Non è per niente facile chiudere questa maledetta vicenda di Erich Piebke, gravata com'è da un bel po' di sovrastrutture che non andranno mai in pensione. Né quelle a carico del boia delle Ardeatine – e ci mancherebbe altro!!! - né quelle a discarico. Purtroppo, aggiungo. Ma una pietra sopra comunque va messa. Un po' per evitare altri imbecilli che scrivano con mano tremolante frasi insulse e macabri segni. Ma sopratutto perché credo fermamente sia necessario, per chi si riconosce nelle ragioni dell'accusa all'ex capitano delle Ss, marcare la differenza tra “uomini e no”.
Per questo non sono d'accordo con chi gli vuol negare la sepoltura. La pietà per un morto, innanzi tutto. Magari spererei che la famiglia, come ha fatto notare il Governo tedesco, decida per una tumulazione all'estero. Siamo pieni di idioti che indossano fez o anfibi inscenando macchiette nostalgiche sulle tombe di illustri assassini. Riportare le spoglie di Priebke nella sua terra natia, oltre a dissuadere odiose sceneggiate e conseguenti contromanifestazioni, sarebbe soprattutto un gesto di rispetto per le sue vittime e per una terra che egli ha insanguinato e che solo in parte è riuscita a punirlo per l'efferatezza del suo delitto. Ma temo, dopo aver letto la provocazione del figlio – “seppellitelo in Israele” - sia difficile un atto di buon senso. Eppure, di questo abbiamo bisogno. Solo di questo e di un po' di pace.
Argomenti:La logistica Target Sinergie “entra” nella distribuzione farmaceutica nazionale affiancando l’azienda leader italiana, Comifar, in un suo primo esperimento di terzializzazione che interessa l’unità distributiva della Campania, a Carinaro di Caserta. E’ un “appuntamento” importante questo per l’azienda riminese di servizi logistici in outsourcing, certamente perché Comifar è il maggior distributore di farmaci italiano, che copre attraverso le proprie unità distributive tutta la penisola e le isole, servendo 12 mila delle oltre 18 mila farmacie italiane. Ma anche perché per il grande gruppo è la prima esperienza di esternalizzazione dei servizi logistici. «Diciamo che accompagnare nella nuova modalità di gestione del servizio nell’area campana una realtà così importante della distribuzione farmaceutica è per noi un motivo di orgoglio – dice Davide Zamagni, direttore commerciale del gruppo logistico riminese – Ma è nello stesso tempo uno sprone non indifferente per chi, come noi, da oltre 25 anni vede nella terzializzazione della logistica un valore e un fattore evolutivo per il tessuto delle imprese in Italia».
La struttura di Carinaro è recente e molto moderna, sviluppata su un’estensione di 14800 metri quadrati e automatizzata per il 67%, come è la stessa Comifar a spiegare sul suo sito. Il magazzino gestisce 26500 referenze (questo il termine tecnico per i prodotti in vendita in farmacia) che distribuisce a oltre 500 farmacie clienti nelle province campane di Avellino, Benevento, Salerno, Caserta e Napoli. Una parte del magazzino è totalmente automatizzata, ed una parte a gestione manuale. Target gestisce tutte le fasi operative, dal ricevimento delle merci alla preparazione degli ordini, alla spedizione, attraverso un orario continuato basato su turni di lavoro. Il personale, 33 persone, è stato assorbito dalla Comifar e lavora sotto il coordinamento dei responsabili Daniele Rossi e Lorenzo Lancerotto. «L’obbiettivo – dice Davide Zamagni – è ovviamente la crescita della struttura. Ma ci sono alcuni aspetti di sfida anche per noi. Dopo aver svolto per 10 anni la logistica sanitaria nella struttura ospedaliera di Busto Arsizio, Saronno, Tradate, stiamo ampliando il nostro know- how nella gestione di flussi di merci nel mondo del farmaco, un settore delicato ma nel quale crediamo di essere abbastanza maturi per esprimerci in modo significativo».
Non mi reputo bacchettone, credo nella legalizzazione delle droghe leggere, non ho figli, ma quando ho letto che uno sponsor della giovanile di calcio di Rimini è il Cocoricò ho storto il naso. Perché credo che il Cocco stia all'educazione calcistica come una dama di carità sta alla solidarietà. E ancora di più l'ho storto leggendo i commenti di chi invece quei soldi “pochi, maledetti e subito” (l'ho messo tra virgolette per ironia, ovvio) li apprezza, li brama e se ne frega da dove vengono.
Non è peregrino il paragone della dama di carità di ottocentesca memoria. Credo infatti che un simile binomio, se anche porta nelle esangui casse del vivaio calcistico un po' di soldi, valga per un locale chiuso per problemi attinenti alla droga come una patacca di buone intenzioni da appuntarsi sul petto. Roba di marketing buona quanto un'operazione di ricostruzione dell'imene alla vigilia del matrimonio. Intendiamoci, non ho elementi per ricondurre direttamente il Cocco ad abusi di stupefacenti. Non mi interessa nemmeno farlo. La decisione è stata presa da organi dello Stato in base a delle leggi e a degli atti che le contravvenivano. E' un fatto, e basta. E in materia di droghe leggere – sottolineo leggere, ovvero i derivati dalla cannabis - sono io il primo a non essere d'accordo con le patrie leggi. Ma questo è un altro discorso.
E' un fatto però che le parole Cocco e abusi formino una rappresentazione scolpita nell'immaginario di generazione e generazioni di frequentatori di discoteche, dai più giovani agli attuali genitori. Chiunque lo percepisce. Sono molti meno quelli che conoscono il Cocco come qualcosa di più, quale è infatti. Il Cocoricò è un fenomeno di costume, è un locale dove le culture giovanili sono cresciute e diventate tendenze, è un luogo di lavoro, un'icona, un brand che attira altri brand. E' speciale, magari bellissimo. Ma non c'entra nulla con i valori dell'educazione sportiva.
Questo brand, oltre ai soldi, non porta un valore aggiunto al vivaio calcistico del Rimini. E' il vivaio calcistico del Rimini che porta qualcosa al locale. Lo aiuta a ricostruire la sua verginità come faro delle giovani generazioni, non solo legato al ballo e ai riti della notte. Una verginità perduta irrimediabilmente nell'immaginario collettivo e, recentemente, nei provvedimenti di pubblica sicurezza.
C'è chi ha ben chiaro che non è, tutto sommato, un affare d'oro il connubio calcistico – educativo con il nome del locale riccionese. E chi invece preferisce seguire l'adagio del “pecunia non olet”. Anzi, visto che uno dei contrari e Stefano Vitali, la nenia principale che viene intonata è “Non ci sono alternative e comunque dove sono le istituzioni, cosa fanno e cosa propongono?” Stefano difende da sé le proprie idee, io posso dire che diversi gli hanno risposto con solenni patacate. Qualcosa di più di una patacata invece è il comunicato di Cuore di Rimini, la piccola lista civica presentatasi alle scorse elezioni e, da come si dimena, mi sa anche alle prossime. In un lungo comunicato di non facile lettura Emanuale Pironi, - con il quale condivido occasionalmente un calice di vino e quattro chiacchiere, entrambi piacevolmente, all'enoteca del Teatro – traccia al pubblico i perché sì dei civisti. Tralascio gran parte del testo, leggetevelo sul sito di Cuore di Rimini. Sottolineo solo due passaggi. Il primo : «... se posti di fronte ad uno sponsor eticamente e legalmente impresentabile, allora si che lo stigmatizzare diventa opera non solo accettabile, ma ineludibile e doverosa». E' chiaro che un locale chiuso per problemi connessi allo spaccio, per la lista civica non rientra nella fattispecie.
Vi lascio chiosando dopo con il passaggio seguente: «E bandendo l’ipocrisia, se possibile, quale sarebbe lo sponsor ideale? Quello senza macchia? Quello che non urterebbe nessuna sensibilità? Siamo sicuri che tutto andrebbe bene per tutti, se lo sponsor fosse un ente benefico che gira solo il 17% circa di ciò che incassa per tutelare i soggetti del proprio oggetto sociale? O se fosse una ditta che raffina il petrolio? O che produce il famoso abbigliamento in paesi poveri semmai sfruttando bambini? O se fosse un’industria che sopravvive solo con aiuti di stato ed infischiandosene dei diritti dei lavoratori? O se fosse il magnate straniero, dai dubbi affari in casa propria?» Chiaro il concetto? Le perplessità sulla situazione legale dello sponsor sono solo ipocrisia e, pare di capire leggendo la brillante rassegna delle ipotesi più astratte, con qualunque sponsor ci sarebbero state delle polemiche. Per cui va bene così. E meno male che parliamo di educazione sportiva.
Argomenti: Persone: Società: Luoghi:«Responsabilità solidale e Lavoro: Uomini all’opera»: con questo titolo la Cdo Logistca ha realizzato un incontro nella cornice degli eventi del Meeting per l’amicizia fra i popoli di Rimini. Martedì 20 agosto, il dialogo sulla logistica è stato tra Michele Tiraboschi. professore ordinario di Diritto del lavoro presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, già estensore della legge Biagi, Tiziano Barone, presidente del Consorzio Formazione Logistica Intermodale (Cfli) , Domenico Pirozzi, fondatore del consorzio Target Sinergie e Renzo Sartori, presidente della CDO Logistica . Il compito di introdurre l’evoluzione e il punto della situazione per le imprese di servizi logistici è stato delegato a Domenico Pirozzi, che ha utilizzato la case history Target Sinergie per raccontare il cammino della logistica negli ultimi 25 anni, ma anche per lanciare qualche piccola provocazione. Ecco il testo integrale dell’intervento di Domenico Pirozzi:
Target nasce nel 1988 con un duplice scopo: offrire servizi con una particolare attenzione al cliente – Non a caso il nostro primo “slogan” fu «Il piacere di dirvi ci pensiamo noi» – e creare opportunità di lavoro, sopratutto per i giovani. Centro propulsivo dell’attività all’inizio ed ancora oggi sono gli uomini e le donne che qui lavorano.
Il rapporto con i clienti non è definito solo dai servizi da vendere ma rapporti da coltivare e bisogni da interpretare, fino a delle vere e proprie partnership.
Lo spirito di squadra o di team, come si dice oggi, ci ha caratterizzato sin dall’inizio, quando in sede ci dicevamo a voce alta le cose da fare da un ufficio all’altro. Oggi siamo una struttura più complessa ma il tentativo è lo stesso, con in più un lavoro di formazione e di dialogo molto articolato.
I primi dieci anni di attività di Target sono stati relativamente “semplici”: la cooperativa si era mossa a 360 gradi, occupandosi di un po’ di tutto e i clienti non mancavano. Facchinaggi, parcheggi, pulizie, hostess per fiere, volantinaggi, distribuzione di materiale pubblicitario, vendita di giornali in spiaggia: erano le prime tipologie di un lavoro che veniva fornito con l’esternalizzazione di servizi che altre aziende non potevano o non volevano più fare. È stato un confronto ante litteram con la flessibilità, una parola che ha fortemente caratterizzato, soprattutto negli ultimi anni, il mondo del lavoro.
Ben presto, la grande disponibilità della cooperativa non era però più sufficiente a garantirsi un posto importante nel mondo del lavoro; i clienti di Target, infatti, avevano iniziato a chiedere qualcosa di nuovo: maggior professionalità. E la cooperativa ha risposto.
Il lavoro ‘ad ore’ è stata la prima carta vincente di Target ma era anche un punto su cui riflettere per cambiare, perché non era decisiva la qualità, ma il prezzo. E’ stato allora che abbiamo iniziato a definire tariffe forfettarie al chilo, a pallet, a collo. Abbiamo cioè iniziato a diventare un’azienda. E’ il passaggio dal facchinaggio ad un regime imprenditoriale, nel quale il costo del lavoro è un nostro problema imprenditoriale.
A questo ha fatto seguito un altro cambiamento importante: abbiamo iniziato a gestire interi servizi. Caricare e scaricare merci, all’epoca, ci aveva permesso di entrare in rapporto con molti clienti che, nella gestione della quotidianità del proprio lavoro, si erano accorti presto di aver bisogno anche di altri servizi, come la gestione degli ordini, l’imballaggio e l’etichettatura delle merci. Così, in breve tempo, erano andate definendosi alcune specifiche professionalità e Target ha potuto iniziare a gestire veri e propri servizi. Con sempre maggior professionalità ci stavamo specializzando nel trovare soluzioni efficaci che permettevano alle aziende di risparmiare tempo e denaro.
Sicuramente è stato determinante il rapporto con l’amico Adriano Colombo, che ci ha lasciato l’anno scorso, pioniere della logistica terzializzata e fondatore di SO.GE.MA., società leader in Italia nella logistica. Questa persona è stata un vero maestro per me per la Target.
Oggi, chi deve “terziarizzare” un settore della propria impresa, deve poter scegliere realtà serie ed affidabili, che garantiscano il rispetto dei tempi e la qualità del personale impiegato, che viene formato continuamente. Oggi noi abbiamo una persona che fa selezione ed una persona che si occupa stabilmente di fare formazione professionale. Nei cantieri logistici (“cantiere” è il luogo, ovvero l’azienda cliente, dove il personale Target svolge l’attività) il turn over di personale è così basso che possiamo parlare di “fidelizzazione delle persone”. Proprio loro, rinnovando la fiducia nei confronti della cooperativa, decidono di rimanere a lavorare in Target, contribuendo a creare un clima da molti ritenuto sereno e familiare.
Noi stessi, facendo la scelta di fare impresa seriamente, in modo professionale, abbiamo scelto di essere coerenti e quindi non combattiamo con altre realtà cooperative che non giocano al nostro stesso gioco imprenditoriale. Crediamo che siano scelte che ala fine hanno pagato, se è vero che nel 2012 il nostro fatturato è cresciuto del 20%.
