La notizia dell’imminente invio di 50 milioni di cartelle esattoriali ha avuto la sua giusta dose di polemiche, giustificate dal momento che stiamo vivendo. In mezzo al clamore suscitato, però, nessuno ha avanzato la considerazione più banale e cioè che in caso di eventuale loro mancato pagamento, purtroppo, al trasgressore non accade nulla.
Il nostro sistema di accertamento dei tributi e della loro riscossione è fondamentalmente a pezzi. La Corte dei Conti, nella sua annuale Relazione al rendiconto Generale dello Stato, ha scritto che al 31 dicembre 2019 lo Stato italiano deve incassare cartelle esattoriali per un valore pari a 954,7 miliardi di euro, cioè una somma pari al 50% del PIL annuale del nostro Paese. Soldi che non si vedranno mai, perché circa 153,1 miliardi sono dovuti da soggetti falliti, 118,9 miliardi sono dovuti da soggetti deceduti o attività cessate, 109,5 miliardi sono dovuti da soggetti nullatenenti. Altri 410,1 miliardi si riferiscono a crediti per i quali lo Stato ha tentato un’azione di recupero ma questa è risultata parziale o inefficace. L’indice di riscossione medio negli ultimi 20 anni è del 13,30%, cioè per ogni 100 euro di credito esattoriale se ne recuperano 13,30 euro. Sulla fascia oltre i 100.000,00 euro di credito, questa percentuale cala al 2,7%.
Saranno pure 50 milioni di cartelle, ma passata l’indignazione iniziale, alla fine rimane solo poco più di uno spreco di carta.
Da cosa dipende questo sostanziale fallimento? La risposta non è univoca, è chiama in causa vari aspetti del nostro sistema tributario. Senza dubbio, la difficoltà nel recupero dei tributi dipende innanzitutto da una serie di paletti posti alla riscossione coattiva, quali ad esempio l’impossibilità di vendere all’asta la prima casa, il pignoramento dello stipendio limitato al quinto oppure l’impossibilità, fino a un paio di anni fa, di utilizzare le banche dati dei conti correnti per verificare le giacenze dei singoli debitori. A queste limitazioni vanno aggiunte quelle che impediscono all’incaricato della Riscossione di scegliere quale credito incassare e quale no, obbligandolo ad adoperarsi allo stesso modo sia per crediti che sa già essere inesigibili sia per crediti più credibilmente riscuotibili.
Infine si osserva che non è previsto nel nostro ordinamento la possibilità di effettuare una transizione del credito con il contribuente, il quale vorrebbe anche adempiere al suo obbligo (non esistono solo i delinquenti e i furbacchioni nel nostro Paese) ma non è in grado di farlo perché, per colpa o destino, l’importo è troppo alto rispetto alle sue possibilità.
La riscossione tramite cartelle esattoriali, però, rappresenta l’ultimo anello di un processo che inizia con l’accertamento dell’imposta da parte dell’Agenzia delle Entrate. Anche questa fase non se la passa benissimo, nonostante il fatto che ogni Governo annualmente sbandiera il suo successo nella lotta all’evasione fiscale, glissando, però, sul fatto che quello che effettivamente si incassa è una percentuale infinitamente bassa. La Corte dei Conti ha calcolato che nel 2019 per tutti gli accertamenti di evasione emessi dall’Agenzia delle Entrate, il 40% di questi, una volta che il presunto evasore li ha ricevuti, li ha comodamente buttati nel cestino. Con la conseguenza che questi avvisi di accertamento, a loro volta, diventeranno cartelle esattoriali con il risultato visto sopra, cioè di sostanziale mancato incasso. Tanto per dire, l’Agenzia delle Entrate, a fronte di crediti per 600 miliardi di euro, ha stimato che ad andare bene ne riuscirà a recuperare solo il 3%.
In tutta questa sostanziale inefficienza, una menzione merita anche la qualità e la quantità di accertamenti svolti, perché oltre a non incassare niente, spesso e volentieri il Fisco, invece di concentrarsi sui grandi evasori, intasa pure i tribunali e gli incaricati della riscossione con richieste tributarie quasi ridicole sia per l’importo che per il presupposto giuridico. Tanto per dire, nel 2019 l’Agenzia delle Entrate di Milano, con un unico controllo fiscale, ha recuperato e incassato da Kering (il gruppo proprietario, tra l’altro, di Gucci e Bottega Veneta) la considerevole cifra di 1,4 miliardi di euro, somma che ha consentito al Governo Italiano di chiudere la manovra aggiuntiva di 2 miliardi di euro evitando così la procedura di infrazione europea. Di contro, nello stesso periodo, sempre in Lombardia, l’Agenzia delle Entrate ha usato i suoi funzionari per recuperare da un importante numero di contribuenti, la stratosferica cifra di 200 euro cadauno, paventando una presunta evasione dell’imposta di registro calcolata per la registrazione di alcuni contratti.
Il risultato è stato che qualche cittadino ha fatto ricorso e non solo l’ha vinto ma addirittura l’Agenzia delle Entrate è stata condannata a pagare le spese legali, ammontanti ad euro 750,00. Per recuperare 200 euro, hanno lavorato almeno quattro funzionari del Fisco e tre Giudici Tributari, con il risultato finale non solo di non averli incassati ma di avere dovuto pagare i danni alla controparte. Questo caso potrà apparire estemporaneo e marginale. Tutt’altro, invece: la Corte dei Conti ha evidenziato che nel 2019 sono stati svolti 508.101 controlli, e ben 259.133 di questi, cioè il 51%, ha portato a recuperare una imposta evasa al massimo di euro 1.549,00. Cioè si sono dovuti fare la bellezza di quasi 260.000 controlli per accertare un terzo della cifra effettivamente incamerata con un solo controllo da Kering.
Diranno i puristi che l’evasione va perseguita a prescindere dall’importo. Ci mancherebbe che fosse il contrario. Però anche la Corte dei Conti, che non si può tacciare di essere favorevole all’evasione, suggerisce un mutamento di queste strategie di contrasto all’evasione, cercando di evitare di impegnarsi su posizioni non proficue né in termini di importo né in termine di esigibilità.
Ci troviamo, in conclusione, di fronte a un sistema che sia nella parte dell’accertamento che nella parte della riscossione presenta uno stato patologico straordinario che viene curato, però, con azioni anch’esse straordinarie ed emergenziali, come le proroghe delle scadenze, i saldi stralci, mini condoni o rottamazioni varie. La politica post-Covid 19, per essere nuova e credibile, dovrà inevitabilmente, in campo tributario, badare al sodo e rivolgere lo sforzo della sua struttura ad accertare somme che saranno con ogni probabilità incassate e non disperdere risorse in azioni forse utili più alla propaganda che alle Finanze dello Stato.
(articolo apparso su www.chiamamicitta.it il 18 gennaio 2021)
Analisi e commenti Newsletter Grassi Benaglia Moretti, avvocati & commercialisti
Il credito di imposta riconosciuto è pari al 50% del valore degli investimenti pubblicitari effettuati, con un massimale pari a euro 50.000.000 per ciascuno degli anni. Se le domande presentate supereranno l’ammontare delle risorse stanziate, quest’ultime verranno ripartite su tutti i richiedenti aventi diritto e, di conseguenza, la percentuale del 50% potrebbe essere ridotta. La Legge di Stabilità ha confermato il metodo di calcolo del contributo, che si calcola sull’ammontare degli investimenti effettuati nell’anno di riferimento, a prescindere dall’incremento rispetto a quelli effettuati negli esercizi precedenti.
COME SI USA IL CREDITO DI IMPOSTA SULLA PUBBLICITA’Il credito di imposta è utilizzabile unicamente in compensazione, tramite F24 a partire dal quinto giorno lavorativo successivo alla pubblicazione dell’elenco dei soggetti ammessi. I tributi che si possono compensare sono, a titolo di esempio, i tributi erariali quali IVA, Imposte sui Redditi, contributi previdenziali sui dipendenti, ritenute effettuate a dipendenti o professionisti.
Per comprendere meglio il funzionamento del credito di imposta si evidenzia che per ogni euro 100,00 di investimento pubblicitario, il vantaggio per il soggetto beneficiario del contributo è il seguente:
In sostanza per ogni euro 100,00 di pubblicità acquistata e pagata il beneficiario recupererà una somma pari ad euro 77,90 (euro 27,90 + euro 50,00) e, quindi, l’effettivo costo dello spazio pubblicitario acquistato sarà pari ad euro 22,10, cioè alla differenza fra 100 euro e la somma del risparmio fiscale conseguito e il credito di imposta maturato. Si specifica, infine, che il credito di imposta maturato è esentasse e, quindi, non concorre al calcolo dell’imponibile fiscale alla fine dell’anno.
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Il credito di imposta riconosciuto è pari al 50% del valore degli investimenti pubblicitari effettuati, con un massimale pari a euro 50.000.000 per ciascuno degli anni. Se le domande presentate supereranno l’ammontare delle risorse stanziate, quest’ultime verranno ripartite su tutti i richiedenti aventi diritto e, di conseguenza, la percentuale del 50% potrebbe essere ridotta. La Legge di Stabilità ha confermato il metodo di calcolo del contributo, che si calcola sull’ammontare degli investimenti effettuati nell’anno di riferimento, a prescindere dall’incremento rispetto a quelli effettuati negli esercizi precedenti.
COME SI USA IL CREDITO DI IMPOSTA SULLA PUBBLICITA’Il credito di imposta è utilizzabile unicamente in compensazione, tramite F24 a partire dal quinto giorno lavorativo successivo alla pubblicazione dell’elenco dei soggetti ammessi. I tributi che si possono compensare sono, a titolo di esempio, i tributi erariali quali IVA, Imposte sui Redditi, contributi previdenziali sui dipendenti, ritenute effettuate a dipendenti o professionisti.
Per comprendere meglio il funzionamento del credito di imposta si evidenzia che per ogni euro 100,00 di investimento pubblicitario, il vantaggio per il soggetto beneficiario del contributo è il seguente:
In sostanza per ogni euro 100,00 di pubblicità acquistata e pagata il beneficiario recupererà una somma pari ad euro 77,90 (euro 27,90 + euro 50,00) e, quindi, l’effettivo costo dello spazio pubblicitario acquistato sarà pari ad euro 22,10, cioè alla differenza fra 100 euro e la somma del risparmio fiscale conseguito e il credito di imposta maturato. Si specifica, infine, che il credito di imposta maturato è esentasse e, quindi, non concorre al calcolo dell’imponibile fiscale alla fine dell’anno.
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Un anno sicuramente speciale, anche di riqualificazione, si sta concludendo per il progetto dell’Invaso, l’area verde ai margini del parco XXV aprile in concessione al Csr che è riuscita a vivere, nonostante l’emergenza Covid, di numerose iniziative. Centrale, naturalmente, la Serra Cento Fiori, il vivaio della Cooperativa Sociale Cento Fiori che in queste ore sta vivendo il tradizionale trambusto prenatalizio, con l’intenso viavai di abeti , stelle di Natale e tantissime altre piante che i sempre più numerosi clienti vengono ad acquistare. Sostenendo così i programmi terapeutici e gli inserimenti lavorativi di personale svantaggiato che la cooperativa riesce a realizzare in questo spicchio di parco riscattato dal degrado in cui versava solo pochi anni fa.
Certo i fortissimi desideri di vivere la natura sono stati una reazione ai in questi terribili mesi di limitazioni che abbiamo vissuto hanno decretato una forte attività all’aperto. Ma non è solo nella crescita del vivaio che si misura il progetto Invaso: anche quest’anno, nonostante lockdown e normative emergenziali è riuscito a mettere in cantiere alcuni piacevoli eventi e iniziative per adulti e bambini, con il tema della natura sempre al centro. Un percorso di crescita cominciato con la nascita di un orto sinergico, ovvero alcune prode dove accanto agli ortaggi sono cresciute piante officinali e fiori, creando un ecosistema che si protegge dagli insetti e cresce in modo armonioso. Al progetto hanno lavorato Sara Paci, Viola Carando e Laura Moretti.
