Rimini – Sono un volo con la fantasia gli auguri di Natale della Cooperativa Sociale Cento Fiori che fa “a chi da e chi riceve”, ovvero alle associazioni e alle cooperative sociali che operano e alla città di Rimini. Un volo disegnato dall’illustratore Samuele Grassi con testi di Enrico Rotelli, la “coppia creativa” – come si diceva una volta per le pubblicità – che da anni costruiscono la comunicazione dell’azienda sociale riminese.
Samuele Grassi ha reinterpretato per Cento fiori i tratti costitutivi delle sue opere, ormai sedimentati nell’immaginario collettivo riminese che ama l’illustrazione e i fumetti, dopo la partecipazione alla Biennale del Disegno 2024 e l’attuale mostra al grattacielo. Ovvero, linee chiare che affondano nel ricordo di Moebius per trovare una propria originale collocazione in un dolce futuro che saprà trarre dal possibile disastro ecologico del global warming un nuovo equilibrio. La grande tavola, prodotta per i manifesti 6 per 3 metri e 100 x 140 cm, giornali, social e sito, invece prende l’ispirazione dalle navicelle di Hayao Miyazaki – Il castello errante di Howl, Il mio amico Totoro, Porco Rosso, per citare alcuni titoli – calandole però di nuovo nel delicato immaginario grassiano e nei tratti caratteristici delle nostre tradizioni marinaresche. Una flotta in volo tra le nuvole sopra la città, leggerezza sopra leggerezza che tradisce l’amore per le lezioni regalate dalla letteratura di Italo Calvino.
Pur avendo diversi amori “spirituali” nel terreno comune, i testi di Enrico Rotelli collocano più prosaicamente i voli delle navicelle nel lavoro quotidiano di quanti operano per associazioni e cooperative attive nel sociale. Migliaia di persone che “ogni giorno usano fantasia e impegno per far volare solidarietà e accoglienza a Rimini, attraverso azioni e progetti”. Il fulcro del messaggio è la navicella del progetto Ulisse, le crociere terapeutiche che oltre 20 anni fa hanno iniziato il loro viaggio con il capitano Werther Mussoni e che continuano ad essere una peculiarità dei programmi terapeutici delle due strutture della Cooperativa Sociale Cento Fiori a Vallecchio di Montescudo: la Comunità Terapeutica e il Centro Osservazione e Diagnosi.
Pur firmando gli auguri negli anni scorsi, la coppia ha virato verso l’illustrazione sulla spinta del direttore Giovanni Benaglia, dopo che Samuele Grassi ha realizzato l’illustrazione del manifesto per il concerto del 25 aprile scorso. “Conoscevamo già il grafico Samuele Grassi, abbiamo lasciato carta bianca all’illustratore Grassi e quel che è nato è un omaggio a quanti, come noi, militano nei lavori sociali. – dice Cristian Tamagnini, presidente della cooperativa Sociale Cento Fiori – Militano perché educatori, psicologi, psicanalisti, tecnici, operai, non lavorano per cooperative sociali e associazioni per i lauti guadagni che il settore sociale offre, ma perché fare solidarietà e accoglienza fa stare bene chi la riceve e chi la fa. Ogni volta che si parla di tagli alla spesa pubblica è il Welfare nel mirino delle amministrazioni pubbliche, con le ricadute sulle persone svantaggiate e le loro famiglie. Oggi una educatrice esce da un percorso universitario, eppure il suo stipendio non rappresenta la sua preparazione né le ricadute positive che ha sulla popolazione. Forse è il caso che la gente e chi amministra riconsideri il lavoro sociale e il volontariato. Non solo quando si presume siamo tutti più buoni”.
L'articolo Gli auguri Cento Fiori sono un volo di solidarietà e accoglienza sulla città firmato Samuele Grassi ed Enrico Rotelli proviene da Cento Fiori, Rimini.