Il 1999 segna la nascita di una realtà molto importante per Target: si costituisce, infatti, la cooperativa sociale In Opera, con l’obiettivo di favorire l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate. Alla base di questa nuova intrapresa, c’erano e ci sono ancora, due forti ragioni: cercare di rispondere al bisogno di lavoro di persone che hanno difficoltà nell’inserimento lavorativo, mentre la seconda ragione nasceva dalla constatazione che, nell’ambito di Target, si incontravano spesso persone che soffrivano di vari disagi: sociali, psichici, tossicodipendenza, e non era raro che qualcuno provenisse anche dal carcere. Da qui l’intuizione alla base di In Opera: sostenere le persone con problemi che spesso impediscono loro di poter avere una vita dignitosa, non solo attraverso un lavoro reale, serio e qualitativo, ma anche creando le condizioni affinché queste persone potessero essere accompagnate nel loro percorso umano e sociale. Anche per In Opera abbiamo fatto una scelta di imprenditorialità, sociale certo, ma imprenditoriale, sia nella gestione sia nell’offerta di servizi di qualità, come ad esempio la gestione dei Centri di prenotazione telefonica (Cuptel) per le Ausl di Ravenna e di Rimini o la gestione della segreteria e l’accoglienza all’interno delle strutture sanitarie (intra moenia), come nel caso dell’I.S.R.T (Istituto Scientifico Romagnolo per lo studio e la cura dei Tumori) di Meldola.
Tra il 2001 e il 2005 abbiamo avuto anche noi la nostra crisi, troppi investimenti, ritardati pagamenti. Ci eravamo strutturati molto negli anni ’90, eravamo cresciuti, avevamo fatto passo avanti in termini di fatturato e di diffusione territoriale. Dal 2000 operavamo in varie regioni italiane, grazie anche alla collaborazione con il gruppo Marr, leader nel settore catering. Cercavamo clienti sempre più importanti, ma i margini di guadagno hanno iniziato ad assottigliarsi. Così dal 2000 al 2003 abbiamo dovuto ridimensionarci. Ma se è vero che ogni crisi porta in sé i semi per lo sviluppo di nuove opportunità, proprio in quel periodo è stata messa in moto una decisa fase di riorganizzazione dell’azienda, fatta di scelte razionali e programmazione.
In questo senso anche la scelta di partecipare alla costituzione di un consorzio con aziende analoghe a noi (Sincro), con cui creare una rete che permetta lo sviluppo di relazioni, quindi accrescimento delle possibilità commerciali, ma anche una razionalizzazione degli strumenti necessari per poter gestire al meglio la propria singola impresa: vedi governance, amministrazione, buste paghe ecc.
Fatte queste scelte, nel 2004 abbiamo ricominciato a crescere, recuperando il terreno perduto. Fino ad arrivare alla crisi attuale, con la quale ci siamo trovati di fronte non ad una flessione del fatturato ma ad una riduzione dei margini. Questo ci ha costretto ad una nuova riorganizzazione aziendale, con fasi di spostamenti e la riconversione di alcune figure. Ma, in tutti questi frangenti e vicissitudini, ci tengo a sottolinearlo, abbiamo sempre pagato regolarmente gli stipendi al 13 di ogni mese.
Ed ora, due domande, due piccole provocazioni per il dibattito per il professor Tiraboschi
Ci può spiegare la ragionevolezza dell’Irap per delle aziende di servizio come la nostra?
Nella legislazione degli appalti l’azienda che subentra dovrebbe assumere il personale dell’azienda che ha perduto l’appalto. Spesso accade però che chi vince l’appalto è di città molto distanti ed il personale non viene assorbito, perché il luogo di lavoro è distante. Dando vita così a licenziamenti collettivi.
Ieri ho raggiunto il battesimo del campo: le mie prime nove buche. Ufficiali. Essì, perché in realtà ero già sceso su un golf course, in Scozia. Lì, nessuno mi ha chiesto nulla. Qui, in Italia, invece, dopo esserti affiliato alla Federazione Italiana Golf, la trafila è decisamente diversa, come puoi leggere qui: prima diventi giocatore non abilitato (Na). Poi un istruttore o una commissione ti abilita al campo e diventi Giocatore Abilitato (GA), e puoi giocare sui golf course. Poi dai l'esame delle regole e diventi Non Classificato (N.C.), ovvero senza handicap, poi giochi nelle gare per N.C e ti danno l'handicap... Insomma, la storia si fa lunga e... «Non di questo mi sono messo a raccontare» :-)
Anche se in quest'ultimo anno mi sono “sfinito” a giocare sul campo executive di Villa Verucchio, Rimini, il traguardo di scendere su un vero campo è comunque emozionante. U po' perché le buche sono molto più lunghe (e il mio drive è decisamente in fase di affinamento), un po' perché comunque ti misuri con chi ti precede e chi ti segue. E tra palle perse, slice ed errori vari, il gioco si prevede lento. Per cui, tra l'emozione e le preoccupazioni, già si parte con un bell'handicap. Per fortuna, mentre mi apprestavo al tee giallo della buca Uno, un giocatore – Carlo, un NC come me ma già in odore di classificazione – si è proposto come compagno di debutto. Il che, se da una parte sfalsa il mio gioco – ogni volta che gioco con qualcuno, si risveglia il competitor che dorme in me e.... sbaglio l'insbagliabile – dopo pochi colpi è stato un toccasana. Poiché non solo mi ha illustrato il campo sul quale stavo giocando, a me del tutto sconosciuto, ma ha reso piacevole e talvolta didattico un tour altrimenti impegnativo, a paragone del campo executive.
Intanto, già dal primo colpo, ho abbandonato il driver n. 1. La prima buca al golf course di Villa Verucchio è un par 5 di 440 metri, con un percorso a sinistra che, costeggiando un laghetto, disegna una U. Con, in più, un piccolo ostacolo d'acqua proprio nel mezzo. Già al primo slice opti per ridimensionare i tuoi sogni di potenza. Con un legno tre o un rescue, proseguendo nel gioco, sono riuscito ad ottenere gli stessi risultati (che speravo di ottenere) restando più o meno nel fairway o poco distante. Qualche volta ho perso anche la palla, sia chiaro. E' vero che i primi colpi hanno risentito del giocare con uno sconosciuto: dalla psiche emerge prepotente quello spirito competitivo capace di soffocare l'adagio del primo maestro: «nice and easy, nice and easy». Ma nel prosieguo, grazie al compagno di gioco sportivo e illuminante e ad una maggiore calma, ho notato che un po' meno desideri di distanza e un po' più di precisione ti consente di puntare a stare nel par. Puntare, beninteso... Senza contare che il percorso riminese è lungo e ricco di ostacoli: se non si è ragionevolmente padroni dei propri colpi, meglio una sana prudenza. Il risultato è stato un percorso buche 1 – 9 davvero piacevole, che stimola a continuare, sperando tra qualche tempo ad affrontare il più impegnativo percorso 9 – 18 riminese.
Argomenti: Sodalizi: Luoghi:Riviera Golf Resort e Target Sinergie: attivata la nuova partnership per i servizi di pulizie alberghiere, housekeeping e governariato nel prestigioso impianto di sport e benessere a San Giovanni in Marignano. Un sodalizio professionale avviato a giugno e che vede Target Sinergie mettere in campo la gamma professionale e il personale più qualificati del proprio settore Pulizie alberghiere, all’altezza della qualità offerta dalla bellissima struttura ricettiva. Il Riviera Golf Resort, infatti, oltre ad offrire agli appassionati del gioco un campo da 18 buche di alto livello, un campo pratica ed uno executive, e agli amanti del tennis due nuovissimi campi in terra rossa, affianca alla natura e al verde della struttura un hotel con lussuose suite, un centro benessere, una guest house con servizio di ristorante.
«Con il Riviera Golf Resort è partita una vera e propria partnership che ci vede impegnati non solo nei nostri tradizionali e collaudati servizi di Housekeeping, cioè di cura, riassetto, pulizia e preparazione delle suite per gli ospiti. – spiega Gianluca Fabbri, che per Target Sinergie ha ideato e seguito il progetto – Attraverso il servizio di Governariato, infatti, sovrintendiamo tutta la parte di coordinamento e controllo del settore, sollevando il cliente dall’impegno della supervisione e garantendogli nello stesso tempo stanze sempre pronte ad accogliere gli ospiti, perfette in termini di qualità, pulizia e comfort. Oltre a fornirgli consulenza per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro e per la razionalizzazione dell’offerta alberghiera».
La partnership Target Sinergie – Riviera Golf Resort va oltre Governariato e Housekeeping del settore ricettivo. Il servizio di pulizia infatti coinvolge tutte le aree comuni del golf club e della Spa annessa alla struttura di San Giovani in Marignano. «Il rapporto con una delle eccellenze del territorio riminese come servizi per il tempo libero, quale è il Riviera Golf Resort, rappresenta per Target Sinergie un traguardo professionale e nello stesso tempo una sfida, visto il contesto ambientale in cui siamo chiamati ad operare. – dice Gianluca Fabbri – Per superarla abbiamo aggiunto alle nostre prassi professionali (servizi di Qualità e Gestione Ambientale certificati ISO 9001 – 14001, report su lavoro e costi “day by day”) nuovi sistemi per ridurre al minimo indispensabile i consumi di prodotti chimici e preservare anche attraverso l’igiene il fascino della natura che circonda il resort».
C'è qualcosa di autolesionistico nella politica comunicativa dei Nuovi Balilla. Loro ci provano a mostrare i muscoli come gli “antenati”, fieri e impettiti nel nuovo look fatto di camicie immacolate e bandiere garrenti. E fin qui, gli va bene. Se scatti una foto senza indugiare nei particolari dei volti, magari possono essere pure equiparati ai combattivi nonni (se a loro fa piacere...). Il problema è quando lasciano il libro e, prima di imbracciare il moschetto, si impratichiscono di altre armi. E qui il neobalilla, ahimè, scivola. Stavolta sulla classica buccia di banana.
Ne hanno dato una dimostrazione gli aderenti a CasaPound il 21 giugno, a Solferino, Mantova. Arrivano per manifestare contro la privatizzazione – secondo loro – della Croce Rossa e cosa ti combinano? Con le torce che brandivano hanno dato fuoco alle sterpaglie, costringendosi ad una precipitosa fuga.
Non è andata meglio a Cervia, l'altro giorno, quando un altro neobalilla, di altra formazione, ha tentato di sfruttare l'assist (mediatico) di Calderoli, lanciando alcuni frutti all'indirizzo del ministro Cècile Kyenge. Posto che alle feste dell'Unità folle oceaniche si notano solo alla balera, il neobalilla è arrivato appena alla prima e seconda fila, meritandosi l'ironico sfottò del ministro Cècile Kyenge – che sarà ormai stufa di misurarsi con decerebrati – e persino di disconoscimento dalla locale squadretta di Forza Nuova. Il che, è tutto dire.
Argomenti:La categoria dell’animo che fa riferimento all’equità non può essere usata per giustificare l’imposta patrimoniale. Non si può neppure dimostrare una maggior giustizia dell’imposizione progressiva: è indubbio come il suo peso gravi solo sul lavoratore dipendente, essendo impossibilitato ad evaderla. La patrimoniale attiene, invece, alla categoria delle cose necessarie. L’economia di un Paese è simile a una famiglia con un parente che, amando più il videopoker che la sobrietà, finisce per portare al dissesto tutto il parentado. Per risolvere il danno si avranno di fronte due strade: lavorare di più oppure vendere qualche gioiello di famiglia costringendo, da principio, il parente scapestrato a rimettersi in riga. Così vale per lo Stato: un elevato debito pubblico, frutto più di sperperi che di investimenti, potrà essere ridotto scegliendo tra un aumento delle tasse oppure chiedendo un sacrificio straordinario ai cittadini. Aumentare le tasse è buona cosa a due condizioni: bassi interessi sul debito pubblico e alta crescita economica. Ad oggi ciò è pura utopia. Nemmeno evocare la lotta all’evasione serve a qualcosa: i risultati non sono immediati. L’unica soluzione rapida è la patrimoniale straordinaria: i cittadini si impegnano a cedere un pezzo della propria ricchezza per raddrizzare il debito pubblico. La politica, di contro, si impegna a tornare in riga, a risanare i conti eliminando gli sperperi, le ruberie, le inefficienze e l’evasione. Una spirale virtuosa che attraverso le maggiori risorse reperite dalla riduzione degli interessi sul debito potrà dare luogo a una diminuzione della tassazione la quale, a sua volta, farà aumentare i consumi con effetti positivi sull’andamento del PIL. Solo così la patrimoniale straordinaria potrà essere un prezzo accettabile da pagare per rimettere in riga rapidamente un Paese e impedire di trasferire l’onere del debito pubblico interamente sulle attuali generazioni e su quelle future.
(La Tribuna Sammarinese, sabato 20 luglio 2013)
PubblicazioniIl primo amore a quattro ruote fu la Citroën Dyane 6. Gialla. Anche il secondo. Rosso fiammante. E quando raggiunse i limiti di età, non portai la mia Dyane dallo sfasciacarrozze. La portai alla Mutoid Waste company, a Santarcangelo Perché sapevo che quegli artisti squinternati le avrebbero dato una seconda vita. Il che mi piaceva assai. Erano già parcheggiati da qualche anno a Santarcangelo, usciti da un film di Mad Max proiettato nel centro di Londra. E alle colorate creste che i loro colleghi londinesi mostravano per foto da cartolina, loro aggiungevano un'arte meravigliosa, ridare vita artistica ad oggetti che la civiltà-così-come-la-conosciamo gettava via. Dai ramificati tentacoli culturali e tematici della letteratura cyberpunk – integrazione uomo–macchina, degrado ambientale da industrializzazione selvaggia, denuncia di un'economia aggressiva e democraticida – arrivano questi qua in una cava dismessa lungo il Marecchia, archeologia della rapina ambientale.
Magari a questi non gliene fregava niente di William Gibson o J.C. Ballard, Mad Max è stata un'occasione per fare qualche opera, forse si preoccupavano di fare qualche spettacolo e festa e basta... Non lo so, chi guarda un'opera di solito ci trova tante di quelle robe che l'autore manco ci pensa. Ma la loro presenza per me ha significato qualcosa. Al confine di un mondo che guardava all'effimero e che rapinava l'ambiente come se non ci fosse domani, che vestiva i panni della rivolta solo perché li preferiva a quelli dell'omologazione, i Mutoid erano una ventata che spazzava via tutti gli alibi provinciali, un pezzo di contemporaneità culturale inverata nel quotidiano, la lievità e la naturalezza del vivere un'idea piuttosto che indossarla sulla passerella del proprio ego.
