ( ECRO, nel linguaggio della Concezione Operativa) impliciti di molti operatori non convergono, anche quando questi siano attivi nello stesso settore e/o nei Servizi di confine.
Possono persino essere molto divergenti le stesse idee che si hanno sulla configurazione e
l’importanza di alcuni fattori etiopatogenetici: alcuni operatori optano per un pensiero lineare al quale sono abituati da certa formazione meccanicistica, altri osservano il loro campo di intervento secondo i criteri della multifattorialità nella determinazione della sofferenza, ed assumono che questa, pur esprimendosi tramite posizioni e sintomi individuali, dichiara la implicazione, nella sua genesi, di ambiti più vasti di quello individuale, per esempio quello familiare, quello dei gruppi secondari, quello istituzionale e quello comunitario. Questa differenza di vedute rende differente anche la individuazione e la definizione del campo di intervento sul quale si presceglie di operare.

-La terza problematica: rispetto alla finalità per cui si configura una Rete, che sia organizzativo-gestionale, clinica, o di collegamento delle competenze in un ambito territoriale, occorre sottolineare che il compito deve essere necessariamente ed imprescindibilmente definito ed esplicitato, affinchè questo organismo sappia perché è stato creato e per quali specifiche funzioni.
Differentemente, potrebbe essere creata una entità Rete solo perché la tendenza normativa del momento lo richiede, con un esito sterilmente burocratico, preoccupato più di mantenere se stesso che di produrre operatività che abbia senso.

-Una quarta problematica riguarda il fatto che si sta parlando della creazione di un processo istituzionale che prevede la costituzione di un collegamento tra Servizi connotati nella loro composizione, senza che sia definito però a livello normativo “come” i partecipanti debbano operare, nella relazione tra loro e con l’utenza.
Si deve quindi avviare un processo di pensiero condiviso e compartecipato su come debba
concretamente agire l’organismo “ Rete” per l’attuazione dei programmi suoi propri, e questo “come” riguarda anche e soprattutto la sua configurazione ed il suo funzionamento interno.
Una assenza di riflessione intorno questi aspetti e la mancanza di un modello applicabile di funzionamento lasciano le Reti nell’ambito del luogo astratto delle dichiarazioni formali.