Alle 20 di venerdì 15 novembre le poltrone del Cinema Teatro Tiberio erano già quasi tutte occupate, in attesa che lui, Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa, cominciasse le sue Storie Migranti, Il mare di Lampedusa. Portato a Rimini dalla Cooperativa Sociale Cento Fiori, che da anni si occupa di assistenza ai migranti, la testimonianza di Pietro Bartolo è attesa. Ma forse ben pochi dei presenti si potevano aspettare quel che di lì a poco sarebbe cominciato: un lungo, doloroso viaggio nella coscienza di ciascuno. Fatto da chi quel lungo viaggio l’ha cominciato tanti anni fa e forse, ancora oggi, lo sta elaborando, serata dopo serata, parola dopo parola, immagine dopo immagine.
Vera Bessone, la collega caposervizio Cultura del Corriere di Romagna, introduce l’uomo, medico, ostetrico, “perché a Lampedusa non c’era ospedale, non c’era nemmeno l’elicottero per portare le partorienti in Sicilia”. Padre pescatore, lui stesso marinaio prima di lasciare l’isola, l’ultimo lembo d’Europa nel Mediterraneo, per seguire la carriera di Esculapio, torna nella sua isola per incontrare il fato di migliaia di persone – “perché noi spesso ci scordiamo che queste sono persone”, ricorda come un mantra nel corso della serata – vive o morte. E scoprirne il vissuto attraverso le visite mediche in banchina o sulla tolda delle barche da pesca dei suoi compaesani, sulle motovedette della Guardia Costiera, su barche o gommoni alla deriva.
Lui, che ha studiato per dare la vita, immagine dopo immagine, video dopo video, racconta quello che è diventato un viaggio nella medicina del soccorso: ostetrico, medico di pronto soccorso suo malgrado, anatomopatologo, medico legale. Un viaggio nell’orrore del mare e degli aguzzini libici ad ogni approdo, ad ogni sbarco dei pescherecci lampedusani, con i corpi ammucchiati a poppa, scrutando i corpi irrigiditi dal rigor mortis, per trovare un flebile afflato di vita. Perché in quei mucchi di muscoli rattrappiti, una persona non è irrigidita. “Ne tasto il polso, zittisco il pescatore che li ha portati in porto, «fammi sentire», e dopo un minuto lo sento, un battito, flebile, ma un battito». Non entrerà in uno dei sacchi neri in poliuretano, i bodybag che conosciamo nei telefilm e film sulla guerra, come gli altri. Non farà parte di quella lunga teoria di bare allineate nell’hangar di Lampedusa, mostrate in televisione ma subito digerite dopo i tre minuti di servizio, poi fagocitate dalla politica per farle diventare rabbia e voti da scaricare in una x sul simbolo di una scheda elettorale.
Il racconto per parole, immagini, video e, sì, emozioni e lacrime, diventerà una lunga testimonianza di “controinformazione”, storie e tragedie che sui giornali e sulle televisioni, legate alla leggi della notizia, dei palinsesti e dei timoni giornalistici, non diventano servizi ma sono, quel che si dice in gergo giornalistico, “colore”. “Ma la realtà è un’altra, quel che vi raccontano è tutto falso, è tutto distorto. Non ci sono invasioni, ma quali invasioni…”. Una realtà appresa dai media all’ora di pranzo o al Pc che si sgretola nei volti delle oltre 200 persone che, fino alla fine, gremiscono il Cinema Teatro Tiberio.
