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Riviera Banca finanzia la formazione per l’inserimento sul lavoro di due persone svantaggiate nella Cooperativa Sociale In Opera

Riviera Banca sostiene l’impegno della Cooperativa Sociale In Opera nell’inserimento di due persone svantaggiate. L’istituto bancario riminese ha finanziamento le azioni di accompagnamento e affiancamento che la cooperativa sociale ha messo in atto recentemente per due giovani soggetti in situazione di svantaggio, già in carico ai servizi pubblici, ma che sono impiegate con successo in attività lavorative.

La cooperativa sociale In Opera dal 1999 impiega personale svantaggiato in diverse tipologie di servizi, in ambito privato e pubblico. Tra queste attività troviamo la Logistica, i servizi di centralino e reception per istituzioni pubbliche o aziende private nonché la gestione delle relazioni con i clienti, le pulizie civili e industriali, la prenotazione di prestazioni sanitarie a sportello o telefoniche, le pratiche relative a contravvenzioni e tributi locali.

E proprio in uno di questi settori, a sostegno di due lavoratrici che RivieraBanca è intervenuta, finanziando la formazione rivolta a personale con compiti di coordinamento, affinando la capacità di interagire adeguatamente con persone in situazione di svantaggio. Il progetto educativo proposto da cooperativa In Opera nasce dalla constatazione che la risposta al singolo bisogno da solo non basta all’integrazione ed al recupero della persona: occorrono relazioni umane che introducano alla realtà nel suo significato più complesso.

Il primo passo del progetto finanziato da RivieraBanca è stato l’accompagnamento della persona dipendente verso la presa di coscienza di chi è e di cosa può e vorrebbe fare. La seconda componente della realtà è il lavoro e le sue “regole”, ovvero contratto, orari, abbigliamento previsto, comportamenti in caso di assenza, ferie, malattie, espletamento delle mansioni e dei compiti affidati, relazioni con i colleghi, i superiori o i subalterni. La terza componente del progetto è la relazione che si instaura con chi guida: i responsabili dei servizi dove le persone sono impiegate ed i referenti di In Opera, in modo integrato, svolgono una funzione di sostegno e tutoraggio educativo, che accompagna la persona nell’affrontare i problemi e le sfide. Si propone un rapporto di fiducia e stima reciproca, una relazione “certa”.

rivierabanca_finanzia_progetto_in_opera.jpg Notizie Facility Management Igiene e pulizie Logistica
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#IoAccolgo: Cento Fiori tra i fondatori del comitato di Rimini, insieme a organizzazioni no profit e sindacati, per abrogare i due decreti sicurezza e gli accordi con la Libia.

Cooperativa sociale Cento Fiori - Ven, 18/10/2019 - 14:39
Simbolo della campagna nazionale #Io Accolgo: la coperta termica che i soccorritori danno ai migranti. I promotori riminesi: Arci, Ardea, Anolf, Anpi, Caritas, Cgil, Cooperativa Sociale Cento Fiori, Legambiente, Libera, Libertà e Giustizia, Papa Giovanni XXIII, Uil, Unione degli Studenti, Unione degli Universitari, Vite in Transito.

Rimini – Si è costituito anche a Rimini il comitato locale della campagna nazionale #IO ACCOLGO, l’appello che si prefigge l’abrogazione dei due decreti sicurezza e l’annullamento degli accordi con la Libia. Lanciata presentando l’appello al Governo il 24 settembre e a papa Francesco nella Giornata del migrante il 29 settembre, la campagna a Rimini comprende nel comitato promotore Arci, Ardea, Anolf, Anpi, Caritas, Cgil, Cooperativa Sociale Cento Fiori, Legambiente, Libera, Libertà e Giustizia, Papa Giovanni XXIII, Uil, Unione degli Studenti, Unione degli Universitari, Vite in Transito. Ma il comitato è aperto anche ai singoli individui del nostro territorio.

L’impegno delle associazioni e di chi aderirà è di riaprire il dibattito nella società per modificare il sentire comune e le norme che negli ultimi anni stanno producendo effetti devastanti, in termini di violazioni dei diritti umani e di esclusione sociale dei richiedenti asilo e titolari di protezione, ed in termini di solidarietà e considerazione del prossimo nella vita quotidiana.

Il comitato locale #IO ACCOLGO di Rimini invita tutte le associazioni ed i cittadini del nostro territorio ad aderire alla campagna e sottoscrivere l’appello, online sul sito http://ioaccolgo.it o fisicamente presso le sedi locali delle associazioni del comitato locale di Rimini.

La campagna è facilmente riconoscibile dal simbolo adottato, che da oggi trovate esposto in tutte le sedi delle associazioni locali: la coperta termica dorata, la stessa che viene data dai soccorritori ai richiedenti asilo al loro arrivo.

Nei giorni scorsi #IO ACCOLGO RIMINI ha invitato tutti i Comuni della nostra provincia ad aderire alla campagna, attraverso una lettera inviata ai Sindaci che chiede di sottoscrivere l’appello e di esporre la coperta termica.

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Emilia Romagna: la Regione aiuta le P.M.I. a svilupparsi e a crescere

La Regione Emilia Romagna al fianco delle PMI per favorire e aiutare la loro crescita dimensionale attraverso un bando di finanziamento a fondo perduto. 

Con Delibera di Giunta regionale n. 1266 del 22 luglio 2019  sono state approvate, infatti, misure di sostegno rivolte alla piccole e medie imprese impegnate in percorsi di innovazione tecnologica e diversificazione dei propri prodotti e/o servizi, con l'obiettivo di accrescere la quota di mercato o di penetrare in nuovi mercati.La Regione Emilia Romagna sostiene progetti basati sull’acquisto dei seguenti servizi: 
  • consulenze tecnologiche e di ricerca, studi e analisi tecniche; 
  • prove sperimentali, misure, calcolo; 
  • progettazione software, multimediale e componentistica digitale 
  • design di prodotto/servizio e concept design; 
  • stampa 3D di elementi prototipali; 
  • progettazione impianti pilota 
I contratti di fornitura dovranno essere stipulati per almeno il 40% del valore del progetto con soggetti che appartengano alle tre tipologie sottoelencate: 
  • Laboratori di ricerca e centri per l'innovazione accreditati ai sensi della DGR 762/2014 appartenenti alla Rete Regionale dell’Alta Tecnologia; 
  • Università e altre istituzioni di rango universitario, anche del campo artistico, enti pubblici di ricerca, organismi di ricerca così come definiti dalla vigente disciplina comunitaria in materia di aiuti di stato a favore della ricerca e sviluppo e dell'innovazione;
  • Start-up innovative e PMI innovative, registrate alla data di pubblicazione del presente bando negli appositi elenchi speciali del Registro delle imprese della Camera di Commercio.
CARATTERISTICHE DEI PROGETTI Il progetto di innovazione ammissibile dovrà avere un costo minimo di euro 20.000,00 e massimo di euro 80.000,00.
I progetti di innovazione e diversificazione devono riguardare la realizzazione di progetti che comportino almeno una delle seguenti azioni:
  • l’ampliamento della gamma dei prodotti e/o servizi; 
  • la loro significativa ridefinizione tecnologica e funzionale in senso innovativo; 
  • l’introduzione di contenuti e processi digitali e di innovazione di servizio in grado di modificare in modo sostanziale il rapporto con clienti e stakeholders;
  • la ricaratterizzazione dei prodotti e dei servizi verso le esigenze di sostenibilità ambientale, inclusione e qualità di vita, cultura e società dell’informazione. 
SOGGETTI BENEFICIARI Possono presentare domanda singole imprese esclusivamente PMI ai sensi della vigente normativa comunitaria che abbiano le seguente caratteristiche
  • sede operativa o unità produttiva ove svolgere il progetto ubicata in Emilia-Romagna; 
  • bilancio approvato al 2018;
MISURA DELL'AGEVOLAZIONE Le agevolazioni sono concesse nella forma del contributo alla spesa nella misura del 50% delle spese ammissibili.  PARAMETRO DI AFFIDABILITA' FINANZIARIA I soggetti proponenti, per partecipare al presente bando, debbono soddisfare il seguente parametro economico finanziario, basato sul bilancio 2018, approvato per le società di persona, e depositato alla competente Camera di Commercio invece per le atre tipologie di società:   COSTO DEL PROGETTO/RICAVI DELLE VENDITE E DELLE PRESTAZIONI MINORE O UGUALE AL 10%, In sostanza il costo del progetto non deve essere superiore al 10% del fatturato.  SCADENZE  La domanda dovrà essere presentata a partire dalle ore 10 del 18 novembre 2019 fino alle ore 13 del 18 dicembre 2019. Notizie ImpreseOggi
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Emilia Romagna: la Regione aiuta le P.M.I. a svilupparsi e a crescere

La Regione Emilia Romagna al fianco delle PMI per favorire e aiutare la loro crescita dimensionale attraverso un bando di finanziamento a fondo perduto. 

Con Delibera di Giunta regionale n. 1266 del 22 luglio 2019  sono state approvate, infatti, misure di sostegno rivolte alla piccole e medie imprese impegnate in percorsi di innovazione tecnologica e diversificazione dei propri prodotti e/o servizi, con l'obiettivo di accrescere la quota di mercato o di penetrare in nuovi mercati.La Regione Emilia Romagna sostiene progetti basati sull’acquisto dei seguenti servizi: 
  • consulenze tecnologiche e di ricerca, studi e analisi tecniche; 
  • prove sperimentali, misure, calcolo; 
  • progettazione software, multimediale e componentistica digitale 
  • design di prodotto/servizio e concept design; 
  • stampa 3D di elementi prototipali; 
  • progettazione impianti pilota 
I contratti di fornitura dovranno essere stipulati per almeno il 40% del valore del progetto con soggetti che appartengano alle tre tipologie sottoelencate: 
  • Laboratori di ricerca e centri per l'innovazione accreditati ai sensi della DGR 762/2014 appartenenti alla Rete Regionale dell’Alta Tecnologia; 
  • Università e altre istituzioni di rango universitario, anche del campo artistico, enti pubblici di ricerca, organismi di ricerca così come definiti dalla vigente disciplina comunitaria in materia di aiuti di stato a favore della ricerca e sviluppo e dell'innovazione;
  • Start-up innovative e PMI innovative, registrate alla data di pubblicazione del presente bando negli appositi elenchi speciali del Registro delle imprese della Camera di Commercio.
CARATTERISTICHE DEI PROGETTI Il progetto di innovazione ammissibile dovrà avere un costo minimo di euro 20.000,00 e massimo di euro 80.000,00.
I progetti di innovazione e diversificazione devono riguardare la realizzazione di progetti che comportino almeno una delle seguenti azioni:
  • l’ampliamento della gamma dei prodotti e/o servizi; 
  • la loro significativa ridefinizione tecnologica e funzionale in senso innovativo; 
  • l’introduzione di contenuti e processi digitali e di innovazione di servizio in grado di modificare in modo sostanziale il rapporto con clienti e stakeholders;
  • la ricaratterizzazione dei prodotti e dei servizi verso le esigenze di sostenibilità ambientale, inclusione e qualità di vita, cultura e società dell’informazione. 
SOGGETTI BENEFICIARI Possono presentare domanda singole imprese esclusivamente PMI ai sensi della vigente normativa comunitaria che abbiano le seguente caratteristiche
  • sede operativa o unità produttiva ove svolgere il progetto ubicata in Emilia-Romagna; 
  • bilancio approvato al 2018;
MISURA DELL'AGEVOLAZIONE Le agevolazioni sono concesse nella forma del contributo alla spesa nella misura del 50% delle spese ammissibili.  PARAMETRO DI AFFIDABILITA' FINANZIARIA I soggetti proponenti, per partecipare al presente bando, debbono soddisfare il seguente parametro economico finanziario, basato sul bilancio 2018, approvato per le società di persona, e depositato alla competente Camera di Commercio invece per le atre tipologie di società:   COSTO DEL PROGETTO/RICAVI DELLE VENDITE E DELLE PRESTAZIONI MINORE O UGUALE AL 10%, In sostanza il costo del progetto non deve essere superiore al 10% del fatturato.  SCADENZE  La domanda dovrà essere presentata a partire dalle ore 10 del 18 novembre 2019 fino alle ore 13 del 18 dicembre 2019. Notizie ImpreseOggi
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La Bora, i delfini e i branchi di tonni: le piccole avventure in Adriatico per i pazienti del progetto Ulisse della Cooperativa Sociale Cento Fiori

Cooperativa sociale Cento Fiori - Mar, 24/09/2019 - 17:00
Ultima crociera in Croazia dell’anno per i pazienti, questa volta del Centro di Osservazione e Diagnosi di Vallecchio. La barca sorpresa da venti a circa 40 km all’ora. Sulla via del ritorno lo spettacolo tragico della natura: branchi di tonni mangiavano altri pesci intrappolati in una rete.