Ecco, pensare che il boxer bicilindrico e lo chassis della mia Dyane sarebbe diventato un mezzo che impennavano nel mezzo degli spettacoli, la scorta al loro drago sputafuoco, mi riempiva in qualche modo di orgoglio. Oggi, quel gesto ha il potere di far passare in secondo piano anni e anni di ciarpame da me prodotto, ovvero il mio contributo alla civiltà-così-come-la-conosciamo.
Io non so perché si è giunti a questo”sfratto” della comunità dalla cava dove vivono da 20 anni. Se per un cavillo da azzeccagarbugli insondabile o per insipienza. Se a Santarcangelo si guardava veramente ai Mutoid come una risorsa, di sicuro avrebbero dovuto “blindare” anche amministrativamente la presenza della comunità. Ma verrà il tempo di valutare eventuali responsabilità politiche. Questo è il tempo di dare atto di ciò che ha prodotto un innesto culturale e di difenderlo.
Argomenti: Sodalizi: Culture: Autori: Opere: Luoghi:Per introdurre brevemente il percorso storico sociale ed economico che oggi ci porta a parlare di violenza istituzionale e violenza familiare pare opportuno ricordare il movimento delle donne nato negli ultimi decenni dell’Ottocento e nel primo ventennio del Novecento, ispirato a tesi liberali come richiesta di uguaglianza di diritti secondo la legge (voto, proprietà, accesso all’istruzione e alle libere professioni).
Il movimento conquisterà solo parte dei diritti richiesti, diritti che ancora oggi spesso si constata che sono solo sulla carta.
La tesi di fondo che distingue l’orientamento socialista da quello liberale sul problema dell’emancipazione e liberazione della donna è che,perchè le condizioni di subordinazione materiale delle donne e dei proletari cambino realmente, è necessario realizzare, tramite la rivoluzione, una società nella quale possano scomparire tutte le forme di subordinazione dei proletari (uomini e donne) rispetto ai capitalisti, delle donne rispetto agli uomini.
Tematiche relative alla condizione di subordinazione della donna sono presenti nel corso dell’Ottocento sia in teorici cosidetti “utopisti” (da Robert Owen a Charles Fourier) sia in donne impegnate nelle lotte operaie dalla metà del secolo in poi (Flora Tristan, le donne del ’48 parigino quelle della Comune del 1871).
L’elaborazione più organica di tale tematica è presente negli scritti di Karl Marx e di Friedrich Engels , sin dagli anni quaranta e soprattutto come viene riconosciuto dalle storiche del femminismo, in due scritti : uno liberale “L’asservimento delle donne” del 1869 di Mill e “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato” di Engels del 1884, sulla problematica femminile.
Engels parla di trasformazioni sociali e culturali dei rapporti tra donne e uomini in fasi della preistoria dell’umanità, nelle quali prevale l’economia della caccia e della raccolta e dove c’è una divisione del lavoro tra donne e uomini, ma non una subordinazione delle donne agli uomini. Anzi la condizione delle donne in quanto fonte di vita è esaltata nelle religioni primitive nelle quali è la dea madre, simbolo della fecondità, che costituisce il momento più alto di venerazione religiosa.
Le cose cambiano gradualmente quando l’umanità in alcune zone passa allo stadio dell’allevamento del bestiame, della agricoltura organizzata , delle guerre per la conquista di terre e di schiavi.
L’uomo diventa il protagonista , il capofamiglia, il proprietario del territorio.
Questo passaggio rappresenta la grande sconfitta storica delle donne che da protagoniste diventano schiave ,oggetti di proprietà del marito.
Nasce la famiglia patriarcale e con essa la schiavitù della donna verso l’uomo.
In una linea di continuità con le tendenze socialiste dei movimenti politici più avanzati le ultime pensatrici femministe hanno ricordato l’uso insistente delle analisi freudiane a sostegno delle loro tesi, nonostante i molteplici attacchi mossi da una certa parte femminista.(Psicoanalisi e femminismo, di Julier Mitchell 1974) .
Freud ha indicato i condizionamenti psichici del rapporto uomo – donna oltre che le origini storiche.
Basti ricordare “Totem e tabù”. Il totem (il padre assassinato divinizzato dopo la morte) e il tabù dell’incesto (il divieto dei rapporti sessuali con consanguinei e conseguente scambio delle donne)
Ma è la comparsa sempre del 1974 del volume “Speculum” della psicanalista Luce Irigaray che la discussione sulle tematiche femministe riceve un nuovo slancio.
L’opera propone una fondazione della teoria della “differenza sessuale “attraverso una analisi critica sia delle tesi di Freud sia dell’intera tradizione filosofica occidentale, da Platone a Hegel.
Entrambe convergono nella tesi della essenzialità della differenza sessuale in una maniera che esalta e non reprime la sessualità femminile, di fronte alla quale sia la filosofia sia la psicanalisi, portatrici di pregiudizi maschilisti, sono rimaste cieche.
L’analisi più dettagliata è dedicata al notissimo mito della caverna proposto da Platone.
La caverna è l’equivalente per Irigaray dell’utero materno da cui nasce l’essere umano; è lo speculum che si contrappone allo “specchio” esterno /il Sole Il bene/; è il luogo dell’assenza, del vuoto, è la sede dell’ignoranza e della passività.
La caverna è il simbolo della donna, l’esterno della caverna è il simbolo dell’uomo.
Quando negli anni ’80 il movimento femminista entra in crisi, come movimento organizzato, la sua eredità politica e teorica non si disperde.
Se il movimento femminista entra in crisi quasi ovunque, non entra in crisi il movimento di liberazione delle donne.
I motivi centrali, quelli relativi alla parità dei diritti tra uomo e donna, non vengono abbandonati anche perchè quei diritti sono oggetto di continua minaccia in alcuni paesi o ancora di conquista in altri.
I temi cari all’orientamento socialista del movimento come lo sfruttamento economico ricompaiono oggi con forza , anche nei paesi più avanzati nei quali la reazione liberista produce immediatamente un arretramento della condizione economica delle donne e maggiori difficoltà di accesso al mercato del lavoro, in particolare per le donne delle minoranze etniche.
Il generale peggioramento della condizione sociale delle donne, in alcuni paesi, offre nuovo vigore alla differenza sessuale come luogo dell’oppressione femminile sia nella sfera pubblica (mercato del lavoro, presenza nelle istituzioni) sia in quella privata (famiglia).
Il lavoro teorico connesso alle tematiche contro” l’omofobia” collegate non solo al pensiero femminile ma anche a autori come Derrida, Foucault, Deleuze degli anni ’80, pone problemi di natura più generale relativi al “ come” e al “quando” si costituisce un “soggetto”, un’identità, addirittura un “corpo”, con le sue caratteristiche,scelte, orientamenti sessuali ma anche con aspetti più generali di “costruzione” del soggetto.
La violenza non è un comportamento inacettabile, è un REATO.
La violenza è potere e il potere è come una droga: difficile da abbandonare.
Per la maggior parte gli uomini violenti hanno subito aggressione diretta o indiretta da bambini.
Questo spiega in parte la violenza alla quale sono improntati i loro rapporti con le donne ma non li giustifica.
Raramente è un sincero desiderio di cambiare che li spinge a chiedere di essere indirizzati ai centri di sostegno per uomini violenti che oggi cominciano ad esserci anche da noi.
Li frequentano a volte riluttanti per uno scopo ben preciso: ottenere l’affido dei figli, ampliare il diritto di visita, ritornare a convivere con la vittima.
Questo significa che l’intervento deve rientrare in un programma complesso di educazione nelle scuole, di prevenzione nella cittadinanza, di conquista di diritti con disegni di legge che siano approvati perchè spesso rimangono sulla carta.
La violenza dei diversi e degli stranieri a proposito di mutilazioni dell’apparato riproduttivo, come la cinconcisione dei maschi e l’infibulazione delle femmine, sono presentate come usanze religiose, riti di passaggio verso la maturità,
La violenza familiare è diventata uno dei temi centrali nel discorso pubblico in Italia e all’estero.
Di violenza si parla sui giornali, all’interno delle istituzioni pubbliche, nei luoghi di lavoro, sui mass media, nei social network,
La violenza è un abuso fisico, sessuale,psicologico, emotivo, economico, oltre che attraverso minacce e atteggiamenti persecutori, quali lo stalking, fino a giungere all’omicidio.
L’elenco si allunga di giorno in giorno, come recenti casi di cronaca ci hanno drammaticamente mostrato.
Pur agita nell’intimità delle mura domestiche,subdola o manifesta che sia, la violenza fra partner oltrepassa quegli stessi steccati che solitamente vengono posti tra genere, età, livello di istruzione, cultura ,classe, origine etnica, religione, condizione socio-economica.
La violenza domestica è cioè transculturale e globale.
L’attualità della violenza è oggi legata non tanto al fenomeno in sé, quanto alla radicale trasformazione della tradizionale forma di famiglia mononucleare.
La violenza familiare non riguarda più solo la donna nella veste di moglie (il cui omicidio veniva chiamato uxoricidio che oggi diventa femminicidio).
Altre figure unite al partner violento possono essere vittime di violenza: conviventi, amanti, bambini.
L’emergere culturale, sociale e politico della violenza di genere è stato senza dubbio determinato da più fattori consociati: la lotta delle donne, le leggi, i servizi sociali, le volontà individuali.
Un dato è comunque certo: la violenza di genere è una questione dalle proporzioni “endemiche globali “, così è stata definita dal fondo delle nazioni unite per l’infanzia (Unicef).
Pur essendo comune a tutte le classi e le culture, la violenza di genere colpisce gruppi di donne rese più vulnerabili da altri fattori discriminanti. Si pensi a disabili, prostitute, immigrate, rifugiate e richiedenti asilo, appartenenti a minoranze etniche come i Rom, detenute.
La violenza diventa assoluta quando degenera in omicidio. Grazie alla crescente sensibilizzazione popolare, alle campagne promosse da associazioni femminili si è cominciato a parlare con insistenza del numero di donne uccise per questioni di genere, ovvero di un fenomeno sottaciuto anche dalle istituzioni.
Il discorso pubblico porta consapevolezza nelle coscienze e magari qualche violenza in meno.
Il 2012 si è chiuso con 127 omicidi di donne.
Parlare di violenza significa stabilire un nuovo patto fra le generazioni a partire dalle precarie mura domestiche. La violenza può esser affrontata solo con un lavoro diffuso di reti che interagiscono capillarmente sul territorio.
Bene il fatturato Target Sinergie nel 2012 che cresce di oltre 4 milioni di euro (+26% rispetto al 2011), trascinando con se anche la crescita dei dipendenti del gruppo: circa 180 in più. Sono così due i segnali positivi – in controtendenza generale – che il gruppo riminese registra nel bilancio dello scorso anno. Meno positivo il risultato finale, un disavanzo di circa 200 mila euro su un bilancio totale di 20 milioni 500 mila euro, disavanzo ampiamente coperto dagli accantonamenti 2011. «Una sostanziale tenuta che non spegne il nostro ottimismo, anzi lo rafforza per come il gruppo Target Sinergie e le cooperative aderenti (Log – It, Target Service e In Opera Onlus) stanno affrontando questo delicato momento nazionale», dice Davide Zamagni, presidente del consorzio riminese.
«Mentre molti settori soffrono pesantemente la crisi, qualche cliente ci è sfuggito, ma sono di più quelli acquisiti. – continua Davide Zamagni – Ed anche i segnali per il 2013 sono positivi, con rapporti consolidati che diventano un incremento di commesse e nuovi clienti che fanno allargare il nostro bacino territoriale. Siamo presenti in Emilia-Romagna, Marche, Abruzzo, Lombardia, Toscana, Sardegna e, da quest’anno, Campania». La logistica si conferma il settore con il maggior fatturato: 15 milioni, +3 milioni 200mila rispetto al 2011. Tra i risultati raggiunti nel 2012 l’aggiudicazione in Sardegna di un appalto presso il Pastificio Cellino e l’avviato rapporto con Esselunga, oltre all’ampliamento di servizi erogati a clienti consolidati nella Grande Distribuzione Organizzata. Incrementi di fatturato anche per il settore delle pulizie (uffici, stabilimenti industriali e aziende alimentari) e nei servizi alle imprese pubbliche e private: backoffice, order entry, Customer relationship satisfaction (Crm), In quest’ultimo settore si è aggiunta la Società del Gas Rimini (Sgr).
Accanto ai numeri in euro, Simone Vezzali, direttore del personale, spiega che il gruppo «ha raggiunto i 731 dipendenti, di cui 534 inquadrati con il contratto a tempo indeterminato, mentre il restante sono legati agli impegni stagionali o in corso di stabilizzazione. Da registrare che oltre il 50% dei nuovi assunti della consorziata cooperativa sociale In Opera, sono persone provenienti da categorie svantaggiate». E sempre per la cooperativa sociale In Opera, di cui Vezzali è presidente, è da registrare nel 2012 la menzione speciale al Premio Marco Biagi – Il Resto del Carlino per la Solidarietà Sociale.
Dal bilancio 2012 si leggono in filigrana le positività ma anche i problemi che affrontano le imprese italiane in questo delicato periodo: i temi del lavoro, i margini, la tassazione e l’accesso al credito. «Abbiamo aumentato il fatturato di oltre 4 milioni, ma abbiamo aumentato i costi del personale di altrettanto – dice Domenico Pirozzi, fondatore del gruppo e presidente della consorziata Target Service – L’incremento del costo del lavoro per noi è un valore, perché significa che possiamo permetterci di pagare oltre 4 milioni in stipendi in più. La crisi ci fa soffrire nei minori margini, certo, ma abbiamo investito in migliore qualità. Altra voce segnata dai tempi è la voce imposte: quasi tutte le cooperative del gruppo hanno il bilancio prima del pagamento delle imposte in attivo, dopo le imposte in passivo: l’eccessiva pressione fiscale è un problema. Un’altra nota di sofferenza sono i costi finanziari e gli anticipi delle banche sulle fatture emesse, necessari per pagare regolarmente gli stipendi, che si fanno sentire in negativo sul risultato finale del bilancio».