Man mano che scandisce la parola “avanti” ai tecnici nel loggione della regia, Marco Biagini e Stefano Tonini – grazie ragazzi, nessuno come chi scrive sa quanto vi siate prodigati per la riuscita di questa testimonianza – i volti della sala cambiano espressione. Due adolescenti in seconda fila all’inizio della serata sorridevano con papà e mamma. Ad ogni “avanti” il volto diventava più cupo, si velava di lacrima come gran parte degli altri spettatori. Nuove malattie affioravano nella narrazione, “il male del gommone”, racconta Bartolo, perché i gommoni che trasportano i migranti stipati in cento usano un motore fuoribordo che deve essere rifornito in viaggio, e la benzina, caduta sul pagliolato, si mischia all’acqua di mare, evapora, intossica i polmoni, sballottata sui corpi produce ustioni, ferite, pustole. “Altro che la scabbia… I migranti portano la scabbia, dicono, ma non è vero, non è quella la malattia di cui sono affetti, nessuno di quelli che ho visitato aveva malattie contagiose, queste altre sono le malattie: le sofferenze di queste persone”. E mostra il volto e il corpo di un uomo dalla pelle devastata dalla benzina e dall’acqua di mare. Niente a che vedere con il migrante che, per farne esempio e sprone agli altri, viene colpito con due colpi di pistola alla scapola e al fianco all’altezza del rene. “Perché la gente non vuole salire sui gommoni, lo sanno che la morte è certa su quei gommoni, e allora sparano a uno o due persone per convincere gli altri a salire”, racconta Pietro, “questo ragazzo invece, si è salvato perché pur con due proiettili in corpo è riuscito a salire”.
La strenua lotta per la sopravvivenza, la voglia di vita e la forza necessaria per arrivare all’Europa dopo due anni di viaggio, dopo torture, dopo sevizie inenarrabili nei campi di concentramento in Libia , è il sottotesto della narrazione. E Pietro Bartolo non risparmia questi aspetti. Esalta la forza delle donne, la loro capacità di arrivare pur stremate, dopo aver sopportato stupri, iniezioni di sostanze per indurle in una forzata menopausa per poterne abusare a piacimento senza “complicazioni” o sfruttarla per la prostituzione. O i momenti concitati di un parto sulla motovedetta, con una stringa delle sue scarpe che serve per chiudere il cordone ombellicale del nascituro. “Vedete? Il bambino appena nato è bianco, proprio come noi, tra qualche giorno prenderà la pigmentazione della madre, una donna del Mali. Ma ora è bianco come noi, è una persona uguale a noi, in tutto e per tutto. Non esistono razze, esistono etnie!”.
Ma qualche volta questa spinta di sopravvivenza deve soccombere. E’ uno dei postulati della legge del mare. La stessa che spinge l’ex pescatore ad aiutare, che proibisce alle persone di piegarsi alle leggi ad hoc e portare invece soccorso, “perché anche io sono stato naufrago”, ma che di fronte all’ineluttabile diventa tragedia. Ci sono le foto: una distesa di corpi in una ghiacciaia di un peschereccio, come in tutti i pescherecci che ci sono anche a Rimini. Fatevela mostrare da un marinaio se capitate al porto: una botola, un locale in legno senza oblò, che su un peschereccio di trafficanti diventa la “terza classe” della traversata, “quella dove non si ha diritto ad un filo d’aria”. “Pietro, vieni a vedere qua sotto, mi dissero, scendo al buio e sento sotto i piedi qualcosa, chiedo luce: i corpi ammassati di persone che hanno lottato per uscire, mi raccontano i sopravvissuti, quando l’aria cominciava a scarseggiare, tenuti dabbasso prima con le botte, poi sigillando la botola con i peso dei corpi degli aguzzini, che tenevano lontani i parenti che avevano capito cosa stava succedendo ai loro cari: stavano morendo soffocati”.
O il video della Guardia Costiera, con i sub che estraggono da un peschereccio adagiato sul fondo i corpi degli affogati. Sono immagini irreali, sembra di essere in una piscina da quanta luce c’è,. L’unica cosa non irrigidita nel rigore della morte sono i capelli, che ondeggiano nell’acqua cristallina. I sub li adagiano in fila poco distanti dal relitto, statue di carne modellate nelle pose in cui la morte li ha raccolti. Li sistemano sulla sabbia del fondo, nel chiarore filtrato dal Mediterraneo, per poi legarli assieme con delle tanichette di plastica e per portarli a galla, dove si inscenerà una danza macabra verso la sponda della motovedetta che li porterà, troppo tardi, nella desiderata Europa.
