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Camionista in versione Steve McQueen salvo grazie ad un 'cavillo'

Grazie all'intervento dei colleghi di Studio, Gaia Galeazzi e Filippo Capanni, un camionista si è visto annullare una sanzione di 2833,33 euro.

La notizia è stata ripresa anche dagli organi di stampa locali.

Dicono di noi Newsletter Grassi Benaglia Moretti, avvocati & commercialisti
Categorie: siti che curo

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L'importanza della gestione del detenuto transgender

Martedì 31 maggio, a Rimini, l’avvocato Davide Grassi, socio e co-fondatore dello Studio Legale e Tributario "Grassi Benaglia Moretti" ha presentato il libro "La gestione del denuto Transgender" dell’ispettore Gabriele Celli.

L’evento è stato organizzato dall’associazione “Papillon Rebibbia” di Rimini, realtà che da anni si occupa di diritti delle persone ristrette e della sensibilizzazione sul tema.

Gabriele Celli (laureato in sociologia all’Università di Urbino ed esperto di criminologia e psichiatria forense) è in servizio da 25 anni nella polizia penitenziaria della Casa Circondariale di Rimini ed è autore del volume dal titolo “La gestione del detenuto transgender”. Si tratta del primo saggio per gli addetti ai lavori. All’interno, oltre ad una dettagliata descrizione della struttura penitenziaria in cui l’ispettore Celli presta servizio, vi è anche un contributo importante con le testimonianze di tutti gli operatori della Casa Circondariale “Casetti”.

“L’istituto di Rimini è uno dei pochi in Italia ad avere una sezione specializzata per i detenuti transessuali”, ha raccontato l’ispettore Celli, durante il dibattito e alla presenza di numerosi partecipanti interessati all’argomento e “non esiste una formazione specifica per la gestione di questo tipo di detenuto”.

Nella prefazione scritta dal Dott. Luigi Pagano, Vice Capo Vicario del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, appare evidente la consapevolezza che la gestione del detenuto transgender possa avere successo solo grazie alla professionalità e alla sensibilità degli agenti, che sono tuttavia privi di strumenti adeguati: “Il mio intento, scalfendo solo un minimo di superficie, è solo quello di rendere, appena, idea di quanto spigoloso, nell’accezione etimologicamente più vasta del termine, sia l’argomento e quanto auto-controllo, tatto, sensibilità, capacità, professionalità deve dimostrare, e dimostra, di avere il nostro personale e, per inciso, mai celebrato come merita.”

Il libro di Gabriele Celli è stato tradotto in lingua inglese e verrà utilizzato anche all’estero nelle scuole di formazione della polizia penitenziaria.

Si può acquistare al seguente indirizzo web:

http://www.youcanprint.it/youcanprint-libreria/didattica-e-formazione/la-gestione-del-detenuto-transgender.html

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Martedì 31 maggio, a Rimini, l’avvocato Davide Grassi, socio e co-fondatore dello Studio Legale e Tributario "Grassi Benaglia Moretti" ha presentato il libro "La gestione del denuto Transgender" dell’ispettore Gabriele Celli.

L’evento è stato organizzato dall’associazione “Papillon Rebibbia” di Rimini, realtà che da anni si occupa di diritti delle persone ristrette e della sensibilizzazione sul tema.

Gabriele Celli (laureato in sociologia all’Università di Urbino ed esperto di criminologia e psichiatria forense) è in servizio da 25 anni nella polizia penitenziaria della Casa Circondariale di Rimini ed è autore del volume dal titolo “La gestione del detenuto transgender”. Si tratta del primo saggio per gli addetti ai lavori. All’interno, oltre ad una dettagliata descrizione della struttura penitenziaria in cui l’ispettore Celli presta servizio, vi è anche un contributo importante con le testimonianze di tutti gli operatori della Casa Circondariale “Casetti”.

“L’istituto di Rimini è uno dei pochi in Italia ad avere una sezione specializzata per i detenuti transessuali”, ha raccontato l’ispettore Celli, durante il dibattito e alla presenza di numerosi partecipanti interessati all’argomento e “non esiste una formazione specifica per la gestione di questo tipo di detenuto”.

Nella prefazione scritta dal Dott. Luigi Pagano, Vice Capo Vicario del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, appare evidente la consapevolezza che la gestione del detenuto transgender possa avere successo solo grazie alla professionalità e alla sensibilità degli agenti, che sono tuttavia privi di strumenti adeguati: “Il mio intento, scalfendo solo un minimo di superficie, è solo quello di rendere, appena, idea di quanto spigoloso, nell’accezione etimologicamente più vasta del termine, sia l’argomento e quanto auto-controllo, tatto, sensibilità, capacità, professionalità deve dimostrare, e dimostra, di avere il nostro personale e, per inciso, mai celebrato come merita.”

Il libro di Gabriele Celli è stato tradotto in lingua inglese e verrà utilizzato anche all’estero nelle scuole di formazione della polizia penitenziaria.

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Target Sinergie e le cooperative consorziate presentano il Bilancio 2015 a soci e dipendenti

Target Sinergie e le cooperative consorziate presentano il Bilancio 2015 al tradizionale appuntamento con soci e dipendenti. Sabato 21 maggio 2016 soci delle coperative consorziate e dipendenti sono attesi presso il Campo don Pippo  (via Santa Cristina 22 a Rimini, località Casetti).
Il programma prevede:

  • ore 15.00: torneo di calciotto e beach-volley
  • ore 18.00: approvazione del bilancio 2015,
  • presentazione delle nuove attività, sviluppi commerciali

Al termine dell’assemblea sarà offerto un aperitivo a buffet. Vi chiediamo di confermare la presenza e la partecipazione ai tornei al Responsabile Operativo di riferimento entro venerdì 13 maggio.

 

target_sinergie_rimini_cena_dipendenti_bilancio_2014.jpg Notizie CSR Facility Management Igiene e pulizie Logistica
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Il programma prevede :
ore 15.00: torneo di calciotto e beach-volley
ore 18.00: approvazione del bilancio 2015, presentazione delle nuove attività, sviluppi commerciali

Al termine dell’assemblea sarà offerto un aperitivo a buffet. Vi chiediamo di confermare la presenza e la partecipazione ai tornei al Responsabile Operativo di riferimento entro venerdì 13 maggio.

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Alcune suggestioni su Bleger e l’istituzione della psicoanalisi

Scuola di prevenzione José Bleger Rimini - Mar, 10/05/2016 - 12:25
di Lorenzo Sartini

Nel 1969 Josè Bleger scrive un articolo, “Teoria e pratica in psicoanalisi: la prassi psicoanalitica”, nel quale cerca di evidenziare alcuni problemi relativi al rapporto tra teoria e pratica nella psicoanalisi. L’analisi di Bleger inizia affrontando la questione da un punto di vista epistemologico, sottolineando l’ingenuità di un pensiero (che definirà naturalista) che sancisca la netta separazione tra soggetto ed oggetto, per il quale “i fatti sono lì” e semplicemente osservandoli, in modo decisamente s-vincolato, si ha la possibilità di formulare ipotesi o teorie sull’oggetto di studio. Una questione, sottolinea lo psicoanalista argentino, che riguarda tutte le scienze umane e che la disciplina psicoanalitica ripercorre. Nello specifico della psicoanalisi questo si evidenzia anche con la differenza esistente tra la teoria sviluppata ed esplicitata, la teoria ufficialmente accettata dall’istituzione psicoanalitica (riferendosi all’IPA, International Psychoanalytic Association), e la teoria implicita, quella che effettivamente si utilizza nella pratica clinica. Bleger evidenzia tre punti che sostengono questo divario:
1) la teoria esplicita è fondamentalmente storico-genetica, ossia si fonda sulla ricostruzione della biografia del paziente, mentre la teoria implicita è situazionale, ovvero si fonda su ciò che accade nel “qui ed ora” della seduta attraverso l’analisi degli elementi transferali e controtransferali. Il lavoro archeologico, di ricerca dei fattori disposizionali, viene sviluppato, e superato, dal lavoro che si fonda sulla relazione attuale, partendo dall’analisi della dinamica transfert-controtransfert. Il soggetto, in analisi, smette di essere considerato un sistema chiuso e il transfert non viene più considerato come un fenomeno ‘unipersonale’ bensì come un fenomeno che si innesta sul vincolo che si costituisce tra soggetti (soggetto-oggetto) in relazione.


2) la teoria esplicita è dinamica, facendo derivare i processi psichici da un intergioco di forze, mentre la teoria implicita è fondamentalmente drammatica, intendendo con questo termine “una comprensione dell’essere umano e del suo comportamento in termini di avvenimenti che si riferiscono alla vita medesima degli esseri umani considerata come tale”. “La dinamica - scrive Bleger nel suo articolo – è una rappresentazione o modello della drammatica ma non la sua causa”. Bleger si ispira, qui, a Politzer, per cui “il dramma implica l’uomo preso nella sua totalità e considerato come il centro di un certo insieme di accadimenti che, precisamente perché sono in una relazione con una prima persona [protagonista], hanno un senso” (cfr. Liberman, 2013). Lo scopo è di dare concretezza ai fondamenti della psicoanalisi, aggiungendo che “per concreto non si intende solamente l’essere umano come è in se stesso nella sua vita quotidiana ma anche nelle condizioni nelle quali la sua vita si sviluppa” (1958).
3) la teoria esplicita si organizza attorno alla logica formale mentre quella implicita vede l’utilizzo di una logica di tipo dialettico. Bleger sostiene che certe teorie dinamiche rispondono ad una logica di tipo formale postulando una serie di forze che operano nello psichismo e la cui espressione sarebbero, attraverso una sorta di reificazione, i processi psichici. Considerare l’accadere umano costringerebbe a fare i conti con una logica di tipo dialettico forse rendendo superfluo l’utilizzo di concetti esplicativi astratti. Quei “personaggi sconosciuti e che non ci assomigliano: rappresentazioni, immagini, istinti”, come scrive Politzer (1934).

Questi tre punti si imperniano sul concetto di alienazione, concetto che Bleger usa per intendere che “il soggetto si estranea o si espropria, si svuota di qualità umane che disperde e attribuisce (proiezione) a oggetti (oggetti in generale: animati o inanimati); l’oggetto si fa altro per il soggetto, diviene investito di qualità e poteri particolari” (1958). L’alienazione conduce ad una frammentazione di ciò che dovrebbe essere integrato, fa presente Ariel Liberman (2013), così la relazione tra soggetti si reifica e diventa una rapporto cristallizzato tra cose. Nell’alienazione della relazione, o nella de-dialettizzazione della drammatica, seguendo sempre Bleger, si ha a che fare con elementi dissociati, con la perdita di contatto tra i termini in gioco, dunque con la paralisi del processo dialettico. Una dissociazione che è propria di un approccio di tipo naturalistico, che considera il ricercatore (o l’osservatore) come assolutamente estraneo, distaccato, s-vincolato appunto, dall’oggetto di studio, che nel caso della psicoanalisi è un altro soggetto. Diversamente da un approccio di tipo fenomenologico che considera, invece, il fenomeno, ovverosia il modo di percepire ed esperire ciò che accade da parte del soggetto. Freud, ci fa notare Bleger, dichiarò esplicitamente che il suo progetto per la costruzione di una psicologia scientifica era basato su un modello naturalistico”, ma nello stesso tempo creò un approccio che guardava anche alla fenomenologia.

Fachinelli, ne “Sul tempodenaro anale” (1965), pare proporre simili interrogativi sulla psicoanalisi. Biasima Freud che, per uno dei suoi lavori, si avvalse in maniera eccessivamente entusiastica delle osservazioni dei bambini, dunque necessariamente esterne, da parte di Lou Andreas Salomè, affermando che quel procedimento si poneva fuori dal metodo analitico. Freud stesso, dunque, si lasciò certamente tentare dalla possibilità di confermare naturalisticamente, ovvero “in modo esatto”, ipotesi desunte dal contesto analitico. Fachinelli fa notare, però, che si tratta di due tipi di dati non direttamente confrontabili e che si corre il rischio di semplificare eccessivamente una serie di comportamenti complessi, riducendoli a livelli di “regolarità e univocità istintivo-biologica” fuori luogo per lo stesso metodo freudiano. Aggiunge che Freud sapeva “come soltanto i dati interni di una vicenda, quali emergono nella situazione di neutralità dell’analisi, siano in grado di assumere un significato, di costruire una storia. Il resto è sovrappiù, rientra legittimamente nei canoni del misurabile e del confrontabile, che sono quelli dell’osservazione naturalistica”.

Sembrerebbe che questa contrapposizione tra un naturalismo alienante ed una fenomenologia vincolante abbia percorso tutta la storia della psicoanalisi e in effetti Freud, già nel 1895, in “Progetto di una psicologia” affermava l’intenzione di fare della psicologia una scienza: “L’intenzione di questo progetto è di dare una psicologia che sia una scienza naturale, ossia di rappresentare i processi psichici come stati quantitativamente determinati di particelle materiali identificabili”.  L’obiettivo fondamentale di Freud era di dare una spiegazione della meccanica della mente, ciò che doveva avvenire mediante un linguaggio costituito da dinamiche di forze e strutture: ovverosia, per mezzo di un paradigma quantitativo. Allo stesso tempo, però, Freud ritenne che avrebbe potuto spiegare il funzionamento della mente solo attraverso lo studio, e la cura, dei casi clinici e subito iniziarono le difficoltà poiché si rese conto che le informazioni che emergevano dai casi di cui si occupava non corrispondevano alle ipotesi precedentemente formulate: “Sento ancora io stesso un’impressione curiosa per il fatto che le storie cliniche che scrivo si leggono come novelle e che esse sono, per così dire, prive dell’impronta rigorosa della scientificità. Devo consolarmi pensando che di questo risultato si deve evidentemente rendere responsabile più la natura dell’oggetto che le mie preferenze” (“Studi sull’isteria”, 1892-1895). Sottolinea Bauleo, a questo proposito, che quelle storie cliniche sono “una narrazione romanzata della psicopatologia”, le cui fantasie vanno scoperte nella relazione analitica per poter dar loro un senso: perché, in definitiva, ci si confronta con storie di pazienti e non di malattie (1999).