Tutta questa è complessità. Tutte queste tematiche richiedono una elaborazione, ed è chiaro quindi che la costituzione di una Rete attiva in un Ambito Comunitario deve contemplare il concetto di processo. Per attraversare il processo istituzionale di costituzione di una Rete dobbiamo essere consci di queste difficoltà e diversità , onde evitare lo scivolamento verso la burocratizzazione, e per far sì che il dispositivo di messa in rete possa diventare una effettiva macchina coerente, che funzioni per la produzione di salute e non resti un mero enunciato teorico.
Dato che, per tutto quanto è stato più sopra esposto, costituire una Rete significa cominciare a pensare e operare in termini di gruppo e non più in termini di individuo, risulta utile pensare a questo percorso come ad un processo gruppale: è necessario cioè identificare uno spazio ed un tempo ben definiti, quindi un inquadramento, all’interno del quale poter dare avvio, con la presenza costante degli attori coinvolti, ognuno con il suo proprio ruolo e la sua appartenenza istituzionale, ad un processo di trasformazione del paradigma individualistico ed autoreferenziale in quello condiviso collettivamente. Si sta sottolineando la necessità di costruire un paradigma interpretativo ed operativo condiviso che superi quello individuale, con la creazione di uno schema di riferimento che possa essere dell’intero sistema e non più solo del singolo, e con la esplicitazione continua del
compito che ci si dà.
Infatti una Rete che non sia solo enunciata o solo scritta sulla carta è costituita da operatori reali, che debbono interagire all’interno della configurazione aziendale e macroistituzionale del del SSR e del SSN, tenendo presenti i temi della multiprofessionalità, transdisciplinarietà, interistituzionalità e multifattorialità delle tematiche da affrontare, costruendo quindi dei vincoli effettivi tra di loro.
Inoltre, o forse in prima istanza, la modalità condivisa di funzionamento richiede che si lavori sul tema della comunicazione: come e dove e quando e a chi veicolare le informazioni ed i contenuti da trasmettere.
Gli spazi ed i tempi precisi, continuativi e cadenzati che si ritengono necessari per lo svolgimento di questo processo di confronto concettuale ed operativo, sono spazi imprescindibili per elaborare il confronto con le resistenze al collegamento, dettate dalle idiosincrasie disciplinari, dalle appartenenze professionali, dalle appartenenze istituzionali, dalle divergenze concettuali, e sono indispensabili per giungere, infine, alla creazione di progetti e prodotti condivisi.
Il processo che si crea permette agli operatori di poter svolgere poi ciascuno il proprio ruolo individuale nei rapporti con l’utenza, rafforzati dalla interiorizzazione del pensiero elaborato nella Rete e dalla esperienza di appartenenza al gruppo della Rete; questo consente di affrontare i problemi della solitudine operativa e di imparare a differire le risposte alle richieste che pervengono, permettendo di inserire un processo di pensiero ed una programmazione condivisa tra il momento in cui si raccoglie l’emergenza della richiesta e quello in cui si formula un intervento.
Questo processo permette di affrontare anche un’altra stereotipia, che vuole i Servizi in
competizione nella gestione delle problematiche sociali e sanitarie. Questo aspetto competitivo, che ancora oggi è possibile osservare in determinate realtà operative, è fortemente alimentato da atteggiamenti pregiudiziali serpeggianti nella collettività e tra gli operatori, e da determinanti di ordine politico, finanziario ed economico. Potrebbe darsi che già la sola esperienza di condivisione dello schema di riferimento ed il lavoro sulla esplicitazione e sulla condivisione del compito, pur nel riconoscimento dei singoli ruoli, costruisca un’esperienza fortemente motivante, tal da far in parte superare le questioni improntate secondo la mera ottica economicista della serie risparmio –profitto, che tanto spesso mette in contrapposizione i rappresentanti di questo sistema.
Se grazie a questo processo si formano i vincoli tra gli operatori, il piacere della condivisione di un compito riesce a superare le difficoltà generata dalla situazione interna, caratterizzata dalla appartenenza ad istituzioni ( Servizi) differenti, e da quella esterna, determinata dalle logiche che guardano con un’ ottica competitiva ed economicista.
Nel nostro territorio regionale esistono già esperienze consolidate di processi gruppali di équipes che lavorano in rete, caratterizzate da elementi di eterogeneità degli integranti in quanto ad appartenenza istituzionale differente: queste esperienze testimoniano la complessità del percorso, ma anche la sua ricchezza. Questo modello, per esempio, è stato esportato nelle sue linee concettuali ed operative, con una determina regionale, a tutti i DDP marchigiani, in un documento che determina le modalità di attuazione dei Profili Assistenziali per gli utenti di questi Servizi.
In questi casi di sperimentazione già consolidata di funzionamento a Rete dei Servizi si è stabilito un modello collettivo e condiviso di effettuare le accoglienze o prime visite, di definire le formulazioni diagnostiche, predisporre ed eseguire i piani terapeutici integrati, valutarne l’andamento e decidere le dimissioni, all’interno di un dispositivo costituito da incontri permanenti cadenzati di équipe settimanali, alle quali partecipano operatori di tutte le professioni, di tutte le discipline e di tutte le istituzioni pubbliche e del privato sociale coinvolte. E con lo stesso dispositivo si è deciso di progettare e programmare gli interventi di promozione di salute sul territorio.
Questione di importanza cruciale: lo svolgimento di questo processo è stato affiancato e sostenuto da un percorso di formazione congiunta, che ha riguardato proprio l’elaborazione dei percorsi possibili per la condivisione, collaborazione e cooperazione tra membri appartenenti a Strutture differenti.
Queste esperienze funzionano come una rete multicentrica.

A conclusione vorrei evidenziare alcuni aspetti che potrebbero essere interessanti per ulteriori riflessioni:
1) La configurazione delle reti ed il loro effettivo funzionamento possono essere strumenti per pensare la prassi nei servizi sanitari, per far sì cioè che pratica, teoria ed infine ricerca non restino disgiunte, come succede invece nel cattivo esempio dato dalle strutture sanitarie nel loro complesso.
Occorre smascherare il senso di colpa che molto spesso, inconsapevolmente, esiste rispetto all’uso del processo del pensiero negli assetti istituzionali sanitari, sempre più improntati e chiamati a dare risposte automatiche e determinate da situazioni di urgenza, e sempre meno inclini ad operare in seguito a ponderate programmazioni.