L’intensità e la potenza del racconto di Pietro Bartolo, le sue immagini, le sue emozioni che attraversano la testimonianza portano alla catarsi gran parte del pubblico. Una catarsi che si potrà rivivere nel video che la Cooperativa Sociale Cento Fiori posterà presto su Youtube. Qualcuno non regge, molti piangono, qualcuno è provato e non alza lo sguardo verso il grande schermo. Qualcuno, come chi scrive, riesce a popolare la propria memoria marinaresca dei particolari che solo le genti di mare conoscono – la ghiacciaia popolata di morte, la paura, il senso di fratellanza che abbraccia i marinai, il lavoro spasmodico di fronte alle vite in pericolo, i racconti come mantra per metabolizzare paure ancestrali. Si può popolare la propria memoria, ma c’è una domanda che non abbiamo avuto il coraggio di rivolgere a Pietro. La mattina dopo ha di nuovo raccontato le sue Storie Migranti, i dolori e le gioie della salvezza a cui ha assistito, a una platea di giovani liceali al Serpieri di Rimini. E poi via, di nuovo in viaggio verso Pesaro. E questa settimana altri incontri, altre narrazioni, e di nuovo parole al pubblico in città italiane, d’Europa, di nuovo emozionato ed emozionante. Un mantra doloroso che si ripete, senza epica, senza estetica, senza eroi, men che meno lui. Un lungo flusso di coscienza di anima ferita che regala al pubblico il suo dolore.
Enrico Rotelli
L'articolo Storia di Persone, non “migranti” proviene da Cento Fiori, Rimini.
Scaglioni di importo di investimento
ABER giovani (massimale 80%) ABER non giovani (massimale 65%) FIBER (massimale 50%) fino 100.000,00 60% 48,75% 37,50% da 100.000,01 a 200.000 52% 42,25% 32,50% da 200.000,01 a 300.000 44% 35,75% 27,50% da 300.000,01 a 500.000 36% 29,25% 22,50%La domanda dovrà essere presentata in forma telematica, attraverso lo sportello messo a disposizione da Ismea. La finestra temporale per le richieste apre alle ore 12.00 del giorno 15 novembre 2024 per chiudere alle ore 12.00 del giorno 13 dicembre 2024.
Notizie ImpreseOggi
Scaglioni di importo di investimento
ABER giovani (massimale 80%) ABER non giovani (massimale 65%) FIBER (massimale 50%) fino 100.000,00 60% 48,75% 37,50% da 100.000,01 a 200.000 52% 42,25% 32,50% da 200.000,01 a 300.000 44% 35,75% 27,50% da 300.000,01 a 500.000 36% 29,25% 22,50%La domanda dovrà essere presentata in forma telematica, attraverso lo sportello messo a disposizione da Ismea. La finestra temporale per le richieste apre alle ore 12.00 del giorno 15 novembre 2024 per chiudere alle ore 12.00 del giorno 13 dicembre 2024.
Notizie ImpreseOggi
Le storie di mare di Lampedusa, le tragedie e le speranze che hanno costellato quello specchio enorme di Mediterraneo che lambisce l’estrema propaggine dell’Italia, raccontate da Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa che insieme a concittadini e volontari hanno assistito e assistono quotidianamente a lutti, sofferenze e insieme speranze dei migranti.
Il mare di Lampedusa, questo il titolo dell’incontro pubblico di venerdì 15 novembre alle ore 20,30 al cinema Tiberio (via San Giuliano 16) di Rimini, che vedrà Pietro Bartolo dipanare il racconto durante un’intervista condotta da Vera Bessone, giornalista caposervizio Cultura del Corriere Romagna. Una narrazione di Storie migranti fatta di dialoghi ma anche immagini e video per sensibilizzare sul tema dei migranti e della loro accoglienza.
L’incontro è organizzato dalla Cooperativa Sociale Cento Fiori in collaborazione con il Sistema Accoglienza Integrazione (Sai) dell’Unione dei Comuni della Valmarecchia ed è a ingresso libero.