Due giorni di bora, certo non inaspettati ma pur sempre impegnativi, hanno segnato l’ultima crociera terapeutica in barca a vela per i pazienti del Centro Osservazione e Diagnosi di Vallecchio, della Cooperativa Sociale Cento Fiori. Il maltempo lungo la costa croata ha raggiunto la barca del progetto Ulisse, timonata dall’educatore Andrea Ambrosani, vicino all’isola di Ist. Due giorni al riparo nel porto per i sette pazienti e l’equipaggio, per questo viaggio formato dall’educatore Eugenio Pari e dal fondatore del progetto Ulisse (e della cooperativa sociale), Werther Mussoni. Che con l’inseparabile fisarmonica e la sua proverbiale bonomia è riuscito a far risuonare le note di Bella ciao anche nei ristoranti della terra degli Ustascia.

«E’ stato un viaggio un poco più impegnativo del precedente qui in Croazia, con diversi imprevisti che per i ragazzi hanno però assunto il forte sapore dell’avventura – ha detto lo skipper Andrea Ambrosani al ritorno – Ci aspettavamo la bora e abbiamo affrontato i 20 e passa nodi di vento (circa 40 km all’ora) senza problemi riparando a Ist. Per i pazienti c’è stato il problema dell’acqua: a Ist scarseggiava e abbiamo dovuto fronteggiare il razionamento, una situazione inusuale per tutti, figuriamoci in spazi angusti come una barca. Ma i ragazzi l’hanno superata. Anche a Sman, altra isola visitata, non è stato facile rifornirsi di acqua, tutti problemi superati a Bozava».

Se il tempo a tratti non è stato clemente, l’Adriatico in compenso ha offerto degli spettacoli inusuali. L’incontro con i delfini o con una tartaruga ha animato il viaggio. Ma sopratutto un branco di tonni ha attirato l’attenzione dell’equipaggio del progetto Ulisse. Nella traversata di ritorno la barca è passata vicino a una grande rete da posta strappata via probabilmente dal maltempo che, aggrovigliata, in parte gialleggiava e in parte colava a picco per oltre una decina di metri verso il fondo. «Impossibile per noi da recuperare, vista l’estensione e il peso: le reti da posta hanno dei galleggianti nella parte superiore ma anche dei pesi nella parte inferiore e si estendono per decine di metri. Ebbene, questo groviglio di reti e pesci intrappolati è diventata un enorme “pastura”, cioè attirava i predatori che accorrevano a mangiare i pesci intrappolati. E tra questi predatori c’era un branco di tonni che schiumavano le acque, affannandosi a mangiare».

Foto di copertina gentilmente concessa da Giuseppe Marzi.

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Insieme a Marinando è partita la seconda crociera terapeutica Cento Fiori, con gli utenti del Centro Diurno

Cooperativa sociale Cento Fiori - Mar, 17/09/2019 - 16:17
Un fine settimana al Conero per sette utenti del Centro Diurno della Cooperativa Sociale Cento Fiori: è stata la seconda crociera terapeutica del 2019 a bordo della barca a vela Fiona, messa a disposizione dall’associazione onlus Marinando.

Un fine settimana al largo del Conero per sette utenti del Centro Diurno della Cooperativa Sociale Cento Fiori: è stata la seconda crociera terapeutica del 2019 quella partita giovedì da Rimini, con a bordo della barca a vela Fiona l’educatrice Fabiola Gomez. La barca ospitante è stata messa a disposizione dell’associazione Marinando, la onlus che si occupa di «programmi di recupero rivolti a categorie sociali disagiate o a rischio di devianze e di progetti didattici per le scuole attraverso la vita in mare e la pratica della navigazione a vela», come scrive l’associazione sul suo sito.

Quattro giorni in mare diventati si un periodo di vacanza, ma anche una sfida per gli utenti del Centro Diurno, diversi dei quali non avevano mai fatto una esperienza in barca. Non una semplice passeggiata, quindi. Infatti, è vero che vivono già un’esperienza di tipo comunitario – nel Centro c’è chi cucina, chi provvede a pulire gli ambienti comuni, si mangia insieme – ed insieme fruiscono dei servizi di tipo socio-sanitario, in una struttura semiresidenziale, destinati ad utenti con situazioni di dipendenza patologica che necessitano di intervento psicoterapico o a un’utenza che proviene da altri programmi terapeutici e che necessitano di una fase di accompagnamento, prima del reinserimento.

E’ anche vero però che i sette si sono confrontati con gli spazi decisamente angusti di una barca, che rendono l’escursione una esperienza decisamente più impegnativa. Impegno che diventa però percorso educativo. Spiega infatti Laura Grossi, responsabile del Centro Diurno: «La differenza tra attività ludica e l’attività educativa, è nell’elaborazione dell’esperienza. Tutti gli utenti sono chiamati a scrivere il proprio Diario di bordo, dove annotano ciò che accade, le loro sensazioni e come vivono l’esperienza. Tutto materiale che viene poi discusso in un gruppo terapeutico, nel qual esi ragiona insieme sulle cose emerse».

«Il capitano Gianfranco Rossi è stato un elemento importante per la riuscita di questa esperienza. – dice Fabiola Gomez – I ragazzi del Centro Diurno si sono confrontati con una figura esterna stabilendo un’ottima relazione. Tutti ci siamo divertiti e ci siamo conosciuti meglio in questi quattro giorni di convivenza così ristretta. Abbiamo anche imparato tanto della vita in mare grazie al nostro capitano».

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Cento Fiori sostiene Humus_Altro Festival, il 13 e 14 settembre a Rimini

Cooperativa sociale Cento Fiori - Mar, 03/09/2019 - 12:44
Humus_Altro Festival: due giorni organizzati da Pacha Mama presso Casa dell’editore, Via Covignano 302/a. I temi: ” abitare se stessi”, “abitare la propria casa “, “abitare il proprio Stato “, “abitare il mondo”. Mostra, Musica, Intrattenimento, Cibo, Dibattito.

Rimini – Cento Fiori sostiene Humus_Altro Festival, il contributo che i giovani dell’associazione Pacha Mama offrono alla scena culturale della nostra città. Il festival è intimamente legato al luogo in cui si svolge il giardino della Casa dell’Editore un accogliente “Book and Breakfast” sul bellissimo colle di Covignano, a 10 minuti dal centro di Rimini.

Venerdì 13 e sabato 14 settembre concerti, tavoli di approfondimento, presentazioni di libri e monologhi teatrali animeranno la campagna riminese creando una meravigliosa cornice a ciò che sarà al centro della manifestazione: un percorso fotografico ed esperienziale su quattro importanti temi ” abitare se stessi“, “abitare la propria casa “, “abitare il proprio Stato “, “abitare il mondo “, 4 temi attuali inquadrati da un punto di vista alternativo, trasgressivo e disobbediente.

Chi c’è dietro questo progetto? Pacha Mama è un’associazione di volontariato che opera dal 1992 nella provincia di Rimini per promuovere, insieme all’omonima cooperativa il commercio equo e solidale e i valori di trasparenza, dialogo e rispetto. “Pacha Mama“ significa “madre terra” in lingua quechua e da solo riesce a veicolare due importanti valori che ci hanno ispirato: il forte legame con il terreno e il rispetto per il mondo in cui viviamo, mentre la lingua sudamericana esprime una forte propensione all’internazionalità e una spiccata curiosità per il diverso.

Molti degli attuali attivisti dell’associazione non erano nemmeno nati quando questa cominciava a diventare parte integrante del tessuto sociale di Rimini, eppure la domanda che muove l’azione collettiva degli associati è sempre la stessa: “come costruire un mondo equo sostenibile dove le culture popolari, le conoscenze, le competenze, i progetti e le ambizioni possono essere condivise dentro un’unica cultura del rispetto reciproco?”. Questa è, decisamente, una domanda troppo grande per una piccola associazione. Ma non è una domanda impossibile!

Pacha Mama ha pensato a “Humus” come ad una etichetta, e le sue iniziative sono la risposta del sincero impegno dei suoi volontari. Sono l’occasione che l’associazione offre per incontrarsi e lavorare insieme sul proprio senso di appartenenza alla dimensione pubblica cittadina.

Programma

Il festival è nato e si è sviluppato grazie alle forze dei circa 40 volontari che sono stati coinvolti nell’organizzazione, nella progettazione e nella comunicazione delle attività del festival. Humus si sviluppa su due giornate e ci sarà la possibilità di dissetarsi e mangiare.

Venerdì 13 settembre:

16.00 apertura festival
18.00 spettacolo teatrale di Margherita e Damiano Tercon
20.00 concerti: the Urgonauts, Camillas, Espana Circo Este
23.30 dj set di H.1

Sabato 14 settembre:

11.00 apertura festival e giardino, possibilità di ristorazione.

15.30 inizio attività divulgative con quattro tavoli di approfondimento: Abitare se stessi – Margherita e Damiano TerconAbitare la propria casa – Dijana Pavlovic, Giorgio Beretta, Casa Madiba NetworkAbitare il proprio stato – Libera Rimini, Mario Galasso, Corridoi Umanitari Papa Giovanni XXIIIAbitare il mondo – Fridays for future Rimini, Extintion Rebellion Bologna, Banca Etica, Pacha Mama.

19.00 concerto acustico: Nel Caso
20.00 presentazione del libro degli Zen Circus (con gli Zen Circus!!)
21.30 concerti: band del Circo Paniko, Falafel Fazz Familia
23.30 dj set di Savignao-oh

PROGRAMMA IN EVOLUZIONE RESTA AGGIORNATO>>: https://www.facebook.com/events/523331768503815/

SOSTIENI HUMUS DAL BASSO CON UNA DONAZIONE>> (o anticipa la tua quota di iscrizione min di 5 euro) https://www.produzionidalbasso.com/project/humus-altro-festival

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“Rimini, tra le bandiere ed i gelati”. Contro lo sfruttamento, braccianti e donne in marcia.

Scuola di prevenzione José Bleger Rimini - Mer, 14/08/2019 - 17:11

di Marco Caligari

“Stavo stretto stretto, e allora gli ho chiesto se potessi cambiare posto. Mi ha mandato dietro negli ultimi posti. Mi sono messo le cuffie nelle orecchie e mi sono addormentato ascoltando musica. Ho aperto gli occhi e ho sentito che stavano contando i morti ed ho capito che erano morte sei persone”. L’ascolto di questa testimonianza di Alagie Saho ha rappresentato il momento più emozionante della marcia contro lo sfruttamento svolta il 06 Agosto 2019 a Rimini. Sono le parole pronunciate dall’unico superstite all’incidente avvenuto un anno prima durante il trasporto dei braccianti nelle campagne di Foggia, dove hanno incontrato la morte i lavoratori. Tre di loro, Bafodè, Ebere e Romanus, erano persone che vivevano nella città di Rimini e sono andati a lavorare come braccianti nella provincia di Foggia. Un territorio caratterizzato dai ghetti per i lavoratori migranti e da decine di morti violente, dove il contesto culturale rende complessa la costruzione di
percorsi di solidarietà, come racconta Alessandro Dal Grande: “Anche quando parlano la stessa lingua, costretti come sono da un lavoro estenuante, i lavoratori sono incapaci di stringere legami e di aprirsi a una minima forma di relazione umana. La difficoltà nel ricostruire le storie di vita dei lavoratori stagionali nasce anche da quest’assenza di legami”.