Laura Moretti è stata la coordinatrice di un evento organizzato da La Bottega Culturale che dalla coltivazione orticola si è ampliato ad una giornata dedicata al writing, ampliando così il filone dei Marecchia Social Fest al “Live painting. Orto. Sonorità”. I portelloni metallici di un edificio del vivaio sono stati nell’occasione disegnati dai writers Burla e Mozone, mentre poco distante gli ospiti poteva cimentarsi in un piccolo laboratorio di piantumazione di semi antichi e letture degli attori di Fratelli di Taglia. Il tutto condito con i sapori della festa grazie ai prodotti alimentari della Cooperativa Sociale Terre Solidali.
La narrazione, il gioco e il laboratorio per bambini dai 4 ai 10 anni invece sono state le attività che hanno polarizzato l’Invaso sabato 7 novembre, grazie a L’ippogrifo e alla cooperativa sociale Il Millepiedi, realizzando un appuntamento nell’ambito del Progetto di sistema regionale – La scuola in natura. Il progetto, nato nel 2011, coordinato dalla Rete Ceas (centri di educazione alla sostenibilità) Emilia-Romagna per intervenire in funzione dei bisogni delle comunità e per cogliere in ambito didattico le tante opportunità offerte dall’ambiente naturale e dal territorio.
Le due organizzazioni pedagogiche hanno allestito un programma – “Un pomeriggio di niente … a seminar piante e storie” – dove alle letture di racconti si sono alternati giochi e occasioni per imparare la grande bellezza dei processi naturali. Oltre allo spazio, la Cooperativa Sociale Cento Fiori ha messo a disposizione l’esperta agronoma Dea Guidi che ha insegnato ai bambini i meccanismi della riproduzione delle piante e della crescita, donando loro alcuni semi e delle piantine da accudire una volta tornati a casa. I bambini sono stati assistiti oltre che dai loro genitori, dalle volontarie dell’Ippogrifo e de Il millepiedi, per poi disperdersi nell’area in una divertente caccia al tesoro.
Articolo pubblicato su Csr news, newsletter periodica del Consorzio Sociale Romagnolo
L'articolo All’Invaso del parco Marecchia sono cresciute le iniziative per adulti e bambini, mentre ora è di scena il Natale proviene da Cento Fiori, Rimini.
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di Gianni De Giuli
Il 22 settembre 2020 ho partecipato all’incontro “Istituzioni e pandemia: elementi di analisi istituzionale e gruppo operativo”, a cura del Gruppo internazionale di ricerca su Pandemia ed Istituzioni. In quella sede c’è stata, da parte di alcuni partecipanti – istituzionalisti francesi e svizzeri – un ricordo molto sentito di Georges Lapassade e dei temi concernenti l’Analisi istituzionale. Si tratta di contenuti e pratiche che nel corso degli anni 90 avevo appreso e sviluppato direttamente con Lapassade nel corso dei suoi lunghi soggiorni in Italia.
Nelle giornate successive all’incontro, discutendone con Leonardo Montecchi e Luciana Bianchera, ho ripensato al resoconto di un’esperienza formativa che avevo realizzato con Lapassade nel ‘96. Ne era nato un articolo che era stato pubblicato su Pratiques de Formation, la rivista degli istituzionalisti francesi presso l’Università di Parigi 8 e successivamente in Italia su Psicologia e Lavoro. Leonardo e Luciana non lo conoscevano e dopo averlo letto mi hanno chiesto di ripubblicarlo, trovandolo evidentemente ancora stimolante.
Nel farlo ho pensato di levare la parte introduttiva, ormai datata, centrata sul dibattito, in quegli anni molto vivo, sul ruolo del terzo settore nella ridefinizione di welfare e protagonismo delle organizzazioni sociali, mantenendo invece il resto dell’articolo che presenta direttamente l’analisi istituzionale in azione: un incontro di formazione condotto con il metodo dell’intervento socioanalitico.
Lapassade all’epoca non praticava quasi più la socioanalisi, raccontava che nel declino storico che il “movimento dei gruppi” stava attraversando anche la socioanalisi aveva perso la sua spinta propulsiva. Inoltre, come viene evidenziato sin dal titolo dell’articolo, altre correnti teoriche e metodologiche – in primis etnometodologia e interazionismo simbolico – dovevano affiancarsi alla tradizionale AI, non solo nello spiegare i processi sociali a livello microsociologico ma direttamente nella pratica della formazione. Ed era stata proprio la curiosità di sperimentare nuovi dispositivi formativi che avevano spinto Georges ad affiancarmi nella conduzione dei due seminari di cui tratta l’articolo.
Lapassade, che ne era stato il fondatore, era allora interessato a vedere come superare l’analisi istituzionale, integrandola con nuove conoscenze e metodologie.
Rileggendo oggi l’articolo è bello riconoscere come i concetti e il metodo dell’AI mantengono tutta loro capacità di indicare possibili alternative in primo luogo nella formazione di gruppi, organizzazioni e istituzioni.
Alla ricerca di una formazione per l’impresa sociale:
il contributo dell’analisi istituzionale e dell’interazionismo simbolico
Modelli formativi e organizzazioni
Nella formazione degli adulti che operano, a vari livelli, nelle organizzazioni del lavoro, i metodi prevalenti provengono dalla psicosociologia dei gruppi. Essi traggono le proprie origini teoriche dalla dinamica di gruppo lewiniana e, per ciò che riguarda le tecniche, dal dispositivo del T group, che possiamo sinteticamente descrivere come un seminario di sensibilizzazione alle relazioni di gruppo che si sviluppa attraverso l’autoanalisi permanente nel “qui e ora” (hic et nunc) del vissuto dei partecipanti e in cui il compito del conduttore è quello di facilitare l’autoanalisi utilizzando uno stile non direttivo. Il conduttore quindi non “fa lezione” sulla dinamica di gruppo, ma anima il seminario con brevi interventi che descrivono i processi in corso nella costruzione progressiva della situazione di gruppo.
Su queste basi è stato elaborato un quadro teorico e pratico per la formazione, che si è sviluppato soprattutto nell’ambito aziendale e manageriale a partire dagli anni ‘60 e che è stato progressivamente esteso anche ad altri contesti organizzativi.
Così anche nel cosiddetto terzo settore i metodi della formazione fanno spesso riferimento a quel modello consolidato.
Ci si chiede allora se si debba trasferire un metodo di formazione utilizzato con successo per il management aziendale sul terreno della formazione di dirigenti di cooperative sociali. Si deve definire una cooperativa come un’azienda? Si deve analizzare come tale nel suo funzionamento? Altrimenti quale formazione potrebbe convenire alle cooperative? E’ possibile proporre un modello alternativo?
Queste domande, che mi pongo da tempo, sono state al centro di un’ esperienza formativa realizzata con Georges Lapassade, che in questo articolo voglio descrivere e commentare. Alla descrizione si aggiungono le riflessioni che abbiamo sviluppato successivamente, ripensando all’intervento formativo, e che ci consentono di individuare alcune prospettive di ricerca per una diversa pratica della formazione.
Nei due seminari da noi animati, l’impostazione socioanalitica e i temi della pedagogia istituzionale che Lapassade ha cominciato ad elaborare fin dagli anni ‘60, proprio a partire da una critica del T group, sono stati ulteriormente rielaborati e contaminati con concetti e categorie analitiche che provengono dalla corrente sociologica dell’interazionismo simbolico. I seminari hanno dunque rappresentato un momento di ricerca e sperimentazione e alcuni elementi teorici possono essere estrapolati dalla descrizione delle due esperienze, pur essendo lontani da una formulazione teorica definitiva e limitandoci a riconoscere i possibili sviluppi per la formazione a partire dalla connessione di due approcci che hanno un comune taglio microsociologico.
L’analisi istituzionale in un gruppo in formazione
I seminari erano rivolti a dirigenti di cooperative sociali ed erano centrati sui temi del lavoro di gruppo e sul rapporto tra organizzazione e partecipazione nelle cooperative.
Il committente era un consorzio nazionale (CN) di cooperative che raccoglie al proprio interno numerosi consorzi locali (CL) costituiti a loro volta dalle coop cui appartenevano, appunto in qualità di dirigenti, i partecipanti ai nostri seminari.
Era la prima volta che il CN organizzava un’ attività formativa specifica per i dirigenti del Sud: un percorso articolato in dieci seminari con l’obiettivo di sviluppare le competenze individuali e collettive per lo sviluppo delle organizzazioni.
Durante il primo seminario da noi condotto, il tema del gruppo è stato trattato secondo il dispositivo socioanalitico:
– Un dispositivo formativo che si sviluppa a partire dall’analisi permanente di ciò che il gruppo produce ma dove, a differenza del T group da cui proviene, non c’è la chiusura del gruppo nell’interazione interna, separato dalle condizioni e dall’organizzazione che ne hanno reso possibile la costituzione e ne hanno predefinito alcune regole di funzionamento.
Ciò significa che il gruppo non è un qualsiasi gruppo che diviene il laboratorio privilegiato per imparare il funzionamento dei gruppi, essendo attraversato dai classici fenomeni e processi (coesione, comunicazione, leadership, decisione etc.) che il T group permette di vivere e autoanalizzare permanentemente nell’hic et nunc. E’ invece un gruppo (“istituito”) di dirigenti di cooperative che fa parte di un’organizzazione nazionale (“istituente”) che ha promosso e realizzato quel corso di formazione. Questo approccio permette pertanto di riconoscere la base invisibile ma presente (“istituzione”) su cui poggia il gruppo in formazione, base che ne regola il funzionamento attraverso un quadro di norme, interazioni, gerarchia e status dei diversi attori che insieme concorrono a realizzare l’intervento formativo.
All’inizio questo orientamento “istituzionalista” ha trovato la sua prima formulazione già nel 1962 nella proposta di gestione collettiva dell’orario di formazione di un T Group. L’eterogestione dell’orario della formazione (orario deciso altrove e mandato ai partecipanti) era in contraddizione con la pretesa di non direttività dei formatori all’interno del gruppo, per superare questa contraddizione si proponeva di gestire l’orario.
Si chiamava allora Analisi Istituzionale:
– l’analisi dell’orario come istituzione interna
– e anche l’analisi della manifestazione di un’istituzione esterna (l’organismo di formazione presente / assente nella situazione, che aveva previsto l’orario di cui il conduttore mandato dall’organizzazione si faceva garante)
Ma nell’ hic et nunc del nostro seminario, ciò che ha rivelato il manifestarsi dell’istituzione esterna è apparso in tutta evidenza con il problema della sede del seminario.
E’ successo infatti, ad un certo punto dei lavori, che una partecipante ha affermato di non gradire la sede dell’incontro successivo, già prevista dall’organizzazione, ed ha proposto che il gruppo la cambiasse.
Trattando questo tema, volendo decidere, loro, la sede della loro formazione, i partecipanti hanno prodotto ciò che nel linguaggio socioanalitico è chiamato un effetto analizzatore.
– L’analizzatore è un evento o un fenomeno che rivela ciò che l’organizzazione determina, che permette ai partecipanti di riflettere e analizzare il significato dell’organizzazione, il suo funzionamento, i rapporti di potere che vi si sviluppano.
E’ stata la discussione sulla sede del seminario successivo, che ha consentito di spostare e sviluppare l’analisi sul rapporto tra organizzazione della formazione (CN e CL) e partecipanti all’evento formativo, tra istituente ed istituiti.
Paradossalmente il corsista che più si opponeva all’idea che fossero i corsisti stessi a decidere la sede del seminario successivo, considerandola una scelta non di loro competenza – perchè da sempre e inequivocabilmente competenza dell’organizzazione – era colui che in veste di dirigente del CL aveva scelto la sede del seminario che stavamo svolgendo.
E’ accaduto qui qualcosa che ha avuto un forte effetto sui i partecipanti: l’organizzazione istituente del percorso formativo (CN in accordo con i diversi CL), che inizialmente veniva percepita come “intoccabile”, totalmente distante, burocrazia plenipotenziaria e non influenzabile dalle richieste dei corsisti, assumeva progressivamente, nel lavoro di analisi, i tratti di un organismo costituito da persone che in alcuni casi erano le stesse che, lì in quel momento, stavano discutendo.