Ne “Il Mosè di Michelangelo” Freud parla di Ivan Lermolieff, un esperto d’arte russo, che scoprì un modo per distinguere con sicurezza le imitazioni dei quadri dagli originali. In realtà si venne a sapere che sotto lo pseudonimo russo si nascondeva un medico italiano, Giovanni Morelli. Morelli invece che concentrarsi sui tratti fondamentali dei dipinti e sull’impressione generale, così come si faceva allora, sottolineò l’importanza dei dettagli secondari, di come venivano dipinte le unghie, i lobi auricolari, di come venivano rese le mani, elementi cui, in genere, si poneva poca attenzione, passando così inosservati. Freud ritenne che questo metodo fosse “strettamente apparentato con la tecnica della psicoanalisi medica” (1914), laddove particolari considerati di scarsa importanza, marginali, che proprio per tale motivo venivano sottratti al controllo della coscienza, permettevano di avere informazioni estremamente significative sul soggetto. La psicoanalisi, sullo stesso filone della medicina ippocratica, è una disciplina semeiotica o indiziaria, rileva lo storico Carlo Ginzburg che scrive: “Solo osservando attentamente e registrando con estrema minuzia tutti i sintomi – affermavano gli ippocratici – è possibile elaborare ‘storie’ precise delle singole malattie: la malattia è, di per sé, inattingibile” (2004).

Questa sembra essere la croce e la delizia della psicoanalisi che, in quanto disciplina indiziaria, non può rientrare nei criteri di scientificità proposti dal metodo sperimentale galileiano. La psicoanalisi è una disciplina qualitativa, che si occupa di casi o situazioni individuali[1], e che, proprio a ragione di ciò, può arrivare a risultati che hanno un elemento ineliminabile di aleatorietà. Il metodo scientifico galileiano, mirando a cogliere solamente l’aspetto quantitativo dei fatti, si proponeva lo studio di quei fenomeni che potevano essere misurati e tradotti in formule matematiche, permettendo di arrivare alla conoscenza per tramite di un ragionamento certo che Galilei comparava alla “sapienza divina”. Riteneva, di conseguenza, che di ciò che fosse caratterizzato dal particolare, dall’individuale, non si poteva parlare.
In sostanza, si ha a che fare sin dall’inizio con una cesura tra teoria e pratica in psicoanalisi e l’obiettivo di Freud, fare della psicologia una scienza, si scontra, come egli stesso rileva nel passo tratto da “Studi sull’isteria” sopra citato, con la particolarità dell’oggetto di studio che non consente di rispondere totalmente ai criteri richiesti (esperimento e dimostrazione) dal metodo scientifico proposto dal fisico e matematico italiano.

Una tensione, quella tra approccio naturalistico e fenomenologico, che mi pare resa evidente dalle vicissitudini che hanno accompagnato diversi concetti cui il movimento psicoanalitico ha fatto ricorso nella sua storia. Tra questi concetti una nota particolare merita certamente quello di controtransfert poiché, oltre ad avere una forte valenza simbolica (con la scoperta della dinamica del controtransfert che coinvolge anche l’analista, si inizia a ritenere che non sia solamente il paziente, con i suoi portati psichici e comportamentali, a incidere sul colloquio, ma, appunto, che il campo del colloquio possa essere ‘sporcato’ anche dal terapeuta), sembra essere stato anche una causa determinante della costituzione dell’istituzione psicoanalitica per eccellenza, l’Associazione Psicoanalitica Internazionale (IPA).
La prima volta in cui Freud parla di controtransfert è nel 1910. In quello stesso anno si tiene il secondo Congresso Internazionale di Psicoanalisi a Norimberga e Freud lesse una relazione sullo stato della disciplina psicoanalitica (“Le prospettive future della terapia psicoanalitica”, 1910) nel quale parla del controtransfert, allora controtraslazione, “che insorge nel medico per l’influsso del paziente sui suoi sentimenti inconsci, e non siamo lungi dal pretendere che il medico debba riconoscere in sé questa controtraslazione e padroneggiarla”. Si esprime anche sulla necessità dell’autoanalisi affinché il medico possa approfondire le sue resistenze interne. È in quello stesso anno che viene fondata l’Associazione Psicoanalitica Internazionale che, scriverà Freud in “Psicoanalisi selvaggia”, sempre del 1910, considerate le difficoltà che comporta l’applicazione della terapia psicoanalitica, avrebbe il compito di differenziare tra chi aderisce all’associazione, seguendo le norme di formazione dispensate, e chi invece non lo fa, e potendo così “respingere le responsabilità dell’operato di coloro che, pur non essendo dei nostri, chiamano i loro procedimenti medici ‘psicoanalisi’”. È nel 1912 che Freud, seguendo le impostazioni della scuola psicoanalitica di Zurigo, consiglierà ai medici che si vogliono occupare di psicoanalisi la necessità di sottoporsi ad analisi presso un esperto.
Questa è la concezione cosiddetta ‘classica’ del controtransfert, che viene inteso come ostacolo nello sviluppo di un processo analitico nel quale il paziente viene visto come oggetto da conoscere da un’analista neutrale. Ciò che sembra accadere è che, ritenuto il controtransfert un ostacolo alla comprensione del paziente da parte del terapeuta, si decide di stabilire delle norme che fissino il percorso formativo che il futuro psicoanalista dovrà seguire per poterlo superare: si fonda così l’istituzione psicoanalitica.

Dagli anni ’20, e per circa 30 anni, il controtransfert sembra passare in secondo piano, ed è intorno agli anni 50, con Heinrich Racker e Paula Heimann, che il controtransfert inizia ad essere maggiormente valorizzato, allorché si comincia a ritenere la relazione tra paziente ed analista un vincolo tra due persone e non più semplicemente una situazione nella quale una persona osserva l’altra, ossia un soggetto osserva un oggetto. All’analista, ai cui sentimenti ed emozioni ora si dà molta importanza, viene richiesto di imparare a dissociarsi: da un lato deve riuscire a fare attenzione alle sue reazioni, a ciò che sente, e dall’altra deve riuscire a mantenere una parte osservante, così da poter sostenere ed elaborare le fantasie ed i sentimenti che prova nella relazione con il paziente invece di scaricarli. Una concezione che richiama una mentalità di gruppo poiché si ritiene che transfert e controtransfert si generino all’interno di una relazione, non potendo più ben determinare dove inizia il materiale di una persona e dove finisce quello dell’altra.
Questa seconda concezione pare ancora occupare una posizione marginale all’interno dell’istituzione psicoanalitica che sembra riconoscersi maggiormente attorno alla prima, quella classica.

Una terza concezione, che si spinge ancora più in là, è quella proposta da autori quali Searles, Winnicott, Little e Tower che enfatizzano l’interazione nella situazione analitica, che viene ad essere definita da una continua e reciproca comunicazione inconscia tra i due soggetti della relazione. Se precedentemente l’enfasi era posta sulle potenzialità che permettevano di conoscere parti del mondo interno del paziente, ora viene suggerita una visione più simmetrica della relazione analitica, nella quale vengono incluse tutte le fantasie e i sentimenti che l’analista può provare nei confronti del paziente, tanto che si giunge a parlare di interazione tra transfert del paziente e transfert dell’analista.
Anche questa concezione, sebbene registrata, non viene propriamente appoggiata dall’istituzione psicoanalitica che, a tutt’oggi, parrebbe continuamente ragionare sul controtransfert, anche problematizzandolo, assumendo come posizione privilegiata quella della concezione classica.

Per quanto riguarda Bleger, il suo bagaglio teorico si fondava su una concezione gruppale della soggettività, sulla scorta di quanto proponeva il suo maestro, Enrique Pichon-Rivière. L’idea di base postula che la soggettività si organizza partendo dai vincoli che coinvolgono l’essere umano che, in continua relazione dialettica con il mondo circostante, non può che costruirsi costantemente. Una soggettività che si fonda ed evolve partendo dalle necessità che vive l’essere umano, ed il cui soddisfacimento può avvenire solamente all’interno delle relazioni che lo definiscono. Allo stesso tempo, però, si tratta anche di un soggetto prodotto, emergente dell’interazione con i gruppi cui partecipa (primariamente quello familiare) e le istituzioni sociali che lo attraversano.  Centrale, in questa concezione, è il concetto di vincolo, inteso come una struttura relazionale che include il soggetto, l’oggetto e le reciproche interrelazioni, consce e inconsce. Pichon-Rivière, sostituendo al concetto di istinto quello di esperienza, giunge a sostenere che “tutta la vita mentale inconscia, cioè il dominio della fantasia inconscia, deve essere considerato come l’interazione tra oggetti interni (gruppo interno) in permanente interrelazione dialettica con gli oggetti del mondo esteriore” (1971).
Partendo da questo presupposto, Bleger considerava già l’introduzione del concetto di transfert come un cambiamento radicale nel panorama psicoanalitico poiché si cessava di pensare all’essere umano come a un sistema chiuso, aprendo ad una concezione che, per conoscere l’oggetto di studio, iniziava a considerare la relazione, il vincolo. Considerare il transfert permetteva di ripensare un fenomeno che precedentemente veniva inteso come ‘unipersonale’, consentendo ora di considerarlo come un campo attivo e originale, un fenomeno che coinvolge dinamicamente due o più persone in una situazione particolare. Conseguentemente, Bleger pensa che “il controtransfert smetta di essere un elemento perturbatore (entro certi limiti) per divenire un elemento attivo, operante, integrante di un atteggiamento e partecipando, immancabile e inevitabilmente, a quella sintesi che è l’interpretazione” (1958).

Penso che la questione del controtransfert possa certamente essere considerata un emergente del processo di sviluppo della psicoanalisi, in quanto rappresentativa degli ostacoli che Bleger evidenzia nel suo articolo a proposito del rapporto tra teoria e pratica. Sebbene le concezioni successive del controtransfert, già da circa 60 anni, abbiano messo in discussione la concezione classica del controtransfert, quella che prevede un’analista oggettivamente neutrale e impermeabile, nel senso di arbitrariamente distaccato, alle sollecitazioni del paziente, pare che quella concezione ‘unipersonale’ continui ad esercitare una certa attrazione e dunque sempre con quella si debbano fare i conti. La discriminante, a mio modo di vedere, è la concezione del controtransfert come strumento: se all’inizio il controtransfert veniva inteso come ostacolo, successivamente si è iniziato a coglierne gli aspetti positivi, di risorsa, dunque l’aspetto strumentale. Ora la questione è che questo aspetto, le cui potenzialità sono state accettate dalla comunità psicoanalitica, viene però alienato dalla relazione analitica: in altri termini, il controtransfert viene inteso come uno strumento che l’analista può decidere se usare o no, viene oggettivato. Se riesco ad elaborarlo e mi serve lo uso altrimenti non lo espongo, non lo faccio vedere. Non pare considerarsi il controtransfert come implicazione ineluttabile del campo analitico (bipersonale, come dicevano M. e W. Baranger), che coinvolge inevitabilmente l’analista, ma come uno strumento che entra in gioco solamente allorquando l’analista ritiene di poterlo usare poiché è stato in grado di elaborare la dinamica cognitiva ed emotiva che lo vede coinvolto. L’idea di fondo, dunque, è che il controtransfert, a discrezione dell’analista, possa essere reso muto e inoperante. Al di là dell’asimmetria della relazione analitica, stabilita partendo già dalla richiesta di aiuto del paziente e sancita con la predisposizione del setting, e dunque con la differenziazione dei ruoli e la formalizzazione del contratto analitico, questa concezione sembrerebbe legittimare la convinzione che l’analista possa mantenere sempre e comunque una posizione oggettiva, imperturbabile, una posizione di assoluta neutralità e forza, nella quale gli si riconosce implicitamente la possibilità di controllare tutto ciò che accade in seduta, incluso, dunque, ciò che avviene in lui anche inconsciamente. Sebbene il discorso istituzionale predominante affermi di mettere in discussione questa concezione tesa all’oggettività della posizione dell’analista, la sensazione è che, di fatto, questa posizione sia ancora quella che ne sostiene l’identità. Questa credo fosse anche la posizione sostenuta da un importante psicoanalista nordamericano, Merton Max Gill, che, in uno scritto dell’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, “Prospettiva intrasoggettiva e prospettiva intersoggettiva: ‘Osservazioni sull’amore di transfert’”, così si esprimeva: “Probabilmente il maggior ostacolo che impedisce agli analisti di riconoscersi partecipi della situazione analitica è il presumere di poter scegliere se partecipare o meno. Il punto è che l’analista partecipa che gli piaccia o no. La sua partecipazione sarà avvertita dal paziente in tutte le sfumature della soddisfazione e della frustrazione.”

Tornando all’articolo che ha mosso queste riflessioni, si rileva che, nella parte conclusiva del suo scritto, Bleger, sempre riallacciandosi al rapporto tra teoria e pratica psicoanalitica, pone attenzione alla questione istituzionale. Se da un lato, avendo molto lavorato e teorizzato sull’ambito istituzionale, afferma di comprendere, al fine dell’autoconservazione, l’inevitabilità di un movimento istituzionalizzante all’interno delle istituzioni, dunque anche all’interno di quella psicoanalitica, dall’altro ritiene che, se l’obiettivo fondamentale di questa istituzione è quello di “diffondere, insegnare e approfondire la ricerca e la conoscenza psicoanalitica”, questo venga inevitabilmente ostacolato da quello stesso presupposto di base. Infatti, per non mettere in pericolo l’istituzione garantendole al contempo una continuità, accade che i vari membri dell’istituzione possano pervenire ad accordi, impliciti od espliciti, per definire ciò che è psicoanalisi, focalizzandosi su aspetti di minore rilevanza, non ritenuti pericolosi per l’istituzione. Se l’istituzione psicoanalitica per poter sussistere deve fondarsi su degli accordi di minima, su degli assiomi condivisi, allora, nell’istituzionalizzazione quegli assiomi vengono dati per scontati e, considerati dimostrati a priori, spariscono dal tavolo delle discussioni. In sostanza, questo comporta che per continuare ad esistere, l’istituzione deve limitare la ricerca, spostandola su elementi che non tocchino gli assiomi basilari. L’obiettivo fondamentale dell’istituzione viene tralasciato per dedicarsi al proprio mantenimento: in altre parole, conclude l’analista, il consolidamento interno dell’istituzione psicoanalitica viene perseguito attraverso l’utilizzo di pratiche ortodosse, burocratizzate, connotate dalla resistenza al cambiamento, e mettendo in discussione solamente ciò che si trova all’esterno, dunque proponendosi come agente di cambiamento verso il fuori.
Credo sia importante ricordare che Bleger puntualizzi che, con questo suo lavoro, intende fare una diagnosi, o meglio un inventario della situazione della psicoanalisi la quale, se considerata nella sua totalità di teoria e pratica, dunque come prassi, necessariamente porta a scontrarsi con divergenze e contraddizioni.  Ciò che si propone di fare Bleger è, allora, di “illuminare possibili vie in funzione di quelle che sono già state delineate nello stesso processo di prassi, in modo tale che la ricerca successiva possa essere compiuta o tentata con maggiore chiarezza di obiettivi o correre lungo i sentieri della ricerca con meno cecità”. Bleger faceva parte dell’APA (Asociación Psicoanalítica Argentina) e, nonostante le perplessità che accompagnavano le sue considerazioni sull’operato dell’istituzione psicoanalitica, non si risolse mai ad uscirne.