La marcia era chiamata a ricordare la morte di esseri umani, che per la loro condizione di migranti africani o di persone povere non trovano la dimensione di rispetto sia in vita sia dopo la morte. In ospedale dopo l’incidente, Saho fu ascoltato da diverse operatrici sociali, tra cui Nicoletta Russo. “Come operatrice dell’accoglienza mi sono chiesta tante volte quale potesse essere la nostra di resistenza, in un sistema che ci vorrebbe vedere gestire numeri e non persone; che ci vorrebbe carrarmati, in grado di passare sui corpi umani che incontriamo con indifferenza” con queste parole Russo esprime chiaramente la difficoltà umana e professionale di essere quotidianamente mossa da due principi contrastanti. Da un lato, la propria umanità e professionalità, attraverso cui costruisce una relazione con i richiedenti asilo politico e favorisce un processo di soggettivazione degli sfruttati. Dall’altro, le indicazioni delle leggi in materia di migrazioni, che producono meccanismi di colpevolizzazione degli stranieri e delle ONG. Ad ascoltare le parole di Russo, tornano alla mente le teorie di Achille Mbembe, che analizza come la proiezione della razza sulla
società separi l’umanità nella società, oltre che produrre semplicemente segmentazione. Lo studioso camerunense sviluppò le proprie teorie all’interno di contesti coloniali dell’Africa. Non è legittimo pensare che tali processi di “disumanizzazione” si stiano sviluppando oggi giorno in alcune zone dell’Europa, ad esempio nel Mar Mediterraneo o nei ghetti dei braccianti in Puglia? Il medesimo appello di lancio della Marcia contro lo Sfruttamento evoca tale connessione, quando afferma che “da Salvini a Bolsonaro passando per Trump, è in atto una sempre più forte legittimazione della morte di chi è considerato altro, estraneo, straniero, nemico”.
Certamente comparare i campi dei braccianti agricoli in Puglia con il lavoro negli alberghi sarebbe un’operazione molto discutibile. Al medesimo tempo, è legittimo ricordare come la morte violenta di una donna rumena trovata nell’estate 2009. Si chiamava Eva Ana Bocean ed “il 19 agosto fu trovata agonizzante, da un passante, distesa a terra e morì poco dopo all’ospedale. Le furono trovate diverse emorragie e ferite ai polsi e alle caviglie. L’albergatore, le sue colleghe, e Riccardo Muzzioli, titolare dell’agenzia rumena rilasciarono le loro testimonianze agli investigatori. Il datore di lavoro e le colleghe riportarono la medesima versione, ovvero che la lavoratrice vedeva i fantasmi e parlava del diavolo, conseguentemente fu descritta come una persona psichicamente disturbata. Una donna morta in dinamiche misteriose, reclutata attraverso un’agenzia internazionale
e presente presso tale albergo senza regolare contratto fu considerata come persone pericolosa e non destò nell’opinione pubblica e nelle istituzioni un momento di riflessione e di lutto.

 

Prospettiva femminista e il lavoro delle donne

 
In merito alla condizione di colpevolizzazione della vittima di incidente o di violenza eterodiretta riflette la comunicazione dell’attivista di Non Una di Meno, attraverso le seguenti parole “viviamo in un’epoca in cui la vittima, sia essa un lavoratore pesantemente sfruttato, una donna stuprata viene sistematicamente criminalizzata e colpevolizzata” solitamente ci si chiede “Se si fosse comportata in una maniera corretta, se avesse studiato per avere un lavoro migliore, se non avesse provocato con abiti succinti e atteggiamenti ammiccanti”.

La dimensione di genere riveste una notevole importanza, visto che le lavoratrici che nel 2014 contano per il 59,4% degli avviamenti al lavoro sono prevalentemente assunte per mansioni di media o bassa qualifica quali cameriere, segretarie e addette al ricevimento; laddove gli uomini sono un’ampia maggioranza tra i portieri di notte, i cuochi e i maître d’hotel (Cpi Rimini, 2015, 35-36). All’interno della forza lavoro migrante, le donne sono il 77% degli assunti romeni, il 71,8% dei moldavi, l’80% dei polacchi mentre rappresentano una minoranza tra i senegalesi (11,9%) e tra i marocchini (36,1%) (Cpi Rimini, 2015, 53).
In tale contesto, si inserisce l’ultimo caso di donna migrante che ha subito violenza da parte del titolare dell’azienda dove era impiegata. La lavoratrice racconta al segretario della CGIL “mi ha colpito sulla testa con una zuppiera di plastica mezza piena di besciamella. Poi mi ha strattonato tenendomi per il collo. È la storia di Boguslawa, percossa dal padrone dell’albergo perché riteneva il suo lavoro imperfetto”. In questo caso, la violenza di genere è evidente e la donna espone chiaramente i postumi, diversi giorni dopo aver subito l’attacco dell’uomo.
La marcia contro lo sfruttamento del 6 agosto 2019 ha rappresentato a livello qualitativo e
quantitativo una novità all’interno del contesto del distretto del turismo, visto che oltre 500 persone sono scese in strada, con il coinvolgimento di cittadini di tutte le età e con una forte componente di migranti in testa al corteo. Si possono segnalare alcuni limiti, tra cui sicuramente la mancanza delle lavoratrici giunte a Rimini dalle nazioni dell’Est Europa. Un dato fattuale, a cui è difficile ora fornire interpretazioni. Una donna rumena, in particolare da Cruj, mi ha narrato le sue condizioni di lavoro con le seguenti parole “Io lavoro dalle 7 e mezzo del mattino fino alle 10 di sera e faccio 2 ore di pausa nel pomeriggio, poi dipende sempre da come siamo messi. Ho diciotto camere da fare
dalle 8.30 alle 13.30 e non riesco a fumare nemmeno una sigaretta… dopo scendo giù in cucina e do una mano alla cuoca e lavo i tegami mentre l’altra lava i piatti, fino alle 3 – 3 e mezza; vado via e poi torno alle 6 e lavoro in cucina, aiuto cuoco o lavapiatti, fino alle 10 o 10 e mezza”. Altri incontro dopo l’intervista mi ha dato l’occasione di apprendere che all’Ispettore del Lavoro aveva raccontato condizioni di lavoro legali e rispettose del Contratto di Lavoro del Turismo.

 

Le vertenze

Un secondo dato da raccogliere è relativo al fatto che i diversi interventi all’interno della marcia
contro lo sfruttamento sono stati in prevalenza da attivisti di decine di associazioni, singoli
antirazzisti e sindacati. Oltre alla testimonianza del bracciante agricolo Saho, si segnala la
mancanza della presa di parola di lavoratori per narrare la propria condizione di lavoro o vertenza lavorativa. In questa dimensione del corteo, rappresenta un’anomalia la comunicazione di un educatore sociale. Il lavoratore ha raccontato la mobilitazione dei propri colleghi contro il contratto di lavoro recentemente firmato dai sindacati confederali, ma aspramente criticato dai medesimi educatori sociali per diversi aspetti, tra cui il basso salario, che non li mette in condizioni di vivere una vita dignitosa e potersi percepire come soggetti qualificati e valorizzati dalle istituzioni locali.
Al medesimo tempo, durante il corteo Stella Mecozzi (Mani Tese) ha comunicato come “non sia sufficiente una manifestazione”, ma “è necessario un intervento culturale quotidiano per far rispettare i diritti umani”. Tale considerazione di realismo, alla fine della manifestazione si è intrecciata alla consapevolezza che le strade principali del distretto del turismo riminese, tra “ le bandiere ed i gelati” non erano attraversate da un corteo contro lo sfruttamento con tale partecipazione da diversi decenni, raccogliendo la curiosità di alcune lavoratrici e tantissimi turisti. Nella parte conclusiva del suo intervento, il signor Saho ci conduce alla volontà di costruire la memoria collettiva “erano miei fratelli. Mangiavamo insieme e dormivamo insieme. Non posso dimenticare. Non voglio”.

Marco Caligari, Genova, 09 Agosto 2019.

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Scomparso Sergio Semprini Cesari, pioniere della lotta alla droga riminese e della sussidiarietà, fu tra i fondatori del modello Comunità Terapeutica di Vallecchio.

Cooperativa sociale Cento Fiori - Mer, 14/08/2019 - 16:33
Oltre quarant’anni di impegno sanitario, politico, sociale che ha permeato profondamente la storia di Rimini. Sergio Semprini Cesari con il gruppo del Cmas, influenzò le politiche regionali di gestione delle comunità terapeutiche.

Il mondo riminese della lotta alle dipendenze, e con esso la Cooperativa Sociale Cento Fiori, è in lutto: è spirato questa mattina Sergio Semprini Cesari, uno dei perni intorno ai quali si sono create tutte le politiche di prevenzione e di lotta alla droga dalla fine degli anni ‘70 ad oggi. Sociologo, dirigente del Cmas, prima denominazione del Servizio Tossicodipendenza dell’allora Azienda Usl Rimini Nord, ha portato il suo attivismo fuori dall’ambito sanitario per farlo approdare nella cosiddetta società civile. Gettando le basi per la nascita della Cooperativa Sociale Cento Fiori prima e della Comunità terapeutica di Vallecchio poi. Una storia lunga circa quarant’anni di impegno sanitario, politico, sociale che ha permeato profondamente la storia di Rimini, per lasciarla ora sgomenta nel dolore. «Cara Caterina – hanno scritto gli operatori della Cooperativa Sociale Cento Fiori alla moglie – in questo triste momento siamo vicini a te e famiglia nel dolore per la scomparsa del caro Sergio». Mentre la famiglia invita «chi volesse passare a fare un saluto, le esequie ci saranno venerdì dalle 16 alle 17 alla camera ardente del Cimitero di Rimini. Buona vita a tutti».

Il suo impegno sociale viene dal 1968. Leonardo Montecchi, psichiatra del Sert e collega da decenni, lo ricorda come «una persona molto attiva e passionale, appassionato di musica, di tendenze giovanili, appassionato al lavoro che faceva: ci credeva pienamente. E nel Movimento si era ritagliato un suo ruolo. Dopo la riforma sanitaria si è occupato sia del Consultorio sia del servizio dipendenze, che si chiamava Cmas. Con la sua spinta è riuscito a creare un clima di interesse, per cui le persone venivano, sentivano che c’era questa volontà di cambiamento e di fare, percepivano un agire completamente antiburocratico».

Montecchi ricorda che Semprini Cesari «era un esponente importante del Pci della sezione Nicolò – Tre Martiri. Organizzò un Festival dell’Unità a Marina centro con un concerto memorabile del jazzista di fama mondiale Don Cherry. Riusciva a cogliere aspetti culturali e politici e faceva le sue battaglie, per avere un partito più vicino ai movimenti, a quel tempo. Non era certamente un burocrate, come struttura intellettuale: era un uomo d’azione ma anche di pensiero. Ricordo i libri che abbiamo fatto insieme, il primo è Rimini una città contro la droga, e poi Cambiare. Il modello operativo del Sert di Rimini, con Massimo Ferrari».

Nel 1980 non si parlava ancora di Sussidiarietà. Il tema della droga si giocava su due ambiti separati. Da una parte i servizi pubblici, dall’altra le comunità terapeutiche. Questo modello però viene messo in discussione proprio a Rimini, con il Cmas di Sergio Semprini Cesari in prima fila. Ricorda Werther Mussoni, fondatore della Cooperativa Sociale Cento Fiori e della Comunità Terapeutica di Vallecchio: «la collaborazione tra pubblico e privato è stata la prima in Italia, tant’è che è diventata un modello. Prima fra tutte per la Regione Emilia Romagna, che l’ha preso come modo di gestire le comunità terapeutiche, definendole come “enti ausiliari”. Quindi un ruolo attivo».

Ma quale era la situazione riminese nell’ambito delle dipendenze? Un quadro viene da un volantino firmato dagli operatori del Cmas, da giovani e dalle famiglie di tossicodipendenti di Rimini, chiamando a raccolta per una manifestazione cittadina contro la droga: «“Esistono due tipi di assuefazione all’eroina: l’assuefazione del tossicomane e l’assuefazione dell’opinione pubblica. Un’efficace attività preventiva deve combattere questo secondo tipo di abitudine. L’eroina a Rimini nel giro di tre anni ha assunto dimensioni preoccupanti. I tossicomani che si sono rivolti al C.M.A.S (Centro Medico di Assistenza Sociale) per disintossicarsi sono in continuo aumento. L’incremento nel periodo 30/9/1979-30/4/1980 è stato del 187% di eroinomani al di sotto dei 20 anni, del 9.5% tra i 20 e i 24 anni e del 51% al di sopra dei 25 anni. Da questi dati si può notare che il mercato punti decisamente sugli adolescenti e di come questi caschino nella rete. […] A Rimini e circondario esistono circa 600 tossicomani, comperano in media 50mila lire di eroina al giorno. Con una semplice operazione scopriamo che il mercato è di 30 milioni al giorno, 900 milioni al mese, circa 12 miliardi all’anno”.

«Avevamo capito che Rimini non si rendeva conto di cosa stava succedendo – ricorda Leonardo Montecchi, psichiatra all’epoca in forza al Cmas insieme a Sergio Semprini Cesari e Massimo Ferrari, ora al Sert – alla fine degli anni ’70 arrivava al Centro per curarsi un sacco di gente, eravamo pochi e con pochi mezzi». «C’era un movimento di massa che spingeva per trovare soluzioni al problema droga diverse da quelle esistenti – dice Werther Mussoni – per i non credenti la comunità della Papa Giovanni XXIII poteva non essere adatta. Così come non lo era una comunità come San Patrignano dove una figura carismatica sostituiva il Cristo, ovvero il Santone, convinti come eravamo che per aggredire il problema della droga ognuno doveva trovare le risposte dentro di sé».