L’argomento che oggi affronteremo insieme, è per vedere se tra tutti noi possiamo dare un giro di spirale alle linee di pensiero del nostro schema concettuale di riferimento sulla violenza istituzionale e la violenza familiare.
La violenza nella scena familiare è molto diffusa in tutti i paesi, al di là del fatto che oggi sembri una “moda giornalistica”, in realtà è un’emergenza sociale.
Ci dicono che questo dipende da una molteplicità di fattori sia economici, politici, sociali e culturali che psicopatologici e ne sono attraversate tutte le classi sociali.
Possiamo affermare che è un effetto sintomatico della trasformazione della famiglia e delle istituzioni.
Nell’epoca della globalizzazione, paradossalmente, assistiamo ad una maggiore localizzazione e provincializzazione, che gioca un ruolo importante su questi cambiamenti.
Sappiamo da molti studi realizzati sul tema della violenza, che la violenza viene esercitata sulle persone più deboli: bambini, donne, anziani.
La violenza intrafamiliare tra i coniugi o tra i componenti del nucleo familiare, si manifesta attraverso comportamenti abusivi che vanno dalle aggressioni fisiche, ai maltrattamenti di carattere psicologico fino alle aggressioni sessuali.
Entrano in campo come variabili, che incidono sui fenomeni di violenza anche l’alcolismo, la tossicodipendenza e la patologia psichiatrica.
Far emergere gli episodi di violenza tra i componenti della famiglia non è facile, in quanto questi episodi vengono occultati o nascosti da un sentimento di vergogna.
In alcune situazioni si verifica che n’è la vittima n’è il carnefice sono consapevoli che, potrebbero esserci altri tipi di rapporto.
L’umiliazione che sentono nel raccontare questi episodi, fa sì che da parte del professionista o degli operatori ci debba essere un atteggiamento non giudicante (non colpevolizzare), senza pregiudizi (non etichettare n’è stigmatizzare), ma con un’attitudine verso l’altro di empatia e di ascolto, per mettere in luce le verità e le possibili cause di questi atti violenti.
La violenza attraversa anche le istituzioni, sia che la consideriamo sul versante psicologico, cioè come una nozione interna al soggetto, sia che la intendiamo come istituzione esterna.
Mi sembra che nell’attualità queste organizzazioni istituzionali siano diventate sempre più repressive, con caratteristiche autoritarie (verticistiche) che tendono alla burocratizzazione degli interventi.
Allo stesso tempo, osserviamo una grande sofferenza e anche un’impotenza degli operatori, dal momento che si stanno riducendo gli spazi (se non addirittura mancano), per riflettere e confrontarsi sul lavoro quotidiano e sulla elaborazione delle ansietà e dei conflitti che il lavoro risveglia, in particolar modo quando si trattano e si toccano queste tematiche sulla violenza.
Prenderò spunto da alcuni autori che hanno pensato direttamente o indirettamente su questa problematica.
Partirò dall’assunto di Freud in cui afferma che, il fondamento della vita psichica, è basato sulla tendenza del soggetto a soddisfare il piacere ed evitare il dolore e il dispiacere. Si è interrogato, nei suoi diversi scritti, e continuiamo ad interrogarci sulla violenza e sull’aggressività.
Come voi sapete, Freud mantiene l’idea che nell’essere umano sono presenti due pulsioni (dualità pulsionale): Eros e Thanatos intese come metaforizzazione delle forze che legano e slegano.
Questa dualità pulsionale agisce nei vincoli che il soggetto intraprende con i suoi simili. Nei tre saggi sulla Teoria sessuale del 1905 e Pulsioni e i loro destini del 1915, Freud accenna alla pulsione di dominio che ha come base l’autonomia, la separazione e l’interscambio.
La pulsione di dominio o d’impossessamento è una pulsione per certi aspetti oscura e ancora poco analizzata, ed ha come fine ultimo il dominio dell’oggetto (l’altro).
In qualsiasi atto clinico, tanto psicoterapeutico quanto preventivo, è di fondamentale importanza mantenere un’attitudine che tenda a non considerare naturale il fenomeno della violenza.
Credo che un compito importante sia l’elaborazione della ripetizione e l’integrazione delle parti scisse del soggetto.
Dobbiamo menzionare la complessità che ruota intorno a queste problematiche, che va dall’individuale al sociale e, transita per le condizioni economiche concrete.
Possiamo prendere l’esempio delle persone che vengono escluse ed emarginate dal circuito socio-lavorativo, in cui le tensioni sono talmente potenti tali da far esplodere atti di violenza.
Perché l’esclusione stessa è in sé è una forma carica di violenza.
Diversi tipi di violenza vengono esercitati sugli immigrati, sugli stranieri, sui diversi, per esempio quando viene negato loro il diritto di appartenenza (cittadinanza).
La non appartenenza viene vissuta con colpa e angoscia, legata al sentimento di non appartenere a se stessi “senza identità e senza luogo”.
La violenza esercitata in generale sulle minoranze implica azioni che producono fenomeni di frantumazione dei legami sociali e forme di sottomissione.
Vi è sempre un tentativo di annullare l’autonomia, la volontà e i desideri; sono il rovescio dei diritti dell’altro con la sua singolarità e differenza. Nelle nostre società basate sul “controllo” e sull’autoritarismo si tende ad alienare e cosificare i soggetti. Tutto ciò è insopportabile!
Passiamo ora a Bleger, facciamo riferimento all’opera Psicoigiene e psicologia istituzionale, in particolare nei passaggi in cui afferma che è necessario ripensare ai modelli concettuali per ampliare la mente e allagare il campo del nostro lavoro, dotandoci di uno schema di riferimento flessibile, dato che dobbiamo studiare l’essere umano nelle situazioni concrete di vita, nella sua quotidianità, nei suoi vincoli interpersonali e nei vari ambiti di intervento.
Questi ambiti (individuali, familiari, gruppali, istituzionali e comunitari) interagiscono tra di loro e, lo stesso accade con il fenomeno della violenza, che attraversa questi ambiti.
Nella nostra concezione, la stessa idea di soggettività è considerata come il prodotto di questi vincoli. In questo mondo globalizzato è necessario studiare gli effetti che la violenza produce sui nostri corpi, sulle nostre identità e sulle diverse appartenenze.
Adesso mi interessa collocare nella scena familiare ed anche istituzionale, questa nozione di violenza e le forme che prende in questi ambiti.
Prima due parole sulla famiglia.
Questa configurazione attuale non è esistita da sempre ma inizia con la rivoluzione industriale.
Da tempi lontani sono esistite forme di raggruppamento dell’uomo e della donna e dei loro discendenti in forma tribale di clan, nomade etc. e fino ad oggi in cui si parla di famiglia allargata.
Direi che nella sua forma moderna possiamo considerare la famiglia su due versanti:
Questa trasmissione latente è stata denominata “trasmissione trans generazionale”. Tutte le scuole che studiano la famiglia riconoscono questa nozione.
La famiglia è la matrice formativa dell’identità e delle differenze sessuali e generazionali, che nei migliori dei casi crea le condizioni verso l’autonomia dei suoi integranti.
In certi gruppi familiari, il processo verso l’indipendenza e l’autonomia viene impedito e ostacolato da difficoltà insorte per diversi motivi: i deficit o la distorsione nei vincoli, i malintesi o i silenzi nella comunicazione che possono manifestarsi con atti di violenza e privi di senso.
È impedita la possibilità di simbolizzare la conflittualità e trasformarla in un atto di pensiero.
Ora prendiamo Pichon Riviére. Egli analizza i conflitti che insorgono a livello della comunicazione tra i diversi membri del gruppo familiare a partire dal malinteso. Il malinteso “serve” a volte per sostenere a tutti i costi un ideale familiare (trasmesso da altre generazioni). In questo senso ha creato la sua teoria del deposito, che afferma che il depositario è colui che si fa carico delle ansie del gruppo di fronte a situazioni irrisolte (crisi della vita, lutti), o situazioni traumatiche mai elaborate. Per esempio gli effetti delle guerre esterne e interne; pulsioni violente verso se stessi o un altro per un eccesso narcisistico che non sopporta le differenze.
Per queste situazioni di violenza possiamo prendere in analogia la nozione di trauma, in cui vi è la tendenza alla scarica impulsiva immediata che irrompe violentemente e si esprime su tutti gli ambiti.
Per sintetizzare questa nozione di trauma, dato che sarebbe necessario un seminario solo per approfondire questa nozione, darò due elementi per pensare alla situazione:
1) la prima situazione di trauma è per accumulo di tensioni e frustrazioni prolungate nel tempo, che fa salire la tensione senza offrire vie di scarica. Questo è un processo che avviene più all’interno e noi lo intendiamo come gruppo interno;
2) il ruolo che gioca l’ambiente. Freud, in Inibizione, sintomo e angoscia, distingue tra situazioni problematiche e di pericolo, postulando un’angoscia automatica (panico) e l’angoscia come segnale dell’avvicinarsi del trauma. Un esempio per tutti è quando pensiamo al bisogno del lattante dell’oggetto esterno (madre o sostituto) dato che si trova in una situazione di immaturità e impotenza.
Riprendiamo l’ambito istituzionale e le forme di violenza che si caratterizzano su questo livello.
Pensiamo di più alla prevalenza delle dispute, che al dialogo, all’interscambio delle idee nelle equipe curante, oppure a quegli atteggiamenti dove ognuno si rinchiude in se stesso nelle proprie stanze.
Per difendersi da chi o da che cosa?
Dalle esigenze o dalle pressioni che pongono le istituzioni? O forse per resistere al cambiamento?
Le forme di violenza nelle istituzioni agiscono nei bordi di questi problematiche, irrompono con modalità di complicità, con i silenzi e con le adesioni di sottomissione al potere.
In questo senso dobbiamo pensare all’istituzione come ad uno strumento operativo: l’istituzione intesa come intergruppo, è una “unità minima di analisi”, a partire dalla quale possiamo pensare diversi rapporti istituzionali.
Sempre saranno rapporti tra i gruppi (interni ed esterni) e, queste relazioni, saranno o di cooperazione o di litigio resistenziale.
Si giocherà in ognuno dei componenti il confronto tra il proprio gruppo interno (primario) ed i gruppi attuali. Questo movimento permette di mettere in luce il controtransfert con l’istituzione o l’implicazione che gli operatori hanno verso la loro appartenenza istituzionale, così come il transfert verso i pazienti.
Questa nozione di intergruppo ci permette di ripensare ai rapporti interni, di interscambio, simbolico, affettivo, economico e di potere che transitano tra i gruppi, ed è utile e importante per costruire un’idea di istituzione, che ci permetta di pensarla come uno strumento terapeutico, se non è troppo ammalata o ammalante. Da sempre siamo intervenuti nelle istituzioni, con l’idea o ideologia, che con diversi dispositivi potevamo trasformarle da dentro.
L’istituzione era pensata come supporto per il paziente (utente), per dare un’opportunità di rivedere e avere un nuovo vissuto delle situazioni conflittuali e della loro vita.
Un contenitore dove poter giocare tutte le fantasie sulla malattia, sulla guarigione e sul processo della cura. Se viene operata una discontinuità nella cura, questo è sentito e sofferto dagli utenti come violenza che viene provocata dall’istituzione su di loro.
Inoltre sappiamo che gli operatori rappresentano aspetti e parti inconsce del paziente, che questo proietta e deposita su di loro e, quindi deve esserci una continuità che li contenga.
In questa matrice intergruppale, i diversi compiti sono di fondamentale importanza, perché si manifestino le situazioni non dette, cioè il latente istituzionale.
A mio avviso, questo rappresenta un fattore di salute, tanto per le istituzioni-organizzazioni quanto per l’equipe curante e come effetto sull’utenza.
Da sempre abbiamo sostenuto che, prima di intraprendere un rapporto terapeutico con un paziente, è necessario rivedere i nostri schemi di riferimento il cui nemico è lo stereotipo, la rigidità e la ripetizione.
Ma cosa succede quando, questa ripetizione o burocratizzazione del lavoro, ci viene riproposta nella quotidianità istituzionale?
Non possiamo fare a meno di pensare agli atti violenti che attraversano questo ambito, i cui effetti sono prodotti da una scelta della logica del profitto e fissità (mentale, dei ruoli, la gerarchia non funzionale che crea autoritarismo).
Death is nothing at all. It does not count. I have only slipped away into the next room. Nothing has happened. Everything remains exactly as it was. I am I, and you are you, and the old life that we lived so fondly together is untouched, unchanged. Whatever we were to each other, that we are still. Call me by the old familiar name. Speak of me in the easy way which you always used. Put no difference into your tone. Wear no forced air of solemnity or sorrow. Laugh as we always laughed at the little jokes that we enjoyed together. Play, smile, think of me, pray for me. Let my name be ever the household word that it always was. Let it be spoken without an effort, without the ghost of a shadow upon it. Life means all that it ever meant. It is the same as it ever was. There is absolute and unbroken continuity. What is this death but a negligible accident? Why should I be out of mind because I am out of sight? I am but waiting for you, for an interval, somewhere very near, just round the corner. All is well. Nothing is hurt; nothing is lost. One brief moment and all will be as it was before. How we shall laugh at the trouble of parting when we meet again!
Henry Scott Holland
Argomenti: Persone: Luoghi:Sto scoprendo una curiosa assonanza tra i miei stati d'animo e la panificazione casalinga. Quelle robe strane per cui se ti girano i maroni perché i grandi elettori del Pd suicidano una classe dirigente e sé stessi bruciando un presidente decente, i neogiacobini propongono trucchetti per guadagnare altro consenso senza fare un cavolo e i cugini delle nipotina di Mubarack gongolano, il pane e la pizza e la spianata ti vengono da schifo.