2) Il processo istituzionale di costituzione di una Rete non è una panacea per tutti i mali, non risolve tutti i complessi problemi portati ai Servizi né elimina magicamente le contraddizioni ed i conflitti tra i membri che la compongono; esso permette però che i problemi possano essere individuati e possa essere attuato un percorso per la loro elaborazione, costruendo la possibilità di pensare strumenti per risolverli. Ciò introduce la riflessione sulla necessità di pensare modi e tempi della valutazione degli esiti e dei prodotti del processo di lavoro della Rete.

3) Il paradigma individualista è molto cristallizzato, e tende costantemente a riaffermarsi sia negli utenti che negli operatori, ed il processo del gruppo della Rete deve intendersi perciò come in costante svolgimento: debbono essere valutati continuamente i destini dei vincoli di chi ne fa parte in seguito a perdite, cambiamenti anche radicali, traumi, conflitti esterni, problemi determinati dalla appartenenza ad assetti istituzionali differenti. Questa riflessione ci porta a considerare la necessità di prevedere azioni di manutenzione permanente della Rete e del suo funzionamento.

4) La normativa generale non supporta fino in fondo questa concezione, ed è per esempio confusa ed inevasa la tematica della responsabilità clinica condivisa degli atti terapeutici.

5) Alcune esperienze dimostrano che è più facile attivare una comunicazione interistituzionale con gruppi meno formalizzati e burocratizzati, mentre risulta più problematica e persecutoria quella con assetti istituzionali più definiti , compresi quelli di appartenenza o quelli dei servizi di confine.

6) Le esperienze realizzate permettono di pensare che questa organizzazione nei Servizi Pubblici è possibile, come è possibile la formazione condivisa e continuativa, contrariamente a quanto viene espresso nei fatti da parte di varie organizzazioni sanitarie, peraltro attratte dai principi che superano l’individualismo terapeutico.

7) L’assetto legislativo sembra più avanzato e flessibile di quello istituzionale.

8) Questa concezione risponde a domande di politica sanitaria che sono riferite a paradigmi e riferimenti concettuali di altre aree gestionali, quali ad esempio:

Gestione e riduzione del rischio clinico:
ricordiamo che anche l’assetto organizzativo con il quale si concatenano le azioni e gli eventi ha un effetto significativo sulla giusta esecuzione degli atti: un buon assetto nell’ambito della organizzazione di un sistema che deve dare risposte complesse ed articolate tra professioni, discipline e sevizi differenti, riduce grandemente i rischi di malfunzionamento, di esecuzione di azioni cliniche improprie o carenti e di omissioni.

Medicina basata sulle Prove di efficacia:
Il paradigma recita: “date le risorse che sono disponibili, individuare la migliore concatenazione di atti che possa dare i risultati più vicini a quelli idealmente considerati ottimali, secondo un sistema di confronto con le pratiche registrate come efficaci nella letteratura internazionale pubblicata”. La letteratura internazionale pubblicata rileva in molteplici settori la evidenza di un minor numero di ricadute sintomatologiche quando l’intervento si articoli secondo i criteri della integrazione ed interazione disciplinare.

Miglioramento continuo della qualità secondo i parametri della efficienza e della efficacia:
La cooperazione tra strutture, discipline e professioni , adeguatamente strutturata, consente la riduzione dei rischi di frammentazione operativa nella erogazione degli interventi e permette la costruzione di percorsi di prevenzione, cura ed assistenza il più possibile omogenei, coordinati ed efficaci e, parametro non ultimo in ordine di importanza, trasmissibili chiaramente all’utenza.
Il coordinamento tra professioni, discipline e servizi nella costruzione ed esecuzione degli interventi predispone ad una maggior efficienza operativa.