Il Cmas, con Sergio Semprini Cesari e il gruppo di lavoro che si era formato intorno a lui, per tenere sotto controllo il fenomeno e per arginare l’eroina accentra su di sé la distribuzione del metadone, distribuendolo come terapia. Nel centro di via Bonsi non si distribuisce solo metadone. Si fa attività di Centro Diurno con i pazienti, le loro famiglie. Il comitato genitori, l’assemblea degli utenti e gli operatori stampano volantini, pubblicano la rivista «Giù la maschera» e il giornale «Centolire».Per completare questo modello riminese, all’ambulatorio e al centro diurno manca la terza struttura, la comunità. È attraverso quella che si può completare il lavoro sui pazienti, distogliendoli dal richiamo della «piazza». Dentro al Cmas nasce la cooperativa Sociale Cento Fiori, primo presidente il dottor William Raffaeli, pochi mesi dopo prende il suo posto Werther Mussoni. Ma «una cooperativa non poteva essere una risposta – dice Mussoni – sì, c’era qualche attività artigianale, ma avevamo bisogno di una struttura che “troncasse” con la piazza».

Sergio Semprini Cesari cercò tra i terreni pubblici e trovò il podere Fonte a Vallecchio, che era dell’ospedale Fantini di Montescudo. Cominciammo un’operazione per mettere d’accordo tutti, Circondario (l’equivalente istituzionale della Provincia di oggi) e Comuni volevano una comunità di tipo pubblico, gestita da un privato cooperativo. Occorreva convincere Montescudo a «mollare» e lo fece in cambio di un servizio di trasporto scolastico e una nuova destinazione per l’ospedale. «E mentre la trattativa tra le istituzioni procedeva – ricorda Mussoni – per stimolare enti locali e burocrazia occupammo il podere e iniziammo i lavori». Il 23 maggio del 1984 firmarono la convenzione i Comuni di Montescudo, Rimini e la cooperativa. «Tutta questa voglia di fare ha realizzato qualcosa perché le Amministrazioni locali non ne volevano sapere di una nuova comunità organizzata come un Principato, con proprie frontiere e regole. Pubblico e privato volevano qualcosa di trasparente, con metodi conosciuti, condivisi, democratici, dove chiunque poteva entrare e vedere cosa stesse accadendo dentro. Creammo per la prima volta ciò che oggi chiamano «sussidiarietà». Ciascuno dava il meglio di quello che aveva: l’Ausl il Cmas, la cooperativa spirito di avventura, voglia di fare e le capacità imprenditoriale e di adeguarsi».

«Era un grande appassionato di mare – ricorda Montecchi – si è battuto per la nascita del progetto Ulisse, per restaurare la goletta Catholica e per farne un progetto che potesse coinvolgere le persone che stavano in comunità, evidenziando come un gruppo nella barca potesse essere uno strumento terapeutico». Un progetto che continua tutt’ora con le crociere terapeutiche – catalogate in ambito universitario come esperienze di “outdoor education” – anche se con altre tipologie di barche. Ma andava anche oltre il progetto Ulisse: «aveva creato un equipaggio con i ragazzi della comunità terapeutica di Vallecchio – ricorda Mussoni – e con loro sul Chicaboba II aveva fatto la regata Rimini Corfù Rimini, organizzata dal Circolo Velico Riminese». «Lui era così – dice Montecchi – questo spirito di libertà che trasferiva alla persone. Penso che c’era una identificazione nel nome che aveva dato al progetto, Ulisse, con il suo personaggio».

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Match Fishing Italia sceglie il lago Arcobaleno Riccione per ambientare un videotutorial su diverse tecniche di carpfishing

Cooperativa sociale Cento Fiori - Mar, 13/08/2019 - 18:28
Scrive la seguitissima rivista di settore: «una piccola oasi luogo ideale per trascorrere qualche ora di pesca e relax insieme a tutta la famiglia»: della struttura gestita dalla cooperativa sociale Cento Fiori gestisce insieme alla Lago Arcobaleno ASD

«A pochi passi dalla splendida cittadina romagnola di Riccione c’è una piccola oasi luogo ideale per trascorrere qualche ora di pesca e relax insieme a tutta la famiglia, è il “Lago Arcobaleno” un impianto di pesca sportiva immerso nel verde dotato di ogni comfort, all’interno della struttura troverete un parco giochi per i più piccoli, un bar dove è possibile degustare le tante specialità della cucina romagnola, e soprattutto un angolo fornitissimo di attrezzature da pesca». E’ il lusinghiero “attacco” dell’articolo che la rivista Match Fishing Italia, una delle più seguite riviste on line di settore, dedica al lago Arcobaleno, la struttura di pesca sportiva che la cooperativa sociale Cento Fiori gestisce con l’omonima ASD.

Nei giorni scorsi l’articolista Giuseppe Trani, insieme a «Damiano Bottegoni alfiere del GPS Mondolfo nonché Rappresentante di zona della Tubertini e il presidentissimo del Team Romagna Cesare Genchini» sono scesi al lago Arcobaleno. Scrive Trani: «occasione ghiottissima per carpire qualche segreto della pesca alla Carpa in laghetto, che sarà oggetto di un video tutorial che pubblicheremo a breve sui nostri canali social, e dal quale abbiamo estrapolato qualche fermo immagine». Fermi immagine che potete guardare nell’articolo pubblicato dalla popolare rivista on line.

«Damiano e Cesare hanno affrontato questo specchio d’acqua, popolato di carpe e amur veramente cattive e combattive, con due approcci differenti, Damiano ha optato per la pesca sottosponda sul fondo, innescando i pellet forniti dai gestori del lago». Alla fine della sessione di pesca e della documentazione, foto di gruppo con i due pescatori e i nostri Ilaria Bartolini e Marco Samuelli.

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«Il mondo della solidarietà sotto attacco. Contro la deriva autoritaria in atto in Italia», incontro con il prof. Stefano Zamagni

Cooperativa sociale Cento Fiori - Dom, 11/08/2019 - 17:21
L’economista, presidente della Pontificia accademia delle Scienze sociali, invitato a Viserba dalla parrocchia di Santa Maria al mare lunedì 12 agosto alle ore 21 in piazza Pascoli a Viserba (ingresso gratuito).

Rimini (comunicato stampa) – Dalla chiusura dei porti alla criminalizzazione delle Ong, dal disprezzo dei poveri all’attacco frontale al mondo del no profit e del volontariato accusato di buonismo, se non di aperta inutilità.

Non c’era bisogno dell’ultimo decreto “Sicurezza bis,” che introduce nel nostro ordinamento il nuovo reato di umanità (salvare vite umane è diventato un crimine), per comprendere la deriva autoritaria su cui si sta avviando il nostro paese. Nell’indifferenza, o peggio con il favore di larghe fette di popolazione, anche dentro i confini della Chiesa, affascinati dal leader forte a contatto diretto col popolo…

A parlare di questa specie di mutazione antropologica oggi in atto in Italia sarà il prof. Stefano Zamagni, economista riminese conosciutissimo per i suoi studi in materia di economia sociale e, dal marzo scorso, presidente della Pontificia accademia delle Scienze sociali.

Invitato a Viserba dalla parrocchia di Santa Maria al Mare nell’ambito del ciclo di incontri estivi del lunedì sera, Zamagni spiegherà il disegno che sempre più chiaramente sta prendendo forma nel nostro paese: “Quello di una società civile che si vuole sempre più schiacciata tra le forze dello Stato e del mercato, con l’obiettivo non dichiarato di mettere sotto tutela gli enti del terzo settore, in termini sia di fondi da utilizzare (sempre di meno) che di progetti da realizzare”. Per questo, come ha spiegato in una recente intervista, “è necessario che i cattolici, a cui è legato in termini ideali il 70% delle organizzazioni attualmente presenti nella società civile e nel volontariato, non si tirino più indietro, si assumano le loro responsabilità e comincino a fare massa critica per poter incidere sulle scelte che davvero contano. Non farlo sarebbe peccato di omissione”.

L’appuntamento con il prof. Stefano Zamagni è in programma Lunedì 12 agosto alle ore 21 in Piazza Pascoli a Viserba (ingresso gratuito). Al termine, il relatore sarà disponibile per le domande del pubblico.

Per info: Don Aldo Fonti, Parroco di Santa Maria a mare, Viserba (RN)

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Quale può essere la nostra di resistenza?

Cooperativa sociale Cento Fiori - Ven, 09/08/2019 - 12:41
L’intervento di Nicoletta Russo, della cooperativa sociale Cento Fiori, alla manifestazione di Rimini “Dalle radici alle stelle. Marcia per i diritti contro lo sfruttamento”.

C’è un antropologa che a Palermo da anni si occupa di cercare di dare un nome a tutte le vittime del mediterraneo. E’ un lavoro difficile e meticoloso. Si chiama Giorgia Mirto ed è questa la sua resistenza: rendere umano ciò che si vorrebbe disumanizzare, anche nella morte.

Come operatrice dell’accoglienza mi sono chiesta tante volte quale potesse essere la nostra di resistenza, in un sistema che ci vorrebbe vedere gestire numeri e non persone; che ci vorrebbe carrarmati, in grado di passare sui corpi umani che incontriamo con indifferenza; un sistema dove le lacrime sono considerate deboli e poco professionali; dove ogni atto violento e razzista subito è etichettato come bravata o fatto di poco conto.

Come rendere umano tutto questo disumano?

Una risposta l’ho trovata negli occhi di Alagie un anno fa, il giorno in cui siamo arrivate [l’autrice e due colleghe della cooperativa, Federica Soglia e Camilla Pacassoni ndr] a trovarlo a Foggia dopo l’incidente.

Quando siamo entrate nella sua stanza, si è tolto la maschera dell’ossigeno che lo aiutava a respirare e ci ha detto: «Ebere, Bafode e Romanus, sono morti».

Alagie ha scandito quei nomi con tanta fatica e con altrettanta solennità. Pronunciare quei nomi è stato ed è per lui un obbligo, un dovere. L’impegno a non dimenticare quegli uomini.

Credo che non dimenticare significhi allora avere quello stesso coraggio che ha avuto Alagie nel dire che quegli uomini avevano un nome e di pronunciare quei nomi ogni giorno.

Credo che significhi, in un sistema che tenta di annientare l’altro nella sua dimensione di essere umano, impegnarci a riconoscere ogni uomo e donna come tale perché nel nostro riconoscimento possa sentirsi a sua volta uomo o donna con dignità e diritti, indipendentemente da provenienza o colore della pelle.

Credo che significhi tornare a chiederci

se questo è un uomo

che lavora nel fango

che non conosce pace

che lotta per mezzo pane

che muore per un si o per un no

Per noi oggi questa marcia e lo spazio comune con cui continueremo da domani rappresenta questo: partire dal lavoro per ridare un nome e con esso dignità e umanità a chi di lavoro è morto e a chi, di lavoro e di confini, continua a morire ogni giorno.

Tratto dalla pagina facebook della manifestazione Dalle radici alle stelle. Marcia per i diritti contro lo sfruttamento

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Dispositivi gruppali e trasformazioni istituzionali in un reparto psichiatrico ospedaliero

Scuola di prevenzione José Bleger Rimini - Ven, 09/08/2019 - 11:48

di Massimo De Berardinis

 “Nella vita psichica individuale l’altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come amico o avversario e in questo modo la psicologia individuale è allo stesso tempo e fin dall’inizio, psicologia sociale, in senso lato, ma pienamente giustificato”

S.Freud: psicologia delle masse ed analisi dell’io, 1921

 

Quando iniziai il mio percorso di formazione specialistica alla Clinica Psichiatrica dell’Università di Modena … correva l’anno… 1977.

Il Reparto femminile, cui ero stato assegnato, contava su una dotazione ufficiale di 19 posti letto che, di fatto, a causa delle numerosissime richieste di ricovero, non scendeva mai al di sotto dei 25 letti, con momenti di sovraffollamento in cui si superavano anche i 30 posti letto.

Le degenti, tutte rigidamente in vestaglia, trascorrevano la maggior parte del tempo nelle loro stanze, a letto; l’alternativa allo stare in camera era rappresentata dal camminare avanti e indietro per il lungo corridoio.