Ho provato a cercare altre cause nella debacle panificatoria della settimana scorsa. Giuro, ci ho provato. Ma il veleno che ha ammorbato i miei farinacei è facilmente individuabile nel big bang che si è consumato a Montecitorio. Perché al pane, mi sto accorgendo, ci sto dando un senso. Anzi, molto più di uno. E' come se mi stesse smuovendo qualche tappo ancestrale, liberando cose che non riesco a cogliere nella loro interezza. Ecco, se vogliamo usare un'immagine, sono il mostro di Frankenstein Junior quando suonano il violino: agito le mani per afferrare la musica. Ma inesorabilmente sfugge.
So solo che, forse contaminato da una moda passeggera, forse coinvolto in un flusso carsico di desideri primari che depurino i nostri bisogni inquinati, ho posto nella panificazione casalinga un gesto di comunanza. Devo andare a mangiare dalle mie nipoti? Cucino il pane. Vengono gli zii da Milano? Porto il pane. L'amico smette il maiale e invita al baccanale? Impasto il pane. Le due parenti hanno litigato e non si parlano? Porto a entrambe un pezzo della stessa pagnotta. Fatta da me.
Ho cominciato per caso. Anzi, ricominciato. Perché da garzone, nelle cucine dei mercantili, il panettiere mi aveva insegnato a fare il pane, esattamente 30 anni fa. Naturalmente non mi ricordo nulla. Mi ha incuriosito tutto questo gran parlare di pane o lievito madre che attraversa web, vita e reparti elettrodomestici dei centri commerciali. Poi. Mia cugina fa il pane in casa: butta tutto dentro una macchinetta e questa sforna pagnotte. Il commercialista dinoccolato fa il pane. La tipa-che-si-iscrive-a-tutti-i-corsi fa il pane in casa. Messe di informazioni frammentarie alimentano blog eleganti - la cucina sta andando di moda, mi sa che soppianta la fotografia quest'anno - e forum. Li ho letti, ma insoddisfatto ho tampinato un'amica compiacente che ha generosamente concesso le sue nozioni, indicandomi il centro macrobiotico come luogo di spaccio per un po' di pasta madre. Dove mi sono recato. E questo, da solo, merita un siparietto.
- Buongiorno, vorrei del lievito madre
- Un attimo che viene la signora, è lei che se ne occupa, mi dice un ragazzotto dietro il bancone dei pani, biscotti, crostate e via così.
Esce una signora dal laboratorio e ripeto la domanda. E questa:
- Ma lei ha fatto i nostri corsi per gestire il lievito madre?
- No
- Li ha fatti sua moglie?
Evito di spiegarle che sono zitello e dico No.
- Perché – continua – sa che ci sono delle procedure da fare per gestire la pasta madre...
- Sì, sono al corrente, me l'ha spiegato un'amica che ha già esperienza che va rinfrescato con la stessa quantità di farina e la metà dell'acqua..
- A bene, perché sa, non è che lo vendiamo così... Poi non è facile, sarebbe meglio fare il corso, ma se sapete già cosa fare...
La risposta sulle tecniche è quanto di più evasiva si potesse immaginare, ,ma io insisto: - usate farina Manitoba (farina adatta a panificare che ingloba molta acqua, ottima per pane, pan brioche, panettoni e colombe pasquali)?
E questa si chiude a riccio: - A no, noi usiamo solo farine di grano antico, non usiamo queste farine moderne...
Apparteilfatto che la farina Manitoba viene dall'omonima regione canadese e la usavano i nativi americani... Ma insomma, un quarto d'ora di terzo grado per darmi un po' di poltiglia in un barattolino di vetro, con la quale cominciare i miei esperimenti...
Due giorni dopo provavo a fare il pane. Due giorni dopo e un assaggio scoprivo che era altamente acido, oltre a non essere lievitato. Quattro giorni dopo ho provato a fare la pizza, acida e piatta come una tavola. Due settimane dopo facevo un corso per panificare con il lievito madre, ma con una tecnica diversa, tenuto da Paolo Bissaro. Un mese e diversi pani bianchi e di segale e pizze dopo continuo a panificare con la pasta madre solida ma ho buttato nel water la poltiglia del centro macrobiotico.
Argomenti:... Alba crebbe con l'idea che la normalità fosse un dono divino. Ne discusse con sua nonna.
- In quasi tutte le famiglie c'è qualche rimbambito o pazzo, figliola - assicurò Clara [...] - Talvolta non li si nota perché li nascondono come se fosse una vergogna. Li chiudono nelle stanze più isolate, affinché non li vedano quando ci sono visite. Ma in realtà non c'è di che vergognarsene, anche loro sono opera di Dio.
- Ma nella nostra famiglia non ce ne sono, nonna - replicò Alba.
- No. Qui la follia è divisa fra tutti e non ne è avanzata per avere il nostro matto da legare.
La casa degli spiriti, Isabel Allende
Argomenti: Autori: Opere:Di Daniela Barazzoni, Yuri Gidoni, Anna Maria Marinelli e Lorenzo Sartini
Il lavoro qui presentato è stato realizzato da uno dei gruppi di ricerca all’interno del Centro Studi e Ricerche “Josè Bleger” di Rimini; nasce dalla necessità di interrogarsi sui fattori che favoriscono o limitano le collaborazioni fra le istituzioni che, a vario titolo e con metodologie diverse, si attivano per promuovere e realizzare interventi di prevenzione in ambito socio-sanitario.
Se prendiamo le mosse dalla “Teoria degli ambiti” di Bleger tale studio si colloca nell’ambito istituzionale, seppure nel corso del processo di ricerca più volte ci siamo chiesti se la sua collocazione fosse corretta o se dovessimo rivalutarla per inserirla nell’ambito comunitario.
L’applicazione della metodologia della concezione operativa ha accompagnato costantemente il nostro lavoro, in una continua tensione dialettica tra il fare ed il pensare; ha attraversato in modo trasversale il compito, il setting, i ruoli ed il nostro gruppo interno ed esterno. La complessità di un oggetto di studio fortemente collegato alle tematiche della ideologia e dell’implicazione rispetto ai ruoli ci ha portato a creare un dispositivo che permettesse una sorta di dissociazione strumentale per leggere, comprendere come queste tematiche agissero anche all’interno del gruppo di ricerca. Lavorare intorno alla questione dell’implicazione, soprattutto, è risultato particolarmente ostico: il problema si è posto fin dall’inizio, ma solamente alla fine del percorso è stato possibile recuperarlo in tutta la sua pregnanza e rielaborarlo.
Un ultimo breve cenno, poi, va dedicato alla scelta di scrivere insieme, alla ricerca di una scrittura collettiva come ennesima sintesi di produzione gruppale, come ricombinazione di elaborati individuali, tante volte rimaneggiati dall’altro da non riconoscere più quale fosse il pezzo di ciascuno. Una pratica difficile ed entusiasmante allo stesso tempo.
Dal metodo alla ricerca Teorie di riferimentoIl laboratorio di ricerca ha utilizzato una metodologia basata fondamentalmente sul concetto di abduzione, sulla concezione operativa e sull’applicazione di un pensiero auto-riflessivo rispetto al processo del gruppo di lavoro che abbiamo chiamato ‘metaricerca’.
Nell’inferenza di tipo abduttivo si produce un’ipotesi per provare a dare una spiegazione di un fatto osservato: si parte da un evento, o fatto sorprendente e, considerando che potrebbe dipendere da una legge d’implicazione (del tipo se… allora) particolare, se ne fa derivare una possibile causa, ovvero l’assente possibile. La conclusione del ragionamento di tipo abduttivo è un’ipotesi, ossia una possibilità che deve essere sottoposta a verifica. L’ipotesi, nella concezione di Charles Sanders Peirce, da cui deriva tale pensiero, deve essere considerata come una domanda che, richiedendo una verifica, cerca una teoria. Tenendo presente che durante la ricerca sarà sempre possibile avere nuove intuizioni e formulare nuove ipotesi, rispetto all’oggetto della ricerca, che dovranno successivamente essere vagliate.
L’abduzione è dunque un azzardo poiché, pur fondandosi sulle premesse del ragionamento, non si configura come pura ripetizione del contenuto delle premesse medesime, come avviene negli altri due tipi di inferenza (deduzione e induzione), bensì come “ricomposizione di tale contenuto semantico” (M. A. Bonfantini e G. Proni, To guess or not to guess?, p. 152): anche con premesse valide la conclusione potrebbe risultare falsa. Questo rischio è il prezzo che viene pagato a fronte del forte potenziale creativo proprio dell’abduzione: questo tipo di argomentazione, in effetti, non si fonda sul ragionamento logico meccanico quanto sull’interpretazione del dato o ‘risultato’, che viene motivato facendo leva su un principio generale (o legge-mediazione). È l’elemento interpretativo che connota l’inferenza abduttiva come rischiosa, in quanto non è detto a priori che sia proprio la legge-mediazione che si ipotizza ad essere motivo dell’effetto sorprendente osservato.
Per quanto riguarda la concezione operativa di gruppo ci si è focalizzati soprattutto sui concetti degli teoria degli ambiti, di ECRO e di inquadramento.
Verso la metà degli anni sessanta José Bleger teorizza che qualsiasi forma di progetto e di intervento debba essere pensato considerando l’individuo nella sua costante relazione con i diversi ambiti nei quali è inserito: l’ambito individuale (da ritenersi astratto, in quanto non si può pensare una persona come completamente svincolata dal contesto); l’ambito gruppale (nelle relazioni con gli amici, con i familiari, con i colleghi); l’ambito istituzionale (nelle dinamiche familiari, lavorative); l’ambito comunitario (nel contesto paesano, cittadino, nazionale). Recentemente Leonardo Montecchi ne ha proposto un quinto, l’ambito globale (o sociale), che racchiude i precedenti ed è legato al fenomeno della globalizzazione, dello spostamento continuo, attraverso gli stati, le nazioni, di persone e di merci. Esiste una comunità globale che permea qualsiasi cosa, per cui diventano molto più fragili i legami, gli affetti tra le persone, mentre aumenta massicciamente l’invasività dei prodotti e delle merci.
ECRO è un acronimo che sta per Esquéma conceptual de riferimento y operativo (Schema Concettuale di Riferimento e Operativo) ed Enrique Pichon-Rivière, da cui deriva tale concetto, lo descrive così: “La didattica interdisciplinare si basa sulla preesistenza in ognuno di noi di uno schema di riferimento (insieme di esperienze, conoscenze e affetti con i quali l’individuo pensa e agisce) che acquista unità attraverso il lavoro in gruppo e che a sua volta produce in quel gruppo o comunità uno schema di riferimento operativo, sostenuto dal comune denominatore degli schemi precedenti” (1971).
Per inquadramento, sinteticamente, s’intende: “Questi elementi: spazio, tempo, ruolo, compito o compiti costituiscono la cornice che ci permette di ritagliare l’ingresso nella dimensione gruppale. Questa cornice delimita un campo in cui si producono degli eventi che appartengono al processo di gruppo” (Montecchi L., 2000).
Con il termine di meta-ricerca intendiamo il fatto che il gruppo abbia pensato di utilizzare se stesso, con le varie modulazioni affettive esperite durante gli incontri, come fonte di informazione per lavorare sul compito che si era dato. Così, probabilmente condizionato dall’ipotesi di lavoro (assenza di inquadramento inter-istituzionale), e nel tentativo di osservare con maggior efficacia il processo gruppale, il gruppo di ricerca ha deciso di dotarsi di un proprio inquadramento.
Si è individuata la figura di un coordinatore (con la funzione, oltre a quella di partecipare in prima persona alle riflessioni del gruppo, di riportare il gruppo al proprio compito nelle situazioni più confuse), si è identificato l’ osservatore (con il compito di verbalizzare gli incontri) e si sono definiti il tempo (una riunione di tre ore una volta al mese) e lo spazio (nello studio della psicologa del Dipartimento Dipendenze all’interno del servizio) degli incontri.
La necessità di tenere un verbale derivava dal fatto che si era sviluppata nei ricercatori la convinzione che, così come avviene nelle istituzioni, mentre si sta lavorando sul contenuto della ricerca si innescano meccanismi e dinamiche all’interno del gruppo che in qualche modo riflettono l’oggetto di studio; il verbale sembrava costituire lo strumento o dispositivo che poteva permettere un controllo e lo studio di questi aspetti. A questo proposito citiamo R. Hess: “Il ricercatore istituzionalista […] fa parte del suo oggetto. Senza questa consapevolezza il produttore di conoscenza è soprattutto un produttore di “atti mancati” (Lourau R.,1994). Come analizzare il modo in cui il ricercatore “è preso nel suo oggetto”? René Lourau segnala l’interesse (e l’importanza) di tenere un diario della ricerca [...].(Corso di analisi istituzionale, pag. 75).
Abbiamo ritenuto necessario dotarci di un inquadramento poiché ciò avrebbe facilitato l’analisi dei movimenti e delle dinamiche espresse dal gruppo medesimo, permettendoci di confrontarci con gli stimoli che conseguentemente ne derivavano.
L’evento sorprendenteNel 2008/09 il Dipartimento Dipendenze Patologiche (ex Ser.T) dell’ASUR Zona 4 di Senigallia, avendo la possibilità di ricevere dei finanziamenti ministeriali con la finalità di strutturare un progetto di prevenzione, decide di coinvolgere alcune realtà istituzionali del territorio che aggregano i ragazzi della città di Senigallia:
- il Centro di Aggregazione giovanile “Bubamara”, co-gestito, promosso dal Comune di Senigallia e istituito nel 2003 con finanziamenti provenienti dal Fondo nazionale lotta alla droga. Il Dipartimento Dipendenze è risultato coinvolto nel progetto poiché i finanziamenti venivano erogati per un 30 % “sulla base dell’utenza tossicodipendente in carico ai Ser.T ricadenti in ciascuna provincia” (dall’“Atto di definizione dei criteri e delle modalità gestionali della quota del fondo assegnata alla regione – esercizio finanziario 2000”).
- il Centro sociale autogestito “Mezzacanaja”.
Nel corso di due incontri separati, uno con i ragazzi frequentatori del centro di aggregazione e uno con quelli del centro sociale autogestito, gli operatori del Dipartimento Dipendenze prospettano loro la possibilità di collaborare, avendo appunto dei fondi disponibili, per organizzare un progetto di prevenzione: non c’è niente di prestabilito ed il tutto è da strutturare.