Biografia di Pietro BartoloMedico chirurgo, laureato all’Università di Catania, è specializzato in ginecologia. Sposato e padre di tre figli. Dal 1991 ufficiale sanitario delle isole Pelagie, nel 1993 diviene responsabile del presidio sanitario e del poliambulatorio di Lampedusa, occupandosi anche delle prime visite a tutti i migranti che sbarcano a Lampedusa e di coloro che soggiornano nel centro di accoglienza.
Nonostante qualche settimana prima fosse stato colpito da un’ischemia cerebrale, è stato in prima fila nei soccorsi ai sopravvissuti del Naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013 di un peschereccio carico di oltre 500 migranti, in cui persero la vita 368 persone.
Prende parte nel 2015 al film documentario Fuocoammare di Gianfranco Rosi, che nel febbraio 2016 ha vinto l’Orso d’oro al 66º festival di Berlino e ha ottenuto una candidatura nella categoria miglior documentario agli Oscar 2017.
Dal suo libro Lacrime di Sale (2016) è liberamente tratto il film Nour (regia di Maurizio Zaccaro), per il quale ha contribuito all’ideazione del soggetto. Il film, in cui a vestire i panni del medico di Lampedusa è l’attore Sergio Castellitto, è stato presentato alla 37ª edizione del Torino Film Festival del 2019. È autore anche del testo “Le Stelle di Lampedusa” (2018).
Dal 2019 al 2024 è europarlamentare, con l’incarico di vicepresidente della Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento europeo (LIBE).
È sempre stato un sostenitore dell’istituzione di corridoi umanitari contro la tratta degli esseri umani.
L'articolo Il mare di Lampedusa: le storie Migranti di Pietro Bartolo, intervistato da Vera Bessone, al Cinema Teatro Tiberio di Rimini proviene da Cento Fiori, Rimini.
E’ recentemente stato pubblicato il nuovo libro di Stefano Bonifazi dal titolo Buongiorno dottore, come sto questa mattina?, nel quale l’autore riflette sull’esperienza professionale svolta all’interno del Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura di Jesi (AN).
(cliccare sull’immagine per aprire la copertina del libro)
Pubblichiamo qui la prefazione al testo scritta da Leonardo Montecchi.
Il Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura e l’arte del possibile (Esperienze nel Diagnosi e Cura di Jesi)
Questo lavoro di Stefano Bonifazi condensa anni di pratica clinica nel Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura. Si tratta di una riflessione che cerca di estrarre i concetti che hanno guidato l’esperienza e quelli che ne sono derivati.
In particolare, Bonifazi si riferisce ad un acrostico, ECRO, che sta a significare Esquema, Conceptual, Referencial y Operativo, cioè Schema Concettuale Referenziale e Operativo. Si tratta del nucleo della Concezione Operativa di Gruppo che Enrique Pichon-Riviére ha inaugurato a partire dalla sua esperienza nell’Ospedale Psichiatrico di Buenos Aires di cui era direttore.
Infatti, a metà degli anni quaranta, Pichon-Riviére si trovò in una situazione di emergenza: gli infermieri erano entrati in sciopero ed era necessario gestire tutto l’ospedale.
Dice Pichon:
“Alrededor de 1945, circunstancias particulares crearon la necesidad de transformar a los pacientes de mi servicio en operadores, por haber quedado cesante todo el personal de enfermería. Es decir que ante una situación concreta hubo que cubrir en pocos días el hecho de no tener enfermeros, el carecer de toda ayuda institucional.”
“All’incirca nel 1945, circostanze particolari crearono la necessità di trasformare i pazienti del mio servizio in operatori, perchè tutto il personale della infermeria aveva abbandonato il lavoro. Cioè, di fronte ad una situazione concreta si è dovuto risolvere in pochi giorni il fatto che non ci fossero infermieri e la mancanza di qualsiasi aiuto istituzionale.”
(“Historia de la técnica de los grupos operativos”, in Enrique Pichon-Riviere, Obra Completa, Buenos Aires, Paidós, 2023)
Da questa necessità nasce l’idea di organizzare dei gruppi, che poi vennero chiamati operativi, attorno al compito di gestire, in questo caso autogestire, l’ospedale. In quella esperienza Pichon-Riviére si accorse di una serie di ostacoli che definì “resistenze al cambiamento”.