Le infermiere se ne stavano in guardiola a fare le loro cose, come dicevano le ricoverate, oppure agivano una stereotipata ritualità di atti quotidiani (sveglia, distribuzione delle terapie, carrello della colazione, ecc., ecc.) che si ripetevano sempre uguali; quando entravano in contatto con le pazienti lo facevano attraverso l’assunzione di un petulante “ruolo genitoriale, inappropriatamente “infantilizzante”.

 “… vieni qui da me Paolina, vieni …”, “…mangia Paolina … mangia … lo sai che ti fa bene …”; era la loro maniera di “accudire” le ricoverate; non conoscevano altri modi ma erano in buona fede e le pazienti sembravano capirlo.

I medici, dal canto loro, erano sempre “di corsa”; attraversavano veloci il corridoio tagliando con sapiente perizia la folla delle “questuanti”: “… dottore… dottore… mi ascolti dottore …”, sino a raggiungere gli ambulatori cui le pazienti potevano accedere solo su chiamata ed accompagnate dalle infermiere.

Le stesse infermiere venivano chiamate con un campanello che trillava direttamente nella “guardiola”.

Dopo tempi imprevedibili il campanello cessava di suonare ed i medici “riemergevano” dagli ambulatori per sparire definitivamente, in fondo al corridoio, al di là della porta che separava il Reparto dal “mondo di fuori”.

In quest’atmosfera spersonalizzata e regressiva, il tempo scorreva con una tranquillità innaturale, interrotta, ogni tanto, solo da urla improvvise, sbattimenti di porte e veloci tramestii di passi; poi… tutto tornava come prima, come se nulla fosse accaduto.

Le pazienti, che vivevano in questo stato di “sospensione”, sembravano aver trovato “nell’aspettare” il senso del loro stare in Reparto: aspettavano che arrivasse il carrello dei pasti; aspettavano di fumare le sigarette che le infermiere concedevano loro… una alla volta; aspettavano la visita dei famigliari; aspettavano in fila per andare in bagno; aspettavano la somministrazione delle terapie… ma soprattutto… aspettavano di essere chiamate dal medico per “il colloquio”… il mitico colloquio!

In Clinica, infatti, i medici, non senza una punta di orgoglio, avevano da tempo abbandonato il classico “giro” al letto delle malate per sostituirlo con momenti di colloquio.

Al tempo i colloqui erano fondamentalmente di due tipi: uno era il colloquio con i famigliari, al quale le ricoverate erano ammesse solo alla fine per essere informate, “in modo semplice”, delle decisioni che erano state prese sul loro conto; l’altro era quello con le pazienti ed era soprattutto orientato ad una valutazione medico comportamentale: dorme, non dorme, mangia, va di corpo, delira, è allucinata, è aggressiva, rifiuta le terapie, ecc., ecc.

Ora qui sarebbe lungo addentrarsi nel dettaglio delle vicende che, a partire da questa realtà, consentirono la progressiva trasformazione del Reparto, per cui citerò solo alcuni dei passaggi, per me più significativi, di quel percorso.

Il primo elemento di cambiamento, preliminare a tutto il seguito, consistette nell’adibire una grande stanza ad otto letti a sala da pranzo e di intrattenimento; questo cambiamento, apparentemente banale, fu quello che permise i miei primi avvicinamenti alla vita delle ricoverate.

Era solitamente di pomeriggio, sotto lo sguardo un po’ contrariato (perché “turbava” la routine del Reparto) ma insieme anche curioso delle infermiere, che cominciai a prendere l’abitudine di mettermi a sedere ad un tavolo della nuova sala; me ne stavo lì, guardandomi intorno, finchè qualche paziente, con fare un po’ incerto, si avvicinava, si sedeva e cominciava a parlarmi; poi se ne avvicinava un’altra e un’altra ancora, così, piano piano, si formava un gruppetto “di chiacchiera”. Il giorno successivo la scena si ripeteva ed il gruppo si ricomponeva… gli argomenti erano quelli della quotidianità, i figli, i problemi di lavoro… i soldi… ecc., ed io… “nuovo del mestiere”… restavo colpito da questi momenti in cui le pazienti “quasi non sembravano pazienti”, come invece avveniva negli altri momenti di incontro “ufficiale” con il medico.

Il secondo elemento di cambiamento riguardò la trasformazione dello spazio mattutino delle cosiddette “consegne”; uno spazio che noi specializzandi avevamo ribattezzato dispregiativamente “riunione cacca e piscio” perché essenzialmente deputato ad acquisire informazioni, tramite le infermiere, sull’andamento di queste funzioni corporali e sugli aspetti più grossolanamente comportamentali delle ricoverate: ha dormito, non ha dormito, è andata di corpo, non è andata di corpo, ha preso le medicine, non ha preso le medicine…

L’aspirazione del nostro gruppo era invece quello di dare vita ad una riunione d’équipe nella quale, accanto alle questioni di ordine organizzativo-gestionale della quotidianità spicciola, si potessero sviluppare discussioni cliniche sul funzionamento psicologico delle pazienti, sull’andamento delle loro storie famigliari, sul tipo di trattamento da condurre in Reparto, ecc.; ma il conseguimento di questo obiettivo ci impegnò a lungo, vista anche l’evidente sperequazione di potere decisionale che caratterizzava inizialmente la nostra posizione: all’inizio nessuno di noi era “strutturato”.

In quegli anni, quando si parlava di riunioni, ci si riferiva ovviamente a riunioni tra operatori; infatti, se si eccettuano le esperienze assembleari che si erano tenute in alcuni Ospedali Psichiatrici, come a Gorizia, Trieste, Arezzo ed in poche altre realtà, vi erano in Italia rarissime esperienze di attività di gruppo con pazienti ricoverati.

A noi, del Reparto Donne, così ci chiamavamo, occorsero più di due anni prima di poter riuscire ad organizzare delle riunioni a cadenza regolare con le ricoverate.

Queste riunioni, che pure si rivelarono già da subito come un potente strumento in grado di ridurre l’aggressività e dare un senso al tempo trascorso all’interno del Reparto, dovettero convivere a lungo con la “ritualità” dei colloqui individuali, cui restavano fortemente legati non solo le pazienti ma anche i medici e le infermiere che, con il loro abbandono, temevano di perdere anche un pezzo della loro identità professionale.

La sostituzione dei colloqui individuali con le riunioni quotidiane con le pazienti, rappresentò quindi una tappa che richiese molto tempo e molta “pazienza” ed il cui conseguimento fu possibile solo grazie all’evidenza con la quale le pazienti che partecipavano ai gruppi presentavano miglioramenti clinici più significativi e più rapidi rispetto a quelle “seguite”con colloqui individuali.

Fu così che, pur tra mille difficoltà e resistenze, piano piano la riunione con le pazienti divenne il momento centrale dell’attività terapeutica del Reparto.

Si teneva tutte le mattine, dal lunedì al venerdì, per la durata di un’ora e mezza; vi partecipavano tutte le ricoverate e lo staff di Reparto, tranne un’infermiera che, a turno, restava “fuori” disponibile per le eventuali chiamate telefoniche, ritiro di esami, nuovi ingressi, ecc. e soprattutto per consentire a quelli che stavano “dentro” una sufficiente tranquillità per potersi concentrare su quanto avveniva nella riunione.

Un medico coordinava l’incontro mentre gli altri operatori fungevano da osservatori partecipanti. La discussione era a tema libero e la finalità ricercata, in particolare agli inizi, mirava a favorire una democraticità relazionale ispirata alle comunità terapeutiche di Maxwell Jones, ma anche un’attenuazione delle ansie ed un contenimento della frammentazione psicotica soprattutto nelle pazienti in fase di grave scompenso.

Questo assetto era reso possibile dall’atteggiamento, mantenuto da tutti gli operatori, di convogliare sistematicamente nello spazio della riunione tutte le problematiche concernenti le pazienti. Fatte salve le situazioni d’urgenza, infatti, ogni tentativo di instaurare rapporti individuali con figure dello staff veniva cortesemente scoraggiato e rinviato allo spazio – tempo della riunione.

Col procedere dell’esperienza il lavoro con i gruppi ci pose sempre di più a contatto con le “parti sane” delle pazienti (aspetto questo fortemente sottovalutato nella cultura degli ambienti di ricovero psichiatrico del tempo) ed in certo senso ci “costrinse” a rivedere molte delle nostre idee sulla malattia mentale, sul significato e soprattutto sul modo di condurre un ricovero psichiatrico.

Di seguito descriverò brevemente “i dispositivi” che, nel tempo, si aggiunsero alla riunione d’équipe ed alla riunione con le pazienti e che contribuirono a determinare  le più significative trasformazioni organizzativo-funzionali del Reparto.

L’incontro di accoglimento 

Giungemmo alla sua istituzione perché non potevamo più accettare il fatto che i ricoveri venissero disposti, dal Pronto Soccorso, sulla base di consulenze nelle quali l’indicazione al ricovero era sostenuta, quasi esclusivamente, dal riscontro di una sintomatologia psichiatrica o, ancor peggio, dalle pressioni esercitate dal contesto famigliare o micro sociale del paziente; cioè senza alcuna analisi della richiesta: chi chiedeva? Cosa chiedeva? Quale sarebbe potuta essere la risposta più adeguata? Tutto questo non accadeva e neppure si poteva pensare, allora, che potesse accadere nella realtà compressa e convulsa del Pronto Soccorso di un grande Policlinico.

Il nuovo spazio dell’accoglimento avrebbe quindi dovuto assolvere alla finalità di sviluppare un’analisi della richiesta, raccogliere informazioni sulle vicende che avevano condotto le pazienti al ricovero, formulare ipotesi di orientamento diagnostico e soprattutto (cosa per noi più importante di ogni altra) consentire, laddove il ricovero ci fosse apparso indicato, di giungere alla definizione di un “contratto” che esplicitasse, in modo chiaro e realistico, “la compromissione” di pazienti, famigliari ed équipe curante relativamente al lavoro da svolgere durante il ricovero. Il nostro intento, insomma, era quello di dare un “setting” al ricovero, cioè definirne contrattualmente lo spazio (il dove), il tempo (il quando e per quanto tempo), il ruolo (tra chi e chi) e il compito (per fare che cosa).

Immaginatevi che cosa accadde… riconoscere una contrattualità a pazienti quasi sempre affetti da quadri psicotici… ed in più… in fase di scompenso!

Ovviamente le resistenze non riguardavano solo i pazienti ed i loro famigliari… ma per noi questo passaggio rivestiva una valenza fondamentale; rappresentava una pre-condizione irrinunciabile per l’avvio di qualsiasi rapporto che avesse almeno l’aspirazione di svolgere una funzione terapeutica!

L’incontro, una volta istituito, aveva la durata di un’ora e mezza; si teneva tutte le mattine, dal lunedì al sabato, e vi prendevano parte, oltre alle pazienti ricoverate nella notte o il giorno precedente, anche tutte quelle pazienti, già ricoverate, con le quali non si era ancora giunti alla definizione di un “contratto di ricovero”; all’incontro erano invitati a partecipare, oltre ai famigliari delle pazienti, anche gli operatori dei Servizi di riferimento.

Per avere un’idea di quanto potesse essere “dirompente”, al tempo, questo tipo di approccio è sufficiente pensare a cosa accadrebbe, ancora oggi, se per esempio i colloqui che si tengono a scuola tra insegnanti e genitori cominciassero ad includere gli allievi… ed assumessero la forma della multifamigliarità!!

In questo spazio assai particolare, attraversato da transferts, controtransferts e proiezioni multiple, la natura delle “crisi dei sistemi famigliari” tendeva a mostrarsi in modo così intellegibile e rapido (… e non solo per gli operatori ma per tutti i partecipanti, non foss’altro per la forma drammatico – didascalica con la quale le crisi venivano per così dire… “messe in scena”…) da rendere assai spesso del tutto ingiustificato il prolungarsi dei ricoveri.

L’incontro di counseling con i famigliari

L’attivazione di questo dispositivo, che si teneva una volta alla settimana, per la durata di un’ora e mezza, discendeva, come ormai si sarà capito, dall’importanza che noi annettevamo al coinvolgimento della rete famigliare nel processo di cura.

L’incontro era pensato come uno spazio di ascolto per i famigliari che fosse in grado di accogliere ed elaborare richieste, ansie, transferenze e proiezioni in modo tale da favorire una rimodulazione, in termini meno stereotipati, dei ruoli “aggiudicati ed assunti” dai vari membri, all’interno di ciascun gruppo famigliare.