La proposta avanzata dal Dipartimento Dipendenze riceve una risposta negativa dal “Bubamara”, emanazione di istituzioni pubbliche sorto con l’obiettivo di fare prevenzione; la stessa proposta è, al contrario, accolta positivamente dal “Mezzacanaja”, centro sociale autogestito, che si pone invece come antagonista alle istituzioni formalmente riconosciute.
L’evento sorprendente è costituito dal fatto che i ragazzi del centro di aggregazione “rifiutano la proposta e non si riesce a strutturare una collaborazione”: questa eventualità era considerata molto poco probabile, ed anzi si pensava che la collaborazione fosse quasi scontata, anche in ragione di alcune considerazioni:
il centro di aggregazione è stato istituito con una collaborazione tra Comune di Senigallia e Dipartimento Dipendenze;
il Dipartimento Dipendenze è un servizio organizzato secondo lo schema di riferimento della concezione operativa di gruppo;
l’apertura del centro di aggregazione era stata anticipata da un percorso di formazione, appoggiato dal Dipartimento Dipendenze, accettato ed organizzato dal Comune di Senigallia con il coinvolgimento della Scuola “José Bleger”. In esso si era utilizzato il metodo della concezione operativa di gruppo con il compito di formare i possibili frequentatori del centro di aggregazione alla ‘co-gestione’;
un operatore del centro di aggregazione era conosciuto dagli operatori del Dipartimento Dipendenze per precedenti collaborazioni e si era formato alla Scuola di prevenzione “José Bleger”. Tra l’altro, sua era stata l’idea di proporre il progetto di formazione sulla ‘co-gestione’ di cui sopra.
Dopo aver valutato alcune ipotesi legate all’ambito istituzionale, la ricerca si è sviluppata attorno ad un’ipotesi che, sebbene abbia accompagnato il gruppo di ricerca fino alla fine del proprio percorso, non si è mai mancato di mettere in discussione allorquando sorgevano dubbi e perplessità sulla plausibilità dell’ipotesi medesima.
L’ipotesi sulla quale si è imperniato il lavoro di ricerca è: se manca un inquadramento, una cornice a livello inter-istituzionale, le istituzioni coinvolte si muovono in maniera frammentata, non coesa, contribuendo a determinare un’organizzazione inadeguata nell’istituzione che deve nascere. O, più sinteticamente: se manca l’inquadramento non è possibile una collaborazione tra le istituzioni e non si riesce a strutturare un’ECRO comune.
Il processo della ricercaPer verificare l’ipotesi, il gruppo di ricerca ha ritenuto di esplorare due direttrici:
- la prima incentrata sulla lettura della documentazione disponibile attinente alla costituzione del centro di aggregazione;
- la seconda basata su alcune interviste a persone che, a titolo diverso, erano state direttamente coinvolte nella vicenda (il funzionario del Comune, la responsabile del Dipartimento Dipendenze, l’operatore del centro di aggregazione e due frequentatori ‘della prima ora’ del medesimo centro).
Se fossimo stati in una detective story potremmo dire che prima abbiamo cercato le impronte e poi interrogato i testimoni.
La documentazione: atti mancanti, atto mancato?La ricerca della documentazione relativa al progetto di istituzione del “Bubamara” ci ha messi subito di fronte ad un’evidenza: all’interno del Dipartimento Dipendenze non si è riusciti a trovare alcun documento inerente al progetto o che possa testimoniare di ciò che si era concordato con il Comune. Anche i ricordi sullo svolgimento dei fatti da parte degli operatori dello stesso servizio risultavano piuttosto confusi, testimoniando dunque della poca chiarezza presente in seno all’organizzazione nell’affrontare il progetto.
Il funzionario del Comune, che ha promosso e redatto il progetto seguendone tutto il percorso di costituzione, aveva tutta la documentazione e pareva ricordare con precisione il susseguirsi degli eventi.
Leggendo i documenti reperiti si evidenzia un accenno ad un presunto ‘coordinamento’ che dovrebbe avvenire tra gli enti coinvolti ma senza definire niente di più (incontri, compiti, ruoli…). Sembra emergere, tra l’altro, una certa marginalità del Dipartimento Dipendenze nell’organizzazione del centro di aggregazione.
Le intervisteL’idea della mancanza dell’inquadramento tra le istituzioni coinvolte come ipotesi per cercare di spiegare l’assenza di continuità e di legame tra Comune e Dipartimento Dipendenze appare confermata dalle informazioni raccolte per mezzo delle interviste.
Il funzionario del Comune coinvolto nel progetto del “Bubamara” riferisce che non si è mai discussa una divisione dei compiti tra le varie istituzioni coinvolte nel progetto poiché il centro di aggregazione era fondamentalmente legato al Comune.
L’idea che il Bubamara fosse legato esclusivamente al Comune non è condivisa dagli operatori del Dipartimento Dipendenze; questi ultimi, peraltro, ritengono di non essere stati dovutamente considerati per ciò che attiene gli aspetti organizzativi del centro di aggregazione, anche in relazione all’importante ruolo del Dipartimento Dipendenze per l’acquisizione del finanziamenti specifici. Sembra palesarsi l’assenza di uno spazio all’interno del quale elaborare eventuali conflitti e ricercare una sintesi progettuale.
Le stesse impressioni appaiono confermate dalle successive interviste ad altre figure coinvolte nel processo istituente.
L’operatore del “Bubamara”, che avrebbe dovuto costituire il trait d’union tra Dipartimento Dipendenze e centro di aggregazione, parla di una generale assenza del Dipartimento Dipendenze nella gestione del centro dopo la sua istituzione. Per quanto riguarda la mancata accettazione della proposta di costruire insieme un progetto di prevenzione, l’intervistato riferisce che “non c’era interesse all’argomento da parte dei frequentatori”. L’operatore evidenzia anche la distanza che si è creata nel tempo tra lui, allora dipendente del Comune con contratto di collaborazione, ed il Dipartimento Dipendenze con il quale aveva avuto modo di collaborare in passato.
I due frequentatori del centro di aggregazione intervistati fanno fatica a ricordare l’incontro con gli operatori del Dipartimento Dipendenze.
L’assenza del ricordo espressa dai ragazzi frequentatori e la distanza percepita dall’operatore del centro di aggregazione potrebbero rappresentare gli emergenti della mancanza di un ECRO comune tra “Bubamara” e Dipartimento Dipendenze, in quanto l’ECRO si costruisce sulla base di riconoscimenti e vincoli reciproci.
Inoltre, all’inizio, sembrava ci fosse stata una co-progettazione pressoché ‘alla pari’ tra Comune di Senigallia e Dipartimento Dipendenze (tale è la posizione espressa dagli operatori del servizio); di fatto nel tempo l’influenza del servizio per le tossicodipendenze, sia nella progettazione e sia nell’organizzazione istitutiva del centro, appare più marginale rispetto a quella del Comune.
Sia il funzionario del Comune e sia gli operatori del Dipartimento Dipendenze hanno evidenziato conflitti e problematicità, presenti già da prima dell’inizio del progetto, nel rapporto tra le due istituzioni.
Il corso di formazione alla co-gestioneL’unico punto di incontro tra i due enti sembra essere stato il corso di formazione sul modello organizzativo della ‘co-gestione’ organizzato subito prima dell’apertura del “Bubamara”.
Gli operatori del Dipartimento Dipendenze tenevano molto a che il corso di formazione del centro di aggregazione si dovesse organizzare con la metodologia della concezione operativa di gruppo, in quanto a tale metodo si riferisce l’intero servizio per gli aspetti formativi, gestionali e clinici.
Il corso di formazione sembrerebbe essere stato strumentalizzato sia dal Dipartimento Dipendenze sia dal Comune, divenendo il deposito di conflitti non elaborati tra le due istituzioni. Ciascuna istituzione, partendo dalle proprie implicazioni, poteva vedere in questo dispositivo l’opportunità per raggiungere i propri fini. Da un lato il Dipartimento riteneva di importare sul territorio il proprio ECRO, legato alla concezione operativa di gruppo; dall’altro, il Comune, accogliendo la proposta del dispositivo, ricompensava il Dipartimento dell’appoggio avuto per ottenere i finanziamenti ministeriali, consapevole del fatto che la gestione (o co-gestione) del centro di aggregazione sarebbe rimasta pienamente di sua competenza.
Il corso di formazione sembrerebbe essere diventato, paradossalmente, il luogo deputato alla non elaborazione di conflitti che, da diversi anni, tenevano a distanza le due istituzioni. È diventato il “depositario” di ciò che era rimosso dai due “depositanti” (Dipartimento Dipendenze e Comune) mentre le ansie, i conflitti inter-istituzionali sono stati “depositati” nel corso. Il corso di formazione parrebbe, quindi, aver perpetuato il non incontro tra le due istituzioni coinvolte.
Un incontro sfiorato, che non si concretizza, che non pare creare vincoli.
Verifica della ipotesi e riflessioni Tra implicazioni, ECRO ed ideologie si affaccia una nuova ipotesiIn seguito ad un periodo di impasse piuttosto lungo, durante il quale non si è redatto il verbale, il gruppo ha ritenuto di poter fare a meno della funzione di coordinazione. Questa funzione era stata ricoperta dalla la psicologa che, al tempo stesso, era: portavoce della proposta di collaborazione al centro di aggregazione; integrante e coordinatrice del gruppo di ricerca che si incontrava nel suo studio.
È stato in seguito a questo riassetto gruppale che pare sia stato possibile esprimere emozioni (stanchezza, frustrazione, rabbia..) collegabili alla situazione di stallo nella quale ci si trovava e che presumibilmente già da tempo circolavano tra i membri, anche se in maniera latente. Questo outing pare aver prodotto una mutazione nelle modalità di rapporto con l’oggetto della ricerca che il gruppo aveva avuto sino ad allora e, probabilmente, l’aver ripreso a fare il verbale degli incontri può essere considerato un segno indicativo del fatto che qualcosa fosse accaduto.
È divenuto possibile mettere se stessi in discussione e aprirsi ad una domanda che ha sorpreso lo stesso gruppo per la sua banalità: per quale motivo gli operatori del Dipartimento Dipendenze si aspettavano che la loro proposta dovesse essere accolta? Per quale motivo il ‘no’ espresso dai frequentatori del “Bubamara” aveva creato così tanta sorpresa nel Dipartimento Dipendenze?
Nel corso del lavoro di gruppo è scaturita, quindi, una nuova domanda che sembra mettere in discussione l’ipotesi iniziale: perché la presenza di un inquadramento nella fase istitutiva del “Bubamara” (2003) doveva comportare la sicura adesione dei frequentatori del centro alla proposta fatta dal Dipartimento Dipendenze nel 2008? E inoltre perché si pensa che da un ECRO comune debba necessariamente conseguire una risposta positiva rispetto alla proposta di collaborazione? E ancora: era viziata da dogmatismo l’ipotesi iniziale per cui si ha collaborazione solo se c’è un inquadramento?
Sembra quasi che ci si riferisca ad un mito per cui l’appartenenza ad un’istituzione, o comunque la condivisione del proprio percorso di vita (formazione, amicalità, ideologia), possa autorizzare a pensare che ci debba essere, nell’altro, una disponibilità a progettare insieme, a dire ‘si’. Pare piuttosto una situazione di fusività ed indiscriminazione.
Si riflette sulle difficoltà incontrate dal gruppo e dalle istituzioni coinvolte a mettere in discussione i propri schemi di riferimento. Si pensa al pericolo insito nell’utilizzo di determinati concetti quali l’ECRO, preso come riferimento per spiegare il proprio agire, ma troppo spesso assunto, anche inconsapevolmente, in maniera ideologica, dogmatica, come nascondimento per non mettersi in discussione nel confronto/scontro con l’altro.
Il lavoro di ricerca mette in luce due elementi strutturali e concettuali di criticità: l’implicazione e l’ECRO.
L’implicazioneAttraverso l’analisi della documentazione e l’elaborazione delle interviste effettuate ai vari soggetti istituzionali, ci si è resi conto, sempre in modo più marcato, che si profilava un problema di implicazione. Mancava la distanza ottimale per potere leggere i fenomeni e gli accadimenti oggetto di studio a causa dei coinvolgimenti pregressi o attuali dei ricercatori, in quanto soggetti fortemente implicati, seppure a vario titolo e con modalità diverse, nel processo oggetto di studio.
Il gruppo di lavoro ha cominciato a chiedersi se l’intero processo di ricerca potesse essere inquinato dalle implicazioni esistenti. Il singolo accadimento o intervista veniva interpretato, infatti, in base al vincolo che il ricercatore aveva, o aveva avuto in passato, con le istituzioni oggetto di studio.
Si è delineata in modo chiaro la difficoltà e la complessità insita nel concetto di implicazione: risorsa o elemento di intrusività disturbante, addirittura bloccante?
Sappiamo che ci si può riferire all’implicazione nella sua accezione negativa allorché evoca riferimenti di invischiamento e irretimento ma, d’altro canto, per la concezione operativa, l’implicazione ha anche un’accezione ed un valore positivo. Nella concezione operativa di gruppo il concetto di implicazione rimanda all’esserci, allo stare dentro, accettando il fatto di appartenere all’istituzione. Se si parte dal presupposto che l’istituzione è dentro di noi siamo dunque consapevoli dell’impossibilità di raggiungere una posizione di assoluta neutralità. Se noi siamo la rete dei nostri vincoli l’implicazione potrebbe assumere un ruolo conoscitivo e di intelligibilità nella consapevolezza, tuttavia, che tutto ciò che ci determina non è conoscibile.
Prendere consapevolezza della potenza delle implicazioni nel determinare pensieri, rappresentazioni e agiti all’interno del laboratorio di ricerca, ci ha portato a riflettere sull’importanza dell’analisi delle implicazioni come elemento imprescindibile allorché le istituzioni promuovono una progettualità comune.