L’analizzatore ha permesso di rivelare il valore di feticcio che viene attribuito alle organizzazioni anche in un settore come quello delle cooperative sociali dove le stesse sono create e controllate dai soci lavoratori, i quali vorrebbero, in questo modo, esprimere forme di autogestione e di superamento della burocrazia.
Ciò che l’analisi mostrava era che in realtà i partecipanti del corso – dirigenti di cooperative e in alcuni casi anche dei consorzi locali che organizzavano quel corso – non si sentivano in potere di decidere nemmeno rispetto al luogo e alla struttura residenziale del corso, che pure pagavano personalmente o attraverso le proprie cooperative.
Il seminario si era chiuso con l’istituzione di un comitato di corsisti a base regionale il cui unico compito era di negoziare con il proprio consorzio locale lo spostamento della sede prevista per l’incontro del mese successivo.
Questa contestazione della sede e la ricerca di una soluzione alternativa deve essere vista come un’espressione di un desiderio collettivo tra i corsisti di gestire almeno un aspetto della loro formazione: non necessariamente i contenuti e i metodi ma almeno la sua base materiale. In questo senso un orientamento di tipo “autogestionario” è stato scelto in quel momento dall’Assemblea dei corsisti.
D’altra parte con questa messa in crisi della sede prevista per il successivo seminario, la formazione acquistava il carattere di un intervento sulla struttura e si passava ad un livello di analisi istituzionale nel senso di analisi dell’istituzione che dall’esterno organizza il dispositivo della formazione. Si produceva, in questo modo ed in anticipo, del materiale per il successivo seminario il cui tema era “Organizzazione e Partecipazione nel sistema cooperativo”.
Il dispositivo costruito nel seminario non ha però funzionato, il comitato si è più o meno autodissolto dopo un tentativo fallito di cambiare la sede.
L’organizzazione dell’autoformazione
A distanza di tre settimane, nel secondo seminario, il primo problema esaminato è quello del comitato e del suo fallimento: il Consorzio locale aveva infatti dichiarato che la richiesta di cambiamento non era di competenza del comitato dei corsisti. Pertanto ci eravamo tutti ritrovati nella città e nell’albergo previsti in origine dal CL e tanto contestata nel seminario precedente.
L’analisi collettiva di questa sconfitta ha evidenziato che:
a) la coordinatrice del comitato per motivi personali ha rinunciato al suo ruolo tentando di trasmettere la sua responsabilità ad un altro membro dello dello stesso comitato che però ha rifiutato affermando di non essere interessato.
b) i membri del comitato non sapevano che il giusto interlocutore per la loro richiesta era il responsabile della formazione (RF) del Consorzio nazionale, credevano che la decisione dipendesse solo dal Consorzio locale e non conoscevano il funzionamento reale della loro organizzazione nazionale. Questa mancanza di conoscenza costituiva un’eccellente materia per aprire un seminario il cui tema era la partecipazione nell’organizzazione.
c) il presidente del Consorzio locale non aveva nemmeno lui tentato di chiarire la situazione organizzativa, comportandosi come il giusto interlocutore a due livelli:
– la sua risposta al comitato:- Non è vostra competenza cambiare sede – poteva significare – E’ mia competenza e non sono disposto a negoziare con voi -.
– ricevendo un fax da un membro del comitato, contenente una proposta di sede alternativa, lo aveva “sequestrato” senza trasmetterlo al responsabile nazionale.
L’analisi ha inoltre indicato che questo pasticcio a livello organizzativo aveva avuto ripercussioni ad altri livelli istituzionali: la direzione del Consorzio nazionale aveva nel frattempo ricevuto un fax del Consorzio locale, poco chiaro, in cui si alludeva ad una “riprogettazione delle modalità organizzative” da parte dei partecipanti, e ciò aveva provocato una preoccupazione di tipo organizzativo ai vertici del CN.
Questo breve riassunto della prima attività del seminario è un’ ulteriore illustrazione del metodo di lavoro utilizzato: in questo dispositivo non si fa lezione sull’organizzazione, nemmeno simulazioni o altri esercitazioni formative. La formazione si sviluppa a partire dal vissuto del gruppo in relazione con le istituzioni interne ed esterne al seminario (analisi istituzionale e dispositivo socioanalitico).
Un altro aspetto del dispositivo di formazione è che continuamente il gruppo gestisce l’orario del suo lavoro, dopo che l’orario prestabilito del seminario é stato abbandonato perchè poco rispondente ai bisogni dei partecipanti.
Esiste invece un consenso sull’elaborazione progressiva e permanente delle attività e dell’orario, con la sola eccezione delle ore di pranzo e cena, regolate dal personale dell’albergo in cui siamo ospitati.
Durante la seconda giornata Lapassade propone la formazione di un nuovo comitato per gestire con l’Assemblea dei partecipanti i prosssimi seminari nei contenuti e negli aspetti logistici.
Ciò significa che la pratica formativa sull’organizzazione può consistere nella attività organizzativa: sono i corsisti riuniti in Assemblea ad organizzare la propria formazione, utilizzando i formatori come risorse a loro disposizione.
Questo modo di fare, derivato dal T. group si oppone ad un’altra concezione della formazione nella quale i contenuti sono trasmessi dagli insegnanti senza negoziazione del corso con i corsisti.
A questo punto è forse necessario sottolineare che il corso proposto agli stessi corsisti si articola in 10 sessioni già predefinite.
Lapassade precisa che la sua è una proposta pedagogica di un dispositivo di autoformazione per i corsisti che implica la gestione da parte loro anche dei contenuti o almeno la loro negoziazione con il responsabile del corso.
L’ Assemblea comincia discutere la proposta, ma quando dopo una pausa lo staff ritorna in Assemblea scopre che la stessa sta già funzionando senza la presenza dei formatori nel ruolo di animatori. Gli stessi decidono allora di restare fuori e di ritornare solo su invito esplicito dell’Assemblea generale.
Così inizia una fase autogestita del seminario: i lavori proseguono in piccoli gruppi costituiti dall’Assemblea generale senza l’intervento dello staff.
Le proposte che più tardi vengono presentate in Assemblea con lo staff dei formatori sono:
-1°gruppo: ritiene molto utile il metodo dei due seminari basati sull’esperienza vissuta, ma propone di proseguire con il metodo che era stato utilizzato nel seminario di apertura del corso con il responsabile della formazione e che prevedeva il coinvolgimento dei partecipanti attraverso esercitazioni e discussioni di gruppo. Tale metodo (che chiameremo “metodo RF”) è considerato innovativo e coerente con i contenuti dei futuri seminari. Viene accettata l’idea di un comitato che si occupi dei bisogni del gruppo e dei singoli e sia propositivo per la logistica mentre sui contenuti si limiti a possibili integrazioni. Un membro del comitato si dissocia ritenendo il “metodo RF” troppo vicino ad una formazione aziendale.
- 2°gruppo: è favorevole all’autogestione ma senza rottura con chi ha proposto il programma del corso. Si ritiene importante privilegiare le specificità del Sud e trovare un accordo con l’organizzazione anche in merito ai formatori. Considera positiva l’idea di un comitato composto da persone competenti sulla cooperazione sociale al Sud. Viene anche proposta la creazione di un bollettino autofinanziato dalle cooperative per far circolare ed elaborare materiale relativo alle esigenze formative e scambiare più informazioni con il consorzio nazionale. L’idea è quella di un comitato “molto operativo”, a rappresentanza regionale.
- 3°gruppo: D’accordo con il comitato eletto con il criterio della rappresentanza regionale. D’accordo sull’autogestione per discutere su tutto ma non viene ritenuto necessario un cambiamento dei contenuti.
- 4° gruppo: si presenta spaccato: tre corsisti preferiscono il metodo dell’autogestione, gli altri tre il “metodo RF”, per cui propongono un’integrazione dei due metodi, sono anche per un comitato a rotazione e su base regionale
- 5° gruppo: Intende l’autogestione come possibilità di introdurre dei cambiamenti nel percorso formativo. Il comitato deve essere una sorta di CdA dell’Assemblea dei corsisti.
Dai resoconti dei lavori dei gruppi possiamo rilevare nei corsisti una sorta di disorientamento, una dissonanza cognitiva che si risolve nel tentativo di tenere insieme due modelli alternativi di formazione
L’autogestione proposta dai gruppi non appare come un prendere direttamente nelle proprie mani il futuro del percorso formativo, ma ciò deriverebbe, secondo gli stessi corsisti, dall’impossibilità di autogestire contenuti che non si conoscono.
In sostanza la proposta dell’autogestione, così come emerge dalla successiva discussione, non sembra ancora realizzabile.
Praticare un percorso autogestito significa, innanzitutto, passare da una definizione della formazione come prodotto già realizzato e offerto da un’esperto, alla formazione come attività istituente di un gruppo di persone che, facendo lo stesso lavoro, con le medesime funzioni (dirigenti di cooperativa), può individuare i propri bisogni, definire degli obiettivi e organizzare un percorso di formazione utilizzando i docenti nelle modalità e con le funzioni ritenute più appropriate.
Ma nel seminario emerge tutta la difficoltà dei corsisti nel passare da una posizione di “istituiti” ad una di “istituenti”. La formazione è percepita come un’attività a loro esterna i cui contenuti sono sconosciuti, decisi altrove, da formatori che hanno già predefinito i bisogni formativi di quei dirigenti.
Le resistenze alla proposta dell’autogestione portano lo staff a precisare, in modo meno ambizioso, l’idea dell’autoformazione: essa si limiterebbe, in una prima fase, ad una negoziazione dei contenuti del seminario successivo.
Il lavoro è facilitato dal fatto che sono presenti, come membri dello staff, gli interlocutori necessari: il responsabile nazionale della formazione e un altro formatore, previsto come conduttore principale del futuro stage.
Essi potrebbero presentare il programma per poi negoziarne i contenuti, come già proposto la sera prima, ma ancora si riscontra la mancanza di interesse dell’Assemblea.
Le definizioni della situazione
Viene allora riformulata e restituita nell’Assemblea un’ipotesi avanzata dallo staff durante una riunione: l’autogestione potrebbe essere solo un desiderio dello staff, mentre i corsisti partecipano al percorso formativo forse più per incontrare i colleghi e per poter dire di aver fatto il corso, per la propria carriera ed il proprio status (ricordiamo che si tratta del primo percorso formativo per dirigenti di cooperative sociali fatto al sud) indipendentemente dall’interesse per i metodi ed i contenuti.
Saremmo dunque di fronte a obiettivi diversi, che, utilizzando un concetto dell’interazionismo simbolico, portano a diverse “definizioni della situazione”. Ciò significa che i vari partecipanti alla situazione formativa attribuiscono ad essa sensi diversi, la valutano diversamente e si predispongono di conseguenza ad agire diversamente.
Se su tali definizioni non avviene un continuo processo di negoziazione, è reso impossibile non solo un accordo sull’autogestione, ma anche sul modo stesso di procedere nel seminario.
Esempi di ciò ci provengono da due eventi che si succedono nell’ultima parte del seminario.
Il primo caso si riferisce a ciò che accade quando lo staff propone di preparare il primo numero del bollettino proposto da uno dei gruppi la sera precedente, come primo strumento dell’autoformazione. Questa proposta viene accettata, si formano piccoli gruppi che dopo aver lavorato attivamente, ritornano in Assemblea con i loro prodotti scritti.
I risultati sono però poco convincenti, non si avverte un interesse reale attorno al progetto di un bollettino interno al percorso formativo.
Una corsista sostiene che “siamo stati tutti d’accordo sul giornale ma visto come un’esercitazione del seminario e non come bollettino reale”.
Il secondo esempio ci viene dall’ultima seduta dell’Assemblea.
All’inizio due membri dello staff fanno due lunghi interventi di rilettura e analisi del seminario che si propongono come conclusione dello stage, non lasciando spazio alla possibile valutazione dei corsisti che invece ascoltano in un silenzio quasi religioso.
Un altro formatore interpreta questi interventi rifacendosi al concetto goffmaniano del sè, inteso non come originato dalla persona del soggetto ma come prodotto di una messa in scena sociale le cui regole e caratteristiche strutturali determinano le diverse parti recitate dal soggetto stesso. Questo modo di parlare, potrebbe esprimere il bisogno dello staff di presentare sè stesso nei ruoli e nella dignità dello psicosociologo e del sociologo formatore che esibiscono la loro competenza sviluppando un discorso intelligente ed articolato e non solo un’agitazione e un ipeattivismo permanente chiamato formazione.