Le resistenze istituzionali sono sempre presenti in ogni tentativo di cambiamento. Nell’esperienza italiana, la chiusura nei manicomi sancita dalla legge 180 si è accompagnata a forti resistenze sia nella mentalità delle comunità attraversate dagli stereotipi sulla follia sanciti dalla precedente legge del 1905, che favoriva l’identificazione fra folle e pericoloso a sé e agli altri, con la conseguente necessità di reclusione nel “manicomio” dove il folle doveva essere reso incapace di nuocere a sé e agli altri. Ma la resistenza non era data solo da questa paura, alimentata da certi media ma anche da resistenze istituzionali. Infatti, gli ospedali psichiatrici si erano istituzionalizzati e cioè avevano subito un’eterogenesi dei fini. Il loro compito non era più la cura dei malati ma l’automantenimento dell’istituzione stessa: posti di lavoro, commmesse di ditte che fornivano biancheria, alimentari ecc., ossia tutte le necessità per le “città dei matti”.
Il collegamento fra l’esperienza ed il pensiero di Pichon-Riviére e la trasformazione istituzionale attuata da Franco Basaglia è costituito da Armando Bauleo. Bauleo fu allievo e collaboratore di Pichon-Riviére, poi fu costretto all’esilio nel 1975. Conosceva e stimava Franco Basaglia ed in Italia cominciò ad intervenire sia nella formazione che nella supervisione istituzionale dei nuovi servizi di salute mentale che erano nati dalla riforma del 1978.
Così cominciò a circolare il concetto di ECRO, che caratterizza anche l’esperienza di Stefano Bonifazi che si richiama direttamente a Bauleo di cui è stato allievo.
Lo schema di riferimento che troverete in queste pagine riguarda l’idea di fondo che la malattia non si identifica con il malato e che il paziente, con le sue problematiche è l’emergente di un gruppo famigliare. Questo schema, come si può notare, non sostiene che i sintomi siano da riferirsi esclusivamente ad una qualche alterazione della biochimica o immunologia ma che, per comprenderli, bisogna fare riferimento anche ai vincoli ed al tipo di comunicazione del paziente e del suo gruppo famigliare. Inoltre, è necessario considerare l’ambito istituzionale, che spesso complica ulteriormente il quadro, e quello comunitario, con la carica di stereotipi e con la conseguente produzione di uno stigma che marchia il paziente e il suo gruppo famigliare.
Lo schema di riferimento che viene applicato soprattutto negli SPDC italiani e non, nonostante la legge 180 e tutte le esperienze e le teorie che lo contraddicono, è uno schema che sovrappone la sofferenza mentale a quello di una malattia o sindrome della clinica biologica. In questo schema il riferimento, non potendo riferirsi all’anatomia patologica, si rivolge alla variazione della neurotrasmissione sinaptica, quasi sempre dedotta in base a sillogismi del tipo:
Premessa maggiore: In tutte le depressioni notiamo un calo di serotonina.
Premessa minore: Tizio è depresso
Conclusione: Tizio ha poca serotonina.
Questo sillogismo porta a somministrare un farmaco inibitore della ricaptazione della serotonina ed a pensare che il sintomo sia da riferirsi ad un deficit biologico.
Questi sillogismi sono divenuti algoritmi e caratterizzano la clinica neo-krepeliniana dominante nella psichiatria contemporanea.
Per questo schema, la psicoterapia, i gruppi terapeutici, le terapie famigliari, gli interventi educativi e sociali e tutte le forme di terapia sociale e comunitaria sono, se va bene, coadiuvanti della via regia della cura che è rappresentata dal trattamento farmacologico. Non è possibile nessun riferimento al vincolo pazienti/equipe curante se non come organizzazione del flusso lavorativo scomposto in protocolli per ottenere un risultato standard, azzerando le differenze soggettive, anzi oggettivizzando tutto, per così dire, in modo che si possa intravvedere la sostituzione dell’equipe curante con forme di intelligenza artificiale. Ciò farebbe scomparire gli effetti emotivi (quelli che, da almeno cento anni, si chiamano transfert e controtransfert) visti come bias dannosi alla corretta terapia.