Per esemplificare ciò che si intende con il termine ‘implicazione’ è significativo riprendere un’affermazione di uno degli attori coinvolti nel progetto: “il fatto di essere una dipendente del Dipartimento Dipendenze e che avevo depositato dentro di me l’appartenenza mi faceva dire che era impossibile collaborare con il comune”. Da una parte, in ciò che si era dichiarato, ci si proponeva di collaborare con il Comune e dall’altra, nel latente, si riteneva trattarsi di una collaborazione impossibile. Quando parliamo di ‘implicazione’ parliamo di questa complessità.
Ma allora come può essere possibile gestire e controllare tutto l’insieme di investimenti libidici, anche inconsci, che si strutturano tra le istituzioni coinvolte in un progetto comune? Che cosa mette in gioco un progetto inter-istituzionale a questo livello? E ancora: chi e come ci si può fare carico del vincolo esistente tra le istituzioni, ossia del vincolo inter-istituzionale?
Queste domande ci rimandano, in termini psicodinamici, ai concetti di transfert e controtransfert istituzionale.
Come possiamo leggere i concetti di transfert e controtransfert all’interno del rapporto fra le istituzioni coinvolte e che tipo di struttura relazionale si origina in tale dinamica inter-transferale?
Come può essere gestita questa dinamica tra i vari soggetti implicati e che tipo di conseguenze ne derivano nel lavoro inter-istituzionale finalizzato alla elaborazione e realizzazione di progetti? Può una mancata attenzione ed elaborazione alla dimensione controtransferale costituire una condizione di impedimento e di ostacolo?
Se così fosse se ne potrebbe dedurre, a maggior ragione, che diventa fondamentale strutturare un dispositivo finalizzato anche alla gestione ed all’elaborazione di queste dimensioni.
Potremmo pensare che la disattenzione o il poco interesse posto alla dimensione controtransferale inneschi meccanismi non gestibili o addirittura inconsapevoli, latenti, i quali costituiscono elementi di distruttività e di sabotaggio rispetto alle dichiarazioni e alle intenzioni razionali esplicite.
Il dispositivo che, in termini operativi, potrebbe costituire l’argine e lo strumento di elaborazione di tali dinamiche è l’inquadramento con la definizione dei diversi elementi che lo strutturano: ruolo, compito, tempo e spazio.
Allora se dovessimo rifarci allo schema di ricerca proprio del metodo abduttivo di Peirce, la regola che definirebbe l’ipotesi di lavoro potrebbe essere così formulata: “L’inquadramento istituzionale permette di gestire le istanze transferali e controtransferali inter-istituzionali”.
Osvaldo Saidon scrive: “No podremos investigar el quehacer institucional si no es en sus relaciones con otras instituciones”: dunque è nel rapporto e nel confronto di una istituzione con un’altra che possiamo indagare il lavoro, il compito istituzionale. È nel confronto all’interno del rapporto tra le diverse istituzioni che ci si può interrogare sui movimenti delle singole organizzazioni.
ECRO ed ideologie istituzionaliLa questione dell’implicazione richiama il concetto di ECRO, della sua funzione e della sua declinazione operativa.
Nelle aspettative del Dipartimento Dipendenze il centro di aggregazione avrebbe dovuto avere il suo stesso ECRO. Gli operatori del Dipartimento Dipendenze avevano più volte sottolineato, in fase istituente del “Bubamara”, l’importanza che esso aderisse allo schema di riferimento della concezione operativa. A suffragio di ciò aveva accolto il corso di formazione iniziale rivolto ai futuri frequentatori e confidava anche nella presenza di un operatore della struttura formato allo stesso modello. Ma le aspettative degli operatori del Dipartimento Dipendenze sono state deluse in relazione all’evento da noi definito sorprendente, in quanto il rifiuto è stato interpretato come assenza di un comune schema di riferimento: se si ha la stesso ECRO come può avvenire il rifiuto rispetto ad una proposta di elaborazione comune di un progetto di prevenzione? Ciò significa che non è presente la stessa ECRO?
Quando Pichon-Rivière parla di epistemologia convergente intende indicare la possibilità di una conoscenza dell’oggetto facendo riferimento all’incontro di punti di vista differenti. Nell’acronimo ECRO il primo termine, ésquema, ovvero schema, deriva dal latino e significa forma. In latino il vocabolo forma, di origine incerta, indicava lo stampo della cera, di metalli vari e soprattutto del formaggio, in latino formaticus, da cui deriva appunto il termine forma.
Il concetto di forma è, dunque, da pensarsi come un contenitore vuoto, cui si contrappone ciò che deve essere contenuto, la materia. È il contenuto che da sostanza alla forma. Il contenuto è il riferimento, ciò di cui concretamente ci si occupa.
È, allora, con l’operatività, con l’esperienza che quel contenitore vuoto, l’ésquema, la forma, si riempie e si attiva. Operativo è l’ultimo riferimento della parola ECRO e sta ad indicare la necessità di operare nella realtà per poter produrre un cambiamento ed adattarvisi in maniera attiva. Nel modello della concezione operativa di gruppo il criterio di operatività è come se sostituisse quello di verità: non si dà una verità coincidente con se stessa, assoluta ed immodificabile, una verità che si possiede e che risulterebbe allora dogmatica.
La verità la si costruisce, continuamente, nel vincolo con il compito.
Dunque quando si parla di ECRO si fa riferimento ad una tensione vincolare costante che, almeno dal punto di vista concettuale, dovrebbe impedire l’arroccamento dello schema di riferimento in certezze precostituite e far sì che esso sia sempre in movimento, in costruzione permanente, continuamente arricchito dagli apporti dei diversi punti di vista potenzialmente in gioco. In altre parole, l’ECRO è indissolubilmente collegato ad un processo dialettico di scambio continuo e di reciproca influenza tra la forma ed il contenuto, tra la teoria e l’esperienza, tra il soggetto ed il compito. Un processo che, attraverso l’alternanza di momenti di critica ed autocritica, permette la ratificazione o la rettificazione delle ipotesi prodotte mediante il confronto con la realtà, mirando a raggiungere un grado sempre maggiore di obiettività.
Il concetto di ECRO è molto articolato e di difficile definizione e per riflettere sulla sua complessità torna utile rifarsi ad un’affermazione presente nel lungo e complesso articolo di J. C. De Brasi: “[…] penso che non si dovrebbe avere un’ECRO. Ogni domanda che tenta di dare conto delle sue proprietà la cristallizza. Operare in uno dei suoi possibili percorsi, provare la sua validità, etc, è differente, in quanto questo parla del compito incrostato nel piacere del pensare, e di esercitarlo per trasformare e trasformarci effettivamente” (1992, pag 74).
È altresì difficile definire l’ECRO soggettivo (o istituzionale) perché come si tenta di definirlo si va incontro alla sua cristallizzazione, ossia alla sua istituzionalizzazione. Una volta che si istituzionalizza, e dunque perdendo il suo carattere dialettico, inevitabilmente lo schema di riferimento diventa dogma, un principio considerato assoluto e indiscutibile. L’identificazione con l’ECRO, ovvero con il dogma, a questo punto significa identificazione con la verità. E se lo schema di riferimento si fa dogma, il confronto con l’altro diviene impossibile poiché si considera lecito, pregiudizialmente, ciò che viene ritenuto appartenere al proprio ECRO, la verità, e non ci si lascia scalfire da ciò che viene visto come estraneo, come diverso ed irriducibile a sé. L’ECRO diviene totalitaristico. L’identificazione idealistica con il proprio ECRO rappresenta la perdita di contatto con la realtà dell’altro, come soggetto implicato nella relazione.
È la vita quotidiana, l’esperienza che determina lo schema di riferimento, e dunque l’ideologia, che guida le modalità di relazione del soggetto con il mondo esterno. È possibile riprendere Bauleo che dice: “L’ECRO rappresenta l’ideologia che permette di agire e di analizzare in un determinato campo. Pertanto tale schema si può dedurre direttamente dai differenti tipi di comportamento in gioco nel gruppo […]. Un gruppo affronta il compito con gli strumenti in suo possesso, cioè con una serie di comportamenti abituali” (pag. 37). Ciascun soggetto è implicato con il proprio ECRO, che non ha solamente una matrice teorica ma è definito anche, e forse in misura maggiore, dall’esperienza vissuta e dalle conseguenze cognitive ed affettive che ne derivano in termini di costruzione di significati.
Il dispositivo dell’inquadramentoLa risposta inaspettata che il Dipartimento Dipendenze faceva fatica ad accettare rimanda all’incapacità di accogliere il rifiuto, il limite, il ‘no’ dei frequentatori del ‘Bubamara’. Ma anche il ‘no’ è segno di relazione poiché si assume, dal luogo del ‘no’, una posizione chiara e responsabile, posizione che può costituire un nuovo punto di partenza dal quale poter proseguire nella edificazione delle basi di un nuovo confronto
Nella definizione del vincolo con l’altro, convocati dal compito di avviare un centro di aggregazione giovanile, sembrano emergere elementi di ambiguità tra il Dipartimento Dipendenze ed il Comune. Nessuna delle due parti ha detto ‘sì’ e nessuna delle due parti ha detto ‘no’, ma si è andati avanti nel progetto di collaborazione per la strutturazione del centro ciascuna al riparo dietro la propria ideologia e agiti dalle proprie implicazioni.
A questo proposito Bleger scrive: “Dobbiamo far sì che l’ideologia diventi uno strumento in mano all’uomo e non che quest’ultimo si trasformi in uno strumento dell’ideologia. […] Nel gruppo operativo cerchiamo costantemente di ottenere che ognuno utilizzi il proprio o i propri schemi di riferimento, così come le proprie ideologie. Il resto va da sé.” (pag. 174).
Nel caso specifico il Dipartimento Dipendenze ed il Comune, al contrario, sembrano aver decisamente evitato un confronto che mettesse in gioco le rispettive dichiarate ideologie. Un confronto che sarebbe stato, con tutta probabilità, proprio in ragione delle differenti ECRO, assolutamente conflittuale e faticoso da sviluppare. Ambedue manifestano, riprendendo il concetto blegeriano, un basso ‘grado di dinamica’, non chiarendo le ambiguità presenti in rapporto al compito, né rendendo espliciti ed affrontabili i conflitti.
Per evitare situazioni di ambiguità tra le istituzioni è necessario predisporre il dispositivo dell’inquadramento inter-istituzionale con un compito specifico. L’inquadramento a questo livello permetterebbe di definire in maniera chiara i ruoli di ciascuno nel progetto che si vuole attuare, le differenti responsabilità, i passi da compiere per raggiungere gli obiettivi, ecc., consentendo una maggior consapevolezza delle ansie e delle tensioni che sempre emergono quando si compie un lavoro in comune. Solo in questo modo si può cercare di evitare il malinteso che ha determinato tutta una serie di incomprensioni e di sorprese nel Dipartimento Dipendenze.
Trasversalità di una riflessioneFelix Guattarì propone la differenziazione tra ‘gruppo in sé’, ossia un gruppo che esegue quasi meccanicamente ciò che gli si dice di fare, e ‘gruppo per sé’, ovvero un gruppo che mentre agisce prova a riflettere su di sé, sui meccanismi che operano al proprio interno, sulla sua organizzazione e sulle relazioni che prendono forma.
Il gruppo di ricerca ha continuamente provato a riflettere, mentre lavorava sul compito, su ciò che stava accadendo al proprio interno anche in rapporto al contesto istituzionale nel quale è inserito: è ciò che inizialmente abbiamo definito ‘metaricerca’.
Va ricordato che la ricerca è nata all’interno di un contesto specifico: il Centro Studi e Ricerche “José Bleger”. Questa istituzione sta attraversando una fase istituente per riorganizzare il corso formativo biennale già attivo da circa venti anni e per poter essere riconosciuta come scuola di specializzazione in psicoterapia dal MIUR. È all’interno di questa riorganizzazione che il Centro Studi e Ricerche ha pensato di doversi dotare di gruppi di ricercatori per continuare a riflettere sui concetti cardine della Concezione operativa di gruppo. Il gruppo di ricerca sull’ambito istituzionale è solamente uno dei gruppi esistenti all’interno dell’istituzione, essendovi anche il gruppo dei docenti, i diversi gruppi di ricerca dedicati agli altri ambiti di intervento e i gruppi di allievi.
Giunti al termine della ricerca che aveva come oggetto le modalità di relazione fra istituzioni con il compito di creare una istituzione “figlia”, emerge una riflessione di grande interesse; una riflessione che, in verità, ha accompagnato il lavoro del gruppo sin dall’inizio.
Lo specifico della ricerca ha permesso di riflettere sul rapporto esistente tra il neo-istituito gruppo di ricerca, che ha provato ad istituirsi dandosi un inquadramento (cfr. “Psicoanalisi dell’inquadramento psicoanalitico” di Bleger), e l’istituzione che lo contiene, ossia il Centro Studi e Ricerche “José Bleger”.
Abbiamo visto lo stupore e lo scontento del Dipartimento Dipendenze ma solo dopo un lavoro di riflessione durato tre anni il gruppo di ricerca è potuto arrivare a concepire la legittimità di quel rifiuto. Quel ‘no’ sanciva la differenziazione, perlomeno, tra una delle due istituzioni genitoriali, il Dipartimento Dipendenze, e l’istituzione figlia, il “Bubamara”: il rifiuto, forse vissuto da parte dei frequentatori del Centro di aggregazione come movimento vitale di potenziale individuazione, è stato recepito dall’istituzione del servizio sanitario pubblico con ansia e paranoia, sentendo messa in discussione la propria funzione.
Il rapporto tra istituzione genitoriale ed istituzione figlia sembra riproporsi all’interno del Centro Studi e ricerche “Josè Bleger”. Crediamo si possa affermare che il gruppo di ricerca, dovendo svolgere un determinato compito, si sia istituito e, in diverse fasi del proprio percorso, pareva costituire un riferimento stabile rispetto all’instabilità percepita nell’istituzione di appartenenza in fase istituente. È pure da rimarcare che il gruppo di ricerca dell’ambito istituzionale si è sentito più volte messo in discussione ed attaccato dagli altri gruppi presenti all’interno dell’istituzione genitoriale proprio per il fatto di essersi dotato di un inquadramento ed aver provato ad istituirsi per portare avanti il proprio compito. È corretto riportare anche che, a fianco di questa corrente più critica, se ne è avvertita un’altra, contraria, tesa a sostenere la direzione del lavoro che il gruppo di ricerca aveva scelto.