A proposito del rapporto tra l’istituzione psicoanalitica dominante e i nuovi modelli concettuali emergenti, lo psicoanalista statunitense Jay R. Greenberg (2012), soffermandosi sui recenti sviluppi della psicoanalisi in Nord America, sostiene che dopo anni di privilegio della tecnica psicoanalitica ‘classica’, oggi la situazione è un po’ cambiata poiché nel secolo scorso si è assistito all’emergere di nuove correnti teoriche, oltre a quella pulsionale classica, che hanno avuto un certo riconoscimento: psicologia dell’Io, psicoanalisi relazionale e psicologia del Sé. Nota inoltre come, a fronte dell’intenzione di Freud di creare un’autorità centrale che avesse il compito di presiedere alla pratica della psicoanalisi, oggi ci si trova di fronte a diversi modelli teorici che, seppur affermando di imperniarsi su aspetti clinici differenti, sembrano condividere un panorama comune condividendo alcune idee di fondo: la pratica psicoanalitica come campo dinamico, la partecipazione conscia e inconscia dell’analista nella seduta, l’importanza della comunicazione verbale e non verbale. Conclude ipotizzando che sia la comune fiducia nel valore della “cura della parola” che tiene uniti gli psicoanalisti che si riconoscono nelle diverse correnti teoriche.
Certamente la questione è molto complessa ma, almeno questa è la mia impressione, il tentativo di spiegazione di Greenberg della situazione in cui versa il movimento psicoanalitico nordamericano pare abbastanza frettoloso. Il livello della discussione più ‘scottante’, in effetti, sembra venir liquidato con poche parole lasciate in sospeso. Premette che il problema della corrispondenza tra teoria e pratica in psicoanalisi è stato per lungo tempo evitato e che, a metà anni ’50, la posizione dominante sembrava postulare un’inevitabile connessione tra la pratica della tecnica standard e la teoria. Il pensiero implicito era che attraverso la tecnica psicoanalitica corretta si sarebbero potuti raccogliere dati psicoanalitici, che dunque avrebbero confermato la teoria; se invece la teoria non veniva confermata ciò significava che non si era utilizzata una tecnica giusta, ovvero non si era riusciti ad andare a fondo nell’analisi dell’inconscio. Un rapporto tautologico. Questa pratica, continua Greenberg, è andata avanti per molto tempo rendendo difficile l’affermarsi di nuove teorie o nuove metodologie, che non trovavano la considerazione e l’appoggio degli psicoanalisti classici: “Le strutture organizzative e politiche della psicoanalisi dominante sostenevano e perpetuavano il collegamento ipotizzato e forse desiderato tra metodo e risultanze. La certificazione degli analisti in training presso l’American Psychoanalytic Association e il relativo controllo delle analisi di training e delle supervisioni consistevano proprio in questo, cioè garantiva che gli analisti approvati avrebbero seguito le tecniche approvate e che sarebbero arrivati a risultati approvati. Le variazioni potevano essere causa di esclusione, una pratica che in una certa misura continua anche oggi”.
La constatazione con cui chiude il periodo, “una pratica che in una certa misura continua anche oggi”, espressa in modo così fugace, sebbene possa assurgere a posizione realistica, mi pare piuttosto inquietante. Nonostante lo psicoanalista statunitense concluda il suo intervento con toni di soddisfazione, registrando la presenza sulla scena psicoanalitica nordamericana di altri modelli teorici oltre a quello classico, viene da chiedersi qual è il prezzo da pagare all’Associazione Psicoanalitica Americana (aderente all’IPA), ossia che cosa venga escluso e perché.

Scrive Kaës che una funzione assolutamente fondamentale dell’istituzione è quella di “fornire rappresentazioni comuni e matrici identificatorie: dare uno statuto alle relazioni tra la parte e il tutto, legare gli stati non integrati, proporre oggetti di pensiero che hanno un senso per i soggetti ai quali la rappresentazione è destinata e che generano pensieri sul passato, il presente e il futuro, indicare i limiti e le trasgressioni, assicurare l’identità, drammatizzare i movimenti pulsionali…” (1988). In altri termini l’istituzione comunica ciò che vorrebbe che il soggetto cui è rivolta pensasse di essa; anche se la comunicazione non ne rispecchia lo stato reale. Un sorta di propaganda ante litteram. L’istituzione si preoccupa di dare un’immagine di sé che possa raccogliere l’interesse della comunità sociale e che possa avere un significato per l’utenza-target. Per fare questo si richiama a quell’immagine sociale stereotipata con la quale è stata riconosciuta, che ha sancito la propria costituzione potremmo dire, al costo, però, della perdita di contatto con l’organizzazione concreta che la caratterizza nell’attualità. Si crea, così, una dissociazione tra ciò che viene trasmesso e ciò che viene effettivamente proposto, tra la teoria, ciò che viene formalmente comunicato, e la pratica, ciò che viene effettivamente fatto.
Un semplice esempio potrebbe essere quello della SPI (Società Psicoanalitica Italiana, anch’essa partecipante all’IPA)  che, attraverso il suo sito ufficiale, fa presente che un percorso di psicoanalisi comporta il rispetto di una precisa serie di regole (dalle tre alle cinque sedute a settimana, l’uso del lettino, il pagamento delle sedute saltate, ecc.) che fanno riferimento ad un tipo di psicoanalisi, classica/ortodossa/mitica, che oggi, nei fatti, non sembra più essere così tanto sostenuta e, soprattutto, praticata. Se mai lo fosse stata (cfr. Cremerius, 1995). In effetti, eminenti esponenti della stessa organizzazione psicoanalitica, in alcune interviste rilasciate negli ultimi anni a varie importanti testate giornalistiche[2], sembrano sconfessare la necessità di una pratica tanto rigida, mostrando una diversa apertura rispetto alle esigenze emergenti ed ai cambiamenti sociali avvenuti nel corso del tempo[3].

Nel 2015 a Bologna si è svolto un convegno organizzato dalla SPI, dal titolo “La relazione analitica”. Il convegno si concludeva con un intervento dell’attuale presidente dell’IPA, nonché past-president della SPI, Stefano Bolognini, che stilava una lista delle ‘certezze’ acquisite dal movimento psicoanalitico contemporaneo: e, tra queste, la prima, che aveva effettivamente occupato molto spazio durante le due giornate del convegno, era l’inclusione del concetto di enactment. Un concetto del quale, almeno all’interno della psicoanalisi nordamericana, si è iniziato a parlare nel 1986 quando venne introdotto dallo psicoanalista Theodore J. Jacobs del New York Psychoanalytic Society & Institute (NYPSI). L’enactment, che dovrebbe indicare “un evento analiticamente rilevante, che coinvolge contemporaneamente paziente e analista […] un episodio relazionale a reciproca induzione che si evidenzia attraverso un comportamento”, ci dice Maria Ponsi (2013) della SPI fiorentina, viene legato ad una psicoanalisi di impostazione relazionale che si differenzia da quella classica, legata agli aspetti pulsionali ed intra-psichici, che lo considera come “una collusione transfert-controtransfert, da imputare essenzialmente a un mancato controllo del controtransfert: è dunque in qualche modo un errore, o una smagliatura nella relazione analitica”. Questa, dunque, è, o dovrebbe essere, la posizione ufficiale della psicoanalisi istituzionale.
Voglio rilevare che, all’interno del panorama psicoanalitico attuale un modello di cui si parla spesso è quello del campo analitico, portato avanti, in Italia, dal gruppo di Antonino Ferro, attuale presidente della SPI, e Giuseppe Civitarese, anch’egli socio SPI. Questo modello trae espressamente spunto dalle formulazioni concettuali di Bion e propone l’idea di una relazione analitica fondata sul “campo inteso come narrazione in/conscia a due” (Civitarese, 2013). Formulazioni che appartengono, invero, a molta tradizione psicoanalitica gruppale e che, a mio parere, come abbiamo precedentemente accennato a proposito della concezione vincolare della soggettività di Bleger, riprendono molte intuizioni che fanno parte del bagaglio della concezione dei gruppi operativi di Pichon-Rivière. Devo dire che, sebbene la mia non estesa conoscenza di questa nuova proposta, mi colpisce che questo modello venga ritenuto così innovativo, appunto perché si fonda su concetti piuttosto noti per chi si è avvicinato agli autori testé citati. Al di là del mio stupore, è però interessante notare che nell’introduzione del suo libro, “I sensi e l’inconscio”, nel quale viene delineato il suo modo di intendere la relazione analitica facendo diversi accenni alla teoria del campo analitico, Giuseppe Civitarese rifiuti la nozione di enactment perché legata ad una concezione individualistica della relazione analitica. Una posizione in assoluta contrapposizione rispetto a quella formalizzata dal presidente dell’IPA, massimo esponente dell’istituzione psicoanalitica contemporanea, e menzionata precedentemente.

Da un certo punto di vista, tanto nel caso italiano (che vede coinvolti esponenti certamente importanti della psicoanalisi contemporanea) quanto in quello nordamericano descritto da Greenberg, si potrebbe vedere la difformità di idee ed il cambiamento di opinioni come prova dell’humus democratico del movimento psicoanalitico. Un ambiente in cui si possono manifestare apertamente opinioni discordanti, si dirà, e nel quale c’è spazio per tutti.
È lo stesso Greenberg, però, come precedentemente riportato, a sottolineare che all’interno dell’IPA le variazioni dalla norma istituita, ossia dalle direttive impartite, potevano, e possono, costare l’esclusione. La differenza può essere bandita e chi si trova nella posizione del più forte, nei fatti chi è riconosciuto ed interno all’istituzione, decide. Da questo punto di vista, invece, l’idea di democrazia viene messa piuttosto in discussione. Qui siamo al cospetto di un’altra contraddizione, che però non viene esplicitata: si rimane nell’ambiguità. Un qualcosa che verrebbe da definire inevitabile, se solamente si pensa alla rigida gerarchizzazione presente all’interno delle associazioni di psicoanalisi ed a tutta la complessa struttura organizzativa che guida il percorso da intraprendere per diventarne membri.

Affrontare il tema dell’istituzione psicoanalitica è molto complesso; autorevoli psicoanalisti che si sono occupati dell’ambito istituzionale hanno trattato l’argomento solamente in maniera marginale, ritenendo di non approfondire la questione. Vien da pensare che, anche per essi, scottasse il problema della propria implicazione, ovvero della propria appartenenza a quella istituzione. Certamente qualche critica è stata fatta, soprattutto riguardo al percorso formativo richiesto per poter essere riconosciuti come psicoanalisti. Per esempio, è ancora Fachinelli (1973) a criticare con decisione l’istituzione psicoanalitica quando, ricordando l’iter da sostenere per diventare analisti, e in particolar modo rivolgendosi alla cosiddetta analisi didattica, sostiene che esso favorisca una rigida ripetizione del modello istituzionale piuttosto che uno sviluppo ed un arricchimento della personalità: “… il processo analitico non favorisce qui l’autonomia e lo svincolamento dagli arcaici legami di dipendenza. Anzi, al contrario: proprio perché è legato all’istituzione, esso promuove la assimilazione di un nuovo e robusto sistema di regole, di norme, di procedure, che rafforza gli antichi legami anziché scioglierli”. E, a proposito di contraddizioni, nota che “il periodo più fecondo dell’analisi è stato quello in cui Freud era circondato da ‘selvaggi’, cioè da analisti che agli occhi degli attuali tutori dell’istituzione non sarebbero neanche analisti; la produttività analitica più interessante dei giorni nostri si situa fuori o ai margini dell’istituzione, mentre all’interno il sapere è istituzionale, cioè svolge un compito definito di affiliazione, conferma e riconoscimento”.
Si tratta di un aspetto critico che, in anni più recenti, è stato evidenziato in diversi lavori anche da altri autorevoli esponenti della stessa IPA, quali il già citato Johannes Cremerius e Otto Kernberg.
Fachinelli, comunque, faceva parte del ristretto gruppo di psicoanalisti che nel 1969, quando si tenne il congresso internazionale dell’IPA a Roma, all’Hotel Cavalieri Hilton, organizzarono un controcongresso in un ristorante lì vicino, “Carlino al Panorama”. Di quel gruppo[4] facevano parte molti nomi noti: oltre al già citato Elvio Fachinelli, c’erano Pierfrancesco Galli, Marianna Bolko, Berthold Rothschild, Armando Bauleo, Hernan Kesselman, Mauro Mancia ed altri ancora. Alla protesta di questi allora giovani candidati si unirono anche analisti più anziani e di chiara fama come Paul Parin, Alexander Mitscherlich e altri analisti didatti della società psicoanalitica di Zurigo; e poi Marie Langer, Emilio Servadio e Ralph Greenson, solo per fare alcuni nomi. Furono più di 200 le adesioni di psicoanalisti provenienti da diversi paesi, non solamente europei. Il gruppo si diede il nome di Plattform (Piattaforma) e aveva l’obiettivo di “attaccare a fondo l’ideologia delle società psicoanalitiche che si manifestava nella loro struttura gerarchica di potere, nel loro allontanamento dal pensiero freudiano radicale, nella ricerca, nella formazione, ecc., incompatibile con l’idea di una psicoanalisi con potenzialità eversive e rivoluzionarie” (Bolko M., Rothschild B., 2006). Il gruppo decise di proseguire anche dopo il controcongresso, con l’idea di rimanere eterni allievi in formazione permanente all’interno della società di psicoanalisi. Questa idea costituì il punto di rottura con l’IPA poiché da un lato si enfatizzava il valore culturale, lo studio, l’impegno personale non finalizzato ad un riconoscimento istituzionale e, dall’altro, rimanendo eterni allievi, si squalificava il valore della carriera all’interno dell’istituzione. Un valore, quest’ultimo, considerato strettamente collegato alle mire di potere personale all’interno del meccanismo burocratico messo a punto dall’istituzione psicoanalitica e che, proprio per tale motivo, costituiva un motore propulsivo per molti aspiranti analisti. Una presa di posizione che non piacque alla SPI, dalla quale partirono minacce di espulsione dall’iter formativo analitico per i candidati partecipanti al gruppo Plattform. Il risultato fu che alcuni di questi candidati, e tra questi anche qualcuno che aveva partecipato direttamente alla progettazione del controcongresso, ritirarono la propria adesione al gruppo.