 

Bibliografia:

A. Bauleo, “Note di psicologia e psichiatria sociale“, ed. Pitagora

J. Bleger, “Psicologia della condotta“, ed. Armando

J. Bleger, “Psicoigiene e psicologia istituzionale“, ed. La Meridiana

L. Buongiorno, “Psicoigiene e città“, ed. Pitagora

M. De Brasi, “Psichiatria sociale e psicoigiene“, ed. Pitagora

M. De Brasi, “L’orizzonte della prevenzione“, ed. Pitagora

M. Ferrari, L. Montecchi, S. Semprini, “Cambiare“, ed. Pitagora   

R. Lourau, “La chiave dei campi“, ed. Sensibili alle Foglie

L. Montecchi, “Officine della dissociazione. Transiti metropolitani“, ed. Pitagora

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Ambito comunitario

Scuola di prevenzione José Bleger Rimini - Lun, 09/03/2020 - 21:58

di Marella Tarini

La descrizione e l’analisi dell’ Ambito Comunitario si riferiscono ad una materia complessa e per articolare la informazione al riguardo sembra opportuno applicare un percorso di strutturazione della presentazione. Articoleremo secondo il seguente indice:

Definizioni
Contenitore
Contenuto
Struttura
La Psicoigiene
Le Reti

Cominciamo quindi recuperando alcuni tentativi di DEFINIZIONE:
Mac Iver e Page: “nell’A. comunitario c’è un sentimento comunitario e non sono esplicitati
obiettivi definiti da dover raggiungere e chi lo abita vive lì la totalità della propria vita, non solo per svolgere funzioni predeterminate, come accade invece per gli altri Ambiti.”
Pozas Arciniegas: “nella Comunità esiste reciproca capacità di comprensione ( coerenza
linguistica) il coordinamento di attività e la formazione di strutture sociali atte ad occuparsi di bisogni collettivi.”
Bleger: “gruppo vasto di persone che vivono insieme in un territorio determinato, legate da determinati vincoli e funzioni o inseriti in una organizzazione comune.” Si parla quindi qui di un certo grado di coesione, di interrelazione.
Bleger: “il confine di un A. Comunitario è demarcato dal deposito di un certo grado di specifica coesione sociale dei suoi membri, che ne sollecita la riconoscibilità.”
Come vediamo, le definizioni elencate mostrano un certo grado di differenza, soprattutto nei termini delle lenti utilizzate per la messa a fuoco .
Procedendo, può essere utile riflettere intorno a questo specifico Ambito mettendolo a fuoco secondo il criterio contenitore – contenuto. E vedremo che recupereremo molti concetti che abbiamo già avvicinato nella descrizione e nello studio degli altri Ambiti ( individuale, famigliare, gruppale, istituzionale.)

CONTENITORE:
Intanto ricordiamo che esiste un concetto di Campo, che sappiamo essere un ritaglio di situazione totale considerato in un momento dato: è caratterizzato dall’ “insieme di elementi coesistenti ed interagenti fra loro, dalla totalità di fatti coesistenti concepiti come mutamente interdipendenti” (K. Lewin), laddove i fatti considerati comprendono sia soggetti che oggetti.
Ora, abbiamo imparato già che a seconda delle ampiezza spazio temporale del campo in cui si manifesta il fenomeno che vogliamo osservare o sul quale vogliamo intervenire noi stabiliamo la configurazione di un Ambito.
Considerando una estensione progressiva, abbiamo quindi già approcciato le tematiche
dell’Ambito individuale, di quello famigliare, di quello gruppale e di quello istituzionale. Ampliando questa estensione, arriviamo all’Ambito Comunitario.
Questo è quindi un’area più ampia degli Ambiti già esaminati e si differenzia rispetto a quelli per la sua maggior estensione, per la maggior complessità e per la maggior molteplicità e mobilità dei fenomeni che lo caratterizzano, (aspetti che riguardano però il contenuto e che analizzeremo più avanti).
Ma se proviamo a concentrarci sulla questione della sua delimitazione, demarcazione e
configurazione incorriamo in alcune tematiche che abbiamo già affrontato: dobbiamo cioè
ricordare e chiarificare che questa delimitazione non è data a priori, ma è un’operazione
arbitraria e convenzionale che gli osservatori decidono di condividere. Questa delimitazione quindi è stabilita di volta in volta da una scelta di definizione spaziale condivisa, sempre considerando che vogliamo ritagliare un campo più ampio rispetto a quello degli Ambiti già presi in esame.
Questa relatività del confine del nostro campo di osservazione non deve essere peraltro un
aspetto che ci sorprende: se riflettiamo, e come abbiamo già visto, la stressa relatività ha
caratterizzato la definizione anche degli altri Ambiti: l’Ambito individuale, per esempio, non coincide certamente ed inequivocabilmente con i confini del corpo fisico, perché sappiamo che un soggetto emana la sua energia al di là dei limiti di questo; il suo campo emotivo può non essere strettamente contenuto al suo interno, basti pensare ai fenomeni di proiezione ed identificazione proiettiva, e per converso, può essere influenzato ed ” abitato” da elementi dell’ambiente esterno: introiezione, internalizzazione, rappresentazioni interiorizzate come quelle del gruppo interno; anche la mente individuale, se vogliamo, ha un’estensione che trascende i limiti di spazio e di tempo rappresentati dalla dimensione fisica percepibile e non coincide con la mera
dimensione del singolo cervello.
Così è per la demarcazione di un Ambito Familiare: dove disegniamo la delimitazione di una singola famiglia? Sono le persone che vivono insieme? O può essere qualcosa di potenzialmente non coincidente con questo e più esteso di questo, nello spazio e nel tempo? E così via, per l’Ambito Gruppale e per quello Istituzionale.
Quindi per definire uno specifico Ambito Comunitario dobbiamo decidere quali limiti assegnare alla sua estensione spaziale e storico – temporale, tenendo presenti dimensioni che vanno oltre gli altri Ambiti già considerati, sempre ricordando che comunque i limiti degli Ambiti devono essere pensati come sfumati: questa sfumatura delle cornici, che ormai sappiamo essere convenzionali, fanno sì che molti fenomeni di confine generino una permeabilità ed una trasversalità di contenuti tra un Ambito e l’altro.