I famigliari delle ricoverate venivano invitati a partecipare agli incontri già in fase di accoglimento; nella “consegna” di avvio del gruppo veniva chiarito che, per motivi di riservatezza, non sarebbero state fornite informazioni riguardanti le persone ricoverate; anzi, per tutto quanto concerneva il loro stato di salute si rinviava direttamente alle interessate che, si sottolineava, erano perfettamente al corrente di ogni aspetto che riguardasse il loro programma di cura: terapie seguite, risultati di esami, durata presumibile del ricovero, eventuale data della dimissione, ecc. ecc.

Anche qui si può immaginare la reazione dei famigliari. “… Ma allora questo incontro è per noi!!… ma noi non siamo mica malati!!… voi dovete dirci come stanno!!… ve le abbiamo portate per curarle… non siamo mica noi quelli da curare!!…”

Nonostante queste vivaci reazioni e le indignate proteste al Direttore della Clinica e sin anche alla Direzione Sanitaria del Policlinico, lo staff, senza arretramenti sul piano del rispetto del segreto professionale nei confronti delle signore ricoverate, ribadiva con fermezza che l’incontro non era finalizzato a fornire informazioni, bensì a  condividere le difficoltà che un gruppo famigliare si può trovare ad affrontare in occasione del ricovero di uno dei suoi membri.

Il nostro obiettivo era quello di “spingere” i famigliari a ripensare le loro congiunte  ricoverate, non come delle “pazienti” (come loro stessi ormai le definivano) ma come figlie, madri, mogli, ecc., momentaneamente in difficoltà; perciò rifiutavamo con forza quella richiesta di “alleanza”, alle loro spalle, che i famigliari ci riproponevano costantemente.

L’incontro di discussione clinica e di supervisione

Dopo ognuna delle riunioni descritte l’équipe di Reparto si ritrovava in un post-riunione, come lo chiamavamo allora, che aveva la durata di un’ora, per discutere e riflettere sugli accadimenti che le avevano caratterizzate.

Una volta alla settimana le situazioni più problematiche venivano affrontate all’interno di una supervisione con un collega psicoanalista esterno alle attività del Reparto.

Se la riunione con le ricoverate costituiva certamente “il cuore” del processo terapeutico, il post-riunione rappresentò, altrettanto certamente, “il cuore” del processo formativo di tutta l’équipe di Reparto.

Con questo assetto: riunione d’équipeincontro di accoglimento – riunione con le pazienti – incontro di counseling con i famigliari – incontro di discussione clinica e di supervisione, il Reparto andò avanti per alcuni anni.

Anni durante i quali maturarono e soprattutto si trasformarono profondamente la cultura e l’operatività di tutta l’équipe del Reparto.

La riflessione sulla interazione tra sistema famigliare e sistema istituzionale di cura, facilitata dai dispositivi gruppali che avevamo posto in essere, ci permise di renderci conto della inadeguatezza dei paradigmi concettuali con i quali operavamo e stimolò in noi la ricerca di nuove forme di approccio alle gravi situazioni  di scompenso psichiatrico che giungevano alla nostra osservazione; le strade individuate tramite quell’impegno di ricerca ci condussero all’abbandono della “cultura” dell’intervento “sul” paziente a vantaggio di una pratica di lavoro “con” il paziente ed il suo contesto.

In particolare ricordo che andarono in pezzi due classici approcci molto “di moda” in quel periodo: quello caratterizzato dalla cosiddetta “alleanza tra sani”, cioè tra famigliari e terapeuti, di cui fu possibile comprendere appieno la negatività rispetto ai percorsi di crescita psicologica delle pazienti e quello, sviluppatosi in opposizione al primo, caratterizzato dall’alleanza tra pazienti e terapeuti sullo stile “… lei è così perché ha avuto i famigliari che ha… ma vedrà… con noi sarà diverso…” 

L’uscita da queste forme di “collusività”, proprie di certa “psichiatria paternalistica” del tempo, ci permise di collocarci in una nuova e diversa posizione che per essere mantenuta necessitava però di ulteriore studio e formazione.

Lo studio della psicoanalisi ed in particolare del pensiero di Bion e di Pichon Rivière, nutrì la prima delle due esigenze, mentre la seconda trovò risposta nell’incontro con Armando Bauleo.

Alla luce del nuovo armamentario culturale di cui ci stavamo dotando, ci apparve chiaro che i diversi dispositivi che avevamo mano a mano impiantato, altro non erano se non apparati con i quali avevamo cercato di “trattare”, in maniera “separata”, i diversi aspetti di quel fenomeno, “complesso ma unitario”, rappresentato dalla malattia mentale.

Ciò che i dispositivi gruppali ci avevano consentito di “vedere” contribuì in maniera decisiva alla trasformazione del nostro modo di “pensare” il rapporto malato – malattia; dovemmo così accettare che la malattia mentale, contrariamente a quanto sostenuto dalla Psichiatria classica, non si esauriva “nel” malato, rappresentando un fenomeno di assai più ampia dimensione, in grado di interessare tutto il contesto storico e relazionale del soggetto.

Voglio dire che l’esercizio di queste pratiche terapeutiche ci aiutò a comprendere che la salute e la malattia mentale non sono fenomenologie “chiuse” nella dimensione intra-soggettiva, o addirittura intra-cerebrale, come sostenuto da certa psichiatria organicistica, bensì “aperte” alla dimensione inter-soggettiva e di contesto.

Alla rilettura delle evidenze che ci provenivano dalla clinica non potevano non fare seguito consequenziali trasformazioni sul piano dell’operatività; trasformazioni che in effetti non tardarono ad apparire, spingendo il Reparto Donne ad abbandonare la sua tradizionale organizzazione ospedaliera per trasformarsi in una realtà terapeutica, del tutto sui generis, di centro psichiatrico per le crisi; un’esperienza a tutt’oggi mai più replicata.

L’incontro di accoglimento permanente

Il nuovo strumento terapeutico, pensato per riunificare tutti i dispositivi terapeutici precedenti, prese il nome di accoglimento permanente; aveva la durata di due ore e si teneva tutte le mattine dal Lunedì al Sabato; un medico coordinava l’incontro mentre gli altri componenti dello staff, tranne un’infermiera che a turno restava fuori, svolgevano il ruolo di osservatori partecipanti.

Al gruppo partecipavano, oltre alle pazienti ricoverate, i loro famigliari e, quando possibile, anche gli operatori dei servizi di riferimento territoriale.

Il compito manifesto, esplicitato nella consegna, si componeva di due parti; la prima riguardava il come mai erano lì… il che cosa era accaduto; la seconda riguardava il che cosa pensavano di fare.

Il lavoro del gruppo prendeva le mosse dalla situazione presente, quindi muoveva verso il passato, e da qui piegava verso il futuro; poi tornava al presente, di nuovo al passato, di nuovo al futuro…

In questo andare e venire il gruppo raccontava le sue storie; i soggetti entravano nei loro ruoli, a volte se li scambiavano, si confondevano, sparivano e riapparivano; i confini famigliari si sfumavano, si rimodellavano, a volte i membri di una famiglia “entravano a far parte” di un’altra e viceversa, tutto si metteva in movimento, era come una grande rappresentazione teatrale in cui tutti gli attori (pazienti, famigliari e terapeuti) contribuivano alla costruzione di una trama continuamente rimodulata; quando il gruppo terminava, foss’anche solo per un piccolissimo aspetto, nessuno, e questo valeva anche per i terapeuti, poteva sentirsi uguale a prima.

Dopo un lungo cercare ci eravamo finalmente imbattuti in questo fantastico strumento di cura; una grande “giostra ricombinante” dove, in un intergioco di fenomeni transferali, controtranferali, proiettivi ed introiettivi, era possibile, per tutti i soggetti, rimettere in gioco la forma dei propri vincoli interni.

Il setting assunto dal centro crisi permise alla nuova struttura di svolgere quella necessaria funzione di “contenitore”, di “non processo”, che consentiva il dispiegarsi di “processi terapeutici” in grado di abbracciare contemporaneamente la dimensione individuale, famigliare e istituzionale.

Tutto ciò si tradusse in un’ accelerazione dei tempi di risoluzione delle crisi tanto vertiginosa che la presenza media giornaliera delle ricoverate, già fortemente calata con gli assetti che il Reparto era venuto mano a mano assumendo,  raggiunse i valori record di 5/6 presenze medie giornaliere!!

Ma nonostante gli importanti risultati sul piano clinico non tutto andò per il meglio.

Se, infatti, le precedenti trasformazioni istituzionali che avevano interessato il Reparto non ne avevano mai realmente messo in discussione la “sopravvivenza”, ora le cose cominciavano a prendere una piega diversa… quei dati, quei numeri, se da un lato parlavano di un’incontestabile riuscita, dall’altro aprivano la porta a scenari nuovi, inimmaginabili sino ad allora.

Il ricovero, come lo si pensava solo pochi anni prima, almeno da noi, non esisteva più, né nei numeri né nella durata né nelle finalità.

Il Reparto stesso, con le sue stanze sempre più vuote, “risuonava come un luogo del passato”… finanche il numero dei sanitari, che ai  tempi delle 30 ricoverate e dei colloqui individuali era decisamente insufficiente, ora iniziava ad apparire inutilmente sovradimensionato per questa funzione.

La percezione, ancorchè confusa, del fatto che la somma di tutti i cambiamenti realizzati nel corso degli anni stava producendo una trasformazione che andava ben al di là dell’assetto organizzativo del Reparto, investendo alla radice la nostra concezione della cura in Psichiatria, iniziò a produrre in noi reazioni inconsapevoli e scomposte.

La resistenza al cambiamento, che era sempre stata espressa soprattutto dalla Direzione della Clinica, dalla Direzione Ospedaliera, dai Servizi Territoriali, dai pazienti e dai famigliari, improvvisamente passò ad essere “interna” al gruppo dei medici e delle infermiere che sino ad allora avevano combattuto per il cambiamento: “… si però… adesso basta… dove dobbiamo arrivare?… basta!…”. Frenavano, volevano tornare indietro…

Non me lo sarei mai aspettato; proprio ora che le cose cominciavano a cambiare veramente.

Cercai in ogni modo di ricomporre il gruppo, ma non ci fu verso: il “vento controrivoluzionario” spirava forte e la mia capacità di comprendere ed intervenire nelle dinamiche istituzionali non fu all’altezza della situazione.

Mi sentii tradito, deluso e sospinto anche da altre conflittualità sul piano professionale, decisi di andarmene… aggiungendo così anche il mio contributo alla causa della resistenza al cambiamento!

Piano piano l’esperienza regredì e fu riassorbita, col tempo cambiò anche parte del personale ed un po’ alla volta… fu dimenticata… ma non tutto è stato dimenticato!

 

Riassunto

L’Autore riferisce, in questa comunicazione, di un’originale esperienza di lavoro condotta nel Reparto femminile della Clinica Psichiatrica dell’Università di Modena.

Vengono ripercorse alcune delle fasi più significative di questa esperienza che, lungo l’arco di un decennio (dal 1977 al 1987), condussero il Reparto Donne della Clinica ad abbandonare la sua tradizionale organizzazione ospedaliera per trasformarsi in una realtà terapeutica sui generis.

Le progressive introduzioni, nella realtà operativa del Reparto, di dispositivi gruppali quali la riunione d’équipe, la riunione con le pazienti ricoverate, l’incontro di counseling famigliare, il gruppo di accoglimento e la supervisione periodica di gruppo, rappresentarono “la chiave di volta” di un profondo cambiamento  nella maniera di “leggere” la malattia e nel modo stesso di pensare il ricovero.

L’interazione tra sistema famigliare e sistema istituzionale, filtrata dai dispositivi gruppali, pose presto in evidenza la stereotipia operativo – concettuale che caratterizzava lo stile di lavoro del Reparto stimolando la ricerca di nuove forme di approccio alle gravi situazioni  di scompenso psichiatrico; le strade individuate tramite quella ricerca segnarono l’abbandono della “cultura” dell’intervento “sul” paziente per passare ad una pratica di lavoro “con” il paziente ed il suo contesto.

 

Bibliografia

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Viaggio nell’informatica alla Comunità Terapeutica di Vallecchio: nell’aula studi donata da Sgr group Rimini concluso il primo ciclo di lezioni

Cooperativa sociale Cento Fiori - Mer, 07/08/2019 - 16:54
Grazie ai Pc donati alcuni pazienti hanno mosso i primi passi: «abbiamo iniziato smontando un computer, hanno imparato a usarlo, a scrivere un breve articolo e, infine, il loro curriculum». L’obbiettivo: lavorare per il futuro.