Il terzo giorno del controcongresso intervenne anche Jacques Lacan, in aperta polemica già da qualche anno con l’IPA, rispetto alle direzioni teoriche prese dall’associazione e al metodo formativo utilizzato al suo interno. Lacan, inizialmente membro della “Société psychanalytique de Paris”, sarà protagonista di una prima scissione nel 1953 quando fonderà la “Société française de psychanalyse”, che, sempre legata all’IPA, non fu riconosciuta dall’associazione internazionale se non come “Study group”. Dopo dieci anni, nel 1963, venne praticamente escluso e decise di fondare una sua propria scuola, l’“Ecole freudienne de Paris”, che successivamente decise di sciogliere nel 1980. A livello istituzionale è interessante riportare anche il fatto che fino alla fine degli anni ’90, Lacan, o meglio i suoi allievi, non potevano ‘teoricamente’ godere del titolo di psicoanalista, essendo ritenuto questo di esclusivo appannaggio dell’IPA. È soltanto nel 1998, quando avvenne un incontro tra Horacio Etchegoyen (anch’egli allievo di Pichon-Rivière), allora presidente uscente dell’IPA, e Jacques-Alain Miller, presidente dell’AMP (Associazione Mondiale di Psicoanalisi), che, in virtù della declamata “essenza pluralistica” della disciplina analitica, avvenne l’“esplicito riconoscimento da parte del Presidente dell’IPA del pieno diritto di cittadinanza di Lacan nel variopinto consesso della dottrina analitica e con la conseguente rinuncia da parte dell’IPA alla prerogativa di dispensare tale formazione in via esclusiva” (Licita-Rosa, 2006)[5].

Penso che quando si ha a che fare con l’istituzione ci si trovi a confrontarsi con un rapporto sempre carico di ambiguità, nebuloso, e non si può pensare di affrontare un tema così intricato ritenendo di arrivare alla netta differenziazione di termini antinomici puri.
Armando Bauleo, nell’intervento proposto nel seminario “Psicoanalisi e istituzioni” (i cui interventi sono stati raccolti in un libro pubblicato nel 1983, “Il gioco impari”), sostiene che il vincolo tra soggetto ed istituzione è sempre costituito da una duplicità: una dissociazione, da un lato, e l’illusione di poter pervenire ad un unione, dall’altro. I due termini in gioco non sono in relazione per la loro corrispondenza, bensì per la loro diversità, dunque all’inizio c’è una non-relazione: “c’è carta carbone”, dice Bauleo. Il soggetto si muove all’interno di una situazione già decisa e cercherà di produrre un discorso, evidentemente caratterizzato anche da una certa aggressività, visto che ogni bisogno emancipativo si gioca sull’aggressività, con l’intento di discriminare l’Io da quel non-Io depositato nell’istituzione (cfr. Bleger, 1967) che, d’altra parte, gli consente di proteggersi dalle ansie psicotiche. Si tratta, utilizzando i termini proposti dall’analisi istituzionale, dell’istituzione intesa come costante movimento tra l’istituito e l’istituente: attraverso le fessure istituzionali le tensioni, gli affetti e i desideri cercano la scarica che la burocrazia tenta di fermare e impedire. Horacio Foladori (2008), partendo proprio dalla proposta di Castoriadis che considera l’istituzione come rapporto tra l’istituito e l’istituente, parla di teoria dell’incrinatura (teoria de la fisura) e sostiene che, affinché nell’istituzione si possa pensare ad un cambiamento, si deve registrare un’incrinatura, ossia, in seguito al movimento istituente, teso al cambiamento dello status quo, deve emergere uno stato di sofferenza, più o meno marcata. Se si crea questa incrinatura allora l’istituente può agire in due modi differenti sull’istituito al fine di determinare un cambiamento: un primo caso, detto di cambiamento riformista, è quello che René Lourau chiama dell’istituente nell’istituito e che ha a che fare con un cambiamento previsto, un cambiamento normato, il minimo indispensabile affinché l’istituzione non diventi anacronistica. Quasi fossimo al cospetto di un tipo di cambiamento, in un certo qual modo, già istituito. Un secondo caso, invece, è quello del cambiamento di rottura, che richiede la dissoluzione dell’istituito esistente per istituire qualcos’altro, per creare una nuova istituzione. Si tratterebbe di un atto rivoluzionario mirante alla creazione di una controistituzione.
Ma, nota Foladori, in molti casi l’unico cambiamento possibile parrebbe essere quello riformista poiché la corrente istituente fallisce. In effetti, la situazione di ‘pericolo’ registrata dall’istituito fa sì che esso riattivi le proprie difese, determinando una situazione di chiusura che, accettando alcuni cambiamenti minori, copre l’incrinatura, ovvero la tensione verso il cambiamento, manifestatasi. Alla fine, continua Foladori, è come se tutto questo movimento costituisse una trappola che l’istituito tende all’istituente per farlo manifestare e poterne prendere le contromisure.

Torna subito alla mente l’annotazione di Bleger, e ripresa anche da Kaës, per cui un’istituzione riesce a mantenere se stessa laddove vengano preservati gli assiomi fondamentali sui quali si erige, potendosi discutere solamente questioni di secondaria importanza, che non mettono in pericolo l’impalcatura condivisa dell’edificio istituzionale. E quale sarebbe, in questo caso, l’impalcatura condivisa della quale non si può parlare? Che cos’è che non si può mettere in discussione? Che cos’è che resta fuori? Perché è di questo che si occupa la psicoanalisi, come sottolineava Freud riprendendo l’esperto d’arte Morelli, di ciò che viene marginalizzato e non cade sotto l’attenzione della coscienza.
Penso che il concetto di enactment, oggetto di contrapposte opinioni all’interno della stessa SPI, se inteso come emergente dell’istituzione, possa aiutare ad ipotizzare una risposta. Formalizzando l’adozione di questo concetto, si istituzionalizza qualcosa che non appartiene all’istituzione. L’enactment, come abbiamo visto, indica un comportamento inconscio che coinvolge ambedue i protagonisti della relazione analitica, mettendo, di fatto, in forte discussione la possibilità dell’analista di mantenere una posizione neutrale. È un’infrazione della norma istituita, propria del modello psicoanalitico classico, che intende la relazione terapeuta-paziente come una relazione che si organizza tra un soggetto/terapeuta ed un oggetto/paziente (modello unipersonale) in maniera dissociata, svincolata, con il terapeuta come campo chiuso al riparo da qualsiasi implicazione[6]. Il taglio costituito dalla nozione di enactment, al contrario, riferisce di una relazione tra due soggetti, che hanno certamente ruoli differenti ma anche implicazioni personali che influenzano la relazione medesima (modello bipersonale, relazionale). Una concezione che, però, non viene estesa a tutto l’incontro analitico bensì solamente ad un singolo frammento dello stesso. Paradossalmente, il concetto di enactment fatto proprio e formalizzato da un’istituzione psicoanalitica nella quale è ancora predominante il modello definito classico, mitico, e che, come ricordava Greenberg, è ancora dominante nel panorama analitico istituzionale internazionale, le permette di non modificare le proprie concezioni profonde, i propri assiomi di base, rimanendo identica a se stessa.

Adriano Voltolin in “Grand hotel: o dell’immaginario”, scrive che “la trasgressione, in quanto difformità dalla regola, non implica di per sé un pericolo per l’istituzione, ma sottolinea invece solamente la sua potenza” (1983). L’istituzione, istituzionalizzando l’infrazione, la assorbe e la sottomette eludendo il principio di non contraddizione: considerandola estranea a sé, si permette di tollerarla ma non di confrontarcisi, sino a poterla, piano piano, espellerla.
Una sorta di granuloma istituzionale, si potrebbe dire. Ricorda, infatti, un processo simile a quella reazione immunitaria dell’organismo che, in termini medici, viene chiamata granuloma: quando l’organismo soffre per lesioni dovute a infiammazioni croniche di natura infettiva o da corpi estranei, può accadere che le cellule producano una sorta di capsula per rivestire l’agente infettivo/estraneo e renderlo innocuo. Infine il granuloma può evolvere verso la necrosi, con il focolaio infiammatorio che si estingue. Se l’infiammazione è dovuta ad un corpo estraneo, può accadere che il granuloma si sposti sempre più verso la superficie cutanea fino a rilasciarlo all’esterno. Il corpo estraneo viene espulso e tutto torna come prima. Anzi, tutto è stato sempre come prima, visto che l’agente estraneo, ad eccezione della lesione iniziale che ha provocato l’infiammazione e di un breve periodo susseguente, nel quale si sono prese delle contromisure per tenerne monitorata la presenza affinché non producesse un aggravamento dell’infezione, non ha avuto più alcun contatto con il resto dell’organismo.
Accade come nelle personalità ossessive che, per difendersi rispetto ad un contenuto disturbante, utilizzano il meccanismo di difesa dell’isolamento: l’elemento estraneo, affettivo, disturbante, viene isolato, slegato dal resto della personalità, per meglio controllarlo non facendosene influenzare. Lo stesso sembra poter avvenire nelle istituzioni dove, al fine di monitorare i contenuti considerati estranei e pericolosi, vengono formalizzati e strettamente sottoposti a procedure burocratiche che, come suggeriva anche il Foucault di “Sorvegliare e punire”, ne permettono il controllo.

È il tema del controllo in ambito psicoanalitico su cui Bleger si focalizza nel lavoro che ha dato il là a queste riflessioni. Un tema che, con sfumature diverse, ha convogliato l’interesse, le riflessioni e le azioni anche di molti altri psicoanalisti. Questa preoccupazione per il controllo non solo è emersa con evidenza in diverse fasi della vita dell’istituzione psicoanalitica, ma sembra averla contraddistinta sin dagli albori. Come abbiamo visto, la psicoanalisi è sempre stata attraversata da una tensione che metteva di fronte un approccio naturalistico, per il quale la disciplina freudiana poteva e doveva addivenire allo stesso statuto delle scienze naturali, come se fosse una comune attività da laboratorio nella quale un soggetto può porsi in maniera neutra e imperturbabile rispetto al suo oggetto di studio, e un approccio fenomenologico, nel quale la separatezza tra il soggetto e l’oggetto viene messa in discussione ritenendo che l’unica possibilità di studio dell’oggetto sia la focalizzazione sul vincolo esistente tra i due termini, ovvero esaminando il fenomeno percepito. Penso che anche nella differenza tra queste due diverse concezioni si giochi la questione del controllo, che a ha che fare, altresì, con il tema del riconoscimento sociale e del potere: una questione estremamente scottante per il movimento psicoanalitico istituzionale.
Come si è riportato all’inizio di questo lavoro, Freud ha esplicitamente ritenuto di dover fondare l’istituzione psicoanalitica per poter distinguere un noi da un loro, al fine di poter controllare chi aderiva all’allora giovanissimo movimento psicoanalitico e chi, invece, spacciava per psicoanalisi una modalità di intervento che, par di capire leggendo le considerazioni freudiane, aveva poco a che fare con la cura della parola messa a punto dal neurologo viennese. E, a quanto si evince, credo che la preoccupazione di Freud fosse più volta a proteggere lo sviluppo della sua giovane creatura dalla possibilità di essere criticata socialmente, piuttosto che a proteggere gli eventuali pazienti da interventi terapeutici mal condotti. Comunque sia, com’è noto, già allora Freud dovette affrontare diverse difficoltà, ritrovandosi ad allontanare chi, anche tra i suoi più fidati collaboratori, non si mostrava d’accordo con le sue posizioni. È proprio rispetto alla fondazione dell’istituzione psicoanalitica che avvenne l’allontanamento di Adler. La fondazione dell’Associazione è mossa da una fondamentale preoccupazione di Freud, che scrive: “Sapevo fin troppo bene quali errori attendevano chiunque affrontasse i problemi dell’analisi e speravo che si sarebbe riusciti ad evitarne molti erigendo un’autorità disposta a istruire e vigilare”. Nel dichiarare formalmente gli scopi dell’Associazione Psicoanalitica si decide di tradurre tale motivazione di fondo con questi termini: “Coltivare e promuovere la scienza psicoanalitica fondata da Freud, sia come psicologia pura sia nella sua applicazione alla medicina e alle scienze morali; garantire ai membri dell’Associazione il sostegno reciproco in tutti gli sforzi intesi ad acquisire e diffondere le conoscenze psicoanalitiche”. L’intenzione di Freud venne letta in chiave critica da Adler che “espresse con appassionata animazione il timore che si mirasse ad una censura e restrizione della libertà scientifica” (1914): il risultato fu che Adler venne allontanato. Alla base dell’Associazione Psicoanalitica Internazionale, dunque, c’è il desiderio di controllo, il cui soddisfacimento viene realizzato mediante la fondazione dell’istituzione psicoanalitica. Adler venne allontanato perché non era d’accordo con questa idea che interpretava come castrante, come limitante la libertà di ricerca scientifica: e forse non si sbagliava di molto visto che, successivamente, seguirono gli allontanamenti di altri nomi illustri come Stekel, Jung, Rank, Reich e Ferenczi.

Di fatto, il riconoscersi istituzionalmente ha permesso a Freud di separare il dentro dal fuori, l’interno dall’esterno, appropriandosi totalmente della disciplina psicoanalitica. Facendo coincidere l’istituzione fondata, l’IPA, con la psicoanalisi, si è ritenuto di poter decidere ciò che perteneva a quel campo di studi da ciò che non gli era proprio. L’istituzione è venuta così a coincidere con la totalità: dentro c’è il sapere assoluto, la verità (psicoanalitica), fuori l’errore, il travisamento (della psicoanalisi). In altre parole, sembra che l’aver assunto una forma istituzionale abbia permesso l’illusione di poter controllare totalmente l’oggetto di interesse, potendo autonomamente decidere che cosa far rientrare nel campo della psicoanalisi e cosa no. I pensieri e le opinioni non coincidenti con quelli dell’istituzione sono stati considerati ‘eretici’, non inerenti la verità già promulgata. Pur riconoscendo, senza alcun dubbio, l’atteggiamento scientifico che Freud ha mostrato lungo tutto il corso della sua attività professionale (perlomeno a livello di ricerca individuale), proponendo ipotesi esplicative e poi superandole per dar corso ad altre idee o ad altri modelli teorici sulla base della sua attività clinica, non si può non registrare che, in genere, quando ci si trova di fronte alle posizioni prima ricordate si parla di dogmatismo. Sappiamo che questo è un pericolo sempre presente in ambito istituzionale ed è un aspetto del quale è difficile liberarsi. L’IPA è un’istituzione che, nel corso del suo secolo di vita, è riuscita a conquistare un notevole riconoscimento sociale ed una solida credibilità professionale, nonostante i molti aspetti contradditori che hanno accompagnato la sua storia ed il suo proporsi all’esterno. Prima ho accennato a ciò che viene definito percorso psicoanalitico individuale da un punto di vista teorico e a quanto sembra venir svolto, in modo molto diverso, nella pratica. Un altro aspetto interessante è quello che riguarda il lavoro con i gruppi e con le istituzioni: fino a qualche decennio fa l’intervento su questi ambiti non poteva assolutamente essere considerato di natura psicoanalitica (nonostante eminenti psicoanalisti avessero già iniziato a lavorare con setting gruppali), non considerando psicoanaliticamente rilevanti le attività proposte su quei piani dai professionisti che le praticavano, mentre ora le pratiche di lavoro gruppali e istituzionali sembrano essere entrate nel regime della liceità, ovverosia le istituzioni psicoanalitiche paiono riconoscere la possibilità di svolgere lavori di carattere psicoanalitico anche in quegli ambiti.

