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Steso sul lettino sto e osservo un social network che troppo coglierò (scusa Guido Gozzano)

Woody Allen in Manhattan

Ieri un gruppo di persone che condividono un progetto di social network, tra le quali io, hanno dato corpo alle loro identità digitali: chi con una birra, chi con uno spritz, chi con un bicchiere di vino. Dal flusso di byte più o meno abituale si è passati a un inusuale (per chi non si è mai conosciuto al di fuori degli universini Facebook o Instagram) flusso di informazioni reali: nomi, cognomi, professioni, desideri, aspettative, puntualizzazioni, anche contrasti. Un embrione di setting - per paragonarla alla psicoanalisi di gruppo - intorno agli hastag che dovrebbero catalizzare le narrazioni sui social media su un soggetto comune. Temo che detta così sia di un'astrusità inusitata. E questo è già un primo esito della riunione, al quale, purtroppo, non mi sottraggo come responsabile. Ma, oltre alla piacevole ed eterogenea compagnia, l'incontro è stato utile per costringermi a toccare terra dai social network e tentare di guardarli con un po' di sano distacco e un pizzico di pragmatismo. Diciamo allora che questo post, in termini di “psicoanalisi”, è un po' il proseguimento del setting.

A me, Enrico Rotelli, cosa servono i social network? Cosa rappresenta l'inarrestabile flusso di opinioni, massime, immagini, video, commenti che quotidianamente scorro - e alimento con più o meno saccente supponenza – più volte al giorno su Facebook e, in misura molto minore, su LinkedIn? Dovrei dire “poco”. Perché il mio media di riferimento sul web è Il sito, qualunque esso sia. I social network sono solo dei vettori di contenuti che hanno una loro casa ben definita, modellata intono a me o ai miei committenti. Per questo dovrei essere presente e alimentare i vari profili creati e gestiti sulle piattaforme social di uso comune in Italia. Detto questo, mi sono fiondato su Analytics per vedere esattamente che peso reale hanno in questa politica (apparentemente) distaccata. Su enricorotelli.it l'apporto social è del 23% dall'inizio dell'anno, molto dopo i motori di ricerca. Facebook la fa da padrona – ho un bacino d'utenza di circa 1400 “amici” - ma devo dire che mi aspettavo qualcosa di più da LinkedIn, trattandosi di un sito di taglio professionale. Certamente sconto il fatto di non aver investito abbastanza sulla piattaforma, in termini di contatti e di contenuti. Sul blog La casa di Kikko l'apporto invece è del 70%, pazzesco per come considero i social network. Sul sito aziendale invece non arriviamo nemmeno al 2%, scontando probabilmente il fatto che è un sito dedicato al B2b. Ma non ne sono poi così sicuro: l'area social è giovane e va implementata ancora a dovere.

Tutta qui la psicanalisi? No. L'incontro e la successiva riflessione hanno reso evidente che l'investimento sui social , in particolare Facebook, è purtroppo molto più sostenuto. Nei fatti l'impegno che profondo nell'immagine social non è “solo” di renderla aderente alla mia realtà (ovvero il mio media di riferimento), mio malgrado mi adopero per farla diventare essa stessa una realtà parallela, se non esclusiva. Una bizzarra fagocitatrice di energie che mi restituisce certo lettori, ma a un prezzo – emotivo e di coinvolgimento – spropositato. E che assorbe creatività dilapidandola nel giro di pochissime ore, se non minuti, oscurandola nelle timeline dei miei lettori sotto una valanga di altre massime, link, immagini. E tutto questo in modo quasi inconscio. Il gioco vale la candela? Fino a un certo punto. Se, come dice Google, the content is the king, l'obolo che do al re è infinitesimale rispetto a quello donato ai suoi vassalli (Facebook, LinkedIn). E quel che mi restituiscono, per quanto sia elevato in valori percentuali, è sicuramente poco in valori assoluti, perché l'energia assorbita – tanta – resta confinata in social chiusi e autoreferenti. E sopratutto – maledetta pigrizia - non si trasforma in contenuti con la C maiuscola.

(L'anima del poeta mi perdonerà se ho abusato nel titolo di alcune sue strofe)