Hanno cominciato smontando un computer, per vedere come è fatto e capire, poi, meglio, come funziona. Poi, passo a passo, si sono avventurati nell’informatica: sono stati i primi allievi del corso di base organizzato alla Comunità Terapeutica di Vallecchio. Tutto è nato dalla donazione di SGR Group di una decina di PC, macchine non nuovissime ma complete e perfettamente funzionanti. Sulle quali, una volta installato il sistema operativo open source Linux, chiunque potrà utilizzarne i software per lavoro e per il tempo libero.

Dalla configurazione dell’hardware al funzionamento del sistema operativo, dal byte alla gestione dei file, da come si scrive un testo a come si salva: tutte le nozioni e le operazioni di base sono state passate in rassegna. «Non è stata una passeggiata per i pazienti», dice Enrico Rotelli, responsabile della Comunicazione della Cooperativa Sociale Cento Fiori e curatore del progetto. «Assimilare nozioni complesse mentre si è impegnati in una delle prove più difficili per una persona, l’emanciparsi da una dipendenza, è una prova da far tremare i polsi. E infatti, dei cinque che hanno iniziato solo in due sono arrivati alla fine del corso. Ma vedere persone che non avevano mai acceso un computer stampare, dopo poche settimane, il proprio curriculum è stato motivo di orgoglio».

Notevole anche lo sforzo dello staff della Comunità Terapeutica di Vallecchio, dagli educatori al personale organizzativo. «Le ore di lezione che si tenevano al sabato – dice ancora Rotelli – in realtà sono state precedute dall’allestimento dell’aula studi, ricavata dalla biblioteca. Ma soprattutto dai numerosi consigli che ho ricevuto. In parte per cercare di rendere questo esperimento più proficuo possibile, in parte per mettermi nelle condizioni di essere efficace. Un conto è insegnare i rudimenti di informatica a un corso di formazione, un conto è confrontarsi con i pazienti in fase di recupero. E’ una prova alla quale non ero preparato e che mi ha permesso di cominciare a intuire quanta professionalità e quanta fatica c’è dietro ogni ruolo in una comunità terapeutica o in un Sert. E’ stato un bagno di realtà, nella vita dei pazienti e nel lavoro di educatori e psicoterapeuti».

Alcuni degli allievi non avevano mai usato un Pc, solo smartphone, scontrandosi con l’uso non semplice del mouse. «Per ovviare al problema, li abbiamo fatti giocare un po’ a “campo minato” e, con un po’ di pratica, anche il mouse è diventato familiare. Abbiamo dedicato molta attenzione alle nozioni che potevano esser utili nella vita di tutti i giorni. Ad esempio come creare un account con una password “robusta” che protegga i nostri dati, cosa significano in pratica le parole gigabyte e ram, nozioni utili davanti al Pc ma anche quando si compra un piano tariffario o un cellulare. L’obbiettivo era lavorare insieme per il futuro, una volta fuori dalla comunità, nel lavoro e nel tempo libero».

«Il primo corso si è naturalmente esaurito, ora cercheremo di far fare pratica a chi l’ha completato. Nella pausa estiva ragioneremo come rilanciarlo – dice Gabriella Maggioli, vicepresidente della cooperativa sociale Cento Fiori e viceresponsabile della Comunità – probabilmente sarà utile organizzarlo a cicli, seguendo il naturale ricambio dei pazienti delle due strutture di Vallecchio, il Centro Osservazione e Diagnosi e la Comunità Terapeutica. E’ certo comunque che la formazione dei pazienti è uno degli aspetti più importanti per noi della Cento Fiori».

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Di nuovo in mare la crociera terapeutica della Cento Fiori. Hanno salpato sette pazienti della Comunità Terapeutica di Vallecchio, destinazione: Croazia.

Cooperativa sociale Cento Fiori - Mar, 23/07/2019 - 17:31
Tre educatori, tra cui lo skipper Ambrosani, accompagnano gli utenti nella terapia “outdoor” che da oltre 20 anni caratterizza il progetto Ulisse. Elisabetta Boffa: «esperienza conosciuta in università, ora sono io a salpare». Chiara Gentili: «Ho assistito a veri e propri risvegli»

Rimini – Continua il viaggio di Ulisse, il progetto terapeutico “outdoor” delle crociere in barca a vela della Cooperativa Sociale Cento Fiori: è salpata infatti la barca a vela che ospita 7 pazienti della Comunità Terapeutica di Vallecchio. Dal porto di Rimini la barca, condotta dall’educatore – skipper Andrea Ambrosani, raggiungerà le coste della Croazia, per una viaggio della durata di una settimana. Insieme ad Ambrosani sono salpate le due educatrici Chiara Gentili ed Elisabetta Boffa, che assisteranno i pazienti della comunità in questa esperienza.

«Per gli educatori lo scopo principale della crociera è l’osservazione degli utenti – dice Michele Maurizio D’Alessio, psicologo della Cooperativa Sociale Cento Fiori – ma per i pazienti è un’esperienza formativa perché è la realtà stessa (il vento, il mare, la convivenza in uno spazio particolare come una barca) a regolarizzare i rapporti: la realtà ci detta delle priorità. Il gruppo dei pazienti trova quindi un suo equilibrio nel corso della crociera».

Per Elisabetta Boffa è la prima crociera terapeutica. Circa due anni fa, studentessa all’Università di Bologna, venne a conoscenza durante un convegno di questo intervento educativo “outdoor”. «All’epoca dovevo scegliere dove fare il tirocinio e l’incontro con il progetto della Cento Fiori è stato un fattore determinante. Ho fatto il tirocinio, sono stata assunta e ora sono io a salpare, per la prima volta. Dopo due anni da quel seminario all’università».

Chiara Gentili invece è alla seconda esperienza. Il battesimo della crociera è avvenuto lo scorso anno, «con il viaggio degli utenti del Centro Osservazione e diagnosi. Non volevo partire: non ero mai stata in barca, ero terrorizzata dagli spazi piccoli, dal fatto di dover convivere… Alla fine è stata una crociera terapeutica per me, oltre che per i pazienti. Mi è piaciuta tanto che ho fatto esperienze per conto mio. Ho capito che è una cosa bellissima, e il senso di libertà che ti da la barca. Ho visto anche i grandi cambiamenti nei pazienti, in particolare in uno ho assistito ad un vero e proprio risveglio: è una terapia che funziona».

Andrea Ambrosani è ormai un veterano delle crociere terapeutiche. La cerata del capitano l’ha ereditata da Werther Mussoni, fondatore della Cooperativa Sociale Cento Fiori e “inventore” del progetto Ulisse, che da ormai 20 anni solca i mari. All’inizio con una goletta in legno, il Catholica, un ex peschereccio cattolichino restaurato dagli ospiti della Comunità Terapeutica di Vallecchio, poi diventata la Goletta Verde di Legambiente. All’epoca le crociere duravano settimane e toccavano il mar Ionio e poi le coste della Sicilia. Ora l’esperienza si gioca tra le due traversate e la costa croata. Forse crociere meno lunghe, ma non meno intense per i pazienti.

«Abbiamo la fortuna di fare queste esperienze che sono, emotivamente, molto forti. – spiega lo skipper – educatore Andrea Ambrosani – Un sociologo spiegava che si doveva sostituire la forza dell’eroina con qualche altra esperienza dirompente. La barca riesce in pieno a farlo, perché ci sono diversi elementi, tra cui il mare, la natura che non sono da noi controllabili». L’esperienza è strettamente legata alla terapia. «Non è solo un bel viaggio con i nostri utenti, tutto ciò che accade è iscritto in un quadro di lettura, che ci consente da un lato di rilevare elementi in più sulle persone in terapia e dall’altro di fornire loro un’esperienza intensa di crescita di gruppo e personale. Perché, come dice Werther Mussoni, “in barca non ci si nasconde”».

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Prima gli Italiani! Poi risolvono i bangladesi.

La casa di Kikko (il mio blog) - Sab, 20/07/2019 - 15:21

Il mio nuovo cell (cinese), preso dopo che lo schermo del vecchio si è crepato come lo specchio della matrigna di Biancaneve, ci ha la home che non mostra le app di sistema. Per cui, al fatto di parlare a una sottiletta di mezzo metro quadro, dovevo pure aggiungere le grida «Ok google, voglio fare una foto» ogni volta che mi serviva la fotocamera. Mi vedevo già, sulla pista del Marecchia, mentre il merlo di turno mi additava alla merla come un pirla che perdeva un’ora per prendere la foto del falco pescatore già passato.

Pistola che ti pistola, le app non comparivano. Vado dal tennico ma, Prima gli italiani!, in ossequio al motto imperante. Entro dal tennico che invece è una tennica alla quale chiedo una «consulenza sul software». «Che cos’è una consulenza?» mi fa. Una consulenza: come la chiama lei quando uno le chiede qualcosa sul funzionamento del cellulare? Vabbé, scusi, lasciamo perdere. Non trovo più le icone delle app del sistema. Se devo usare un’app, mi tocca chiedere all’assistente di google. Guardi: «Ok google: voglio fare una foto». E compare il programma apposito. «Funziona», mi dice. Sì, ma io vorrei che funzionasse senza dover gridare ogni volta «Ok Google». Dov’è l’icona per farla funzionare senza gridare?

La tennica prende il cell con dita affusolatissime e ben curate, pistoletta un po’, poi mi guarda e dice: «dove sono le impostazioni»? He, sono qui da lei per questo: non trovo le icone per accedervi dallo schermo. Per arrivare alle impostazioni deve passare da qui. E le apro IO le impostazioni. Alla tennica. Questa spippola un altro po’, ha delle dita bellissime, poi si stufa e mi dice: «guardi, dovrebbe lasciarmelo qui, lo faccio vedere, ma potrebbe costarle 70 euro. Oppure va all’altro nostro negozio di via [omissis]». Grazie, provo a chiedere ancora a Ok Google un altro po’.

E mi avvio a cercare un altro tennico. Finisco in via Gambalunga, in un negozio mai visitato. Dentro, in un tripudio di ammennicoli hi tech e cover c’è un signore bangladese seduto dietro al banco, spazzato dal vento di un ventilatore. Sperando di non aver problemi con la lingua gli spiego il mio problema: dove sono finite le icone delle app? L’ometto - sarà alto quanto me, ma la metà di diametro - spippola un po’ con le sue dita sicuramente più brutte della tennica, poi alza gli occhi e mi dice: «ha solo la home di Google. Basta scaricare un’altra app della home». Cosa mi costa? «Niente» Le lascio qualcosa per il caffé. Ma lui già non mi guarda più, è entrata la moglie con il bambino di pochi giorni, che lui tiene in mano ad altezza mento. «Faccia un’offerta per la moschea», mi dice. Ho fatto l’offerta per la moschea.

Argomenti: Blogging

Dieci anni di turismo sportivo silenzioso nell’area protetta di Riccione: il lago Arcobaleno tra carpe di 17 chili e cucina romagnola.

Cooperativa sociale Cento Fiori - Sab, 20/07/2019 - 10:47

Ex cava di argilla, ora è un piccolo eden. Gli albergatori lo segnalano ai clienti appassionati, ma molti pescatori vengono da Emilia, Marche e Umbria. I segreti: pesca no kill, gare, un ecosistema curato e tanta pace.

Riccione – Da cava di argilla a meta del turismo di pesca sportivo alla carpa e area protetta. E’ la curiosa parabola del lago Arcobaleno, una volta cava per fare i mattoni e cuocerli nella vicina fornace, ai confini di Riccione, nella località Case Fornace, appunto. Ora invece festeggia i 10 di fortunata gestione della Cooperativa Sociale Cento Fiori in collaborazione con la ASD Lago Arcobaleno, che l’hanno trasformata in una meta apprezzata da pescatori vacanzieri e non, italiani e stranieri, grazie al calendario gare e alle prede davvero notevoli. Ma anche meta per famiglie e qualche volta luogo adatto ad eventi culturali.

I rappresentanti della Cooperativa Sociale Cento Fiori e dell’ASD Lago Arcobaleno, gestori della struttura di pesca sportiva di Riccione, durante la festa per il decennale.

Provate a immaginare un luogo polveroso trasformato in eden e, beh, ci siete andati vicini. Tanto che sono gli stessi albergatori a indirizzare i loro clienti appassionati di pesca verso la piccola struttura poco fuori San Lorenzo. «Vengono in vacanza a Riccione e decidono di passare qualche ora da noi, con il loro hobby preferito – dice Ilaria Bartolini, che con Marco Samuelli gestisce il centro sportivo e ricreativo da 10 anni – italiani per lo più, ma abbiamo avuto anche svizzeri e russi. Qualcuno ci conosce attraverso Internet, altri sono indirizzati dagli stessi albergatori. Qualcuno porta la moglie a prendere il sole sul prato che circonda il lago, mentre i bambini giocano nel parco giochi, altri lasciano le famiglie tra spiaggia e shopping in viale Ceccarini, mentre si divertono a pescare le carpe. Molti dei turisti non portano l’attrezzatura in vacanza e quindi ci siamo attrezzati per affittargliela».