CONTENUTO:
Detto questo, andiamo a considerare gli aspetti del campo contenuto in questa cornice, in questa configurazione spazio – temporale : un Ambito Comunitario contiene individui, gruppi, famiglie e istituzioni e naturalmente tutto l’insieme delle relazioni che intercorrono tra loro e che attraversano tutto il campo. Inoltre, contiene uno spazio-tempo non ancora definito da queste configurazioni e da questi inquadramenti già in qualche modo strutturati , uno spazio-tempo attraversato da fenomeni molto mobili e più indefiniti, incarnati da individui transeunti e trasmigranti, raggruppamenti transitori, proto-organizzazioni non istituite, persone che si legano ad altre molto fugacemente e condividono convivenze labili e precarie. Come dicevamo in apertura, troviamo fenomeni e fatti molto mobili, assistiamo ad una molteplicità spiccata di eventi e situazioni e ad aspetti caratterizzati quindi da elevata complessità. Quello che potremmo forse definire, per analogia con il linguaggio dell’Analisi Istituzionale, una sorta di Istituente Comunitario, o di Latente Comunitario.
Vediamo che l’Ambito Comunitario si differenzia dagli altri Ambiti, inoltre, per un aspetto
specifico: oltre che per la sua maggior estensione e quindi per la capacità di contenere tutti gli altri, esso non ha necessariamente un Compito enunciato o predefinito e non tutti i ruoli sono assegnati.
Sempre in termini di analisi del contenuto, vediamo poi come nell’Ambito Comunitario abbiamo configurazioni caratterizzate da vincoli consolidati in vario grado, fino alle situazioni di assenza vincolare.
In questo contenitore, come negli altri già visti, l’esperienza dello spazio e del tempo del campo sono definiti dal movimento possibile al suo interno e dalle percezioni che vi si sviluppano, ossia dalle informazioni che lo attraversano, dato che le percezioni sono sollecitate da una qualche sorta di informazione.
Le possibilità di fruire dello spostamento in questo spazio e di avere informazioni percettive sui fenomeni che lo attraversano, quindi di fruire della comunicazione, stabiliscono i rapporti di potere sociale, le dimensioni economiche, le dimensioni della sessualità.
Un Ambito Comunitario è attraversato quindi da percorsi e siti fisici ( strade , piazze, edifici) e da dinamiche di altro ordine: ci sono aspetti che organizzano la sua affettività e il suo clima prevalente. E c’è una configurazione che si basa sui sistemi di potere, organizzati secondo i percorsi della dialettica politica e della assegnazione delle gerarchie, sulla dimensione economica, e sui sistemi concettuali, quelli prevalenti e quelli “ alternativi”: i sistemi concettuali costruiscono le ideologie e anche sistemi di valutazione largamente condivisi meno articolati e strutturati concettualmente, ma tenaci, come per esempio i luoghi comuni. Un Ambito Comunitario ha i suoi pregiudizi e le sue stereotipie.
Sappiamo che le stereotipie sono i punti di riferimento fissi e sicuri che mettono al riparo dalle ansie confusionali collegate all’apprendimento del nuovo e dell’ignoto. Pensiamo a quante ansie di questo tipo possono essere mobilizzate in un Ambito Comunitario, data la sua complessità e la mobilità e rapidità dei fenomeni non strutturati e non strutturabili che vi accadono. Molte volte le stereotipie sollecitano agiti a livello corporeo, quando il materiale collegato ai processi di apprendimento non è accoglibile sul piano mentale: e questo ci dà conto di alcuni accadimenti, spesso di natura violenta, apparentemente difficilmente spiegabili, che accadono a questo livello.