Parrebbe che fondante l’istituzione psicoanalitica sia stata la preoccupazione per ciò che poteva legittimamente rientrare nell’alveo della psicoanalisi, con l’intento di rendere riconoscibile la disciplina a livello sociale da un punto di vista medico e scientifico: per raggiungere tale scopo si è ritenuto di erigere un’autorità che potesse controllare gli sviluppi della psicoanalisi. Lourau, sosteneva che un’istituzione per essere riconosciuta come equivalente alle altre istituzioni presenti all’interno di una comunità sociale, deve istituzionalizzarsi, stabilizzarsi. Solamente così è possibile un confronto. Da questo punto di vista, l’istituzione di un’associazione psicoanalitica potrebbe essere considerata un primo passo verso l’agognato riconoscimento sociale del carattere scientifico della disciplina. Un passo che, però, ha comportato anche risvolti meno positivi: inizialmente, le esclusioni eccellenti, e successivamente, una burocratizzazione dell’istituzione che parrebbe aver suscitato una sorta di paranoia generalizzata imperniata su un controllo interno che ha ostacolato le possibilità espressive e creative del movimento (cfr. Cremerius, 1995, e Kernberg, 1996).

L’idea di chi scrive è che la questione relativa al riconoscimento di scientificità non abbia ancora trovato una soluzione all’interno dell’associazione psicoanalitica e che sempre con quel dilemma stiano ancora facendo i conti le istituzioni di psicoanalisi odierne. Ancora oggi, continuando a sussistere il bisogno di essere riconosciute socialmente, la preoccupazione parrebbe legata al timore di perdere legittimità medica e scientifica[7], quella stessa legittimità cui aspirava Freud sin dall’inizio. Credo un segno ne sia il fatto che la domanda “la psicoanalisi è morta?” riemerga con costante frequenza dagli interstizi dell’umana società.
Di fatto, il pensare la relazione analitica come costituita da termini, analista/soggetto e paziente/oggetto, non nettamente disgiungibili, porta ad avere conseguenze non propriamente desiderabili per l’istituzione psicoanalitica, su due livelli: quello propriamente istituzionale e quello individuale dello psicoanalista che dell’istituzione è parte.
A livello individuale tale concezione comporta una ferita narcisistica per l’analista: accettando l’idea che nella relazione analitica vengano messi in gioco aspetti inconsci dell’analista (sembra tautologico affermarlo ma: anche e soprattutto quando egli stesso non se ne rende conto), dunque non immediatamente gestibili, si crea una situazione che chiede all’analista di fare un passo indietro, di scendere dal piedistallo di colui che tutto sa e che tutto vede, di colui che si riconosce un potere, e pensarsi come non totalmente in controllo della situazione analitica. Credo non sia una considerazione irrilevante poiché, al di là dell’eventuale ferita narcisistica, mette in discussione l’idea dell’analista come scienziato/osservatore che può raccogliere dati in modo oggettivo, ossia misurare in maniera neutra il proprio oggetto di studio e rendere pienamente conto della situazione analitica.
A livello istituzionale, questo presupposto rende più ostico il confronto con le cosiddette ‘scienze dure’ o esatte, imperniate sulla possibilità di fornire dati il più possibile oggettivi, quantificabili e ripetibili. E questa difficoltà mette in pericolo il riconoscimento sociale fino ad ora acquisito dalla psicoanalisi. Una ricerca di scientificità, forse, mossa anche dal dover confrontarsi con la psicologia cognitiva e comportamentale che, facendo proprio della rigida distinzione tra soggetto ed oggetto il suo tratto fondamentale, parrebbe permetterle di connotarsi come disciplina scientifica e di proporsi come disciplina credibile, cioè funzionale e spendibile, agli occhi del mondo medico-sanitario contemporaneo. In realtà, da questo punto di vista, al di là del confronto con la psicologia cognitiva e comportamentale così in auge in questi tempi, la ricerca della scientificità attraverso la netta distinzione tra soggetto ed oggetto sembrerebbe attualmente un paradosso poiché, occorre sottolinearlo, la scienza contemporanea, soprattutto nel campo della meccanica quantistica, teoria a base probabilistica, sta fortemente mettendo in discussione l’idea di poter considerare il ricercatore/osservatore di un evento come neutrale rispetto al proprio oggetto di studio, ovverosia l’idea di poter addivenire ad una conoscenza pura, oggettiva e totalmente verificabile. L’esattezza della fisica quantistica si fonda sulla ripetibilità del fatto studiato e definito, e sul riuscire a prevedere il proprio errore piuttosto che sulla convinzione di produrre dati certi.
In definitiva, parrebbe che la psicoanalisi, forse fuori tempo, sia ancora alle prese con la difficoltà di darsi uno statuto scientifico che vorrebbe essere della stessa natura di quelli delle scienze considerate esatte, una natura quantitativa, invece che qualitativa come sarebbe più agevole riconoscere alla materia psicoanalitica. Timore dell’istituzione psicoanalitica sembra sia che il non riuscire a definire chiaramente, rendendoli oggettivamente evidenti, i presupposti sui quali si fonda il metodo psicoanalitico, possa mettere la psicoanalisi a rischio di essere considerata una disciplina irragionevole, priva di fondamenta certe, ed essere così sospinta nell’alveo delle attività fideistiche, magiche o aleatorie.

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Note:

[1] Scrivo di ‘situazioni individuali’ per semplicità, per non rischiare di complicare il discorso sul metodo: oggi, ma non da oggi, le applicazioni della psicoanalisi coprono ambiti molto variegati e si estendono ai gruppi, alle istituzioni e alle comunità sociali.

[2]Qui è possibile reperire gli articoli cui ci si riferisce, apparsi nel 2011 sul “Corriere della sera”: http://www.corriere.it/cultura/11_febbraio_14/messina-giu-lettino_9c54f2e4-3818-11e0-9d0e-ca1b56f3890e.shtml?refresh_ce-cp
e nel 2013 su “La Stampa”, cui ci si riferisce:
http://www.spiweb.it/rassegna-stampa/538-italiana-ed-estera/rassegna-stampa-italiana-2013/3034-portero-da-noi-la-psicanalisi-low-cost-e-le-sedute-via-skype-la-stampa-3-marzo-2013

[3] Le contraddizioni, interne alle stesse istituzioni psicoanalitiche aderenti all’IPA, suscitate dal cercare di definire che cosa possa essere inteso per ‘psicoanalisi’ e quali criteri la caratterizzano sono tante: lo scritto di Cremerius, “Il futuro della psicoanalisi”, approfondito e molto articolato, in cui si esprime una critica serrata e su più piani alla psicoanalisi istituzionale, ne propone una panoramica molto interessante.

[4] L’idea del controcongresso, evento che sembra venire lasciato cadere nel dimenticatoio, partì dal gruppo degli italiani e da quello di Zurigo: a questi si unirono via via gli altri.

[5] Oggi, in Italia, sono riconosciute dal MIUR diverse scuole di psicoanalisi lacaniana: istituzioni che possono riconoscere il titolo di ‘psicoanalista’ ai propri allievi. La questione è particolarmente interessante poiché le istituzioni di psicoanalisi lacaniana, rispondendo ad una diversa concezione nel considerare la relazione analizzando-analizzante, propongono, a quanto mi è dato sapere, una modalità di pensare e strutturare i percorsi con i pazienti molto diversa da quella che si esprime nel setting classico proposto dalle associazioni di psicoanalisi aderenti all’IPA.

[6] È la concezione naturalistica cui fa cenno Bleger nel suo articolo.

[7] È chiaro che la questione della legittimità scientifica dell’istituzione psicoanalitica (come, per altri versi, facevano notare gli aderenti al gruppo Plattform, ma anche come sottolinea Cremerius nell’articolo citato) va oltre, avendo implicazioni a livello personale, ovvero comportando dei risvolti utilitaristici e convenienti per i membri dell’istituzione: il far parte dell’istituzione psicoanalitica permette l’acquisizione di uno status professionale riconosciuto socialmente e, man mano che si scalano le gerarchie, come in tutte le istituzioni, si ha la possibilità di confrontarsi con la gestione del potere che viene riconosciuto all’interno di un’istituzione organizzata in maniera estremamente burocratica. Con i vantaggi sociali ed economici conseguenti. A questo proposito, Cremerius nota che, almeno nella Germania di fine anni ‘60, gli analisti didatti e chi occupava posizioni preminenti all’interno dell’istituzione psicoanalitica tedesca vivevano una condizione di vantaggio economico rispetto agli altri. Non so come stiano le cose attualmente ma una delle critiche che maggiormente vengono rivolte alle istituzioni psicoanalitiche aderenti all’IPA è che, prevedendo un sistema formativo chiuso, ossia il candidato analista potendo svolgere la propria analisi didattica solamente con analisti didatti, dunque appartenenti all’istituzione (da questo punto di vista non considerando le implicazioni cui soggiacciono il candidato e lo stesso analista didatta), si realizza un sistema che crea e assicura direttamente opportunità di lavoro per questi ultimi. Freud faceva ‘indirettamente’ presente già questa dinamica nel 1937, in “Analisi terminabile e interminabile”, dove scrive: “Una volta avevo a che fare con un numero piuttosto considerevole di pazienti, i quali, com’è comprensibile, puntavano a cavarsela rapidamente; negli ultimi anni le analisi didattiche presero il sopravvento e rimase in cura da me un numero relativamente esiguo di soggetti gravemente ammalati, il cui trattamento, se pure intervallato da pause più o meno lunghe, si protrasse nel tempo”.

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“La Memoria come riserva di vitalità: Ricordando Rimini, dalla distruzione alla rinascita”. Giovanni Benaglia invitato a una serata del Rotary.

Lo scorso 28 aprile 2016, nella cornice dell’Hotel Ambasciatori di Rimini, il socio dello studio Benaglia Giovanni ha tenuto una breve dissertazione sul valore della Memoria rapportata alle vicende belliche che hanno riguardato la città di Rimini.
“Devo ringraziare l’opportunità che mi ha dato il Rotary di Rimini e il suo Presidente, il dott. Venturelli. Un ringraziamento particolare, però, lo voglio mandare a un amico che si è adoperato affinchè tutto succedesse: l’arch. Mauro Ioli al quale è venuto in mente che io fossi la persona adatta a presentare una piccola ricerca nata senza nessuna pretesa scientifica”.
La serata ha avuto come tema centrale la Memoria e la descrizione della devastazione bellica nella città di Rimini e fa seguito alla piccola pubblicazione inviata lo scorso Natale dal Dott. Benaglia a tutti i suoi clienti. “Durante la serata ho cercato di affrontare il tema della Memoria non solo come monito confinato alla funzione didattica di non ripetere più gli errori commessi” ma ho cercato di dargli anche il significato di utile esercizio di speranza per il futuro. Di fronte a questi nostri tempi difficili, di crisi economica, dove tutto appare più difficile dobbiamo sempre ricordare che siamo parte di un grande Paese che ha conosciuto, in anni non poi così distanti, una distruzione fisica, morale e umana ben peggiore. Così come ce l’abbiamo fatta settant’anni fa, dove la morte e il dolore accompagnavano la vita quotidiana, dove il mondo sembrava dovesse finire sotto l’odio degli uomini, ecco, allora, sono sicuro che ce la faremo anche oggi”.

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“La Memoria come riserva di vitalità: Ricordando Rimini, dalla distruzione alla rinascita”. Giovanni Benaglia invitato a una serata del Rotary.

Lo scorso 28 aprile 2016, nella cornice dell’Hotel Ambasciatori di Rimini, il socio dello studio Benaglia Giovanni ha tenuto una breve dissertazione sul valore della Memoria rapportata alle vicende belliche che hanno riguardato la città di Rimini.
“Devo ringraziare l’opportunità che mi ha dato il Rotary di Rimini e il suo Presidente, il dott. Venturelli. Un ringraziamento particolare, però, lo voglio mandare a un amico che si è adoperato affinchè tutto succedesse: l’arch. Mauro Ioli al quale è venuto in mente che io fossi la persona adatta a presentare una piccola ricerca nata senza nessuna pretesa scientifica”.
La serata ha avuto come tema centrale la Memoria e la descrizione della devastazione bellica nella città di Rimini e fa seguito alla piccola pubblicazione inviata lo scorso Natale dal Dott. Benaglia a tutti i suoi clienti. “Durante la serata ho cercato di affrontare il tema della Memoria non solo come monito confinato alla funzione didattica di non ripetere più gli errori commessi” ma ho cercato di dargli anche il significato di utile esercizio di speranza per il futuro. Di fronte a questi nostri tempi difficili, di crisi economica, dove tutto appare più difficile dobbiamo sempre ricordare che siamo parte di un grande Paese che ha conosciuto, in anni non poi così distanti, una distruzione fisica, morale e umana ben peggiore. Così come ce l’abbiamo fatta settant’anni fa, dove la morte e il dolore accompagnavano la vita quotidiana, dove il mondo sembrava dovesse finire sotto l’odio degli uomini, ecco, allora, sono sicuro che ce la faremo anche oggi”.

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Calunnia: non c'è reato se la falsità non riguarda la sussistenza del fatto

Se la falsità non riguarda la sussistenza del fatto, non c'è reato di calunnia: lo ha stabilito il Giudice Monocratico di Rimini, il Dott. Massimo Di Patria, il quale ha pronunciato sentenza di piena assoluzione nei confronti di un riminese accusato, all’epoca ventottenne, di calunnia e difeso dall'avvocato Davide Grassi del Foro di Rimini.

Secondo la tesi della Procura di Rimini, che ne aveva richiesto e ottenuto il rinvio a giudizio, il giovane aveva presentato una querela nei confronti di una signora accusandola falsamente di avergli cagionato, a seguito di un sinistro stradale, “lesioni personali durate oltre quaranta giorni, pur sapendola innocente” in quanto, come riferito dal capo d'imputazione, “l'evento, contrariamente a quanto riportato in denuncia, era di lieve entità ed incompatibile con la prognosi dichiarata (ndr. 81 giorni)”.