Come si intuisce, lo Schema di Riferimento del lavoro di Stefano Bonifazi non è questo. Naturalmente, non si nega l’aspetto biologico e la cura farmacologica, ma la si riporta alla funzione che deve avere in un quadro più vasto. Che è rappresentato da un’istituzione caratterizzata dal vincolo fra l’equipe curante, i gruppi terapeutici dei pazienti e il gruppo multifamigliare.
In particolare, mi voglio soffermare sull’esperienza del gruppo terapeutico che è stata oggetto di analisi e discussione in un gruppo di ricerca della scuola “Josè Bleger”.
Per quanto riguarda il gruppo terapeutico, la ricerca è partita da quel “fatto sorprendente” che Massimo Bonfantini, nei nostri seminari sulla metodologia della ricerca, riferendosi a Charles S. Peirce, ci aveva indicato come il necessario punto di partenza.
La ricerca riguardava gli effetti di un gruppo operativo in un’istituzione totale come un Servizio Psichiatrico Di Diagnosi e Cura (SPDC).
Dopo una ricognizione negli SPDC delle Marche e della Romagna, ci siamo resi conto che erano pochi i servizi in cui si teneva strutturalmente una qualche forma di gruppo e, là dove si teneva, era considerato, come si è detto, come un coadiuvante della terapia farmacologica.
Ma l’esperienza di Bonifazi nel Servizio di Jesi ci ha sorpreso in primo luogo perchè aveva notato degli atteggiamenti tipici. La sorpresa è stata che nonostante la prossimità, le interazioni fra i degenti erano scarse. Così Bonifazi descrive queste forme stereotipate:
– Le abbiamo chiamate scherzosamente: le solitarie pecore del presepe, il gioco ai quattro cantoni, i pesci nell’acquario, il gioco del silenzio.
– Il fenomeno delle “pecore solitarie” perché così è la loro disposizione nei presepi dove, spesso, ognuna sta per conto suo (nei pascoli formano greggi); allo stesso modo, i pazienti se ne andavano sempre da soli quando uscivano, uno ad uno, per recarsi al bar o a prendere una boccata d’aria fuori.
– Il gioco ai “quattro cantoni” descriveva la prossemica in sala fumo, uno per angolo, come a stabilire la maggior distanza possibile tra loro, quando di posacenere da pavimento ve ne era uno soltanto.
– I “pesci nell’acquario” perché, nei momenti inattivi delle attività pomeridiane, i degenti passavano il tempo guardando a lungo gli infermieri nella guardiola, come fossero pesci da ammirare, senza comunicare né interagire, senza parlare tra loro; per non confrontarsi né conoscersi, occupavano il tempo ammirando i pesci che si lasciavano osservare indifferenti, infastiditi quando qualcuno bussava sul vetro con una scusa o un’altra. Questo è accaduto per anni e tende a ricorrere oggi, dopo la sospensione delle attività gruppali che ha prodotto l’implosione della socialità tra i ricoverati.
Queste stereotipie erano colte come forme del gruppo dei ricoverati, non come un atteggiamento del singolo. Se non si ha uno schema di riferimento gruppale, non si vedono: si vede il singolo che sta per conto suo e non “le pecore del presepe”; si vede un solitario in un angolo, non “Il gioco dei quattro cantoni”; e, naturalmente, il singolo che guarda il pesce, non “i pesci nell’acquario”, che già denota l’aspetto che assume il transfert istituzionale in un SPDC.