STRUTTURA:
La complessità e mobilità di un Ambito Comunitario ci porta a considerare che la sua
configurazione è forse più un insieme di interferenze che un campo solido e definito. La struttura di un Ambito Comunitario comincia ad essere una struttura reticolare, più che una struttura lineare.
Inoltre, la sfumatura dei suoi confini fa sì che sia attraversato trasversalmente dalle molteplici interferenze e trasversalità che provengono dallo spazio globale, del quale ci occuperemo fra qualche incontro e che è fortemente caratterizzato da questi aspetti di reticolarità.
Detto questo, dobbiamo comunque tenere presente che tra un punto ed un altro della
dimensione reticolare esiste lo spazio reale di connessione dove accadono fenomeni, che non necessariamente sono marginali: questo spazio ha bisogno di tempo per essere percorso e conosciuto e forse persino creato. Questi sono gli aspetti di Congiunzione, anche tra corpi, come direbbe Bifo, mentre i processi che si sviluppano su una dimensione reticolare sono di carattere Connettivo. Egli fa una riflessione su come stiano cambiando le tecnologie della comunicazione e della creazione della relazione: da un procedimento prevalentemente congiuntivo , si sta transitando verso una modalità prevalentemente connettiva. Questo aspetto, che troviamo anche nell’analisi di un Ambito Comunitario, è determinato dalla massiccia interferenza e trasversalità che si realizza con l’Ambito Globale, e sarà perciò meglio approfondito quando si parlerà appunto dell’ Ambito Globale.
Questa precisazione ci permette di elaborare alcune riflessioni di Bleger sulla struttura dell’Ambito di cui ci stiamo occupando. Egli fa una sorta di classificazione degli Ambiti Comunitari utilizzando tre categorie: coesione, dissociazione, integrazione: nella società coesa l’individualità è gruppale, in quella dissociata è individualista, in quella integrata si affaccia la personificazione, l’apparizione della soggettività, come esperienza umana in relazione, come processo permanente, non portato a termine una volta per tutte. Queste tre modalità coesistono contemporaneamente, come d’altra parte nei gruppi, nelle istituzioni, nella famiglia e nello stesso individuo. Riferendoci a Bleger, “a noi interessa studiare come queste caratteristiche si mettano fra loro in relazione in un particolare spaccato comunitario, essendo queste rappresentate in particolari sottogruppi o sotto-
organizzazioni in modo variabile”. Probabilmente, tutte e tre le caratteristiche di qualsiasi
struttura hanno bisogno di coesistere in certa misura ed in vario grado, affinché possa essere garantito un equilibrio dinamico.
Gli aspetti coesivi di un Ambito Comunitario sono per esempio le appartenenze e le coesioni dialettali o linguistiche. Sono acritiche, non si differenziano tra soggetti e determinano una coesione automatica; ma anche i luoghi comuni sono un fenomeno di coesione comunitaria, come certe stereotipie. Gli aspetti dissociativi sono rappresentati da tutti quei fenomeni che determinano il confinamento di individui o situazioni, in positivo ed in negativo: possiamo pensare a tutte quelle situazioni che permettono a singoli individui o ad aggregazioni di stabilire un confine protettivo per ridurre l’impatto informativo e darsi tempi congrui per la elaborazione delle informazioni sopraggiunte, oppure, in negativo, a tutti i fenomeni di ostracismo e di azzeramento degli aspetti relazionali che producono isolamento sociale. E così via.
Per recuperare le categorie della logica, possiamo dire che i fenomeni coesivi sono prelogici, quelli dissociativi sono basati su logiche binarie o lineari, quelli integrativi su processi di logica dialettica.
Questa ultima angolazione ci permette di entrare in una specificità degli Ambiti Comunitari: possiamo infatti pensare alla dimensione comunitaria anche in termini che travalicano quelli spaziali e che riuniscono invece insieme alcune categorie di soggetti: per esempio, possiamo considerare la Comunità di alcuni professionisti che si occupano di specifiche aree di intervento, come può essere l’Ambito della Comunità Scientifica di un territorio. Possiamo per esempio pensare all’Ambito Comunitario degli operatori della Salute Mentale di un’area territoriale definita, o degli operatori delle dipendenze patologiche di un territorio delimitato: operatori pubblici, di organizzazioni private, o del privato sociale o libero professionisti. Anche in questo Ambito Comunitario così inteso troveremo vincoli più o meno labili, gerarchie, sistemi di potere, posizioni politiche, dinamiche economiche, ideologie, luoghi comuni, tecnologie della comunicazione, affettività prevalente, stili di apprendimento: qualcuno sarà più incline alla
trasmissione di contenuti e all’apprendimento articolati su una base mimetico-mnemonica, altri prediligeranno il metodo dialogico e troveremo una grande varietà di schemi di riferimento concettuale e di stili operativi.
Quindi, anche noi siamo appartenenti ad un Ambito Comunitario, sia che ci pensiamo inseriti in esso in termini di estensione spazio-temporale, sia che ci pensiamo collegati in termini di appartenenza concettuale e operativa in quanto professionisti.