L'articolo 368 del Codice Penale, nel disciplinare la fattispecie della calunnia, stabilisce infatti che chiunque, con denuncia o querela, anche se anonima o sotto falso nome, incolpi qualcuno di un reato pur sapendolo innocente, è punito con la reclusione da due a sei anni.

Secondo quanto riferito dalla signora, costituitasi parte civile nel relativo processo penale, il giovane riminese aveva di fatto “ingigantito” il danno subito - un trauma al rachide cervicale provocatogli a seguito di un tamponamento mentre si trovava alla guida del proprio scooter - prolungando la malattia dai venti giorni iniziali sino ai complessivi ottanta.

Il ragazzo, infatti, aveva querelato la donna per il reato di lesioni personali colpose al fine di ottenere un risarcimento del danno subito in conseguenza di quel tamponamento, allegando i relativi certificati medici attestanti la prognosi di venti giorni e provvedendo, in seguito, anche al deposito presso il giudice di pace penale di Rimini di ulteriore documentazione medica attestante il prolungamento della malattia.

Nonostante il processo per lesioni si fosse concluso con la remissione della querela in seguito al versamento, da parte della compagnia assicurativa, di una cifra a titolo di risarcimento danni, la donna decideva comunque di denunciare il ventottenne per il reato di calunnia, dopo aver scoperto che questi, nonostante la prognosi, aveva comunque disputato una partita di calcio, oltretutto segnando un gol proprio grazie ad una magistrale “incornata”.

La donna aveva appreso la notizia direttamente dai commenti pubblicati sul forum della squadra di calcio in cui il giovane militava: “Sono un po' incriccato ma tutto sommato me la sono cavata bene”.

Dunque, tratto a giudizio per rispondere del reato di calunnia, il ventottenne è stato assolto con formula piena dal giudice dopo una lunga istruttoria celebrata attraverso l'esame di diversi testimoni, tra cui i medici che lo avevano visitato e che ne avevano certificato le lesioni.

Si riporta per intero il passaggio della sentenza con il quale il giudice riminese ha scagionato l'imputato: “Dunque gli eventuali profili di falsità, emergenti, secondo la prospettazione accusatoria, non dalla denuncia, ma dalla produzione documentale, non afferiscono alla sussistenza del fatto ed alla sua qualificazione giuridica, ma eventualmente all'individuazione dell'aspetto circostanziale dell'illecito (lesioni colpose aggravate dalla durata della malattia): pertanto, non è configurabile il reato di calunnia”.

Secondo le argomentazioni del giudice, quindi, non ricorre la calunnia quando la falsità della denuncia non incide sul giudizio circa la fondatezza del fatto e sulla relativa qualificazione giuridica, anche se da essa possa derivare l'indebita contestazione di circostanze aggravanti, orientamento avvallato anche dalla stessa Corte di Cassazione.

La pronuncia assolutoria, dunque, trova il suo fondamento nella totale assenza nel giovane - il quale aveva allegato alla querela un certificato medico di soli 20 giorni di prognosi - della volontà di richiedere la condanna della donna per lesioni colpose gravi - 81 giorni di prognosi erano quelli indicati nel capo di imputazione - circostanza assai rilevante per la difesa in quanto la querela costituisce, nel caso in esame, il c.d. “corpo di reato” e pertanto, affinché possa dirsi integrato il reato di calunnia, è necessario che i profili di falsità emergano direttamente da questo.

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Calunnia: non c'è reato se la falsità non riguarda la sussistenza del fatto

Se la falsità non riguarda la sussistenza del fatto, non c'è reato di calunnia: lo ha stabilito il Giudice Monocratico di Rimini, il Dott. Massimo Di Patria, il quale ha pronunciato sentenza di piena assoluzione nei confronti di un riminese accusato, all’epoca ventottenne, di calunnia e difeso dall'avvocato Davide Grassi del Foro di Rimini.

Secondo la tesi della Procura di Rimini, che ne aveva richiesto e ottenuto il rinvio a giudizio, il giovane aveva presentato una querela nei confronti di una signora accusandola falsamente di avergli cagionato, a seguito di un sinistro stradale, “lesioni personali durate oltre quaranta giorni, pur sapendola innocente” in quanto, come riferito dal capo d'imputazione, “l'evento, contrariamente a quanto riportato in denuncia, era di lieve entità ed incompatibile con la prognosi dichiarata (ndr. 81 giorni)”.

L'articolo 368 del Codice Penale, nel disciplinare la fattispecie della calunnia, stabilisce infatti che chiunque, con denuncia o querela, anche se anonima o sotto falso nome, incolpi qualcuno di un reato pur sapendolo innocente, è punito con la reclusione da due a sei anni.

Secondo quanto riferito dalla signora, costituitasi parte civile nel relativo processo penale, il giovane riminese aveva di fatto “ingigantito” il danno subito - un trauma al rachide cervicale provocatogli a seguito di un tamponamento mentre si trovava alla guida del proprio scooter - prolungando la malattia dai venti giorni iniziali sino ai complessivi ottanta.

Il ragazzo, infatti, aveva querelato la donna per il reato di lesioni personali colpose al fine di ottenere un risarcimento del danno subito in conseguenza di quel tamponamento, allegando i relativi certificati medici attestanti la prognosi di venti giorni e provvedendo, in seguito, anche al deposito presso il giudice di pace penale di Rimini di ulteriore documentazione medica attestante il prolungamento della malattia.

Nonostante il processo per lesioni si fosse concluso con la remissione della querela in seguito al versamento, da parte della compagnia assicurativa, di una cifra a titolo di risarcimento danni, la donna decideva comunque di denunciare il ventottenne per il reato di calunnia, dopo aver scoperto che questi, nonostante la prognosi, aveva comunque disputato una partita di calcio, oltretutto segnando un gol proprio grazie ad una magistrale “incornata”.

La donna aveva appreso la notizia direttamente dai commenti pubblicati sul forum della squadra di calcio in cui il giovane militava: “Sono un po' incriccato ma tutto sommato me la sono cavata bene”.

Dunque, tratto a giudizio per rispondere del reato di calunnia, il ventottenne è stato assolto con formula piena dal giudice dopo una lunga istruttoria celebrata attraverso l'esame di diversi testimoni, tra cui i medici che lo avevano visitato e che ne avevano certificato le lesioni.

Si riporta per intero il passaggio della sentenza con il quale il giudice riminese ha scagionato l'imputato: “Dunque gli eventuali profili di falsità, emergenti, secondo la prospettazione accusatoria, non dalla denuncia, ma dalla produzione documentale, non afferiscono alla sussistenza del fatto ed alla sua qualificazione giuridica, ma eventualmente all'individuazione dell'aspetto circostanziale dell'illecito (lesioni colpose aggravate dalla durata della malattia): pertanto, non è configurabile il reato di calunnia”.

Secondo le argomentazioni del giudice, quindi, non ricorre la calunnia quando la falsità della denuncia non incide sul giudizio circa la fondatezza del fatto e sulla relativa qualificazione giuridica, anche se da essa possa derivare l'indebita contestazione di circostanze aggravanti, orientamento avvallato anche dalla stessa Corte di Cassazione.

La pronuncia assolutoria, dunque, trova il suo fondamento nella totale assenza nel giovane - il quale aveva allegato alla querela un certificato medico di soli 20 giorni di prognosi - della volontà di richiedere la condanna della donna per lesioni colpose gravi - 81 giorni di prognosi erano quelli indicati nel capo di imputazione - circostanza assai rilevante per la difesa in quanto la querela costituisce, nel caso in esame, il c.d. “corpo di reato” e pertanto, affinché possa dirsi integrato il reato di calunnia, è necessario che i profili di falsità emergano direttamente da questo.

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SOTERIA: TRA ESODO E APPARTENENZA Dalla Comunità…verso una “clinica della comunità”

Scuola di prevenzione José Bleger Rimini - Lun, 11/04/2016 - 22:30

di Gilberto Maiolatesi (Responsabile Comunità “Soteria”)
e Marzia Pennisi (Coordinatrice Comunità “Soteria”)

PREMESSA

 “Ricordo di aver pensato che gli schizofrenici sono i poeti strangolati della nostra epoca. Forse per noi, che dovremmo essere i loro risanatori, è giunto il momento di togliere le mani dalle loro gole.”

Con questa frase di David Cooper abbiamo a che fare ogni giorno, quando iniziamo il nostro lavoro di terapeuti e di operatori psichiatrici, queste righe sono all’entrata della nostra comunità  quotidianamente ci dobbiamo fare i conti.

Ma la nostra riflessione parte da lontano e il modo di intervenire oggi e la storia e i perché del progetto della “Comunità Soteria”, forse hanno a che fare con la storia del movimento antipsichiatrico e antiistituzionale in Italia, a cominciare dalla Riforma psichiatrica e dalla cosiddetta “rivoluzione basagliana”.

Il 13 marzo del 1978, nasceva in Italia la L. 180 che di fatto concludeva, con un atto legislativo, l’esperienza della custodia manicomiale, imponendo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici (OP).

Possiamo tranquillamente sostenere che in Italia, gran parte degli interventi psichiatrici si sviluppano all’interno delle cosiddette strutture intermedie.

Dopo quasi 30 anni dall’attuazione della Legge 180, che poneva fine alla pratica e all’utilizzo dei manicomi, si sono sviluppate sempre di più servizi, dove il “folle”, viene inserito per iniziare percorsi di risocializzazione e programmi riabilitativi psico-sociali.

In realtà tutto questo, si traduce troppo spesso in delega pressochè totale dei familiari e della società alle strutture istituzionali.

Il rischio di creare nuovamente piccoli e moderni manicomi è evidente e non basta avere piscine, campi da tennis, saune…per non essere una istituzione chiusa e totale. Non è sufficiente fare psicoterapia, attività riabilitative e laboratori occupazionali, per costruire identità fortemente alternative e antagoniste al manicomio.

Ogni istituzione totale toglie dignità, reprime, estorce diritti, nega democrazia, contribuisce alla formazione di sintomi, produce malattia. Nel manicomio (istituzione totale per eccellenza insieme al carcere) non esiste né passato né futuro, esiste solo il presente, sempre lo stesso, giorno dopo giorno, immobile presente senza tempo, dove non c’è “vita” e cambiamento, bensì “morte” e staticità. Il manicomio, insomma, non si pone  il problema della trasformazione.

 

COMUNITA’ COME LABORATORIO DELLA TRASFORMAZIONE

Il nostro orizzonte  ideale, che ha determinato e determina l’intervento terapeutico quotidiano, si colloca in piena continuità con  quello storico movimento che negli anni ‘60-’70 ha criticato, combattuto e vinto le logiche custodialistiche e le istituzioni manicomiali.

La Legge 180, è stato lo strumento legislativo che ha permesso, nel lontano 1978, il progressivo smantellamento degli ospedali psichiatrici e l’inizio di una nuova epoca per la sofferenza psichica.

Si stava abbattendo una delle più vergognose e violente opere del genere umano: i manicomi, che andavano chiusi, e in alternativa aperti luoghi di “cura” e di socialità, dove l’intervento terapeutico si coniugava, e si coniuga, con la battaglia per i diritti di cittadinanza, contro lo stigma sociale e il pregiudizio.

Dentro questa cornice si esprime il nostro lavoro.

Ore, settimane, mesi, vissuti insieme ai nostri utenti, sempre più convinti che l’utilizzo e l’affinamento delle più moderne tecniche riabilitative non sarebbero mai sufficienti a restituire “abilità sociali”, voglia di vivere, autonomia, dignità a uomini e donne che hanno trascorso troppo tempo “prigionieri”  all’interno del loro mondo, isolati dagli altri mondi possibili.

In questi anni abbiamo capito che essere dei “bravi tecnici  specialisti” non può bastare.

E’ NECESSARIO “ESSERCI”. Perché “…l’affetto è prassi di essere presente, cioè pratica costante dello stare insieme come ci ricorda Massimo Marà nel suo libro “Comunità per psicotici”.

All’interno del nostro programma di attività settimanale abbiamo in effetti diversi gruppi (funzione dell’abitare, di convivenza, di ascolto e organizzativi, espressivi, terapeutici, multifamiliari…).

L’importante però, è fare le cose insieme e trovare dei momenti per discutere e ascoltare, anche con i pazienti più gravi e regrediti.

Indubbiamente un elemento  fondamentale del nostro agire è il rapporto con il sociale, con la città: l’intervento socio-riabilitativo dentro la nostra realtà territoriale.

Purtroppo nulla di tutto questo è scontato, anzi molta strada abbiamo ancora di fronte a noi per una oggettiva cittadinanza del disagio mentale e per un reale rispetto della diversità.

La lotta allo stigma e al pregiudizio, la battaglia per i diritti, l’integrazione, si raggiungono con la visibilità, con la rivendicazione della propria diversità, della propria storia, della propria intima sofferenza.

Detto questo, dovremmo “vivere” e utilizzare la comunità come luogo dove si sperimenta la trasformazione, ma anche come luogo e strumento della trasformazione.

In entrambi i casi per TRASFORMAZIONE dobbiamo sempre intendere modificazione delle relazioni interpersonali, della comunicazione patologica, metamorfosi dei propri stati interiori intrapsichici; ma anche TRASFORMAZIONE come processo di liberazione, come superamento e stravolgimento dei rapporti sociali alienati i quali producono inevitabilmente  malattia e sofferenza.

TRASFORMAZIONE quindi come riappropiazione del potere decisionale da parte di chi, mistificato e sottomesso, per una intera vita ha dovuto chiedere sempre il permesso a qualcuno, anche per comprare un semplice pacchetto di sigarette.

 

COMUNITA’ COME SETTING E SPAZIO PROGETTUALE

Soteria è un servizio gestito dalla Cooperativa Sociale Cooss Marche. in convenzione con il Dipartimento di Salute Mentale di Jesi. Il 3 maggio 1999 nasce come  struttura socio-riabilitativa di tipo residenziale che accoglie 12 pazienti di diverse patologie psichiatriche con evidenti difficoltà nella sfera relazionale e un basso livello d’autonomia, con una significativa potenzialità evolutiva e capacità di recupero a livello relazionale e sociale. In effetti, gli obiettivi principali dell’attività riabilitativa sono la riappropriazione della propria soggettività da parte del paziente  e  il miglioramento generalizzato della qualità della vita, accanto al raggiungimento del massimo livello d’autonomia possibile, limitando contemporaneamente il rischio di “crisi involutive”.