«E’ accaduto anche il contrario, un gruppo di perugini che per partecipare alle nostre gare hanno poi deciso di fermarsi per fare una piccola vacanza. Poi ci sono quelli che vengono da Bologna, da Pesaro e dalle Marche. Insomma, in dieci anni le nostre carpe si sono fatte un bel nome. E questa oasi è cresciuta con loro». La pesca è rigorosamente “no kill”: si cattura la preda, il tempo di fare una bella foto ricordo e via, di nuovo nel lago. Parliamo di carpe che hanno raggiunto i 17 chilogrammi. «Siamo orgogliosi dell’ecosistema che si è creato – continua Ilaria – due anni fa addirittura sono nati dei piccoli, segno che il lago è in ottima salute. Merito dei biologi che ci aiutano a tenerlo sotto controllo e dei pescatori e degli ospiti che lo frequentano, che lo trattano con il dovuto rispetto».

E accanto ai pescatori, arrivano altri ospiti, attirati dalla pace che vi regna, di giorno e la sera. E dalla cucina. «Chi viene qui apprezza sopratutto i rumori della natura: niente motori, niente clacson, solo i canti degli uccellini o delle cicale quando è caldo. Ma con i tanti alberi che abbiamo qui di sicuro l’afa non la soffriamo». E la sera sono molti i riccionesi pescatori e non che vengono a godersi il fresco e la pace del lago, insieme a un buon piatto di pasta fresca, qualche piadina e per i più piccoli hamburger e hot dog. E anche qualche fuori programma: un concertino ogni tanto e, una volta, anche una presentazione di un libro. Insomma, 10 anni di vita pacifica ma certamente non monotona, se si amano i semplici ingredienti della natura. Tanti auguri, lago Arcobaleno.

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Conclusa la seconda edizione di Diabete Beach Tennis, al quale ha partecipato anche Cento Fiori. La lettera di Diabete Romagna.

Cooperativa sociale Cento Fiori - Mer, 17/07/2019 - 12:14
Al Beach Arena di Riccione una giornata di sport per «regalare speranza ai bambini» colpiti dal diabete Tipo 1 «e alle loro famiglie», perché «la malattia non sia d’ostacolo alle passioni e ai sogni»

«Cento Fiori, grazie di cuore! E’ con l’immagine di un’esplosione di colori e divertimento ancora davanti agli occhi che vogliamo ringraziarvi per questa 2° edizione di Diabete Beach Tennis: un grande successo di partecipanti ed entusiasmo! Domenica pomeriggio il Riccione Beach Arena era un arcobaleno di colori: rosa, giallo e blu come le magliette indossate da ognuno, con il simbolico Mister One, che rappresenta il diabete Tipo 1, quello che colpisce i bambini. Tantissimi giocatori si sono sfidati fino a sera, giocando con il sorriso e con il cuore per regalare speranza ai bambini e alle loro famiglie che convivono ogni giorno con il diabete e per costruire insieme un mondo in cui il diabete non sia più d’ostacolo alle passioni ed ai sogni di nessuno.

E’ stato un pomeriggio davvero emozionante, di sport e divertimento ma anche di grande solidarietà. Tanti infatti sono stati i partecipanti accolti con il sorriso dai volontari di Diabete Romagna, che con la forza e la determinazione che li contraddistingue, hanno fatto sentire a casa tutti coloro che sono stati con noi in questo pomeriggio di festa.

Desideriamo ringraziarvi di cuore per essere al nostro fianco, anno dopo anno, e per essere stati con noi in questa seconda edizione di Diabete Beach Tennis, che è ormai diventato un appuntamento fisso con l’estate di Riccione. Grazie davvero perché con il sostegno di Cooperativa Cento Fiori i bambini come Andrea, che ha il diabete da quando era molto piccolo e che da grande sogna di fare il tennista, possono affrontare le sfide di ogni giorno con la loro famiglia, con il sorriso che avete regalato loro.

A questo link trovate la gallery con tutte le foto. Ci teniamo davvero a ringraziarvi attraverso i volti dei partecipanti e dei volontari, sorrisi e divertimento di una bellissima domenica trascorsa insieme:
https://flic.kr/s/aHsmF8WtfB»

Un caro saluto da tutta l’associazione

dott.ssa Judith Mongiello

Coordinamento e Organizzazione
Associazione Diabete Romagna Onlus

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Come gettare il cuore oltre il pedale. Elettrico.

La casa di Kikko (il mio blog) - Dom, 14/07/2019 - 14:48

E’ poco più di un mese che ho trasformato la mia bicicletta da città in una ebike. Ho comprato un kit di trasformazione Bafang, uno di quelli che sfili i pedali e la meccanica del mozzo e al loro posto metti un motore elettrico (mid drive). Il motore l’ho comprato su Alibaba, direttamente in Cina. Ho speso meno che su Amazon, 351 euro, tasse di importazione e spedizione inclusi. La batteria l’ho comprata in Italia, senza nemmeno cercare alternative, temendo che il trasporto di un materiale esplodente – quale è la batteria - mi costasse una follia. Me la sono cavata con 320 euro, compreso il guscio, per una 14,5 Ampere, ovvero un centinaio di chilometri di autonomia, se non si esagera con il livello di assistenza alla pedalata.

Ho scelto il kit non perché avessi una bicicletta di valore. Anzi, ho scoperto di avere un vero catorcio, in questo mese e mezzo. Semplicemente non potevo permettermi come spazio un’altra bicicletta. Come costi, infatti, per rendere efficiente la bicicletta che avevo (si consumano di più la catena, i pignoni, i copertoni, si è spaccato prima il mozzo.... avoglia te….) alla fine ho speso come una ebike da città a livello base, sempre mid drive (con il motore alla ruota i costi sono ancora più bassi). Ho scelto il kit mid drive perché mi intrigava, e continua a intrigarmi, l’idea di dare una nuova vita alla bicicletta “tradizionale”. Sfili il meccanismo dei pedali, inserisci il motore, fissi con due viti la batteria al posto del portaborraccia e accendi. Vuoi cambiare bicicletta? Sfili il motore e rimetti i pedali. In due ore ti cambia bici e vita.

In un mese e mezzo ho fatto quasi mille chilometri. Alla fine dell’anno, se continuo con questi ritmi, farò il doppio dei chilometri che facevo in auto. E, quando vado al lavoro, ho tagliato della metà il sudore. Lavoro in due uffici e in entrambi dovevo avere un cambio di intimo, di camicie e un asciugamano. Sembra una patacata, ma i chilometri di tragitto casa – lavoro mi sono costati in sudore diversi raffreddori e varie influenze negli inverni scorsi. Per non parlare del tempo. In auto ci perdevo mezz’ora a viaggio, in bici 15 minuti, in ebike arrivo a 10, con meno fatica e la stessa sicurezza. Questo per gli otto chilometri del lavoro. Poi ci sono gli altri 12, per arrivare alla media…

Fare meno fatica in bicicletta non ha coinciso con l’impigrirsi. Al contrario, è scattato un curioso meccanismo mentale che mi porta a non sopravvalutare le distanze. Lo percepisco: lo spazio si è ristretto, i luoghi sono più vicini. Ne raggiungi uno e già ti poni l’obbiettivo di aggiungere qualche altra manciata di chilometri, se non questa volta magari alla prossima. Arrivi a Ponte Verucchio giovedì, domenica vuoi raggiungere Saiano. Lo raggiungi, ti sporgi dalla genga che domina il Marecchia e pensi: la prossima volta arrivo lì, a Pietracuta. E invece arrivi più in là. E non aumento il livello di assistenza del motore. Anzi, quando posso lo diminuisco. Sferragliando, percorro la ciclabile con la mia bici da città. Alla quale ho dovuto regalare una ruota più robusta, dei freni migliori, un copertone nuovo. Ma sono lì, a godermi i merli o le upupe che scappano via dalla pista, a evitare le lucertoline spaventate, a rimirare il volo di un falco che forse ho disturbato forse cerca una preda.

Certo, i puristi storcono il naso: “con l’ebike...”. Vabbé, che dicano pure: son tutti fenomeni quando si parla delle fatiche degli altri. Intanto io, con due infarti, ora esco quasi tutti i giorni e non sono per niente spaventato, né dalle distanze né dal caldo né dalla solitudine. Ogni settimana faccio uscite da 40 a 60 km, intervallate da giri più piccoli. Con la bicicletta da trekking dopo ogni uscita da 40 o 60 dovevo stare fermo un giorno. Faccio più chilometri, meno fatica, dimagrisco forse meno ma faccio la stessa strada di tanti mountainbikers con il mio catorcino. E mi conquisto scorci che il mio cuoricino pensava di non poter guadagnare. Butta via...

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Viva la pappa col pomodoro! In Emilia inizia la stagione per le aziende conserviere, come la Menù. E Target Sinergie partecipa con la divisione Igiene industriale.

Non è originario dell’Italia, ma ne è diventato un’icona, tanto da essere celebrato, letteralmente, in tutte le salse: il pomodoro. Dal Gianburrasca – Rita Pavone che canticchia “Viva la pappapappa col pomopomopomodoro” al “tomato” di Peter Clemenza che ne Il padrino insegna al giovane Michael come si fa a fare il sugo per gli uomini “scesi ai materassi” (la guerra dei mafiosi), il pomodoro è parte del Made in Italy. E un terzo di questa icona viene dall’Emilia, dal cosiddetto distretto del pomodoro industriale. Mentre le rosse bacche completano la loro maturazione nei campi padani, l’industria della lavorazione alimentare comincia a prepararsi per il massiccio lavoro che la investirà fino a settembre. E che rivoluzionerà, almeno per poche settimane, l’organizzazione delle singole aziende.

Noi ci soffermiamo su Medolla, Modena, sede della Menù, una delle più interessanti realtà di produzione di semilavorati per la ristorazione. Target Sinergie da anni assiste Menù nell’ambito delle sanificazioni dei reparti produttivi e delle pulizie di alcuni degli ambienti di stoccaggio. Flessibilità è la parola d’ordine nell’ambiente produttivo agroalimentare. Durante l'anno l’attività ordinaria, se così si può definire, di Target Sinergie è asservita alle operazioni di sanificazione dei macchinari impegnati nelle diverse produzioni. Produzioni che variano e si alternano ad un ritmo sostenuto durante tutti i giorni della settimana. Il catalogo dei prodotti Menù infatti è molto ampio: l’azienda serve il mondo Horeca con specialità alimentari come condimenti, salse, creme, primi piatti, e prodotti alimentari semilavorati per la ristorazione professionale.

A luglio lo stabilimento di Medolla si trasforma per accogliere e trasformare il raccolto di pomodori proveniente dai territori limitrofi. In un’epoca di globalizzazione qui si può parlare di un prodotto praticamente a km 0. Di fatto il pomodoro è il prodotto di punta della Menù, che viene utilizzato sia per preparazioni a marchio, sia venduto come semilavorato. Durante la stagione del pomodoro il ciclo produttivo passa da diurno ad h24 e le attività di igienizzazione vanno asservite alle linee di produzione mentre le altre attività di pulizia si concentrano a stabilimento fermo al sabato, con una squadra di lavoro molto più consistente.

«Uno dei fattori decisivi per la conquista e il mantenimento della commessa – dice Davide Zamagni, presidente di Target Sinergie - è stata l'introduzione di una figura non operativa con funzioni di coordinamento e controllo sul lavoro. Nello stesso tempo si interfaccia con il cliente per organizzare la forte variabilità delle lavorazioni, garantendo una qualità del servizio adeguata all'ambiente alimentare. Abbiamo poi aggiunto un consulente esterno specializzato sui protocolli di sanificazione e controllo qualità in ambito alimentare, che ci aiuta nella redazione di nuove istruzioni operative, definizione di nuovi standard qualitativi e di conseguenza azioni migliorative mirate».

Durante l’anno la giornata ordinaria della commessa Target Sinergie di sanificazione industriale segue la parabola del sole. Di giorno assistenza alla produzione per seguire i cambi di lavorazione alle macchine, che devono essere pulite e sanificate per dare spazio a nuove lavorazioni. La sera, a stabilimento fermo si fa la pulizia totale per il settore produttivo e tutti gli altri settori collaterali. Tutto questo finché non maturano i pomodori: da luglio a settembre, come avete letto, cambia la musica.

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