L’introduzione del gruppo terapeutico sotto varie forme, compresa la realizzazione di un gruppo multifamigliare con i degenti e i loro famigliari, supervisionato dal professor Alfredo Canevaro, ha prodotto la rottura di questi stereotipi, in primo luogo ha favorito e legittimato una comunicazione orizzontale fra i degenti che prima del gruppo si rivolgevano molto agli operatori con vario tipo di richieste e molto poco fra loro. Il gruppo, anche se praticato per pochi incontri, dato che la degenza media è breve, meno di 15 giorni, favorisce l’identificazione reciproca e diminuisce l’ansia; inoltre, ha reso possibile anche la realizzazione di “gruppi autogestiti” che, come sempre, valorizzano la partecipazione soggettiva al cambiamento. Complessivamente, il compito che è emerso come fondante questo gruppo nel SPDC riguarda un primo terntativo di elaborare il motivo della crisi, il cercare un senso al ricovero fra i degenti e con i loro famigliari. Insomma, come dice bene in questo lavoro Bonifazi, un tentativo di passare dal processo primario ad un processo secondario, un provare a dare un significato a ciò che è successo e a farlo uscire dalla dimensione di evacuazione emozionale o di agiti senza un apparente senso.
Insomm,a si tratterebbe di considerare il SPDC come un dispositivo costituito da vari setting che possa essere percepito come un contenitore, un apparato formato da vincoli multipli fra degenti, operatori, famigliari e mondo esterno che riduca l’angoscia, il senso di persecuzione, la paura dell’abbandono e della dissoluzione nel nulla, e permetta di intravedere una via di uscita da questo labirinto.
Bonifazi ci mostra tutta la difficoltà e le resistenze nel condurre questa importante ricerca-azione che non è ancora conclusa e di cui questo testo non è solo una testimonianza, ma un manuale per la disseminazione in altri luoghi ed in altri tempi di esperienze simili. Le resistenze riguardano i ruoli, sulla differenza fra coordinatore e conduttore, differenza molto discussa nel gruppo di ricerca della scuola “José Bleger”. Il mio punto di vista è che all’interno di un’istituzione, e soprattutto un’istituzione totale come il SPDC, si è sempre implicati con l’istituzione stessa; si può cercare di ridurre l’implicazione, ma disimplicarsi totalmente significa abbandonare l’istituzione stessa e negare il proprio ruolo. Io sono convinto che si debba avviare una dinamica fra un aspetto istituito, le leggi, i regolamenti, le consuetudini, la mentalità ed il senso comune, comprese le routine quotidiane, e un aspetto istituente: l’esigenza di cambiamento, diversi schemi di riferimento, l’importanza dei vincoli e del mondo fuori dell’istituito, la capacità di lasciarsi attraversare da problematiche non strettamente pertinenti il campo di lavoro.
L’istituzione è il risultato della dinamica fra questi aspetti, è un processo in continuo divenire. Solo quando l’istituito pone se stesso come l’ISTITUZIONE e schiaccia ogni pensiero e pratica differente da quella ordinaria marchiandola come antiscientifica, non basata sull’evidenza, sentimentale o retrograda, e sclerotizza le proprie pratiche trasformandole in procedure tecniche, allora diventa evidente come il processo istituzionale si sia fermato, e il compito sia mutato dalla cura dei pazienti al mantenimento dell’istituito stesso. In questo caso, non c’è più cura, perchè non c’è più l’altro, ma l’oggetto di varie procedure che mirano tutte all’automantenimento dell’istituito. Siamo, in questo caso, nell’istituzionalizzazione che bisogna distruggere se si vuole ripristinare il processo istituzionale che è stato soppresso.
Questo è quello che è stato fatto in in Italia con la distruzione dei manicomi e la ripresa della dinamica istituzionale nel campo della salute mentale.
Tuttavia, l’istituzionalizzazione della psichiatria è sempre all’orizzonte, è dunque necessario tenere aperta la dinamica istituzionale anche in questo campo tenendo come orizzonte la salute mentale globale.
Il lavoro di Stefano Bonifazi, che sono contento ed onorato di presentare, va in questa direzione. Che possa servire per molteplici esperienze di ricerca e azione.
Leonardo Montecchi
Notizie ImpreseOggi