Questa occupazione del tempo alla conclusione del seminario significherebbe che taluni membri dello staff non accorderebbero molta serietà al progetto di istituire un nuovo comitato rappresentativo dell’Assemblea, compito che invece viene ritenuto importante da questo membro dello staff.
Si decide allora di verificare quanti corsisti sono favorevoli al comitato:
– 10 sono contrari e formulano i motivi della loro opposizione
– 15 sono a favore ma non dicono perché
– mancano 9 partecipanti, non presenti all’ultimo giornata.
I quindici escono dalla sala della riunione e costituiscono il comitato.
Dopo aver eletto un coordinatore, il comitato si è assunto da subito il compito di formulare delle proposte per la continuazione del corso, i contenuti da trattare e le modalità organizzative.
Così si è chiuso il seminario, sciogliendo l’Assemblea Generale.
Un dispositivo per l’autogestione della formazione
Nelle giornate successive al seminario abbiamo lavorato ad un’analisi dell’esperienza. Sono emerse alcune indicazioni che ci consentono di guardare da altri punti di vista al problema della formazione in generale e alle questioni poste dai seminari.
La mia domanda principale era relativa alla difficoltà dei corsisti di accettare la proposta dell’autoformazione che veniva dallo staff dei formatori. Perchè tante resistenze all’ipotesi dell’ autogestione del percorso formativo da parte di persone che nelle loro cooperative si autogesticono quotidianamente il proprio lavoro?
Una risposta la possiamo ricavare ricorrendo nuovamente al concetto di definizione della situazione, partendo da un’osservazione formulata nel 1932 da Willard Waller, il primo a proporre una descrizione della relazione pedagogica nel linguaggio dell’interazionismo simbolico.
Waller, al contrario di Durkheim, sosteneva che la situazione pedagogica era inevitabilmente conflittuale in conseguenza del fatto che i maestri e gli studenti non hanno la stessa definizione della situazione:
– i maestri definiscono la situazione come la vuole la società che rappresentano, considerando che loro sono nella scuola per insegnare, trasmettere delle conoscenze e che gli studenti sono lì per imparare;
– gli studenti invece possono avere altri obiettivi come quello di incontrare amici, divertirsi, fare del baccano, giocare e forse anche apprendere qualcosa.
Durante il seminario era stata formulata l’ipotesi che i corsisti forse partecipavano al corso con altri obiettivi, diversi da quelli dell’apprendimento: ritrovarsi insieme, fare un po’ di vacanza, poter dire di aver preso parte a questo corso, etc..
Questo tipo di osservazione non è stata però sufficientemente tematizzata con i corsisti, anche se i formatori ne hanno parlato tra di loro.
Un’altra referenza è quella di Goffman sulle istituzioni totali quando dice che se nel carcere i prigionieri frequentano regolarmente la biblioteca il direttore sarà portato a considerare che questo significa un progresso. Ma il vero motivo del recluso può essere un altro, per esempio farsi notare positivamente per avere una riduzione della pena e non per arricchire la sua conoscenza.
Ritornando alla nostra situazione di formazione possiamo dire che ci sono diverse definizioni della situazione che si confrontano e che sono formulate in termini di obiettivi divergenti:
a) gli obiettivi del Consorzio nazionale, che ha sempre promosso e organizzato corsi per i dirigenti delle coop, ma mai si è interessato all’autogestione
b) gli obiettivi dei Consorzi locali più legati alla gestione e al controllo della base materiale della formazione, su cui si giocano i rapporti di potere interni ed esterni.
c) gli obiettivi della direzione della formazione dove prevale il bisogno di mantenere gli equilibri esistenti che l’autogestione potrebbe invece mettere in pericolo
d) gli obiettivi dei formatori, interessati a produrre nuovi modelli e nuove sintesi
e) i vari obiettivi dei corsisti
E’ nella relazione tra le diverse definizioni della situazione che avviene il massimo conflitto istituzionale ed è lì che va sviluppata l’analisi.
Su questo piano credo sia possibile progettare un dispositivo di formazione che si ponga sin dall’inizio l’obiettivo di costruire collettivamente una comune definizione della situazione formativa. L’autogestione diviene allora la pratica istituente che si sviluppa a partire da questo lavoro di negoziazione, costruzione e condivisione degli obiettivi, dei metodi, dei contenuti e delle finalità generali della formazione.
Possiamo così riprendere il discorso iniziale e riformulare le domande relative ad un modello formativo alternativo a quello psicosociologico tradizionale: in che modo è possibile fare una formazione utile per organizzazioni che vogliono praticare una visione autogestionaria e solidaristica dei rapporti sociali, se non praticando anche nella formazione modelli autogestiti che superino la tradizionale opposizione tra istituenti e istituiti, tra conduttori e condotti, tra chi detiene un sapere e chi è convinto che solo gli esperti possano conoscere i suoi bisogni formativi ?
Per un modello alternativo di formazione proponiamo un dispositivo di formazione che può contenere al proprio interno due obiettivi opposti:
– quello tradizionale della trasmissione di conoscenze
– quello di un apprendimento fondato sull’esperienza dell’hic et nunc.
La scelta tra i due può essere legata ai contenuti:
– alcuni contenuti, ad esempio quelli legati ai saperi tecnici possono essere trattati attraverso la trasmissione di conoscenze;
– altri posono essere accquisiti sulla base dell’hic et nunc, per esempio, rifacendoci all’esperienza descritta, le competenze nel chiarimento dei rapporti con la gerarchia, la capacità di identificare i giusti interlocutori per problemi specifici, l’animazione di una riunione o di un’assemblea alla ricerca di una maggior partecipazione alle decisioni.
E’ nella gestione dei contenuti che si verifica il ribaltamento del modello tradizionale: i corsisti si possono organizzare per ricercare e decidere quali sono i loro bisogni formativi, anche ricorrendo agli esperti, ma utilizzandoli come consulenti e gestendoli di volta in volta.
La formazione si avvicina così al modello della nuova ricerca-azione di Carr e Kemmis in cui sono gli stessi praticanti (i corsisti) a condurre la ricerca a partire dalla loro pratica formativa, a differenza della ricerca-azione classica, lewiniana, dove sono gli esperti esterni che gestiscono e pianificano la ricerca.
In questo dispositivo il ruolo della direzione della formazione è legato alla proposta delle risorse, al materiale di formazione da negoziare con i corsisti, che devono anche negoziare le basi materiali della formazione, il suo progresso, date, orari.
Tutto ciò consente a dirigenti di cooperative sociali di autopromuoversi come soggetti dell’apprendimento, sperimentando anche nel campo dell’organizzazione del sapere modelli autogestionari coerentemente con la visione autogestionaria dei rapporti sociali di cui le imprese sociali possono farsi portatrici.
Bibliografia
– W. Carr, S. Kemmis, Becoming Critical: Education Knowledge and Action Research, Falmer Press, 1986
– O. Cotinaud, Dinamica di gruppo e analisi delle istituzioni, Roma, Borla, 1976
– E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, Il Mulino, 1969
– E. Goffman, Asylums, Torino, Einaudi, 2003
– G. Lapassade, L’analisi istituzionale, Milano, Isedi 1974
– G. Lapassade, L’autogestione pedagogica, Milano, F. Angeli, 1973
– G. Lapassade, In campo, Lecce, Pensa Multimedia, 1996
– G. Lapassade, Baccano, Lecce, Pensa Multimedia, 1996
– G. Lapassade, L’istituente ordinario, Lecce, Pensa Multimedia, 1997
La pandemia agisce come disvelamento: mettendoci in condizione di comprendere che da tempo viviamo entro la carcassa del capitalismo neoliberale, che non smette, per quanto defunto, di imporre le sue regole: privatizzazione, competizione, primato del profitto sull’interesse sociale, devastazione dell’ambiente, iper-sfruttamento delle energie mentali, burnout.
Ma non basta comprendere che siamo in una trappola per uscirne. Uscire dalla trappola tecno-finanziaria richiede infatti una strategia politica e soprattutto una solidarietà sociale fondata su un processo di soggettivazione che al momento, nella tempesta pandemica, appare esitante e depresso. L’apocalisse pandemica ha reso evidente che la società non può sopravvivere senza liberarsi dalla regola neoliberale, ma ha indebolito, e forse paralizzato le energie psichiche necessarie per attivare un processo di soggettivazione solidale.
Entro questo contesto un gruppo di ricercatori che operano prevalentemente nel campo della psicoterapia mette all’ordine del giorno la necessità di creare e moltiplicare luoghi di riflessione psicoterapeutica comune, luoghi di respiro che si sottraggano al soffocamento sistemico, per cercare al tempo stesso la via per l’emancipazione dal dominio tecno-finanziario.
Il 25 ottobre in Cile si tiene il referendum che deve decidere se rimanere per sempre dentro la gabbia della costituzione fascista e ultra-liberale promulgata negli anni di Pinochet e di Kissinger, o se usare la forza costituente della lotta e del voto per uscirne, aprendo la strada a un modello sociale egualitario, e frugale, cioè fondato sull’utile collettivo e non sull’astrazione finanziaria e il consumismo indotto dalla pubblicità.
Il Cile è il luogo in cui la dittatura liberista cominciò con un colpo di stato fascista e con un massacro. Il Cile può essere il luogo da cui inizia il processo di smantellamento della dittatura liberista. Ma il voto sarà solo la condizione formale cui deve seguire un processo di soggettivazione solidale e autonoma.
Della lotta politica in corso in diversi paesi latino-americani, Bolivia, Colombia, Argentina, oltre al Cile, possiamo essere soltanto spettatori. Ma possiamo e dobbiamo essere attori dell’opera di ricomposizione della soggettività sociale che precarietà e accelerazione competizione hanno aggredito e infettato profondamente, e che ora, per effetto della pandemia, dell’isolamento, della paura, del distanziamento sembra sprofondare in una sorta di depressione di lungo periodo.
La pandemia agisce come un catalizzatore di processi catastrofici da lungo tempo in corso: la stagnazione economica, la precarietà dilagante del lavoro, la devastazione ambientale, il burnout da super-lavoro dell’attenzione, la depressione, il panico. Poiché questi processi precipitano tutti insieme, l’orizzonte che si intravvede oltre l’apocalisse pandemica, è quella dell’estinzione del genere umano, mentre la disgregazione della civiltà è ormai ad un punto piuttosto avanzato, e la guerra, la fame, la violenza razzista si diffondono.
Ma non è possibile ragionare proficuamente delle possibilità di sventare la prospettiva estrema dell’estinzione se la mente collettiva è invasa dai fantasmi della paura, dell’angoscia, se il corpo dell’altro è percepito come un pericolo e l’erotismo è bandito dalla vita sociale.
Nuovi profili di sofferenza psichica vanno emergendo: l’erotismo entra in una zona oscura di sensibilizzazione fobica al corpo dell’altro, a causa del trauma del distanziamento e dell’invasione di flussi di perturbante entro lo spazio della vita quotidiana.
Il nostro specifico compito e la nostra intenzione è cartografare il continente emergente dell’inconscio in oscillante ambigua mutazione, per creare moltiplicare luoghi di respiro e collettivi di enunciazione (auto)terapeutica.
E’ possibile vita felice nell’orizzonte dell’estinzione?
Può parere una domanda paradossale, ma è invece cruciale, perché solo se riusciamo a rispondere sì a questa domanda, solo se riusciamo a creare spazi di respiro tranquillo e di relazione felice nel corso della tempesta epidemica e sociale, possiamo trovare la via di fuga da quello stesso orizzonte.
Solo affrontando in modo collettivo la coscienza dell’impermanenza di ogni essere, del nostro esistere singolare e del genere umano come insieme bio-storico, possiamo dissipare il panico, e attivare le dinamiche della creatività e dell’invenzione.
Per questo riteniamo che sia urgente la formazione e proliferazione di luoghi di respiro collettivo, di meditazione sull’impermanenza e di sperimentazione di nuove forme di vita sociale.