L’idea è che l’istituzione del gruppo di ricerca abbia contribuito a creare uno spostamento di equilibri, già precari in virtù della fase istituente cui si accennava più sopra, nel Centro Studi e Ricerche. Horacio Foladori, parlando della “teoria de la fisura” (teoria della fessura) scrive: “Diría que es lo instituido que instituye la fisura, aunque paradójicamente se resiste a reconocer su existencia en tanto la naturaleza de la misma proviene de lo instituyente” (Foladori, 2008, pag. 37)
Come se l’istituirsi fosse in stretto contatto con il differenziarsi. Ci si istituisce e, conseguentemente, ci si distacca. Se l’istituzione, permettendo il deposito delle parti psicotiche della propria personalità in un “tempo/spazio comune” è rassicurante, il vincolo che si crea con gli altri partecipanti alla nuova istituzione pare permettere, o perlomeno facilitare, anche l’assunzione di responsabilità. L’unione e la condivisione permesse dallo stringersi dei vincoli sembrano consentire la facilitazione dell’espressione delle proprie istanze e, dunque, l’assunzione di una propria originale posizione. A questo proposito riprendiamo ancora Foladori che sostiene: “Recuperar la palabra es romper la represión psíquica, superar la apatía, ponerse en movimiento, porque hablar es moverse” (2008, pag. 88). Ma un movimento rispetto a chi o che cosa? Ci si muove avendo come riferimento l’istituzione all’interno della quale si trova uno spazio di senso. In termini operativi il gruppo istituito permette la creazione di un nuovo schema di riferimento, un nuovo ECRO potenzialmente non riducibile a quello dell’istituzione di appartenenza.
Al di là dei concetti teorici cui ciascuna istituzione suole riferirsi le domande che riteniamo siano emerse da questo lavoro sono: come si pone l’istituzione di appartenenza, o genitoriale, rispetto alla nascita di una nuova realtà con proprie idee, proprie esperienze e propri valori, in definitiva con una propria storia non riducibile a quella dell’istituzione di origine? E ancora: che ansie scatena nell’istituzione iniziale e come si attrezza per affrontarle?
NoteCon la definizione di ‘centro di aggregazione co-gestito’ si intende una gestione dello spazio di incontro organizzata in collaborazione tra i frequentatori dello spazio aggregativo e l’ente, pubblico o privato, che ne finanzia la sussistenza.
Con la formula di ‘centro sociale autogestito’ si intende, invece, uno “spazio di aggregazione e di proposta di attività culturali e politiche, che viene gestito in maniera comunitaria e collettiva, permettendo a chi partecipa alle iniziative di esserne al tempo stesso promotore ed organizzatore” (definizione tratta da wikipedia), dove è cardine il concetto di autonomia decisionale, “cioè il rifiuto di qualsiasi intervento di una volontà esterna nella definizione del processo decisionale” (N. Bobbio e altri “Dizionario di politica”).
Ci ha fornito la seguente documentazione: il Progetto per l’accesso alla quota regionale del Fondo Nazionale Lotta alla Droga anno 2000; l’Atto di definizione dei criteri e delle modalita’ gestionali della quota del fondo assegnata alla regione; il Protocollo d’intenti tra il Comune di Senigallia (Servizio servizi educativi, culturali, sociali, sportivi e manifestazioni), Azienda ASUR n° 4 – Servizio Tossicodipendenze e l’Osservatorio di area sulla dispersione scolastica; i Criteri funzionamento centro di aggregazione giovanile.
Ci si riferisce alla Teoria del deposito di Pichon-Rivière per la quale all’interno dei gruppi, di fronte a situazioni di difficoltà e crisi, avviene un movimento di questo tipo: un soggetto, il depositante, proietta materiale non accettabile, il deposito (costituito da ansie, problemi, tensioni, ecc..), su un altro soggetto, il depositario, che funge quindi da capro espiatorio.
Come a confermare questo assunto, ovvero l’opportunità di non considerare il ‘no’ come cesura nella costruzione di una relazione bensì come possibile base di partenza per una relazione, e dunque una progettazione congiunta futura, è interessante mettere in evidenza come nel 2012, 4 anni dopo la proposta di collaborazione fatta dagli operatori del DDP e rifiutata dai frequentatori del CAG “Bubamara”, un esponente del centro di aggregazione abbia contattato il DDP per chiedere la possibilità di organizzare presso il centro un percorso di prevenzione alle sostanze stupefacenti.
Il problema, a questo punto, riguarda il rapporto con l’altra istituzione genitoriale, il Comune: si è avuta l’opportunità di differenziarsi rispetto ad essa oppure da quella si continua a dipendere? Il Centro di aggregazione “Bubamara” riesce a vedersi come differenziato rispetto al Comune che lo finanzia e che decide, in ultima istanza, le attività che si possono proporre o che sono da rifiutare?
“Direi che è l’istituito che istituisce la fessura, anche se paradossalmente si rifiuta di riconoscere la sua esistenza in quanto la natura di esso proviene dall’istituente”
“Recuperare la parola è rompere la repressione psichica, superare la apatia, porsi in movimento, perché parlare è muoversi”.
BibliografiaBauleo A., Ideologia, gruppo e famiglia, Feltrinelli, Milano, 1978
Bauleo A., Psicoanalisi e gruppalità, Borla, Roma, 2000
Bleger J., Psicoigiene e psicologia istituzionale, Libreria Editrice Lauretana, Loreto, 1989
Bleger J., Simbiosi e ambiguità – Studio psicoanalitico, Armando Editore, Roma 2010
Bobbio N, Matteucci N, Pasquino G., Dizionario di politica (Vol.1), Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma, 2006
Bonfantini M. A. e Proni G., To guess or not to guess?, in Eco U., Sebeok T.A. (a cura di), Il segno dei tre. Holmes, Dupin, Peirce, Bompiani, Milano, 2004
Boscolo L., “L’istituzione: la rottura dello stereotipo in un contesto istituzionale pubblico”
De Brasi J.C., Elucidazioni intorno all’ecro. Un’analisi a partire dalla clinica allargata, in De Brasi M. (a cura di), Psichiatria sociale e psicoigiene, Pitagora editrice, Bologna, 1992
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Foladori H., La intervencion istitucional, Editorial Arcis, 2008
Gallino L., Dizionario di sociologia (Vol. 1), Gruppo Editoriale L’Espresso, Roma, 2006
Gladys A., “Epistemologìa del ECRO de Pichon-Rivière”
Inon C., “Esquema conceptual, referencial y operativo”
Hess R., Weigand G., Corso di analisi istituzionale, Sensibili alle foglie, Tivoli, 2008
Montecchi L. (a cura di), Implicazione, Sensibili alle foglie, Tivoli, 2012
Montecchi L., Introduzione alla Concezione operativa di gruppo, www.psychomedia.it, 2000
Peirce C.S., Scritti scelti, Utet, Torino, 2005
Pichon–Riviere E., Il processo gruppale. Dalla psicoanalisi alla psicologia sociale, Libreria Editrice Lauretana, Loreto, 1985
O. Saidon, G. Baremblitt, F. Ulloa, “La escena institucional”
Il lavoro qui presentato è stato realizzato da uno dei gruppi di ricerca all’interno del Centro Studi e Ricerche “Josè Bleger” di Rimini; nasce dalla necessità di interrogarsi sui fattori che favoriscono o limitano le collaborazioni fra le istituzioni che, a vario titolo e con metodologie diverse, si attivano per promuovere e realizzare interventi di prevenzione in ambito socio-sanitario.
Se prendiamo le mosse dalla “Teoria degli ambiti” di Bleger tale studio si colloca nell’ambito istituzionale, seppure nel corso del processo di ricerca più volte ci siamo chiesti se la sua collocazione fosse corretta o se dovessimo rivalutarla per inserirla nell’ambito comunitario.
L’applicazione della metodologia della concezione operativa ha accompagnato costantemente il nostro lavoro, in una continua tensione dialettica tra il fare ed il pensare; ha attraversato in modo trasversale il compito, il setting, i ruoli ed il nostro gruppo interno ed esterno. La complessità di un oggetto di studio fortemente collegato alle tematiche della ideologia e dell’implicazione rispetto ai ruoli ci ha portato a creare un dispositivo che permettesse una sorta di dissociazione strumentale per leggere, comprendere come queste tematiche agissero anche all’interno del gruppo di ricerca. Lavorare intorno alla questione dell’implicazione, soprattutto, è risultato particolarmente ostico: il problema si è posto fin dall’inizio, ma solamente alla fine del percorso è stato possibile recuperarlo in tutta la sua pregnanza e rielaborarlo.
Un ultimo breve cenno, poi, va dedicato alla scelta di scrivere insieme, alla ricerca di una scrittura collettiva come ennesima sintesi di produzione gruppale, come ricombinazione di elaborati individuali, tante volte rimaneggiati dall’altro da non riconoscere più quale fosse il pezzo di ciascuno. Una pratica difficile ed entusiasmante allo stesso tempo.
Scegli di scegliere dove lo Stato deve spendere una parte delle tue tasse, magari in una buona opera: firma il 5 per mille per In Opera e per i suoi progetti di inserimento sociale per lavoratori disabili o reduci da esperienze di carcere o tossicodipendenza.
Eggià, con la primavera tornano le pratiche per la dichiarazione dei redditi, un impegno scomodo ma che può riservare anche dettagli appaganti, come la firma del 5 per mille. Con questa semplice gesto lo Stato ti delega la facoltà di scegliere come utilizzare una parte delle tue imposte, il 5 per mille, appunto, devolvendolo a delle realtà no profit, attive nel campo del volontariato e del lavoro. In Opera, cooperativa sociale onlus di Rimini, è una di queste realtà, ed opera attraverso il lavoro.
Nata nel 1999 con lo specifico scopo di favorire l’integrazione sociale e lavorativa di persone in situazione di svantaggio, l’impegno della cooperativa si rivolge a persone diversamente abili, impegnate in percorsi di recupero dalla tossicodipendenza, con esperienze di carcere, in trattamento psichiatrico. Il lavoro rappresenta per la cooperativa la principale leva attraverso la quale favorire l’integrazione sociale delle persone, attraverso servizi di logistica, pulizie, call center e “order entry”.
Intorno alle persone sono creati progetti di inserimento lavorativo che prevedono formazione professionale, sostegno e aiuto. Progetti che si allargano coinvolgendo associazioni di volontariato, aziende profit, cooperative sociali, fino agli enti locali e alle istituzioni nazionali, compresa la Presidenza del Consiglio dei ministri. Per il suo impegno nell’inserimento lavorativo In Opera ha ottenuto la menzione speciale per il premio Marco Biagi – Il resto del carlino 2012.
Ci sono quindi delle buone ragioni per sostenere l’impegno quotidiano di In Opera con un semplice gesto. Firma la denuncia dei redditi nel riquadro “Sostegno del volontariato e delle altre organizzazioni non lucrative di utilità sociale…” e riporta il Codice Fiscale:
c. f. 02626470401Anche chi non presenta la dichiarazione dei redditi, può destinare il 5X1000. Basta consegnare la scheda contenuta nel CUD, firmata anche nel riquadro posto in fondo alla pagina, in busta chiusa, con su scritto “scelta per la destinazione del 5X1000 dell’IRPEF”, il proprio codice fiscale, cognome e nome, presso:
Torna la stagione degli incontri tra le aziende, promossi dalla rete Cdo attraverso gli eventi Expandere with matching. E mercoledì 17 Aprile 2013, dalle 9 alle 18, il settore commerciale Target Sinergie ,sarà impegnato ad Abbadia di Fiastra, Urbisaglia (MC) per la quarta edizione dell’Expandere Marche Sud – Umbria. La formula è nota e collaudata: l’evento offrirà a ciascun partecipante la possibilità di incontrare più di 150 aziende, prevalentemente di Marche e Umbria, in un’unica giornata di lavoro finalizzata a sviluppare contatti che potranno diventare collaborazioni, partnership, opportunità. Una formula che lascia ampio spazio all’iniziativa di ciascuno con un risultato che, come si può evincere dai commenti dei partecipanti alle scorse edizioni, ha soddisfatto moltissimi imprenditori.
Expandere sarà anche l’occasione per approfondire alcuni temi specifici attraverso workshop di settore o di carattere trasversale, sul tema dell’Internazionalizzazione delle imprese, l’Innovazione, Edilizia e ambiente, Sviluppo dell’imprenditorialità. Il tutto nell’ottica di diventare strumento per creare collaborazioni e sviluppare lavoro, in questa fase così delicata.
Sono tre giorni che il mio pc ha gravi problemi: non parte. Parte solo e soltanto grazie a un live cd (un sistema operativo in un cd che fa funzionare la macchina). Succede. Potrei maledire openSuse - linux (colpa sua). Potrei incazzarmi per averlo aggiornato (tutte le volte c'è una magagna che spunta). E invece... Non mi affaccendo più di tanto sui forum. Non accorro al suo capezzale smanettando in file di configurazione. Aspetto pazientemente i consigli di chi ne sa più di me, che arrivano puntuali alla mattina, per metterli in pratica solo alla sera, quando ho tempo e con molta calma. Insomma, mi trovo a godermi una pausa relativa nella relazione morbosa con il mio personal computer. Troppo morbosa. continuo ad aspettarmi troppo da lui. Continuo ad aspettarmi troppo dalla Rete, dai social media. E' come se da questo strumento dovesse giungere qualcosa o qualcuno di messianico, capace di rivoluzionare davvero la mia vita. Percepisco l'ansia di aggiornare i sistemi, aggiornare le pagine che visito, aggiornare gli stati che incessantemente migliaia di amici, conoscenti, semiconoscenti e sconosciuti vomitano nel più feroce frullatore di umani umori mai inventato. Più percepisco e alimento l'ansia, la simultaneità e l'ubiquità digitali e più le energie precipitano e le parole sfuggono. Si spandono come una goccia di petrolio su un mare piatto, che ammanta di colore la sua tossicità.
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