La Comunità intera può essere vista come un unico setting, nel quale viene praticato un intervento multifattoriale ( farmacologico, assistenziale, riabilitativo, di sostegno psicologico, psicoterapico) prevedendo una serie di attività, a livello individuale e gruppale, strutturate a loro volta come sottosetting. Gran parte della vita della Comunità è pensata e organizzata in sottosetting con precisi confini spazio-temporali-metodologici (tempo, spazio, ruoli e compito)  ciò per tre importanti ragioni: 1)contenere l’ansia, l’angoscia e l’aggressività dei pazienti (e degli operatori); 2)osservare i complessi fenomeni psichici e relazionali che si verificano all’interno della vita  comunitaria; 3)costruire una “realtà condivisa”.

Ma poichè la costruzione e conservazione di setting si basa sulla adesione e sul rispetto delle regole concordate, è necessario prevedere alcuni momenti di confronto con i pazienti (e altri solo tra operatori) per discutere, condividere, ribadire, ridefinire, eventualmente modificare, regole, programmi, organizzazione e metodi di lavoro.

 

Strategie terapeutico-riabilitative

L’istaurarsi di rapporti “affettivi” significativi tra pazienti e tra paziente e operatore rappresentano il primo vero elemento terapeutico. Il “fare insieme” permette di sperimentare comportamenti più adeguati e nel frattempo il riemergere di fattori motivazionali assopiti, interrompendo la spirale dei fallimenti. Il lavoro del gruppo-comunità tende quindi a:

  • rafforzare l’autonomia e l’autodeterminazione soggettiva,
  • far riemergere le capacità motivazionali e espressive,
  • riscoprire la socialità e lo star bene con gli altri,
  • rafforzare l’autostima e la capacità di subire frustrazioni,
  • gestione della propria impulsività ed emotività,
  • favorire l’autogestione dei propri spazi vitali,
  • supportare quando ci sono le condizioni, un avvicinamento al mondo del lavoro.

 

Il lavoro terapeutico-riabilitativo può essere suddiviso in due macro aree: una più strettamente psicologica e l’altra di tipo sociale.

Attività psicologica:

  • colloqui individuali (sempre più limitati),
  • incontri di gruppo (gruppo terapeutico settimanale, gruppo di convivenza giornaliero, Assemblea di Comunità settimanale, gruppo multifamiliare mensile ),
  • incontri periodici con il paziente e i propri familiari,

Attività di tipo sociale

  • cura di se e dei propri spazi,
  • web radio,
  • giardinaggio e verde,
  • inseriementi lavorativi e sociali,
  • inserimenti in gruppi sportivi,
  • attività ricreative,
  • attività espressive e artistiche

 

L’ETICA DEL CAMBIAMENTO E DISPOSITIVO MULTIFAMILIARE: DALLA LEGGE DELLA FAMIGLIA ALLA LEGGE DELLA CITTA’

L’esperienza del Gruppo Terapeutico Multifamiliare (GMF) nasce all’interno della Comunità Socio Riabilitativa “Soteria” di Jesi nel settembre del 2000, esattamente dopo un anno dal’apertura della Comunità, grazie agli stimoli provenienti dalla supervisione clinica condotta dal Prof. Alfredo Canevaro sin dall’apertura del servizio.

Di seguito, in modo sintetico e schematico, gli aspetti fondamentali per una riflessione collettiva.

 

  1. Il setting

Gli incontri si tengono all’interno della Comunità a frequenza mensile (il terzo lunedì del mese) con una durata di 90 minuti, preceduti da un momento conviviale di circa 20 minuti. Alla fine di ogni gruppo l’equipe di lavoro si incontra per circa 45 minuti per rielaborare i vissuti e la molteplicità dei transfert, controtransfert e identificazioni proiettive sviluppatisi all’interno della seduta gruppale appena conclusa.

Il gruppo per il primo anno e mezzo è stato condotto (senza un co-conduttore) dal Dott. Gilberto Maiolatesi, Direttore Responsabile della Comunità con una supervisione mensile all’equipe del Prof. Canevaro, utilizzando anche le registrazioni degli incontri ai quali partecipavano gli ospiti della Struttura con le loro famiglie e gran parte del gruppo degli operatori (non solo quelli in turno).

Uno dei limiti evidenziati in quella fase era legato alla modalità di comunicazione “a stella”, cioè diretta solo dagli integranti del gruppo verso il conduttore; limite di partenza di tutti gli incontri, probabilmente amplificato dall’ambivalenza del ruolo coordinatore del gruppo/ Direttore della Comunità.

Nel 2002 si decide, all’interno della supervisione, di modificare il setting terapeutico con l’ingresso del Prof Canevaro come conduttore del gruppo e il Dott. Maiolatesi come co-terapeuta.

Questa seconda fase ha posto una rottura con il passato e ha portato ad un cambiamento molto positivo grazie all’esperienza del Prof Canevaro, ma anche perché la coterapia è fondamentale per una buona riuscita di un gruppo come il multifamiliare e, inoltre, in quel momento era fondamentale  avere più chiarezza nel ruolo del coordinatore gruppale.

Dal 2005 ad oggi il gruppo è condotto in co-terapia dal Dott. Maiolatesi e dalla Dott.ssa Marzia Pennisi.

Tutti gli operatori presenti possono intervenire all’interno del gruppo per evitare una comunicazione “radiale”, non circolare e quindi bloccata. In alcune occasioni utilizziamo delle tecniche esperenziali e di drammatizzazione attraverso la comunicazione non verbale e gli aspetti emozionali per facilitare l’incontro affettivo tra gli integranti. L’utilizzo di “io ausiliari” o tecniche tipo quella dello “zaino” (specie se si affrontano i temi legati allo svincolo dalla famiglia d’origine)  sono molto utili perché  a volte la comunicazione e l’interpretazione verbale non sono sufficienti al cambiamento.

Oltre alla coppia (sempre complementare) di coterapeuti, il dispositivo prevede un operatore con il ruolo di osservatore partecipante la cui funzione è quella di raccogliere gli emergenti gruppali.


  1. Origini: la definizione della situazione ambientale

 Il  contesto interno

Il GMF nasce  per uscire da una crisi interna al gruppo  di lavoro e per correggere quindi una comunicazione disfunzionale dell’equipe “giovane”, formata da operatori con poca esperienza in psichiatria che si trovavano ad intervenire e  supportare un utenza molto grave. Questo produceva tensioni interne, manifeste e latenti e una comunicazione entropica, confusiva e ansiogena.  Nello stesso tempo c’era il bisogno di definirsi, di trovare un percorso costituente identitario, tenendo in considerazione una naturale “vocazione antipsichiatrica” della Comunità. Gli operatori si sentivano  troppo isolati e “chiusi” oltre il cancello della Comunità, lontani dal tessuto urbano jesino. Questo portò al bisogno di uscire e di scendere dal colle in cui è situata la Struttura ed entrare all’interno della Città (nelle piazze, negli spazi di aggregazione, nelle scuole…) con progetti di promozione della salute mentale. Nasce così, insieme al gruppo multifamiliare, la Rassegna “Malati di Niente”. Possiamo dire oggi, in maniera (anche) provocatoria, che c’è stato un passaggio dalla “legge della famiglia” alla “legge della città”.

Le difficoltà riguardo alla comunicazione erano anche rispetto al rapporto operatori-famiglie in quanto quest’ultime all’inizio facevano molta difficoltà ad incontrarsi tutti insieme e discutere delle proprie problematiche, mentre nel tempo è diventato quasi naturale. E per dirla con le parole di una madre del gruppo: “…mi rendo conto che oramai non vengo per mio figlio, vengo per me, per curare la mia solitudine…mi fa bene incontrarvi…”

       Il  contesto esterno

La nostra città è situata in un territorio che ha visto uno sviluppo industriale e manifatturiero importante dagli anni ‘50 – ’60, che ha modificato strutturalmente l’economia  da agricola ad industriale (tanto da definire Jesi la piccola Milano delle Marche). Storicamente la nostra è stata una città con forti connotazioni democratiche e antifasciste, provenienti direttamente dalla guerra di liberazione, determinando un “humus culturale” proficuo a strutturare senso di comunità e forti legami sociali. Rispetto allo stigma e al pregiudizio nei confronti del disagio mentale, Jesi presentava due facce della stessa medaglia; una città dove  il pregiudizio verso il “matto” era abbastanza forte anche a causa di un fatto grave avvenuto nel 1979 ad un anno dalla legge Basaglia:  l’uccisione di un carabiniere da parte di un paziente seguito dai servizi. Dall’altra una città  indignata per un fatto accaduto nel 1999 nei confronti di un paziente, aggredito e malmenato per noia da alcuni giovani della “jesi-bene” nella sua abitazione.

Sempre in quel momento storico il Dipartimento di Salute Mentale era in fermento e in fase di cambiamenti istituzionali. Infatti nel 1995 iniziano i primi gruppi riabilitativi e di incontro con i familiari e pazienti e nel 1998 nascevano le prime strutture intermedie della riabilitazione psicosociale.

 

  1. Il cambiamento e la rottura di un paradigma

Nella nostra esperienza clinica abbiamo potuto constatare che il dispositivo multifamiliare non ha rappresentato soltanto una tecnica o uno strumento in più, magari più appropriato,  ma un vero e proprio cambiamento epistemologico, una cesura storica con il paradigma medico psichiatrico novecentesco, non solo nella relazione terapeuta-paziente.

In tutti questi anni abbiamo potuto osservare dei notevoli processi di apprendimento e cambiamento rispetto a vari aspetti. Ad esempio per quanto riguarda la comunicazione disfunzionale ed entropica sia della famiglia che dell’equipe di lavoro. Le famiglie e gli operatori sono molto più capaci di comunicare in maniera orizzontale senza doversi sempre e solo riferire al Responsabile della Comunità come leadership unica.

Rispetto alla  necessità di creare una rete sociale e di interagire IN e CON essa, negli anni abbiamo imparato a pensare alla cura come un intervento reticolare multidisciplinare e, quindi, a riferirci costantemente con istituzioni, enti pubblici, associazioni di volontariato, cooperative sociali.

Per quanto riguarda l’esigenza di modificare i dispositivi organizzativi interni del servizio e le metodologie di lavoro, siamo riusciti a strutturare anche dei gruppi comunitari come l’assemblea di comunità settimanale dove si discute in maniera democratica dei problemi anche pratici del vivere in comune. Questo diventa un luogo di recupero della soggettività nell’esercizio di una comunicazione non gerarchica ma orizzontale.

Altro elemento da sottolineare, ad esempio, è quello della discussione e condivisione di alcuni progetti terapeutici riabilitativi (per esempio anche le dimissioni di un paziente) all’interno dell’incontro multifamiliare. Quindi la discussione gruppale si dimostra vera, propositiva e decisionale.

Inoltre abbiamo notato dei notevoli cambiamenti rispetto ad una maggior consapevolezza nel correggere onnipotenza e narcisismo del paziente e  dell’operatore specularmente intrappolati nel delirio e nella sua interpretazione (“…sono il figlio di Dio…”; “ho capito…ci penso io e ti guarirò”)

 

DAL SETTING-COMUNITA’ AL SETTING-CITTA’  

Noi, operatori psichiatrici, che lavoriamo quotidianamente nel settore della riabilitazione e dell’inserimento sociale dei pazienti, denunciamo troppo spesso una intolleranza e una diffidenza verso il diverso, verso l’escluso, ed è per questo che istituzioni, associazioni, strutture operative del settore, cooperatori, dovrebbero farsi carico di una vera e propria promozione culturale della salute mentale nei territori; dove riversare idee ed esperienze, mettendole a confronto con i desideri e le angosce di chi soffre, ma anche con le paure, l’intolleranza, lo smarrimento di una collettività sempre più in difficoltà ad accogliere senza remore, a riconoscersi senza escludere.

In effetti i presupposti della Riforma psichiatrica tendenti a sviluppare una coscienza critica e una trasformazione dell’organizzazione sociale, attraverso la partecipazione della collettività a tutte le forme di emarginazione, sono rimasti troppo spesso sulla carta, non realizzati. Ma con tutti i limiti che possiamo trovare alla Legge 180 (più che altro per la sua non applicazione), certo non possiamo e dobbiamo tornare indietro, perché nulla è più come prima, perché abbiamo appena iniziato a restituire a quelle persone ridotte a “matti da legare”, lo statuto di cittadini, il diritto di esistere dentro quel contratto sociale da cui erano stati definitivamente espulsi in modo del tutto improprio.

Anche per questo la battaglia contro lo stigma e il pregiudizio verso la persona sofferente è, e rimarrà, l’obiettivo primario per quanti credono che ogni essere umano ha il diritto di migliorare la propria qualità di vita e che il disturbo mentale è un “male oscuro”, dove i termini relazionali e socio-culturali rivestono una importanza cruciale, a volte drammatica.

 

La “clinica della comunità”: il laboratorio permanente di “Malati di Niente”

Nel lontano settembre 2000 nasce il progetto “Malati di Niente”.

In quel periodo a Jesi un gruppo di operatori della Comunità “Soteria” aveva iniziato ad interrogarsi sul senso del proprio lavoro nei servizi psichiatrici, sulla natura del mandato sociale, sull’etica e sul significato della riabilitazione psicosociale a più di vent’anni dall’emanazione della Legge 180. Ci si chiedeva, tra dubbi e stati di ansia confusiva, se la famosa e tanto discussa  “rivoluzione basagliana”, non avesse completamente esaurito la propria spinta propulsiva.

Sicuramente la Legge 180, aveva rappresentato lo strumento legislativo che  permise il progressivo smantellamento degli Ospedali Psichiatrici e l’inizio di una nuova epoca per la sofferenza psichica. Si era chiusa una delle più vergognose e violente opere del genere umano, l’esperienza manicomiale, con la possibilità e la speranza di aprire luoghi di cura e di socialità dove l’intervento terapeutico esce fuori dal setting tradizionale, per entrare in quello comunitario, coniugando terapia e battaglia per i diritti di cittadinanza.

Proprio noi, operatori psichiatrici, essendo i soggetti più esposti, dovevamo mandare un segnale alla comunità e alle istituzioni. Nelle lunghe discussioni, emergeva sempre più nitidamente l’idea di un progetto di promozione culturale della salute mentale nei territori, nelle comunità. Un progetto “etico-politico-terapeutico” l’avevamo poi definito e nominato nel tempo, dove riversare idee ed esperienze mettendole a confronto con i desideri e le angosce di chi soffre, ma anche con le paure, l’intolleranza e lo smarrimento di una collettività sempre più chiusa, autistica, in difficoltà ad accogliere senza remore, a riconoscersi senza escludere.