Per il gruppo di ricerca
Franco Berardi
16 ottobre 2020
Per aderire, mandare una mail a Leonardo Montecchi: lmontecc@me.com
L’Assemblea Internazionale è aperta a tutti e ci colleghiamo attraverso la piattaforma Zoom
il 25 ottobre dalle 16 alle 19 ( ora di Roma)
Per collegarsi su Zoom:
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A presto
Riccione – E’ Alessandro Guagneli il campione 2020 delle gare di pesca al pesce più grosso al Lago Arcobaleno di Riccione. Guagneli si è aggiudicato il titolo durante la finale che vedeva sulle rive della struttura sportiva in via Murano, 47a San Lorenzo i 28 pescatori che si sono aggiudicati almeno una gara nel corso dell’anno.
Ha vinto Alessandro Guagneli, al quale è andato il prosciutto San Daniele in palio, secondo Alex Lisi un prosciutto crudo di Parma, terzo classificato Simone Mosconi, anche a lui un prosciutto intero, con morsa e coltelli. Al quarto e quinto posto Franco e Alessandro Vandi.
Le gare al pesce più grosso, naturalmente “no kill” come tutte le competizioni al lago Arcobaleno, si tengono normalmente sabato e domenica a partire dalle ore 14, mentre nel periodo estivo al calendario vengono aggiunti i giovedì sera dalle ore 20,30. Regolamento ed iscrizioni sul sito del lago Arcobaleno, www.lagoarcobaleno.com, dove ci si può aggiornare su eventi e competizioni insieme alle pagine Facebook e Instagram.
L'articolo E’ Alessandro Guagneli il campione 2020 del “pesce più grosso” del Lago Arcobaleno di Riccione. In finale batte Alex Lisi e Simone Mosconi. proviene da Cento Fiori, Rimini.
di Annalisa Valeri
(La lezione si tiene all’interno di un corso di formazione sulla Concezione Operativa di Gruppo ed è la seconda di un ciclo. Dopo l’informazione gli ascoltatori si riuniscono in un gruppo, coordinato e osservato da docenti della Scuola Bleger)
Partiamo da alcuni concetti che definiscono che cos’è un gruppo.
Pichon Rivière definisce un gruppo operativo come quell’insieme di persone riunite dentro una cornice di variabili costanti, che si integrano fra di loro attraverso una mutua rappresentazione interna e che si prefiggono un compito. Il compito è l’elemento di urgenza, di necessità che convoca le persone a raggrupparsi e ad iniziare un lavoro comune.
Per farlo il gruppo ha bisogno di una cornice stabile, all’interno della quale sviluppare il proprio processo gruppale. Alcuni elementi costituiscono un contenitore solido e stabile nel quale le persone possono trovarsi, vale a dire uno spazio, un tempo, dei ruoli e un compito.
Questo è il setting, condizione necessaria perché possa avvenire il lavoro del gruppo.Ha la stessa importanza dell’allestimento di una sala operatoria, con la sterilizzazione degli strumenti, la preparazione di un posto protetto, all’interno del quale possa avvenire, in condizioni di sicurezza, l’intervento. La cornice di variabili costanti è proprio questo. All’interno dell’esperienza on line che stiamo vivendo è già avvenuta un’importante modifica rispetto allo spazio. Non siamo più in un luogo fisico tutti insieme. Ognuno accede a questo spazio da un ingresso differente e personale. Che spazio è questo in cui ci stiamo riunendo? Dove siamo? Che caratteristiche ha questo cyber spazio in cui siamo? Qualcuno di voi può avere un gatto sulle ginocchia, un bimbo che si intrufola per curiosità e viene a vedere lo schermo, un campanello che suona. Sono tutti elementi che rendono differente lo spazio, lo hanno trasformato. Il nostro insieme di variabili costanti ha subito un cambiamento che non abbiamo scelto, ma di cui dobbiamo tenere conto. Nel senso che influenzerà il processo gruppale, entrerà a farne parte. Anche il tempo subisce un cambiamento. Il tempo cronologico dell’orologio assume un significato diverso quando lo si sperimenta on line. Potrebbe sembrare più lungo o più intenso. Il ruolo che avranno i coordinatori subirà delle modifiche: come si interpreta, cosa si osserva in una modalità on line? Come passano le informazioni e le emozioni con questo strumento? Stiamo sperimentando e siamo tutti, voi inclusi, ricercatori.
Ma veniamo al tema dell’informazione di oggi. Nella definizione di gruppo oltre che del setting si parla di mutua rappresentazione interna. Questo sarà il tema su cui ci soffermeremo, che costituisce uno strumento di lavoro per il gruppo. E’ un prodotto del gruppo e lo strumento attraverso cui il gruppo può affrontare la realtà, occuparsi del suo compito concreto, comunicare.
L’ECRO o mutua rappresentazione interna, è uno strumento che serve all’apprendimento.
Torniamo per un attimo al racconto dell’avvio della Concezione Operativa, che è avvenuta all’interno di un’esperienza concreta all’Ospedale Las Mercedes di Buenos Aires. Questa situazione di necessità, che ha spinto Pichon Rivière a formare i primi gruppi, ci serve per chiarire l’idea dell’apprendimento e della conoscenza all’interno della Concezione Operativa. Il tipo di apprendimento che vuole sviluppare la Concezione Operativa nasce dalla prassi, dall’esperienza concreta.
L’esperienza dei gruppi all’interno dell’Ospedale Las Mercedes, ad esempio, ha permesso una prima elaborazione teorica di che cosa sono i gruppi, qual è il loro compito, elaborazione che deve trovare riscontri nella pratica, per poi poter essere ulteriormente modificata e arricchita a livello teorico.
L’idea dell’apprendimento e della conoscenza è quindi un percorso a spirale, che nasce dalla pratica, diventa teoria e ritorna nella pratica, in un processo senza fine. Questo è il modello di apprendimento che vi proponiamo sia teoricamente che praticamente, attraverso l’esperienza che farete.
L’idea dell’apprendimento da cui prende le distanze la Concezione Operativa è quella relativa ad una trasmissione di contenuti che dovrebbero semplicemente passare dall’insegnante, nella figura di supposto sapere, all’allievo che dovrebbe incamerare abilità, informazioni, valori ed adattarsi passivamente alla struttura sociale di cui
fa parte.
Pichon Riviere definisce la salute mentale e la malattia in termini relativi e situazionali ed in relazione ad un adattamento passivo o attivo della realtà. Il soggetto sano è colui che prende l’informazione, la destruttura, aggiunge, la trasforma e la usa poi nella realtà per modificarla. Se la persona apprende dovrebbe essere in grado di applicare le proprie
conoscenze alla realtà concreta, di cambiarla e allo stesso modo di poter cambiare internamente. L’insegnamento deve quindi permettere che si elaborino contraddizioni e conflitti presenti durante il processo di apprendimento per poter applicare le conoscenze alla pratica.
La conoscenza non avviene con un’idea cumulativa delle informazioni.
Questo significa che per esempio l’informazione che state sentendo non può essere pensata come un “libro” da aggiungere alla vostra biblioteca di informazioni, se per biblioteca intendiamo l’insieme di conoscenze che ci caratterizzano. Non possiamo semplicemente aggiungere un elemento e tenere tutti gli altri elementi di conoscenza immobili. Perché avvenga un reale apprendimento dobbiamo rifarci ad un’idea geometrica. Perché un’informazione venga realmente appresa occorre farle spazio,
modificare tutto l’insieme di informazioni che abbiamo, buttare alcune cose, tenerne delle altre, modificare i rapporti fra l’una e l’altra, come un mobile che vogliamo disporre in modo armonico all’interno di uno spazio già pieno. Questo ci porta alla consapevolezza che questo processo non è semplice, non è neutro, suscita difficoltà, emozioni, resistenze.
Nella Concezione Operativa l’idea è che la conoscenza avviene attraverso un’interdisciplinarietà, un’Epistemologia Convergente. Alcuni concetti di una scienza possono servire all’apprendimento di un’altra scienza, con un’idea di travaso fra una disciplina ed un’altra. Ogni disciplina cioè ha dei nuclei di base che possono essere utili anche nelle altre scienze. Ecco perché le scienze così riunite, possono apportare elementi per la creazione di uno strumento unico concettuale e operativo con cui affrontare la realtà.
Il gruppo che andrete a fare ed in generale i gruppi di apprendimento si situano intorno all’informazione, lo affrontano da vari punti di vista.
L’informazione che vi sto portando costituisce una situazione intorno alla quale ognuno di voi potrà contribuire da una visuale differente. La Concezione Operativa prevede che il lavoro gruppale sarà tanto più ricco quanto più, rispetto all’omogeneità del compito, ci sia un’eterogeneità dei partecipanti. Ognuno potrà portare visuali differenti che arricchiscono
il lavoro sul compito. L’apprendimento in gruppo è qualcosa di diverso rispetto all’apprendimento individuale. Teniamo presente questo concetto rispetto all’Ecro, di cui andiamo a parlare ora.
La parola E.C.R.O significa Esquema Conceptual Referencial y Operativo, in italiano Schema Concettuale di Riferimento operativo, ed è l’insieme di tutte le conoscenze, esperienze, sentimenti con cui guardiamo il mondo, pensiamo ed agiamo. E’ cioè una griglia con cui interpretiamo la realtà che si crea nel corso del tempo. E’ uno schema cognitivo ed affettivo, contiene informazioni ma anche emozioni e sentimenti. Ha a che fare con la nostra identità.
Ognuno di noi struttura nel tempo un proprio schema di riferimento che nasce dalle esperienze all’interno della famiglia, del proprio tessuto sociale, dalle informazioni che si apprendono nel corso del tempo e che vanno a strutturare una griglia, un filtro con cui si interpreta la realtà e si comunica con gli altri. L’humus da cui nasce è la famiglia, il primo ambito di esperienza della persona. Nel corso del tempo questo schema cambia, attraverso altre esperienze, conoscenze apprese, situazioni vissute. Dalla famiglia per esempio, lo schema può modificarsi con la partecipazione ad un gruppo di amici, da cui si apprendono cose diverse, parole che si condividono solo all’interno del gruppo e che rappresentano aneddoti, valori, ricordi. Tutte queste cose vanno ad arricchire e modificare il nostro
schema di riferimento, l’ECRO.
Un altro concetto utilizzato dalla Concezione Operativa è quella di gruppo interno. Un gruppo è composto da personaggi, ma anche da oggetti parziali, situazioni ed emozioni. La persona dall’infanzia internalizza personaggi della sua vita, emozioni, vincoli e inizia a dialogare con il proprio gruppo interno, che nel corso del tempo può ampliarsi, modificarsi. Alcune voci saranno molto forti e influenzeranno prepotentemente i nostri pensieri e comportamenti, altre entreranno nel corso del tempo, mitigheranno alcuni dialoghi, li trasformeranno. In una terapia familiare che ho seguito si parlava di un nonno che si era innamorato di una ragazza benestante del paese e del fatto che il padre della ragazza aveva espresso il proprio rifiuto dicendo che il nonno non era abbastanza ricco e abbastanza colto. Per tutta la vita il nonno aveva continuato a cercare di affermarsi economicamente, aveva spinto fortemente perché le figlie andassero a scuola. Nel gruppo interno di quest’uomo la voce del padre della ragazza era stata estremamente influente e l’uomo si era trovato a dialogare con questa voce un po’ persecutoria per tutta la vita.
Un individuo è sano se mantiene un intergioco costante fra la realtà che vive ed il proprio schema di riferimento, il quale deve modificarsi, in modo complessivo, in base all’esperienza pratica e fornire la possibilità di interpretare la realtà ad un livello più elevato, in un processo a spirale.
Per capire questo vi riporto l’esempio di Keplero (1600), il quale trova dei dati che non confermano la teoria delle orbite circolari dei pianeti del sistema solare. Questa informazione, proveniente dalla realtà, è in contrasto con lo schema di riferimento. Allora, avviene un apprendimento se la persona è in grado di modificare in modo complessivo il proprio schema di riferimento (come per far entrare il mobile di cui parlavamo prima nella stanza ammobiliata). Se questo non succede l’informazione può anche essere incamerata, ma verrà trattata come una bizzarria, una stranezza all’interno di uno schema di riferimento rigido.