LA PSICOIGIENE
In qualità di operatori appartenenti a questo Ambito siamo chiamati, con certa implicazione, a pensare ed attuare interventi che si riferiscono proprio ad esso, all’Ambito Comunitario. Se ci occupiamo di salute, dobbiamo considerare infatti il travaso di interferenze senza soluzione di continuità tra tutti gli Ambiti considerati, travaso che determina gli stati ed i fenomeni, anche quelli relativi proprio alla salute, da quella individuale e quella collettiva. Per esempio, non possiamo escludere la valutazione dell’Ambito Comunitario se ci accingiamo a pensare ad interventi di prevenzione. Infatti gli interventi in Ambito Comunitario possono avere una dimensione clinica, e più facilmente in questo caso dobbiamo parlare di intervento interistituzionale, dato che l’offerta clinica ha sempre una situazione a partenza istituzionale; oppure possono avere un obiettivo di promozione di salute, e quindi possono non essere focalizzati su momenti sintomatici che denotino una patologia, bensì possono concentrarsi su quegli aspetti che tendono a irrigidire i contesti e a inibire la chiarificazione, la comunicazione, l’apprendimento ed infine la integrazione dei vari elementi che caratterizzano i contesti
medesimi.
Quando pensiamo agli interventi in questi termini, stiamo pensando in termini di Psicoigiene.
Dice Bleger: “ la Psicoigiene ha per oggetto la gestione delle risorse psicologiche per far fronte ai problemi attinenti alle condizioni e alle situazioni in cui si svolge la vita della comunità considerata in se stessa e non in relazione alla malattia.”
Come costruiamo quindi un percorso di ricerca e/o di intervento in un Ambito Comunitario?
Intanto dobbiamo avere una serie di criteri per definirlo e per analizzarlo, e possono essere quelli che abbiamo fin qui elaborato. Per poter attivare interventi, infatti, dobbiamo prima sapere analizzare l’area a livello della quale decidiamo di operare tenendo conto di tutte le variabili che abbiamo descritto. Poi dovremmo chiarire la nostra strategia: e in questo senso Bleger invita a non voler psicologizzare la Comunità, ma a far sì che il suo contatto con gli operatori permetta ad essa di pervenire a situazioni di consapevolezza sulle sue proprie caratteristiche e favorisca i processi di insight .
Da un punto di vista tattico, sempre Bleger ci invita a tener presente che l’’operazione di analisi del contesto cii consente di fare un’operazione quanto mai opportuna, e cioè tradurre la eventuale richiesta in termini di effettiva domanda, e di concordare quindi una offerta di interventi. Bleger ricorda che se è mancata la fase della richiesta nella impostazione iniziale degli interventi, la Comunità esprime i suoi pregiudiziali malintesi riguardo alla scelta operativa degli operatori medesimi: una Comunità può, per esempio, pensare che è stata scelta fra altre per l’esecuzione di un qualche intervento perché più malata di altre, e quindi può organizzare resistenze ed ostilità.
Inoltre, e non certo per ultima cosa, ricordiamo che a nostra volta configuriamo un Ambito
Comunitario, nel senso di Comunità Scientifica di operatori, e come tale, prima di operare, è opportuno che in quanto Ambito noi stessi, allo stesso modo, impariamo a conoscere la nostra configurazione, in tutta la sua complessità.
Ora andremo ad analizzare meglio proprio questa dimensione reticolare, quella dell’Ambito comunitario degli operatori che esprimono interventi in un Ambito Comunitario