Feste, concerti, spettacoli teatrali, mostre, cinema, dibattiti seminari…la città e le sue piazze vengono invase e “occupate” da iniziative ed eventi che determinano progressivamente una nuova sfera politica pubblica.

Dopo 15 anni di lavoro, di progressi e crisi regressive, almeno due degli obiettivi progettuali originari, ci sembrano ancora molto stimolanti ed attuali: 1)promuovere la salute mentale attraverso processi di  contaminazione culturale e l’intervento sociale sul territorio,  in maniera specifica e approfondita all’interno delle scuole cittadine grazie all’attivazione dei Laboratori di cittadinanza (con gli studenti del Liceo Classico e delle Scienze Umane,Liceo Artistico, IIS-Liceo Scienze Sociali); 2)costruire e attivare  un reale lavoro di rete con i movimenti sociali, l’associazionismo, i servizi, le istituzioni, il mondo della cooperazione e del volontariato.

Anche per l’anno 2016 i Laboratori di cittadinanza comprenderanno gli stage formativi all’interno della nostra Comunità, inizieranno nei mesi di maggio, giugno e novembre, dove gli studenti faranno tirocinio pratico, interagendo direttamente con i nostri ospiti, attraverso le varie attività gruppali terapeutico-riabilitative affiancando gli operatori in servizio.

 

Jesi, 6 aprile 2016

 

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Continua la collaborazione del dott. Benaglia con la rivista Il Fisco.

Il litisconsorzio necessario e la sospensione dei processi per i soci di società a “ristretta base” sociale. Questo è il titolo dell’ultimo lavoro pubblicato dal dott. Giovanni Benaglia sulla rivista IL FISCO, prestigioso settimanale di approfondimento per professionisti e imprese, nel numero che si può trovare da lunedì in edicola. Come ci dice lo stesso autore l’articolo vuole approfondire “la disciplina del litisconsorzio necessario, quale strumento giuridico a disposizione del socio non amministratore per contestare il maggiore reddito calcolato su una società di capitali da lui partecipata”.
Con il numero in uscita continua, così, la pluriennale collaborazione del dott. Benaglia con la prestigiosa rivista fiscale che, ricordiamo, da 40 anni è presente negli studi di moltissimi professionisti italiani. 
Tra i lavori pubblicati recentemente possiamo ricordare:
- la disciplina dell’imposta di registro per le aree destinate a edilizia convenzionata;
- la disciplina dell’imposta di registro per la piccola proprietà contadina;
- l’analisi del concordato con riserva e il ruolo del Collegio Sindacale;
- il finanziamento dei soci nel concordato preventivo e nell’accordo di ristrutturazione dei debiti
Per chi fosse interessato può acquistare la rivista o l’articolo, oltreché che come già detto in edicola da lunedì, anche sul sito web del settimanale

 

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Continua la collaborazione del dott. Benaglia con la rivista Il Fisco.

Il litisconsorzio necessario e la sospensione dei processi per i soci di società a “ristretta base” sociale. Questo è il titolo dell’ultimo lavoro pubblicato dal dott. Giovanni Benaglia sulla rivista IL FISCO, prestigioso settimanale di approfondimento per professionisti e imprese, nel numero che si può trovare da lunedì in edicola. Come ci dice lo stesso autore l’articolo vuole approfondire “la disciplina del litisconsorzio necessario, quale strumento giuridico a disposizione del socio non amministratore per contestare il maggiore reddito calcolato su una società di capitali da lui partecipata”.
Con il numero in uscita continua, così, la pluriennale collaborazione del dott. Benaglia con la prestigiosa rivista fiscale che, ricordiamo, da 40 anni è presente negli studi di moltissimi professionisti italiani. 
Tra i lavori pubblicati recentemente possiamo ricordare:
- la disciplina dell’imposta di registro per le aree destinate a edilizia convenzionata;
- la disciplina dell’imposta di registro per la piccola proprietà contadina;
- l’analisi del concordato con riserva e il ruolo del Collegio Sindacale;
- il finanziamento dei soci nel concordato preventivo e nell’accordo di ristrutturazione dei debiti
Per chi fosse interessato può acquistare la rivista o l’articolo, oltreché che come già detto in edicola da lunedì, anche sul sito web del settimanale

 

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Da Berlino a Erdogan: colloquio con Giulietto Chiesa.

Lo Studio Grassi Benaglia Moretti è stato scelto come main sponsor dell’iniziativa che vedrà protagonista, il 19 marzo 2016 alle ore 21 presso il Teatro Tiberio di Rimini, Giulietto Chiesa, che da 30 anni segue i grandi avvenimenti esteri. 
La serata prende spunto dai fatti di cronaca recenti che stanno interessando tutto il continente Europeo. Il nostra Pianeta, oggi, è soggetto ad una migrazione di circa 60 milioni di esseri umani. Guerre, Fame, mutamenti Geopolitici, spingono un numero enorme di persone a spostarsi per trovare una condizione migliore. L'Europa, che con l'abbattimento del Muro di Berlino, si era concessa di sognare un futuro di Comunità senza frontiere, oggi si risveglia nell'inefficacia del trattato di Dublino e degli Accordi di Schengen.
Molti giornalisti hanno documentato la Caduta del Muro di Berlino e documentano oggi la crisi delle Frontiere Europee.
Giulietto Chiesa sarà intervistato da tre giornalisti locali: Andrea Rossini del Corriere Romagna,  Davide Brullo de La Voce di Romagna e Franco Fregni di Rimini 2.0.
La serata è a entrata libera.

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Da Berlino a Erdogan: colloquio con Giulietto Chiesa.

Lo Studio Grassi Benaglia Moretti è stato scelto come main sponsor dell’iniziativa che vedrà protagonista, il 19 marzo 2016 alle ore 21 presso il Teatro Tiberio di Rimini, Giulietto Chiesa, che da 30 anni segue i grandi avvenimenti esteri. 
La serata prende spunto dai fatti di cronaca recenti che stanno interessando tutto il continente Europeo. Il nostra Pianeta, oggi, è soggetto ad una migrazione di circa 60 milioni di esseri umani. Guerre, Fame, mutamenti Geopolitici, spingono un numero enorme di persone a spostarsi per trovare una condizione migliore. L'Europa, che con l'abbattimento del Muro di Berlino, si era concessa di sognare un futuro di Comunità senza frontiere, oggi si risveglia nell'inefficacia del trattato di Dublino e degli Accordi di Schengen.
Molti giornalisti hanno documentato la Caduta del Muro di Berlino e documentano oggi la crisi delle Frontiere Europee.
Giulietto Chiesa sarà intervistato da tre giornalisti locali: Andrea Rossini del Corriere Romagna,  Davide Brullo de La Voce di Romagna e Franco Fregni di Rimini 2.0.
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Cardo e Decumano

La casa di Kikko (il mio blog) - Dom, 13/03/2016 - 23:32

Ecco, questa è una di quelle sere che passerei camminando per la mia città con un amico, sfogandomi per tutti i rompicoglioni che inevitabilmente la vita ci fa incrociare. Il top sarebbe che smoccolando a destra e a manca l'amico, anziché intonare la litania «he, ma è la crisi, cosa ci vuoi fare, la vita è così» ti facesse eco, e moccolo dopo moccolo, si finisse a soffocarsi dalle risate per questa umanità pedante, ciotolo dopo ciotolo di questa città poco più grande di un cardo e di un decumano. #ALongWayDown

Argomenti: Rimini & co.Luoghi: Rimini

Start up innovative: la Regione Emilia Romagna pubblica il bando di finanziamento

Con delibera n. 11 dell’11 gennaio 2016 la Giunta Regionale dell’Emilia Romagna ha approvato il bando di finanziamento rivolto alle startup innovative per sostenere l’avvio e il consolidamento di progetti innovati nei settori dell’agroalimentare, edilizia e costruzioni, meccatronica e motoristica, industria della salute e del benessere, industrie culturali e creative, innovazione nei servizi.

Ne parliamo con il dott. Benaglia Giovanni, che per lo studio GRASSI BENAGLIA MORETTI segue il settore della finanza agevolata e dello sviluppo d’impresa.

Dottor Benaglia, quali sono gli obiettivi di questo bando?

L’obiettivo è semplice: favorire la nascita e la crescita di star up nell’ambito della Regione Emilia Romagna, sostenendo sia la valorizzazione economica dei risultati della ricerca sia lo sforzo di introdurre nuovi prodotti, servizi di alta tecnologia o ad alto contenuto innovativo nel mercato.

Possono partecipare tutte le imprese?

No. Il bando contiene due importanti limitazioni. La prima riguarda il fatto che i beneficiari debbano essere costituiti sottoforma di società di capitali, inclusi quelli costituiti sotto forma di Srl uninominali, consorzi, società consortili e cooperative. La seconda limitazione riguarda il fatto che i beneficiari debbano essere registrati nella sezione speciale del Registro delle imprese presso la Camera di Commercio dedicata alle start up innovative.

Altre limitazioni?

Si. Per i progetti di avvio di attività, quelli che il bando chiama di Tipologia A, possono presentare domanda le imprese costituite successivamente al 1 gennaio 2013. Per i progetti di espansione di start up già avviate, definite di Tipologia B, possono presentare domanda le imprese costituite dopo il 01 marzo 2011.

Quali spese sono ammesse?

Per gli interventi di Tipologia A che, ricordo, sono quelli sostenuti dalle imprese neo-costituite, sono ammessi costi riguardanti i macchinari, attrezzature, impianti, hardware e software, ma anche l’affitto e noleggio di laboratori, acquisto di brevetti, spese di costituzione, spese promozionali anche per partecipazione a fiere ed eventi. Per gli interventi di Tipologia B, cioè quelli riguardanti le imprese già presenti sul mercato, sono ammessi costi riguardanti l’acquisizione di sedi produttive, l’acquisto di macchinari, impianti, attrezzature e arredi, hardware e software, spese promozionali e consulenze esterne specialistiche.

Le scadenze, invece, quali sono?

Le domande possono essere presentate dalle ore 10 del 21 marzo 2016 alle ore 17 del 30 settembre 2016 esclusivamente on line. Mi sia consentito, però, al fine di una corretta informazione, di sottolineare una cosa.

Prego, faccia pure.

Il bando di finanziamento contiene una serie di particolarità e di limitazioni che difficilmente si riescono a riassumere in una breve intervista.  L’invito che faccio è quello, quindi, a chiunque sia interessato di rivolgersi al nostro studio o al sottoscritto per verificare la presenza dei requisiti per accedere a questo importante opportunità messa a disposizione dalla Regione Emilia Romagna.

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Rinnovata la certificazione di qualità Iso 9001: Target Sinergie supera l’audit del nuovo ente DNV che sottolinea la riorganizzazione aziendale

E' uno degli appuntamenti più sentiti in azienda da tutti i settori, quest'anno forse più degli altri per due importanti motivi: il rinnovo della certificazione di qualità ISO 9001 dal 2016 è rilasciata da un nuovo ente certificatore, DNV e, secondo motivo, mentre Target Sinergie ha avviato una forte ristrutturazione metodologica. L'azienda riminese e le sue consorziate Log It e In Opera Onlus hanno quindi confermato anche con un altro soggetto certificatore la qualità nella “Progettazione ed erogazione, di servizi di: logistica conto terzi (gestione magazzini); pulizie in ambito industriale e civile, call center, front office e data entry”.

L'ennesima soddisfazione da parte del personale che ha seguito le complesse procedure, coordinati dal responsabile Qualità Luca Morri. L'audit infatti mobilita tutti i settori, Commerciale, Operations, Personale, in un «momento particolarmente importante per il consorzio – rileva Luca Morri - che sta affrontando un significativo processo di riorganizzazione aziendale, e conferma che i passi intrapresi nel cambiamento in corso sono nella giusta direzione e mantengono l’impegno di Target Sinergie a mantenere la piena funzionalità di un sistema di gestione per perseguire i propri obiettivi».

I tecnici dell'ente certificatore DNV hanno rilevato nelle loro conclusioni la «fidelizzazione dei clienti», il «nuovo modello formativo: “progetto conoscere il lavoro per valorizzarlo e valutarlo”», il «sistema di monitoraggio commessa attraverso indicatori economico finanziari» e, infine, la «pianificazione e valorizzazione economica del progetto». Mentre per quanto riguarda la riorganizzazione aziendale «volta a ridefinire le regole interne», nel focus dedicato hanno rilevato la «volontà nell’armonizzare le abitudini del personale operativo pressi i diversi cantieri» e di aver «definito, diffuso ed applicato “Il regolamento aziendale”».

luca_morri_responsabile_qualita_sicurezza_target_sinergie.jpg Facility Management Igiene e pulizie Logistica
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Rinnovata la certificazione di qualità Iso 9001: Target Sinergie supera l’audit del nuovo ente DNV che sottolinea la riorganizzazione aziendale

E’ uno degli appuntamenti più sentiti in azienda da tutti i settori, quest’anno forse più degli altri per due importanti motivi: il rinnovo della certificazione di qualità ISO 9001 dal 2016 è rilasciata da un nuovo ente certificatore, DNV e, secondo motivo, mentre Target Sinergie ha avviato una forte ristrutturazione metodologica. L’azienda riminese e le sue consorziate Log It e In Opera Onlus hanno quindi confermato anche con un altro soggetto certificatore la qualità nella “Progettazione ed erogazione, di servizi di: logistica conto terzi (gestione magazzini); pulizie in ambito industriale e civile, call center, front office e data entry”.

L’ennesima soddisfazione da parte del personale che ha seguito le complesse procedure, coordinati dal responsabile Qualità Luca Morri. L’audit infatti mobilita tutti i settori, Commerciale, Operations, Personale, in un «momento particolarmente importante per il consorzio – rileva Luca Morri – che sta affrontando un significativo processo di riorganizzazione aziendale, e conferma che i passi intrapresi nel cambiamento in corso sono nella giusta direzione e mantengono l’impegno di Target Sinergie a mantenere la piena funzionalità di un sistema di gestione per perseguire i propri obiettivi».

I tecnici dell’ente certificatore DNV hanno rilevato nelle loro conclusioni la «fidelizzazione dei clienti», il «nuovo modello formativo: “progetto conoscere il lavoro per valorizzarlo e valutarlo”», il «sistema di monitoraggio commessa attraverso indicatori economico finanziari» e, infine, la «pianificazione e valorizzazione economica del progetto». Mentre per quanto riguarda la riorganizzazione aziendale «volta a ridefinire le regole interne», nel focus dedicato hanno rilevato la «volontà nell’armonizzare le abitudini del personale operativo pressi i diversi cantieri» e di aver «definito, diffuso ed applicato “Il regolamento aziendale”».

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