Un altro esempio può essere rappresentato dalla dott.ssa Malara che scopre il paziente 1 ammalato di Covid a Cremona. Lo schema di riferimento medico non prevedeva la presenza del Covid in Italia. Ma i dati davano un quadro del paziente che non si spiegava con le conoscenze ed i protocolli istituiti. Allora, la presenza di un elemento nella realtà che non corrispondeva allo schema di riferimento, ha prodotto una pressione che poi ha portato la dott.ssa a forzare il protocollo e scoprire il paziente 1. Non è stato un processo semplice, la dott.ssa ha incontrato resistenze e critiche, ha dovuto assumersi la responsabilità di fare il tampone e permettere la modifica dello schema di riferimento (e anche di salvare la vita del paziente 1).
Se lo schema si sclerotizza la persona si “ammala”, non è più in grado di apprendere dall’esperienza e proietta sul mondo reale il proprio mondo interno in maniera rigida e ripetitiva. Si potrebbe anche dire che se il gruppo interno non riesce più a modificarsi, aggiungere voci e cambiare, la persona non apprenderà più dall’esperienza e riprodurrà in modo stereotipato il proprio mondo interno.
Pichon Riviere dice che per esempio i disturbi di personalità sono tutti disturbi dell’apprendimento.
Anche in questo caso facciamo un esempio. Se nella vita in famiglia una persona vive un vincolo di sfiducia nei confronti delle figure genitoriali questo entra a far parte del suo schema di riferimento. Se nel corso della vita questo schema si irrigidisce, le persone che incontra e che potrebbero modificare l’esperienza vissuta vengono vissute in maniera
distorta, la comunicazione male interpretata e alla fine si riconferma continuamente lo schema di riferimento iniziale. Questo produce un non apprendimento e, a seconda del grado di rigidità, problematiche alla persona in questione che potrebbe continuare a creare relazioni caratterizzate da sfiducia, delusione e allontanamento, appena l’altro commette degli errori.
L’ECRO ha aspetti manifesti, di cui il soggetto è consapevole ed aspetti latenti che agiscono, ma di cui la persona non è consapevole.
Quando entriamo in un gruppo ognuno di noi porta il proprio Ecro, una personale modalità di interpretare il mondo, che nasce dalle esperienze vissute, dalla partecipazione ad altri gruppi a cui abbiamo aderito.
Potremmo dire anche che entriamo con il nostro gruppo interno. La nostra aspettativa è che si sperimenti una situazione più o meno simile a quelle che conosciamo. Ma, se un gruppo inizia a funzionare, le aspettative iniziali non vengono soddisfatte. Il gruppo, nel qui e ora, inizia a funzionare in una direzione differente rispetto a quella pensata da
ognuno dei membri.
Il proprio schema di riferimento, nell’interazione con gli altri integranti che hanno un altro schema di riferimento e nel lavoro sul compito subisce una pressione, una tensione a modificarsi. Il gruppo interno inizia a incontrarsi, scontrarsi con il gruppo esterno.
Potremmo fare l’esempio della persona che ha interiorizzato figure genitoriali di cui non ci si può fidare, che fanno parte del suo Ecro. Nel corso della discussione di gruppo la persona può trovarsi davanti ad un altro membro che le ricorda la madre ed iniziare a provare sentimenti che prova per la madre (rabbia, desiderio di essere ascoltato). Proietta nel proprio comportamento il vincolo che ha con la madre, ma dall’altra parte l’integrante risponde in maniera diversa. Se per esempio la madre si allontana tutte le volte che c’è una discussione, potrebbe succedere invece che l’integrante risponda, stia nella discussione. Questo evento sorprendente produce una pressione nel proprio Ecro, una tensione al
cambiamento.
Questo processo, come dicevamo, non è affatto semplice, non è neutro.
Sviluppa ansie che vengono vissute concretamente all’interno del gruppo.
Se ne parlava già nella informazione precedente, quello che accade è che l’informazione e l’esperienza di gruppo entrano nello schema di riferimento e premono perché alcune idee, concetti si modifichino.
Si può allora sentire un’ansia legata alla confusione (la sensazione di non capire cosa si sta facendo, cosa c’entra l’informazione con quello che si è e che si deve fare, la difficoltà a comprendere che suscita fastidio) oppure più avanti un’ansietà persecutoria (cioè la sensazione di essere sprovvisti di strumenti per affrontare la situazione, la sensazione che non si riuscirà ad affrontarla bene, la diffidenza, la rabbia) e un’ansia depressiva (la difficoltà, il fastidio al pensiero di dover abbandonare delle certezze, strumenti, conoscenze). Queste sensazioni fanno parte dello svilupparsi del processo gruppale, sono necessarie se si vuole produrre apprendimento, cambiamento. La quota di ansia deve essere tenuta dal coordinatore ad un livello ottimale, nel senso che non deve arrivare a
livelli troppo alti disorganizzando il gruppo o attivando blocchi e stereotipie massicce ma non deve essere neanche nulla, segno di un mancato coinvolgimento affettivo, perché non si produrrebbe nessuna variazione, nessun apprendimento.
Ecco allora che una conoscenza, un’esperienza perché produca apprendimento deve mobilizzare, cambiare in modo più globale lo schema con cui interpretiamo il mondo. La difficoltà a mobilizzare il proprio schema di riferimento è spesso legato alla connotazione affettiva, legate all’identità, che hanno per noi alcune informazioni, conoscenze, esperienze: ci teniamo ancorati a certe idee senza permettere che ne entrino di nuove perché le precedenti sono estremamente significative.
Allo stesso tempo però nel gruppo si sperimentano anche altre emozioni, relative ad un vissuto di appartenenza, di affiliazione con gli altri, di collaborazione, di piacere per la condivisione delle conoscenze e delle esperienze degli integranti che può facilitare la strutturazione di un tessuto comune di cui ci si riconosce parte.
Il gruppo lavora se riesce a superare le situazioni dilemmatiche e procedere oltre, con una modalità dialettica. Per farlo è necessario che ognuno perda pezzi di certezza, che sperimenti contraddizioni che creano varchi. In questo modo il gruppo inizia a costruire il proprio schema di riferimento comune, la mutua rappresentazione interna. All’interno di
questo nuovo ECRO ci saranno esperienze vissute nel gruppo, conoscenze, emozioni, sentimenti, di vissuti, di vincoli. E’ ciò che definisce, come è stato detto nella lezione precedente, un noi che ogni persona si porta dentro e con cui affronta la realtà. Possiamo anche dire che l’ECRO corrisponde al gruppo interno, con il quale dialoghiamo
continuamente nel corso della vita.
E’ chiaro allora che maggiore è l’eterogeneità del gruppo, la ricchezza delle conoscenze portate, maggiore sarà, se si riesce a lavorare in modo coeso sul compito, l’articolazione e la varietà dello schema di riferimento gruppale.
Tutto ciò è necessario perché il gruppo possa comunicare con un linguaggio comune. Le persone potranno comunicare se danno lo stesso significato alle parole, ai concetti di cui hanno appreso il senso durante il processo gruppale, riuscendo a non sviluppare malintesi, distorsioni nella comunicazione.
Il gruppo è un altrove. Perché si crei un altrove è necessario uno straniamento, uno spaesamento che per esempio si crea costruendo uno spazio ad hoc per il gruppo, come dicevamo all’inizio relativamente al setting. Lo spazio deve essere qualcosa di un po’ diverso da quella che è la quotidianità, un altrove dove arriva l’informazione ed il gruppo la può “mangiare”, “digerirsela”. Questo altrove è uno spazio reale ma anche uno spazio interno, una zona intermedia libera e protetta (dal setting) in cui il gruppo può giocare con l’informazione, associare, portare liberamente idee, lasciarsi andare e contribuire ad un processo che nessuno, nemmeno il coordinatore, sa dove arriverà.
A mobilizzare gli schemi di riferimento del gruppo saranno le problematiche affrontate che mettono in discussione, creano conflitti, dubbi, apportano conoscenze. Ogni individuo, come abbiamo detto sopra, entra nel gruppo con la propria storia, il proprio schema. A livello grafico potremmo parlare di una dimensione verticale. La dimensione verticale di ciascun integrante si interseca con la realtà del gruppo, quello che avviene nel presente e che viene definita la dimensione orizzontale del gruppo. Oltre a queste due dimensioni c’è quella trasversale, rappresentata dagli avvenimenti istituzionali, storici, politici che accadono e che influenzano in modo significativo le altre due dimensioni e lo schema di riferimento del gruppo.
Possiamo per esempio dire che gli avvenimenti che abbiamo vissuto in questi tre mesi costituiscono parte della dimensione trasversale che influenzano il processo gruppale, lo schema di riferimento comune sia a livello cosciente che latente. La dimensione trasversale è importante, influenza profondamente le altre due, a volte consapevolmente, a volte in modo inconsapevole. Tenere conto degli aspetti istituzionali, sociali, globali è fondamentale per comprendere il processo gruppale e le influenze sullo schema di riferimento. Questo gruppo ad esempio non è quello di prima del Covid, le esperienze, conoscenze che ci hanno attraversato in questi mesi cambiano necessariamente l’ECRO.
Pensate, per esempio, che ansie avete provato rispetto all’utilizzo della modalità on line. Alcuni di voi magari erano già abituati, per altri sarà stato una novità assoluta che può aver prodotto rabbia, diffidenza, tristezza per le parti perse relativamente alle modalità dal vivo, confusione. Possiamo rifiutare completamente queste conoscenze che derivano dalla realtà odierna ed sperare di tornare a prima del Covid, oppure si può provare a integrare alcuni aspetti nuovi con le conoscenze che già avevamo, cercando di creare un nuovo schema che comprenda i nuovi concetti emersi.
Nel lavoro di gruppo emergono STEREOTIPI che sono delle modalità rigide di pensiero, modalità apprese che però sono diventate impermeabili all’esperienza e si riproducono sempre uguali. Possiamo dire che esistono stereotipi individuali, vali a dire quelli che ci portiamo dalla nostra esperienza di vita e con i quali entriamo in gruppo e stereotipi gruppali che devono essere superati se vogliamo produrre pensiero nuovo.
Vi faccio un esempio, per chiarire. In un lavoro fatto anni fa insieme al Dott. Montecchi all’interno di una comunità terapeutica per tossicodipendenti, abbiamo analizzato il materiale del gruppo per un periodo di un anno ed abbiamo ipotizzato che il lavoro sulla cura della propria tossicodipendenza si scontrava con la presenza di ostacoli importanti, in parte consapevoli ed in parte inconsapevoli. Un primo stereotipo era l’idea che ci fosse un destino per cui erano caduti nella tossicodipendenza, che ci fosse una forza più grande di loro che aveva prodotto la situazione in cui erano. Questo ostacolo era particolarmente ostico, perché allora riunirsi in gruppo, lavorare all’interno della comunità, sforzarsi di cambiare non aveva senso e lo stereotipo poteva costituire un alibi perfetto per lasciarsi andare e non produrre cambiamento. Un altro stereotipo era che sarebbero guariti se avessero incontrato l’amore. Essendo una comunità mista c’era la possibilità di innamorarsi, costituendo delle coppie. Questa modalità di pensiero, per cui la tossicodipendenza era dovuta ad una mancanza di affetto e che si sarebbe risolta incontrando la persona giusta, produceva in alcuni casi una resistenza al lavoro gruppale prima o una volta fidanzati, una chiusura in una dimensione a due che non permetteva apprendimento gruppale.
Il processo gruppale funziona se gli stereotipi possono diventare consapevoli e possono essere messi in discussione, schiudersi come uova e lasciare libero il pensiero. La forza del lavoro gruppale può permettere questa rottura. Lo descriviamo facendo riferimento a forze, pressioni, tensioni per ribadire l’idea che non è un processo innocuo, ma che, quando funziona produce un pensiero nuovo. Parliamo di un pensiero creativo, perturbante. Il concetto di perturbante, che viene da Freud, indica la possibilità di vedere qualcosa di non familiare, di estraneo nel conosciuto. Quello che può succedere nel processo gruppale è di rivedere con occhi nuovi concetti, conoscenze, esperienze conosciute. Il lavoro del gruppo produce un nuovo ordine simbolico, che può prendere le distanze dall’ordine simbolico dominante che ci attraversa culturalmente. Ci si riesce a distaccare dalle ripetizioni, quando le ripetizioni del fare si possono distanziare e ci appaiono perturbanti. Questo accade perché ci vediamo come da fuori ed assumiamo in questo la tematica del doppio. Proprio ieri in un gruppo un integrante diceva : “nel lockdown mi sono fermata, ho guardato quello che facevo e l’ho trovato assurdo”. Anche il lockdown è un altrove e allo stesso modo l’altrove del gruppo può portare alla presa di coscienza di certe routines, ripetizioni per poter produrre un immaginario gruppale nuovo.