(continua: Le reti dei servizi sanità)

 

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Target Sinergie, stiamo facendo fronte alla situazione per tutelare i dipendenti, i clienti e l’intera collettività per superare, insieme, questo momento.

Cari colleghi, gentili partner, tutti noi di Target Sinergie ci siamo attivati per fare fronte agli scenari aperti dalla situazione in cui si sta trovando il nostro Paese e alle recenti disposizioni di salute pubblica, sia per tutelare i nostri colleghi e la collettività intera, sia per garantire piena continuità agli impegni presi con i nostri clienti.

Il Ced e il personale della sede centrale di Rimini stanno mettendo nelle condizioni di lavorare da casa tutto il personale che può o vuole farlo. Inoltre stiamo facendo di tutto per garantire al personale operativo nelle commesse, dentro e fuori dalle zone arancioni, di lavorare in tutta sicurezza, in accordo con le recenti disposizioni.

E’ un momento difficile, ma siamo certi del contributo di tutti dalla centralinista all’impiegato, dal dirigente all’operaio del magazzino più periferico, per superare, insieme, questo momento con lo stesso entusiasmo e successo che ci hanno sempre contraddistinto.

Chiediamo pertanto a tutto il personale di rispettare alla lettera le disposizioni ministeriali e i suggerimenti che l’azienda di volta in volta fornirà ritenendo ciò fondamentale per un senso civico e per responsabilità verso tutti quelli che ci circondano.

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Cnca: «Droghe, anche il governo in carica pensa di conquistare consenso colpendo i consumatori»?

Cooperativa sociale Cento Fiori - Ven, 21/02/2020 - 16:29
Sconcerto e contrarietà del Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza, del quale fa parte la Cooperativa Sociale Cento Fiori, per l’intenzione del ministro Lamorgese di prevedere l’arresto e il carcere per chi, recidivo, è trovato in possesso di quantitativi di droghe di lieve entità.

Il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (CNCA) esprime sconcerto e contrarietà rispetto all’intenzione del ministro dell’Interno Luciana Lamorgese di proporre una modifica all’attuale testo unico sulle droghe, prevedendo l’arresto immediato con custodia in carcere per coloro che sono trovati in possesso di piccoli quantitativi di droga, se recidivi.

“Qualora si arrivasse a una modifica di legge come quella prospettata dal ministro Lamorgese”, dichiara Riccardo De Facci, presidente del CNCA, “la conseguenza inevitabile sarebbe l’ulteriore incremento dei detenuti per reati connessi alle droghe, che andrebbero a sovraffollare le carceri già al collasso. Il problema resterebbe invece immutato, come dimostrano gli ultimi 30 anni di una guerra alla droga che è stata fallimentare. Ed è evidente che una norma siffatta non colpirebbe solo gli spacciatori, come viene dichiarato, bensì anche molti consumatori. Ancora una volta il penale e il carcere verrebbero utilizzati per affrontare questioni sociali, sanitarie ed educative. Dall’esecutivo ci aspettiamo, piuttosto, un serio ragionamento sulla depenalizzazione del possesso di piccoli quantitativi di sostanze e un rafforzamento di tutti quegli interventi innovativi che permettono un reale e più efficace lavoro educativo, di prevenzione e di riduzione del danno e dei rischi”.

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