Lo schema di riferimento deve essere uno strumento di lavoro, che si può applicare nel pratico e nell’operativo dal gruppo, che puè permettere alle persone di comunicare ed evitare malintesi. Vi porto un altro esempio, che proviene sempre dalla clinica. Un paziente psicotico che avevamo nel gruppo spesso parlava “del fenomeno” come la causa dei suoi mali. Nel lavoro gruppale il gruppo ha compreso quello che prima era un concetto
bizzarro e per certi versi incomprensibile: il “fenomeno” rappresentava una sorta di Dio, ma un Dio minore che invece di sostenere ed aiutare aveva prodotto una serie di sciagure, fra cui la morte del padre del paziente. A poco a poco il concetto di “fenomeno” ha iniziato a far parte dello schema di riferimento del gruppo, che lo utilizzava all’interno delle discussioni, appropriandosene. La modalità di comunicazione incomprensibile aveva lasciato il passo alla socializzazione del concetto che ha aperto il pensiero e che per il gruppo, e solo per quel gruppo con quello specifico processo gruppale, costituiva una parola di senso dell’ECRO gruppale.
Se il gruppo si apre al pensiero anche i ruoli si modificano nel senso che si mobilizzano, si arricchiscono le possibilità personali e producono comportamenti differenti. Nella lezione precedente vi era stato detto che spesso si entra in un gruppo di apprendimento con i propri ruoli istituzionali. Nel corso del lavoro di gruppo però le cose cambiano, emergono aspetti differenti, che connettono il cognitivo con l’affettivo, che dischiudono a modalità diverse di essere. Vi porto un’esperienza in un gruppo di apprendimento della non riuscita di questo processo. Un medico con molti anni di esperienza ha preso parte ad un corso di
formazione. Arrivava al corso sempre in giacca e portava la sua parte istituzionale, i casi clinici, la sua professionalità. Nel corso del tempo non è cambiato questo modo di porsi, non sono emerse altre parti della personalità, altri modi di essere. A livello simbolico notavamo che, mentre gli altri integranti si lasciavano andare, si rilassavano, mettevano a nudo alcune parti di sé, il medico teneva sempre la giacca, anche in estate. Questa ci è sembrata una forte resistenza alla possibilità di sperimentare parti differenti e di arricchire il proprio pensiero. La possibilità di passare da medico ad alunno, che avrebbe permesso il riaffiorare di ricordi del passato, di rivisitare il ruolo di alunno, di pensare ad altri aspetti non è potuto avvenire.
Un’altra situazione è rappresentata da gruppi di genitori e figli, nei quali per esempio all’inizio del processo un genitore si presenta come “sono il padre di Giulia”. Queste appartenenze generazionali danno il via all’emergere di stereotipi su noi-genitori e voi-figli, che è un momento naturale del gruppo ma che deve essere superato se vogliamo dar vita a qualcosa di nuovo. Quando un genitore inizia a pensare di essere stato anche figlio, come il ragazzo di fronte che sta parlando o fratello o amico, può mobilizzare alcune parti del suo Ecro e produrre pensiero nuovo, uscendo da una situazione stereotipata.
Per concludere, l’Ecro è uno strumento che il gruppo ha per poter lavorare poi nella pratica e produrre cambiamento. Questo è l’adattamento attivo alla realtà, la possibilità di intervenire sul reale, di non doverlo riprodurre tale e quale, di apportare qualcosa di nuovo. In questo senso il gruppo è una creatura viva, un soggetto e non un oggetto.
Nell’esperienza che stiamo facendo ora insieme per esempio la situazione di apprendimento è reciproca. Mentre voi ascoltate l’informazione e la elaborate nel corso del gruppo, noi apprendiamo dal vostro lavoro e ciò che producete può riversarsi sul dispositivo e produrre delle modifiche. E’ un processo circolare, o per meglio dire a spirale. Il gruppo in alcuni casi può costituire un aspetto istituente dell’istituzione, un motore di
cambiamento dell’istituzione stessa. Può essere una forza istituente che modifica l’istituito. Il gruppo apprende ed insegna, opera concreti cambiamenti nel reale.
Bibliografia
Bauleo, “Ideologia, gruppo e famiglia”
Bauleo e De Brasi, “Clinica gruppale, clinica istituzionale”, Il poligrafo
Marzotto, “I fondamenti della Concezione Operativa di Gruppo”, CLUEB Bologna
Montecchi, “Trasmissione e formazione”, on line
Montecchi, “Il gruppo operativo come produttore di ordine simbolico”, on line
Montecchi e Valeri, “Gruppi e istituzioni”, Areas 3 on line
Pichon Riviere, “Il processo gruppale”, Lauretana
Roma – Il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (CNCA), al quale è iscritta anche la Cooperativa Sociale Cento Fiori, esprime la propria soddisfazione per il decreto immigrazione approvato ieri in Consiglio dei ministri e chiede che si lavori subito a una nuova normativa sul fenomeno migrazioni.
“Siamo soddisfatti per i contenuti del decreto immigrazione”, dichiarano Riccardo De Facci, presidente del CNCA, e Stefano Trovato, coordinatore Area Migrazioni della federazione (e presidente della cooperativa sociale Polo 9). “Auspichiamo che il Parlamento non peggiori, nel suo esame, quanto contenuto nel testo del provvedimento. Tuttavia, consideriamo l’approvazione del decreto solo un primo passo verso una radicale riscrittura delle politiche sulle migrazioni. Il testo adottato dal governo mette fine a un approccio punitivo verso persone migranti e ong, fortemente voluto dal precedente ministro dell’Interno, che ha purtroppo facilitato le morti di migranti nel Mediterraneo e le possibili speculazioni legate ai grandi centri di accoglienza».
«Ma è la legge Bossi-Fini sull’immigrazione che dobbiamo superare al più presto, una normativa lesiva dei diritti delle persone migranti e incapace di fare i conti con la realtà della globalizzazione e dei processi di migrazione a essa collegati. Se il governo vorrà aprire questo processo il CNCA, e le altre organizzazioni civiche impegnate su questi temi, saranno pronte a portare al tavolo le loro analisi e proposte».
La Cooperativa Sociale Cento Fiori è particolarmente sensibile al tema della migrazine, e attualmente attraverso il settore Migranti e i suoi qualificati operatori offre numerosi servizi di accoglienza aderendo ai progetti Sproimi e Sprar.
L'articolo Cnca, bene il decreto immigrazione, ora superare la legge Bossi-Fini. proviene da Cento Fiori, Rimini.
Rimini – Un pomeriggio dedicato alla rigenerazione, del corpo e dello spirito, dove arte e natura scandiranno parallelamente le ore dalle 16 al tramonto di venerdì 11, nell’area della Serra Cento Fiori, nell’alveo del Parco XXV aprile.
Marecchia Social Fest – Live painting. Orto. Sonorità.E’ il Marecchia Social Fest dedicato questa volta a “Live painting. Orto. Sonorità”, che vede coinvolti, in un progetto de La bottega Culturale, la Cooperativa Sociale Cento Fiori, i writers Burla e Mozone, l’associazione Civiltà contadina, il progetto dedicato ai giovani “Piantiamola – Ragazzi che cambiano il clima” e l’associazione Tassello mancante.
Programma Marecchia Social Fest – Live painting. Orto. Sonorità.La prima voce del trittico che da il nome all’evento, live painting, aprirà il pomeriggio alle 16, con la rigenerazione di un vecchio edificio dell’area vivaistica del parco XXV aprile (o parco Marecchia come lo chiamano ancora i riminesi) attraverso i graffiti. Burla e Mozone, due presenze importanti nel panorama della street art riminese, disegneranno su uno degli edifici del vivaio che si affaccia sul parco Marecchia, di fianco a La Serra Cento Fiori (ingresso parcheggio da via Galliano 19 o da via padre Tosi).
I due writers nei giorni scorsi hanno dipinto due soggetti nella ex scuola di via Marecchiese a Spadarolo, e venerdì rinnoveranno la collaborazione con la Cooperativa Sociale Cento Fiori con il live painting fino al tramonto.
Orto sinergico presso La Serra Cento FioriIl programma proseguirà alle 17.30 con “Il piccolo grande orto antico”, ovvero la creazione di un orto sinergico speciale, piantando semi autoctoni. L’evento, a cura di Civiltà contadina, è dedicato a grandi e piccini e va a irrobustire la presenza di piante nell’area. L’orto infatti sarà preparato in una delle aree dove non crescono le oltre 300 essenze arboree piantate da La Serra Cento Fiori.
A seguire la presentazione del progetto “Piantiamola – Ragazzi che cambiano il clima”, azione di rilevanza locale finanziata dalla Regione Emilia-Romagna e promosso da associazioni di volontariato e promozione sociale della provincia di Rimini. La presentazione sarà a cura di Stefano Parmeggiani, ingegnere e divulgatore ambientale, il quale partecipa come consulente a nome del progetto Sosteniamoci.
Conclusa la presentazione è previsto un “reading” a cura di Debora Grossi (associazione Tassello Mancante) di brani tratti dal libro “L’uomo che piantava gli alberi” di Jean Giono, letture accompagnate da sonorità a cura di Davide Clementi in arte Tritodetriti. Concluderà il tutto una piccola degustazione di prodotti green e, per chi vuole, la “ligaza” è benvenuta.
«Con questo giornata, realizzata grazie all’apporto de La Bottega Culturale e in particolare a Laura Moretti, e la disponibilità dei due writers Burla e Mozone, ampliamo la rigenerazione di quest’area del parco che gestiamo da alcuni anni – dice Giovanni Benaglia, direttore della Cooperativa Sociale Cento Fiori – Oltre a La Serra Cento Fiori, la cui nascita ha visto la ristrutturazione di due edifici che erano in preda al degrado, ora cerchiamo di rendere l’intero spazio di circa due ettari non solo fruibile al pubblico ma anche attivo attraverso singoli eventi e collaborazioni che inseriamo nel progetto Marecchia Social Fest».
L'articolo Live painting. Orto. Sonorità: street art e natura per un pomeriggio di rigenerazione umana e urbana a La Serra Cento Fiori. proviene da Cento Fiori, Rimini.
Riccione – Trentun bambini tra i 4 e i 12 anni hanno partecipato alla Gara del piccolo pescatore, al Lago Arcobaleno di Riccione. Gara naturalmente si fa per dire, poiché a tutti i partecipanti è andata la medaglia ricordo della Federazione Italiana Laghetti Pesca Sportiva (Filps) e, come dono, canna da pesca e filo offerti dallo sponsor tecnico, la Camor. I 31 bambini, in parte figli d’arte ma in buona parte curiosi di questa disciplina sportiva che hanno appreso della gara dai canali social Instagram, Facebook e Youtube del Lago Arcobaleno Asd, che gestisce la struttura insieme alla Cooperativa Sociale Cento Fiori.
Un pomeriggio di sport, terminato con la merenda a base di piada e nutella, all’insegna del rispetto dell’ambiente. Infatti la pesca è rigorosamente alla carpa “no kill” e, come ulteriore approccio positivo, i ragazzi competevano sul numero dei pesci pescati, che venivano immediatamente rilasciati, e non sul peso delle catture. Le esche invece erano il pellet fatto appositamente per il Lago Arcobaleno su ricetta del biologo che ne segue l’equilibrio biologico.
L'articolo Gara del piccolo pescatore al Lago Arcobaleno di Riccione: 31 premiati dal divertimento con canne da pesca Camor e medaglie ricordo Filps. proviene da Cento Fiori, Rimini.
Il Consorzio Sol.Co Mantova e la Scuola di Prevenzione “José Bleger” sono lieti di invitarvi al webinar:
Istituzioni e pandemia: elementi di
analisi istituzionale e gruppo
operativo
martedì 22 settembre 2020, dalle ore 16.00 alle ore 19.00
L’incontro intende affrontare gli elementi di base dell’analisi istituzionale e, attraverso alcuni cenni storici, riportarci all’attualità di questo dispositivo per leggere gli emergenti sociali nel tempo delicato e complesso che stiamo vivendo.
Durante il webinar interverranno esperti internazionali:
Patrick Boumard, docente di Antropologia dell’Educazione all’Université de la Bretagne Occidentale e presidente dell’Associazione Società Europea di Etnografia dell’Educazione (Saint-Senoux – Francia)
Remi Hess, scrittore e sociologo francese, docente di Scienze dell’Educazione all’Università Paris 8 (Reims – Francia)
Salvatore Inglese, etnopsichiatra e ricercatore in ambito antropologico (Catanzaro – Italia)
Leonardo Montecchi, psichiatra, psicoanalista e direttore della Scuola “José Bleger” (Rimini – Italia)
Osvaldo Saidon, psichiatra, psicoanalista, istituzionalista (Buenos Aires – Argentina)
Thomas Von Salis, neuropsichiatra e psicoanalista, studioso di analisi istituzionale (Zurigo – Svizzera)
Con loro dialogheranno Luciana Bianchera (psicopedagogista, formatrice, docente universitario di Psicologia del lavoro e metodi e tecniche dell’intervento educativo, responsabile scientifica di Solco Mantova), Lorenzo Sartini (psicologo, psicoterapeuta, formatore, supervisore e traduttore per l’Italia del testo “Psicologia de la conducta” di José Bleger), Giorgio Cavicchioli (psicologo, psicoterapeuta, formatore e supervisore) e Simona Di Marco (psichiatra, esperta in etnopsichiatria).
L’evento è gratuito ed è da considerarsi parte delle attività di ricerca sulle tematiche della cura delle istituzioni, dei compiti sociali e comunitari.
E’ possibile iscriversi sul sito di Sol.Co. Mantova al seguente link: https://www.solcomantova.it/iscrizione-webinaristituzioni-e-pandemia-elementi-di-analisi-istituzionale-e-gruppo-operativo/
L’incontro si svolgerà a distanza, in modalità sincrona, su piattaforma ZOOM.
Ad avvenuta iscrizione, riceverete automaticamente il link e i codici identificativi per accedere all’incontro.
Rimini – I suoi muri hanno accolto tante generazioni di alunni delle elementari delle zone rurali che si affacciano sulla Marecchiese, fino a 30 anni fa. Poi hanno accolto chi è fuggito da guerre e persecuzioni in Africa e in Asia, i richiedenti asilo ospitati dalla Cooperativa Sociale Cento Fiori, che gestisce la ex scuola elementare di Spadarolo trasformata in Centro di Prima Accoglienza. Ed ora quelle mura sono diventate anche “tela” per la street art di Mozone e Burla, due conosciuti writers del riminese che dal vissuto della ex scuola hanno preso le mosse per creare due graffiti, uno che guarda alla Valmarecchia e uno al mare. I quali, oltre che opere in sé, sono anche un abbozzo di quello che potrebbe diventare un progetto di riqualificazione urbana che dipana l’arte lungo la Marecchiese, nell’immediata periferia di Rimini.
Due scene scolastiche nate dalle bombolette, due immagini a cavallo tra il passato e il presente, contemporanee dei dettagli e senza tempo nell’essenza. A monte una bambina che sorride al suo bambolotto ascoltando mp3 dalla cuffia. Una scena che, spiega Mozone, l’artista che ha ideato l’iniziativa e che ha coinvolto l’amico Burla e la Cento Fiori, «voleva essere un po’ anni ‘80, con la bambina che indossa sulle spalle una cartellina e non uno zainetto e ha sottobraccio un bambolotto di pezza». Probabilmente Mozone ha sentito le ultime campanelle di inizio e fine lezione in quella scuolina. Anche da questo è partita la sua idea che, dice, «questo graffito potrebbe essere l’inizio di un progetto di più ampio respiro su via Marecchiese di arte urbana. Qualcosa che si dipani tra Spadarolo, Vergiano e i Padulli».
Ispirato alla scuola anche il graffito di Burla, ma anche dal fatto che lì, ora, vivono dei migranti: «ho pensato a un concetto legato alla scambio culturale, tra due ragazzi che in un momento di pausa, seduti su un banco, sfogliano insieme un libro. Penso che i problemi di razzismo nascano dalla mancanza di scambio culturale». E quindi il disegno, una ragazza e un ragazzo che vivono la ricreazione fianco a fianco sul banco.
«I due writers ci hanno proposto il progetto, senza chiederci alcun impegno. Una iniziativa che ci ha lusingato e che siamo stati ben felici di accogliere e favorire in ogni modo. – dice Monica Ciavatta, responsabile del settore Migranti della Cooperativa Sociale Cento Fiori. – Gli stessi ospiti hanno seguito i lavori con grande interesse, qualcuno riconoscendo lo stile in altri disegni in città. Devo dire che dopo gli episodi di intolleranza di un paio di anni fa abbiamo ricevuto molte espressioni d vicinanza, da parte del vicinato e tanti soggetti pubblici e privati. Ma certo quest’ultima di Mozone e di Burla e la più evidente: hanno creato due graffiti bellissimi. Speriamo che il progetto prosegua e cercheremo di sostenerlo come potremo».
L'articolo Street art al Centro di Accoglienza Straordinario: i graffiti di Mozone e Burla impreziosiscono la struttura per migranti della Cooperativa Sociale Cento Fiori. proviene da Cento Fiori, Rimini.
La mia cara collega Vera Bessone – god bless you, darling - mi ha invitato ad aderire al gruppo “Per cambiare il nome a villa Mussolini a Riccione”. Apprezzo il gesto, ma non aderirò. Non vorrei scomodare l’immagine di Winston Smith, il cui ruolo nella fantastica e visionaria mente di George Orwell riscriveva la storia cancellando i nomi dei personaggi invisi al Potere del momento. Ma sono costretto a farlo. Solo che il ruolo del Potere di turno viene in questi tempi di social network preso dal coro isterico che serpeggia da una posizione revisionista all’altra, a destra come a sinistra. Con lo sterile tentativo di modificare il presente o il futuro semplicemente con un colpo di spugna reale o digitale: un trattino sul nome, un libro da togliere a scuola, una statua divelta o imbrattata, una gogna mediatica che dura lo spazio di un giorno, se va bene un po’ di più.
Di volta in volta ho partecipato anche io al coro mediatico – sì, anche io nel mio piccolo appartengo alle pecore belanti di Animal farm, così anche io nel mio piccolo rientro nelle legioni di imbecilli battezzate magistralmente da Eco – ma per la miseria, sento il bisogno di disintossicarmi dalla furia iconoclasta di questi mesi, anzi anni. E di discernere un pochettino dalle lotte che vale la pena fare, quelle che mi paiono sbagliate e quelle che mi paiono catalizzatrici di imbecilli. Quest’ultima categoria l’ho inserita in onore di Eco, NON perché l’accomuno al cambio di nome a Villa Mussolini.
Riccione non ha poi tante vestigia e personaggi storici da vantare: un passato di borgo di pescatori, qualche focolare e un ponte romano lungo la Flaminia, delle sorgenti in riva al mare a sud – le Fontanelle - una benefattrice americana con il vezzo anglosassone di prendersi cura del popolino che la circondava, costruendo gli omonimi ospedale e scuola e finanziando il porto. E’ con Benito Mussolini che Riccione diventa qualcosa di più di un anonimo borgo di pescatori dove passare le vacanze nel villino di famiglia al mare. Non ricordo se firmò lui l’elevamento al rango di Comune nel 1922 – maledetta memoria - ma il Mascellone sicuramente le fece fare temporaneamente il salto di qualità da paesotto da vacanza a centro cultural-mondano-politico estivo, installandoci la famiglia e facendo ogni tanto la sua comparsata, ovviamente funzionale alla mitizzazione del suo Potere.
Io ricordo un po’ Villa Mussolini nelle sue versioni. Se non ricordo male era un ristorante di massa, mi pare si chiamasse Merendero ma forse mi sbaglio, poi chiuso presumo per la senescenza dell’edificio. Il comune lo restaurò sotto la giunta Imola, per farne un luogo di cultura sicuramente adatto ai vacanzieri vista la posizione. Ma anche restaurato resta un pallido edificio se lo compariamo alla bellezza liberty di Villa Lodi Fe o dei tanti villini dell’epoca che si estendono prima o soprattutto a sud di viale Ceccarini. Ma è uno spazio pubblico che rappresenta comunque qualcosa per la città. Innanzitutto una stagione che ha avuto una grossa importanza, a cominciare dal traino per il suo sviluppo turistico nella seconda parte del Novecento. Sarebbe stata cantata Riccione da Dino Sarti, avrebbe attirato i capitali di Aquafan negli anni ‘80 e di tutto ciò che è seguito sulla collina, ci sarebbero state le discoteche e i treni speciali del Cocco, sarebbe stata il set per anni delle tv private per le loro trasmissioni dedicate alle fasce giovanili?
Intendiamoci: non ascrivo questo ragionamento alla litania del “Mussolini ha fatto anche cose buone”. Un cazzo. Mussolini plasmava alcune città funzionalmente alle sue esigenze di propaganda e quindi di potere: Predappio la città dell’Uomo Nuovo, Riccione la città della vacanza della famiglia italiana, Littoria, Sabaudia le città delle bonifiche, e via e via. Però i discendenti dei pescatori, i commercianti dell’ombra e della camera e del tavolo apparecchiato e i musichieri e intrattenitori vari hanno saputo approfittare della rendita di posizione che il Mascellone ha lasciato in eredità una volta passata la ben più pesante eredità della carneficina mondiale.
E’ comunque un’eredità ingombrante, certo. Qualcuno la utilizza per perpetuare il ricordo del Bombetta, è vero, pateticamente a ricordare tempi passati che non torneranno più, e rigorosamente sempre dimentichi che i primi a far fuori il Mascellone furono i suoi stessi seguaci il 25 luglio del 1943. Ma se li guardiamo bene, sono buoni solo per comprare il tanga alla moglie con su scritto “Boia chi molla”. I fascismi del nuovo millennio hanno trovato nuove forme di espressione, eludendo le categorie novecentesche e facendo – guardiamo negli Stati Uniti o in Brasile oggi, e prima del Covid – 19 nelle Filippine, giusto per fare qualche esempio – nuove stragi con nuove parole d’ordine. E davvero noi crediamo che aderendo a un gruppo Facebook possiamo cambiare queste cose? A suon di post tireremmo una riga su un quarto di Novecento riccionese, cancellandolo come faceva Winston Smith? Spegneremmo d’un botto il silenzioso grido dei morti della campagna d’Africa, di Spagna, dell’Armir, dei fuochi delle incursioni notturne, di Fragheto e Marzabotto? Crediamo davvero che la nostra esistenza digitale sia così reale da farci dimenticare che la vita è fatta di corpi, e che il destino dei corpi è dettato dalla mente oltre che dal fato?
No, come Winston Smith non credo alla menzogna o all’ignoranza. Non credo alla furia iconoclasta del momento e alla rimozione. Un ricordo rimosso non è una vittoria, è una lezione perduta. Credo più nella lezione di Giorgio Frassineti, ex sindaco di Predappio, che alle orde di nostalgici che affollano la sua città, da amministratore tentò di schiuderla alle folle molto più grandi dei curiosi di tutto il Novecento. Trasformando la casa natia del Mascellone a Dovia, la frazione poi inglobata nella nuova Predappio mussoliniana, in un museo del Novecento, di prima durante e dopo il Ventennio. «Siamo legati indissolubilmente al nome di Mussolini, negarlo non si può», mi disse mentre spiegava come stava tentando di superare lo stallo culturale delle invasioni nostalgiche che tre volte all’anno colorano di nero Predappio. Lo fece apparentemente con poco: a chi entrava in quella casa dai natali funesti, Frassineti faceva balenare la bandiera rossa e nera del fabbro socialista internazionalista, papà Alessandro Mussolini.
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